EsecuzioneForzata
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 28/01/2018 Scarica PDF
L'esecuzione forzata (nella forma dell'espropriazione presso terzi) nei confronti della pubblica amministrazione: rassegna delle più rilevanti questioni problematiche
Alessandro Auletta, Giudice nel Tribunale di Napoli NordSommario: 1. Introduzione. 2. Breve descrizione dell’evoluzione del sistema tra esigenze di tutela del creditore ed esigenza di controllo dei flussi di spesa. 3. Norme incidenti sullo svolgimento del processo esecutivo nei riguardi dell’amministrazione. L’art. 14, comma 1, l. n. 669 del 1996: evoluzione ed ambito applicativo. Cenni alla questione se tale norma sia applicabile alle società in house. Le principali questioni problematiche: le azioni esperibili dal debitore e il regime degli interventi. L’art. 14, comma 1-bis, l. n. 669 del 1996: le principali questioni problematiche. 4. Norme incidenti sui soggetti dell’esecuzione: la disciplina della tesoreria unica. Cenni all’ammissibilità del pignoramento sulle “anticipazioni di cassa”. 5. Norme incidenti sull’oggetto dell’azione esecutiva. A) I vincoli di indisponibilità posti direttamente dalla legge: l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993 (conv. con modifiche in l. n. 460 del 1994), ovvero il c.d. pignoramento contabile (le principali questioni problematiche); 2) l’art. 6, d.l. n. 263 del 2006, conv. in l. n. 290 del 2006 (sulla emergenza rifiuti in Campania); 3) l’art. unico, comma 1348, della l. n. 296 del 2006; 4) l’art. 62, d.p.r. 24 novembre 2016; 5) l’art. 6, comma 4-bis, d.l. n. 93 del 2013 (introdotto dalla l. n. 137 del 2