Leasing
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/04/2018 Scarica PDF
Appunti in tema di prestazioni restitutorie conseguenti alla risoluzione del contratto di leasing c.d. traslativo per inadempimento dell'utilizzatore
Giorgio Barbieri, Avvocato in Reggio EmiliaSommario: 1. Il decisum che delimita l’oggetto dell’indagine. - 2. Segue: la tesi, sottesa, che eleva la preventiva riconsegna del bene a presupposto di applicabilità dell’art. 1526 c.c. Obiettivi di una proposta ermeneutica alternativa. - 3. Intermezzo: il dato reale della protezione del compratore, all’origine storica della normativa sulla vendita con riserva della proprietà. - 4. La supposta necessità di mantenere, dopo la risoluzione, la corrispettività degli obblighi restitutori: critica. - 5. L’obbligo di restituzione della cosa come elemento fondamentale nell’equilibrio del contratto (la possibilità del concedente di ritrarre ulteriori utilità dalla cosa una volta sia stata restituita). - 6 L’obbligo di restituzione della cosa come elemento fondamentale nell’equilibrio del contratto (la possibilità di determinare l’equo compenso soltanto a seguito della riconsegna dell’immobile).
1. L’ordinanza della Corte di Cassazione 20 settembre 2017, n. 21895, resa in una fattispecie di risoluzione di un contratto di leasing c.d. traslativo per inadempimento dell’utilizzatore cui, ratione temporis, non trovava applicazione la disciplina dettata dalla legge 4 agosto 2017, n. 124, offre spunti d’indubbio interesse quanto alle sue ricadute applicative, andando ad incidere sul regolamento concreto dei conflitti emergenti tra le parti in casi simili di cessazione di tutti quei contratti di locazione finanziaria che, ancora oggi, sfuggano alle maglie applicative della nuova disciplina.
Tali conflitti, nella decisione citata, sono governati facendo applicazione dell’art. 1526 c.c., ma in modo tale che il diritto dell’utilizzatore inadempiente alla restituzione dei canoni locativi corrisposti al concedente durante la fase esecutiva del rapporto si ponga, in un certo senso, in posizione subalterna rispetto all’obbligo, di cui lo stesso contraente è gravato ex lege, di restituzione della cosa già oggetto del rapporto di locazione finanziaria.
La singolarità della decisione sta nel fatto che con essa la Corte sembra chiarire – offrendone una motivazione – il proprio pensiero in precedenza riassunto in altri numerosi provvedimenti ([1]) nei termini seguenti: «nel leasing traslativo, al quale si applica la disciplina della vendita con riserva di proprietà, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo, restituita la cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, mentre al concedente la norma riconosce, oltre al risarcimento del danno, il diritto ad un equo compenso per l’uso dei beni oggetto del contratto» (la sottolineatura è di chi scrive).
Laddove con il provvedimento in esame i Giudici di Legittimità paiono dedicare al profilo in discussione un’attenzione diversa, statuendo che «[l]’obbligo di restituzione della cosa è da ritenere fondamentale nell’equilibrio del contratto, perché in tal modo da un lato il concedente, rientrato nel possesso del bene, potrà trarne ulteriori utilità nel prosieguo; dall’altro, solo dopo che la restituzione è avvenuta è possibile determinare l’equo compenso a lui spettante per il godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto, salva la prova del danno ulteriore».
In altri termini, la recente decisione della Corte di Legittimità, dopo aver ribadito l’applicazione analogica al leasing c.d. traslativo della disciplina inderogabile dettata in tema di vendita con riserva di proprietà dall’art. 1526 c.c. ([2]), pospone – così sembrerebbe – il sorgere del diritto dell’utilizzatore alla restituzione dei canoni di locazione versati alla previa riconsegna da parte sua della res già oggetto di locazione, condizionando la possibilità di tutela del primo al verificarsi di tale ultimo evento: e ciò sul duplice assunto per cui, (solo) in tal modo- vale a dire ad avvenuta restituzione del bene al concedente - per un verso, questi potrà trarre da esso ulteriori utilità nel futuro e, per altro verso, sarà possibile determinare l’ammontare dell’equo compenso per aver garantito al lessee l’uso della cosa sotto la vigenza del contratto.
2. Nei risvolti di questo percorso argomentativo risiede la tesi – abbracciata anche da un certo filone giurisprudenziale di merito ([3]) – che individua nel preventivo adempimento dell’obbligo di riconsegna del bene concesso in leasing, da parte dell’utilizzatore, un presupposto indefettibile affinché quest’ultimo, ai sensi della disposizione citata, sia legittimato ad avanzare domanda di restituzione delle rate versate, dedotto l’ammontare dell’equo compenso dovuto al concedente. In altri termini, la riconsegna da parte dell’ex-utilizzatore del bene concesso in leasing, a seguito dell’intervenuta risoluzione del contratto, finirebbe per essere presupposto stesso di applicabilità dell’art. 1526 c.c.: nel senso che, sul piano sostanziale, esso sarebbe un presupposto del diritto alla restituzione delle somme versate al concedente nel corso della vigenza del risolto contratto di locazione finanziaria e, sul piano processuale, si tradurrebbe in una condizione di proponibilità della relativa richiesta giudiziale. Diversamente – così motiva l’orientamento in parola –: (i) si obliterebbe la regola di corrispettività tra le prestazioni delle parti, perché l’acquirente-utilizzatore, non più tale dopo la risoluzione del contratto, permarrebbe nel materiale godimento del bene, ove, per contro, il venditore-concedente, ancora privato della disponibilità della cosa di cui è proprietario, senza tuttavia averne previamente ottenuto la restituzione, sarebbe tenuto a rendere le rate del prezzo incassato; ed ancora (ii) risulterebbe impossibile per il venditore/concedente procedere alla determinazione dell’equo compenso a lui spettante per l’uso pregresso della res ([4]).
Senonché, una simile soluzione non si mostra appagante e, ancor prima, si fonda su un’opzione ermeneutica inesatta, giacché pare trascurare che, una volta ritenuto applicabile al leasing traslativo l’art. 1526 c.c., occorre poi prendere atto che questa disposizione costituisce un temperamento alle regole ordinarie in materia di risoluzione (per inadempimento del soggetto diverso dal proprietario del bene da trasferirsi), con riguardo a quei contratti (vendita con riservato dominio, leasing traslativo, appunto) nei quali la ritenzione della proprietà svolga una funzione di garanzia per il pagamento del prezzo della cosa di cui si sia nondimeno prevista, fin dalla stipula del negozio, la (possibile) futura traslazione del dominio.
3. Per spiegare meglio il senso della critica che si intende svolgere rispetto al percorso argomentativo di cui si è dato atto più sopra, ora fatto proprio – almeno così parrebbe – anche dalla Corte di Cassazione, giova ritornare per un momento alle origini della norma, per ricordare che la disciplina positiva della vendita con riserva della proprietà, come introdotta nel codice civile del 1942, avesse, inter alia, lo scopo dichiarato di (cercare di) ovviare a quei «patti che assumevano o potevano assumere, in fatto, carattere usurario ai danni del compratore» ([5]).
Mediante l’art. 1526 c.c., infatti, si introduceva nell’ordinamento una disposizione alla stregua della quale, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento del compratore, questi risultava comunque tutelato nei rapporti con il venditore attraverso l’espresso riconoscimento del diritto di recuperare le rate già pagate, «mentre, secondo le clausole contrattuali diffuse nella pratica, nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento del compratore, il venditore avrebbe diritto alla restituzione della cosa e a trattenere le rate di prezzo riscosse, a titolo di compenso per l’uso della cosa fatto dall’altro contraente».
La norma, d’altro canto, si preoccupava – allora come oggi – di far sì che anche le ragioni del venditore fossero «rispettate nella misura in cui sembrano meritevoli di tutela, disponendosi che sia da corrispondere al venditore un equo compenso per l’uso della cosa (la quale, anche senza pensare a incuria del compratore, subisce un naturale deperimento) e che, dove ne sia il caso, sia dovuto anche il risarcimento dei danni».
Sempre nell’intento di evitare che qualsiasi indebita locupletazione potesse annidarsi nei patti contrattuali e al fine di perseguire, nel modo più efficiente, la giustizia sostanziale, si precisava che, «quando le parti abbiano preventivamente liquidato il danno in una misura uguale all’importo delle rate pagate, è conferito al giudice il potere di ridurre l’indennizzo convenzionale, a somiglianza di quanto è disposto, per la penale eccessiva, nell’art. 1384 c.c.».
Pertanto, posto che già allora le disposizioni di cui ai primi due commi dell’art. 1526 c.c. erano espressamente qualificate come imperative, l’obiettivo dalle stesse perseguito – lungi dagli approdi cui la giurisprudenza sopracitata sembra giungere – era quello di salvaguardare gli interessi del compratore dagli abusi che la prassi aveva ingenerato a suo danno, anche nella fase patologica del rapporto di vendita con riservato dominio. Venivano così espressamente stabiliti (ma meglio sarebbe dire, ribaditi), anche per la vendita con riserva della proprietà, equilibrati e specifici effetti restitutori che prevedevano, in un rapporto di “naturale” sinallagmaticità (in senso, a-tecnico, ossia economico-sociale) ([6]), da un lato la restituzione delle rate pagate, salvo il diritto all’equo compenso per l’uso della cosa, dall’altro lato la restituzione del bene (e ciò, a ben vedere, in ossequio ai principi rinvenibili negli artt. 1458 e 1493 c.c.).
4. Al netto di una lettura pragmaticamente orientata al risultato, la ratio storica appena ricostruita può ritenersi transitata pressoché intatta nella formulazione del vigente articolo. A ben vedere, infatti, esso disciplina (e si limita a disciplinare) gli obblighi restitutori – per la verità, a carico del solo venditore – derivanti dalla risoluzione del contratto per inadempimento del compratore ([7]); essendo peraltro pacifico che venendo a meno , con lo scioglimento dell’accordo, il titolo della disponibilità giuridica e materiale della cosa da parte dell’acquirente, il venditore abbia ovviamente il diritto, ove ne faccia domanda, di riottenerne, quale proprietario, il materiale possesso attraverso la sua riconsegna.
Una simile ricostruzione è suffragata dalla più autorevole dottrina ([8]), la quale, nell’illustrare gli effetti della risoluzione del contratto per inadempimento del compratore ha sempre (e soltanto) enunciato che la stessa importa la restituzione delle prestazioni già eseguite: cosicché, al venditore dev’essere riconsegnata la cosa e al compratore dev’essere ridato il prezzo versato, dedotto l’equo compenso previsto dal primo comma dell’art. 1526 c.c. (sul quale, più approfonditamente, infra).
Tale conclusione e il fatto che il testo della disposizione, non ne condizioni, in alcun modo, la concreta ed integrale applicabilità alla preventiva esecuzione, a cura di una delle parti (qualunque essa sia), di quelle prestazioni restitutorie che la norma pone, invece indistintamente in capo ad entrambi i contraenti (con l’unico temperamento dell’equo compenso) consentono forse di ritenere che la contestualità delle prestazioni di restituzione derivanti dallo scioglimento del vincolo contrattuale acquisisca, se del caso, un certo rilievo (e con i dubbi che in appresso saranno illustrati) nella fase esecutiva degli obblighi prescritti.
Vale a dire che si potrebbe forse pensare che il (diverso) profilo della reciprocità delle prestazioni restitutorie, e del nocumento derivabile dalla mancanza di essa, possa eventualmente assumere rilievo nella fase attuativa (e in relazione al caso concreto) degli effetti restitutori ovverosia laddove le parti, in virtù della risoluzione del contratto, siano reciprocamente tenute a restituirsi le prestazioni già in tutto o in parte effettuate.
Di certo, tuttavia, ove si guardi al testo della norma ed alla sua ratio – così come almeno è dato ricostruirla attraverso la sua analisi storica – non sembra proprio che la reciprocità delle prestazioni restitutorie possa operare nel momento applicativo della regola precettiva quando, cioè venga richiesta (e si agisca in giudizio per) quella tutela sostanziale che l’art. 1526 c.c., come si è visto, prevede e, per di più, inderogabilmente garantisce in favore del compratore.
In linea con tali premesse, poi, è interessante (e vale certamente la pena) rammentare – a conferma di una certa confusione in materia – come in passato si fosse diffusa l’opinione che fosse pure lecito pervenire a conclusioni diametralmente opposte a quelle oggi apparentemente accolte anche dalla Cassazione. Al punto che autorevole giurisprudenza di merito ([9]) aveva avvertito l’esigenza di affermare che «la restituzione da parte del curatore del bene oggetto del contratto di leasing, nel caso di risoluzione per fallimento dell’utilizzatore, non va subordinata alla condizione del rimborso da parte del rivendicante delle rate riscosse, perché questo integrerebbe una arbitraria ritenzione; mentre resta salvo il potere del curatore medesimo di formulare eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 codice civile, nel caso di rifiuto da parte del concedente di restituire le rate» ([10]).
In altri termini, se per un verso le indicazioni provenienti dal formante giurisprudenziale erano nel senso di tacciare di illegittimità quelle pronunce che avessero (ovvero, laddove avessero) subordinato la restituzione del bene alla restituzione delle rate riscosse, giacché, appunto, in simili casi si sarebbe creata – si badi, in sede di applicazione della norma – un’arbitraria ed ingiustificata disparità di trattamento tra i (ormai ex) contraenti, per altro verso, secondo il medesimo formante, diversa doveva essere invece la conclusione avendo riguardo alla fase esecutiva degli obblighi normativamente previsti, ammettendosi in quella sede il diritto di ciascuna parte di rifiutare l’esecuzione della propria prestazione a fronte del mancato adempimento dell’altra parte (sulla scorta di quanto disposto dall’art. 1460 c.c.) ([11]).
Nondimeno, come già anticipato più sopra, anche questa possibile chiave di lettura del primo comma dell’art. 1526 c.c. sembra ormai essere stata, in certa misura, superata dai più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità in tema di effetti conseguenti alla risoluzione per inadempimento dei contratti a prestazioni corrispettive. Insegna, infatti, la Corte di Cassazione «che una volta risolto il contratto, le due obbligazioni che sorgono da tale risoluzione perdono il requisito della corrispettività e pertanto non opera a loro riguardo la possibilità di proporre l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.» ([12]).In effetti è ormai pacifico, nella giurisprudenza della Suprema Corte, il principio secondo cui, nei contratti a prestazioni corrispettive, l’effetto retroattivo della sentenza costitutiva di risoluzione per inadempimento sancito dall’art. 1458, comma primo, c.c. ([13]), implicando il venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite, «comporta l’insorgenza, a carico di ciascun contraente ed indipendentemente dalle inadempienze a lui eventualmente imputabili, dell’obbligo a restituire la prestazione ricevuta»: di talché la pronuncia cui l’effetto è tipicamente connesso spiega, da un lato, un’efficacia liberatoria ex nunc, rispetto alle prestazioni ancora da eseguire, e, dall’altro lato, un’efficacia recuperatoria ex tunc, rispetto alle prestazioni già eseguite. Pertanto, a seguito della pronunciata risoluzione e sulla scorta dell’operatività retroattiva della stessa, si verifica per ciascun contraente, «in modo avulso dall’imputabilità dell’inadempienza, rilevante ad altri fini […] una totale “restitutio in integrum” e, pertanto, tutti gli effetti del contratto vengono meno e con essi tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi. […] Ne consegue che nei contratti con prestazioni corrispettive l’eccezione inadimplenti non est adimplendum (consentita dall’art. 1460 c.c.) può paralizzare la richiesta della controprestazione, relativa alla prestazione già eseguita, ma non quella relativa alla parte della prestazione già eseguita che non sia stata restituita né offerta in restituzione» ([14]).
A voler seguire, dunque, la consolidata opinione della Corte di legittimità in tema di effetti derivanti dalla risoluzione di contratti a prestazioni corrispettive, la questione della sinallagmaticità e reciprocità delle prestazioni restitutorie – che risulta essere un caposaldo della tesi fatta propria dalla pronuncia della Cassazione da cui prendono le mosse le presenti considerazioni e dall’orientamento di merito in tema di leasing sopra richiamato – non avrebbe neppure ragione di essere esaminata in termini dialettici, quand’anche nella prospettiva più sfumata di un suo recupero ai fini strettamente inerenti la fase esecutiva degli obblighi di restituzione (sdoganando, vale a dire, l’applicabilità, alla fattispecie, dell’eccezione dilatoria di cui all’art. 1460 c.c.). Ciò perché, appunto, all’indomani della risoluzione, ciascuna delle prestazioni di restituzione a carico dei contraenti deve ritenersi – così afferma la Cassazione – indefettibilmente e definitivamente svincolata l’una dall’altra.
Ne viene allora – tentando una considerazione di sintesi dei ragionamenti sinora articolati – che, sul piano dell’equilibrio della posizione delle parti (e della preoccupazione di evitare indebiti arricchimenti, in nome del concetto di “corrispettività”), non è ravvisabile, nel nostro diritto positivo e nell’applicazione giurisprudenziale di legittimità, alcun principio, ed ancor prima alcuna ragione logico-sistematica per cui, in caso di risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà (ovvero, di leasing traslativo) per inadempimento del compratore (ovvero, dell’utilizzatore), questi, onde potersi vedere riconosciuti i diritti che l’art. 1526 c.c. gli attribuisce inderogabilmente, debba procedere alla riconsegna al venditore (ovvero, al concedente) del bene compravenduto con riserva di dominio (ovvero, concesso in locazione finanziaria) preventivamente alla proposizione della domanda di tutela di tali diritti e come condizione per poter accedere alla stessa; ovverosia, a pena di rigetto della propria domanda per infondatezza, e quindi con una pronuncia di merito ([15]).
D’altro canto, atteso che le regole applicabili alla risoluzione per inadempimento del compratore alla vendita con riserva di proprietà altro non sono (al di là della “personalizzazione” che deriva dalla previsione, nell’art. 1526 c.c., dell’istituto dell’equo compenso) quelle stesse regole in materia di risoluzione dettate dall’art. 1453 e seguenti c.c, laddove si immaginasse il contrario, e si seguisse la più recente linea argomentativa di legittimità, occorrerebbe allora misurarsi con una situazione in cui: (a) il compratore, nella vendita tout court, non maturerebbe il diritto alla restituzione del prezzo pagato e, nella vendita con riservato dominio, ai ratei di prezzo versati (dedotto l’equo compenso per l’uso della cosa), fino a quando – anche nel caso di assoluto disinteresse del venditore alla restituzione del bene ed anche contrariamente alla volontà di quest’ultimo – non avesse comunque reso la cosa e soddisfatto, così, il diritto del venditore a quella restituzione; diritto – quello del venditore – che per contro dovrebbe ritenersi nel frattempo sorto (a differenza di quello alla restituzione del prezzo pagato) come effetto dello scioglimento del contratto, con conseguente esposizione dell’acquirente alla tutela giudiziale dello stesso; ma (b) simmetricamente, il venditore non maturerebbe il diritto alla riconsegna del bene – pure nell’ipotesi in cui l’acquirente non avesse mai richiesto la restituzione del prezzo pagato nella vendita tout court, ovvero delle frazioni di prezzo versate nella vendita con riservato dominio – ove il compratore non fosse stato comunque soddisfatto nel suo corrispondente diritto di credito anch’esso, nel frattempo e per contro, necessariamente sorto, con conseguente esposizione del venditore alle pretese giudiziali del compratore.
A ben vedere, costruendo il rapporto fra diritto alla restituzione della prestazione effettuata e obbligo alla restituzione della prestazione ricevuta in termini di dipendenza del primo alla intervenuta esecuzione del secondo (senza peraltro in ciò differenziare la posizione dei contraenti, onde evitare squilibri che confliggano in radice con quel principio di corrispettività che dovrebbe invece porsi, nella teoria che qui si critica, come perno gravitazionale degli obblighi restitutori), si assisterebbe, ove alcuna delle parti non adempisse, ad una sorta di collasso del sistema, con buona pace dell’assoluta autonomia ed indipendenza dei diritti di natura restitutoria derivanti dalla risoluzione ed evidente spregio della lettera dell’art. 1526 c.c. nella misura in cui essa affranca da qualsivoglia condizione o limite, anche nella vendita con riserva della proprietà, il manifestarsi degli effetti restitutori, come previsti dalla prima parte dell’art. 1458 c.c.
Una sorta di “restituzione intrecciata” tra bene e canoni, e quindi di “interdipendenza” fra prestazioni restitutorie, sarebbe meccanismo più facilmente immaginabile, forse, sul piano della loro esecuzione, se non fosse che: (a) l’art. 1460 c.c. prevede un’eccezione manutentiva del contratto – contratto che si scioglie a causa di risoluzione ([16]) – e, comunque, poggia su una corrispettività che l’insegnamento della Suprema Corte – come si è visto – esclude in relazione alle prestazioni restitutorie conseguenti alla risoluzione; (b) l’enunciato dell’art. 1526 c.c. non prevede affatto diritti di ritenzione o altre forme di autotutela in capo alle parti del risolto contratto, le quali pertanto, in difetto di espressa previsione normativa, non dovrebbero trovare cittadinanza nell’ordinamento.
5. Ove poi si legga l’art. 1526 c.c. in coerenza con le conclusioni cui si è appena giunti, anche i due argomenti che, a dire della Corte di Legittimità, darebbero la misura dell’importanza dell’obbligo di restituzione della cosa nell’«equilibrio del contratto» – vale a dire, la possibilità per il lessor, di trarre tempestivamente utilità dal bene riposseduto e la possibilità di stimare, in suo favore, un compenso per l’utilizzo temporaneo della cosa che sia equo – appaiono assai discutibili ([17]).
I due profili, infatti, presentano un tratto comune: quello, cioè, del dover misurarsi con la circostanza che l’art. 1526 c.c., oltre all’«equo compenso per l’uso della cosa», espressamente riconosce a favore del venditore (concedente, nel leasing), in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, il diritto al risarcimento del danno, al pari di ciò che l’art. 1453, primo comma, c.c. dispone in termini generali (e quindi anche in materia di compravendita).
Ora, non v’è dubbio che, per quanto ci dice l’art. 1526 c.c., equo compenso e risarcimento del danno siano istituti fra loro assai diversi, che si fondano su titoli distinti ed autonomi essendo ontologicamente rivolti all’assolvimento di funzioni differenti: il primo funzionale a fornire una sorta di indennizzo a fronte di un uso della cosa locata in sé del tutto legittimo fino a quando il contratto non si sia risolto; il secondo teso a compensare il venditore delle conseguenze pregiudizievoli derivatigli dall’inadempimento dell’utilizzatore e conseguenti alla risoluzione del contratto.
La lettera della disposizione, peraltro, è chiarissima nell’assegnare all’equo compenso dovuto al venditore (concedente) la funzione di sollevarlo non tanto da quei sacrifici patrimoniali che si pongono come conseguenza del rischio (indefettibilmente) connesso al contratto da lui concluso, ma soltanto da quelli che risultano eziologicamente riconducibili all’uso del bene da parte del compratore (utilizzatore) fino a che il contratto, in virtù della sua risoluzione, non abbia cessato di esistere.
In altri termini, l’art. 1526 c.c., nel garantire al venditore un compenso equo per l’uso della cosa, modifica in parte qua la disciplina propria della risoluzione del contratto di vendita, in funzione del mantenimento della proprietà in capo al(l’originario) venditore e in relazione al fatto che le rate di prezzo pagate: (a) ove non fossero restituite darebbero luogo ad un ingiustificato arricchimento del venditore; (b) ove, per contro, fossero integralmente restituite (secondo i criteri applicabili in ipotesi di compravendita tout court) determinerebbero un ingiustificato arricchimento del compratore, il quale, nel periodo intercorrente fra la consegna del bene e la risoluzione del contratto, avrebbe beneficiato delle utilità derivanti dal godimento della cosa (venduto con riserva della proprietà o locata), senza subire alcun costo.
Ove allora si tenga conto che l’art 1526 c.c. ribadisce, laddove la risoluzione sia il risultato dell’inadempimento imputabile del compratore (utilizzatore), che il venditore mantiene nella sua assoluta pienezza (indipendentemente dalla ritenzione in suo favore del diritto dominicale) il rimedio (generale) risarcitorio, sembra corretto ritenere che l’ambito applicativo dell’istituto dell’equo compenso di cui all’art. 1526 c.c. debba essere declinato in modo rigoroso, ricomprendendo al suo interno soltanto quei sacrifici patrimoniali che altrimenti non rientrerebero (o a fatica potrebbero rientrare) nell’area del danno risarcibile. Quei sacrifici, cioè, che si riconnettono, da un lato, al mancato conseguimento – nel corso della durata del contratto poi risolto – del corrispettivo che il venditore avrebbe in alternativa potuto trarre dalla concessione del godimento del bene a soggetti diversi dal compratore e, dall’altro, al naturale logorio del cespite rimasto in proprietà al venditore (ancorché, secondo l’ordinario programma economico del contratto, destinato ad essere trasferito nel dominio del compratore) come inevitabile ripercussione dell’uso “normale” fattone dal futuro acquirente durante l’intero periodo in cui il contratto è rimasto in essere (giacché, appunto, fino alla risoluzione – o domanda di risoluzione – l’uso della cosa da parte del compratore è del tutto legittimo).
Al di fuori del contesto ora descritto, non residuerebbe dunque, stando agli esiti di una ricognizione sistematica, alcun ulteriore spazio per ampliare l’ambito dell’equo compenso in relazione ad eventi che in qualche modo influiscano – riducendolo – sul valore del bene oggetto del contratto;eventi quest’ultimi destinati – come accadrebbe nell’ipotesi di compravendita ad efficacia reale – ad essere per contro considerati (ancorché se si vuole in diversi contesti) in una prospettiva risarcitoria.
Proprio per queste ragioni, pare allora corretto ritenere che non sia ammissibile ricomprendere nell’equo compenso poste patrimoniali che rappresentino il ristoro di danni liquidabili a titolo di risarcimento, a meno di non realizzare un’indebita e inammissibile confusione fra discipline applicabili.
Va da sé, poi, che quanto appena detto valga a maggior ragione per quel pregiudizio che il venditore dovesse subire in seguito - non già (e non solo) all’inadempimento del compratore agli obblighi che derivavano dal risolto contratto, ma anche - all’omesso rispetto dell’obbligazione restitutoria che discende, appunto, dal venir meno del vincolo negoziale. Pregiudizio che, anche sotto l’aspetto temporale, ricollegandosi ad una condotta successiva allo scioglimento del rapporto contrattuale, da un lato mai potrebbe essere fatto rientrare nella determinazione dell’equo compenso e, dall’altro, potrebbe tuttavia trovare sicuramente ristoro nel rimedio risarcitorio.
Una simile conclusione mostra però la debolezza del primo elemento indicato dalla Cassazione come criterio di valorizzazione del mantenimento dell’equilibrio contrattuale (ovvero la possibilità, per il lessor, di trarre tempestivamente utilità dal bene che gli debba essere restituito); equilibrio, quest’ultimo, a sua volta elevato (ancorché erroneamente) a cardine della tesi per cui la preventiva consegna del bene già venduto con riservato dominio (o locato) dovrebbe porsi in rapporto di priorità rispetto alla restituzione delle rate di prezzo (dei canoni) versati ante risoluzione.
Nella misura in cui, infatti, questo pregiudizio sia risarcibile – come certamente lo è –, è proprio attraverso il rimedio risarcitorio che viene salvaguardato quell’equilibrio ([18]) fra le posizioni degli ex contraenti, in tutti quei casi in cui, risolto il contratto, una delle parti non adempia agli obblighi restitutori derivanti dalla risoluzione. Equilibrio, dunque, quello in parola che risulta adeguatamente preservato in forza del carattere generale del rimedio risarcitorio quale istituto che consente a colui che subisce l’inadempimento altrui di di conseguire comunque le utilità che avrebbe ritratto da un corretto adempimento, ma che per contro non potrebbe mai essere raggiunto - derivandone, piuttosto , uno squilibrio di posizioni fra le ex parti – affermando la priorità di un’obbligazione restitutoria di un contraente rispetto all’obbligazione restitutoria dell’altro, vieppiù come condizione di esistenza dello speculare diritto alla restituzione delle prestazioni eseguite ([19]).
6. Si tratta allora di capire se a conclusioni diverse possa giungersi sulla scorta dell’altra argomentazione indicata come presidio per il mantenimento dell’ “equilibro del contratto”: quella, cioè, per cui “solo a seguito della restituzione del bene concesso in leasing è possibile determinare l’equo compenso per l’uso della cosa da dedurre dall’ammontare dei canoni versati per il godimento del bene nel periodo di durata del contratto”
Sul piano sistematico, anche qui la risposta non può che essere negativa, per più ragioni.
In primo luogo, non compete di certo unilateralmente al venditore determinare l’entità dell’equo compenso per l’uso della cosa, e per di più dopo che abbia ottenuto la consegna del bene, posto che la data che qui rileva ai fini dell’uso in questione – come si è detto - è quella di risoluzione e non quella di consegna. Ragionando diversamente si legittimerebbe la conclusione che la riconsegna del bene, ai fini della determinazione dell’equo compenso, sia sempre necessaria, anche laddove, intervenuta la risoluzione, il compratore senza restituire il bene lo renda tuttavia pienamente ispezionabile a favore del venditore.
In secondo luogo, ove si abbiano chiare le voci che sono remunerate dall’equo compenso di cui all’art. 1526 e la data per la sua quantificazione, v’è da credere – non potendosi ricomprendere nello stesso poste che vanno ricondotte al danno risarcibile – che il suo ammontare potrebbe – in una grande quantità di casi (e sicuramente in materia immobiliare) - essere determinato anche senza ispezione del bene al momento dello scioglimento del contratto.
In terzo luogo, e soprattutto, ragionando come fa la Cassazione ed ancor di più la giurisprudenza di merito di cui si è dato prima conto (che considera la riconsegna del bene quale condizione di proponibilità della domanda di restituzione dei canoni versati) si arriverebbe irragionevolmente a negare tutela alla domanda restitutoria dell’utilizzatore che – sebbene ancora nel possesso del bene già concesso in leasing – avesse sì domandato giudizialmente la restituzione dell’ammontare dei canoni versati, tuttavia in un importo nettato di una somma – quella appunto relativa all’equo compenso – di cui lo stesso utilizzatore avesse contestualmente chiesto l’accertamento a quello stesso giudice cui fosse stata rivolta la domanda restitutoria – mettendo a disposizione materialmente il bene per la sua determinazione nell’ambito del processo da lui instaurato.
D’altronde, anche qui, una volta garantito al venditore/concedente il rimedio risarcitorio, ogni danno subito dallo stesso per un utilizzo negligente del bene da parte dell’acquirente/utilizzatore ben potrà (e dovrà) trovare ristoro solo tramite quel rimedio, indipendentemente dal fatto che il pregiudizio sia occorso in costanza di contratto o dopo la sua risoluzione.
([1]) Cass. civ., Sez. III, 27 settembre 2011, n. 19732; Sez. III, 8 gennaio 2010, n. 73; Sez. I, 23 maggio 2008, n. 13418; Sez. III, 13 maggio 2008, n. 11893; Sez. III, 28 agosto 2007, n. 18195; Sez. III, 2 marzo 2007, n. 4969; Sez. III, 24 giugno 2002, n. 9161.
([2]) Basti qui ricordare che detta ricostruzione, operata attraverso il ricorso all’analogia legis ai sensi dell’art. 12, comma secondo, delle Preleggi, si è imposta in giurisprudenza, e tuttora perdura come largamente maggioritaria, a partire dalle note sentenze della Corte di Cassazione civile nn. 5569, 5570, 5572, 5573 e 5574 del 13 dicembre 1989, le quali hanno tracciato l’ormai invalsa distinzione, all’interno della figura della locazione finanziaria, fra leasing c.d. traslativo e leasing c.d. di godimento.
([3]) Spiccano per ricorrenza le pronunce del Tribunale meneghino, fra le quali, ad esempio, Trib. Milano, 30 ottobre 2014, secondo cui «la domanda svolta dalla convenuta in via riconvenzionale e per il caso di accoglimento della domanda attorea di risoluzione (condanna della concedente alla restituzione dei canoni versati al netto dell’equo compenso, in applicazione analogica dell’art. 1526 c.c.) non può trovare accoglimento, posto che l’applicazione dell’art. 1526 c.c. nella parte in cui attribuisce al compratore (qui utilizzatore) il diritto di ottenere la restituzione delle rate (qui canoni) versate, imponendo all’altra parte il diritto di restituire le rate riscosse “salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa”, presuppone l’avvenuta restituzione della cosa; il diritto dell’utilizzatore alla restituzione dei canoni pagati sorge, infatti, a seguito della restituzione del bene, dovendosi tener conto in concreto dell’equo compenso per l’uso, che costituisce un limite alla misura dei canoni da restituire e che può essere determinato solo dopo che il bene sia stato restituito. Sino a che l’utilizzatore non restituisca il bene oggetto del contratto risolto, la domanda di restituzione dei canoni versati non è, pertanto, proponibile»; ed ancora, Trib. Milano, 29 novembre, 19 giugno e 9 aprile 2013; 30 novembre 2011. Dello stesso avviso, più di recente, Trib. Torino, 23 dicembre 2015.
([4]) Esattamente in questi termini, Trib. Milano, 19 giugno 2013, cit. ibidem.
([5]) Si veda in questo senso, oltre che per le citazioni successive, la Relazione alla Maestà del Re Imperatore del Ministro Guardasigilli (Grandi) per l’approvazione del testo del “Codice Civile” (1942).
([6]) Requisito che, come si vedrà in appresso, la giurisprudenza neppure più riconosce successivamente allo scioglimento del vincolo contrattuale dei contratti a prestazioni corrispettive per risoluzione ai sensi degli artt. 1453 e ss. c.c.
([7]) In questo senso, si veda Cass. civ., Sez. II, 31 gennaio 2006, n. 2161.
([8]) A riguardo, si vedano C. M. Bianca, La vendita e la permuta, in Trattato di diritto civile italiano, fondato da F. Vassalli, Torino, 1993, vol. I, p. 615; P. Greco-G. Cottino, Della vendita, in Commentario del Codice civile, a cura di V. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1981, sub artt. 1525-1526 c.c., p. 446; D. Rubino, La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto daA. Cicu e F. Messineo, II ed., Milano, 1971, p. 444.
([9]) Il riferimento è alle pronunce emesse alla fine degli anni Ottanta dal Tribunale di Vicenza - Est. Bozza, che si possono rinvenire, fra l’altro, in Nuova Giur. Civ. Comm., 1986, I, p. 78 e ss., con riguardo alla pronuncia del 10 novembre 1984, e in Il Fall., 1987, 10, p. 1074, con riguardo alla pronuncia del 23 gennaio 1987. Nella stessa direzione, anche Trib. Udine, 16 marzo 1985, in Il Fall., 1985, p. 869.
([10]) Trib. Vicenza, 23 gennaio 1987.
([11]) Pertanto, in base al ragionamento sinora sviluppato, si potrebbe trarre la conclusione per cui, quantomeno nella fase strettamente esecutiva di una pronuncia che abbia risolto un contratto come quello di specie e regolato le relative restituzioni, si debba rispettare (si badi, non l’anteriorità dell’una rispetto all’altra, ma) la sinallagmaticità delle restituzioni medesime.
([12]) Cass. civ., Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 4442.
([13]) Non v’è dubbio, poi, che la regola di retroattività degli effetti della risoluzione si applichi anche, attesa la sua generalità, al caso in cui lo scioglimento del vincolo derivi quale conseguenza dell’esercizio del diritto potestativo garantito ad una parte dalla pattuizione di una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c..
([14]) Di nuovo, Cass. civ., Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 4442, cit., richiamata, di recente, anche da Cort. App. Brescia, Sez. I, 18 novembre 2016, n. 1135, e da Trib. Ancona, 10 maggio 2016, n. 829. In senso sostanzialmente conforme, tra le altre, Cass. civ., Sez. II, 9 settembre 2004, n. 18143; Sez. II, 7 luglio 2004, n. 12468; Sez. II, 19 maggio 2003, n. 7829; Sez. II, 14 gennaio 2002, n. 341; Sez. II, 4 giugno 2001, n. 7470. Per la giurisprudenza più risalente, si veda Cass. civ., Sez. II, 11 novembre 1992, n. 12121 e, nella giurisprudenza di merito, Pret. Roma, 10 gennaio 1995.
([15]) Principio o ragione che neppure si rinviene motivatamente espressa nelle pronunce di legittimità citate dalle decisioni di merito che si criticano, le quali infatti si limitano tralatiziamente ad affermare, in un contesto del tutto generico, e senza alcun approfondimento della questione, che «il venditore, restituita la cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, fatto salvo il diritto del concedente di trattenere un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno». Negli stessi, non condivisibili termini, Cass. civ., Sez. III, 8 gennaio 2010, n. 73; 28 agosto 2007, n. 18195; 24 giugno 2002, n. 9161.
([16]) Proprio per questo non si comprende il richiamo al fatto che «[l]’obbligo di restituzione della cosa è da ritenere fondamentale nell’equilibrio del contratto […]», contenuto nella sentenza della Cassazione che si annota, posto che, qui, l’equilibrio contrattuale, essendosi sciolto il vincolo negoziale, appare del tutto irrilevante.
([17]) E ciò, appunto, prescindendo dalla circostanza che discorrere di «equilibrio del contratto» nell’ambito del discorso che si sta facendo appare oggettivamente frutto di errore: vuoi perché il contratto è spazzato via dalla sua risoluzione; vuoi, appunto, perché se equilibrio deve essere sinonimo di corrispettività, sciolto il contratto, per quanto si è visto, non residuerebbe più alcun spazio neppure per quest’ultima.
([18]) avendo riguardo agli obblighi derivanti non già dal risolto contratto Prescindendo, qui, dalla sua segnalata irrilevanza.
([19]) Si provi ad immaginare il caso in cui il conduttore, convenuto per sentire dichiarare risolto il contratto ex art. 1456 c.c. (con funzione, dunque, di accertamento) per inadempimento a lui imputabile, replichi negando che la risoluzione sia mai intervenuta prima della domanda giudiziale, contestando i fondamenti del richiesto scioglimento e, in subordine, istando per la restituzione dei canoni pagati. In siffatto caso, non si potrebbe certamente ritenere che quell’utilizzatore, (a) per non aver restituito precedentemente il bene veda paralizzato il proprio diritto di accertamento della sempre propria legittima pretesa restitutoria, né che (b) debba spogliarsi del godimento del bene non appena notificatigli la domanda, per ottenere ciò che la legge fa naturalmente conseguire alla risoluzione richiesta dal suo avversario, ancorché la stessa risoluzione, prim’ancora dei suoi effetti, sia oggetto di lite. In altri termini, laddove vi fosse contestazione circa la stessa legittimità della risoluzione invocata dal concedente, l’utilizzatore, paradossalmente, si troverebbe di fronte all’alternativa fra il restituire il cespite locato (di fatto accedendo alla tesi risolutoria del concedente) al fine di consentire la determinazione dell’equo compenso, ovvero – in difetto di riconsegna – il vedersi irrimediabilmente preclusa la possibilità di chiedere, in via subordinata, tutela di quel diritto restitutorio che l’art. 1526 c.c., incondizionatamente e inderogabilmente parrebbe garantirgli, con una patente disparità, del tutto irragionevole, di posizioni proveniente dallo scioglimento del contratto.
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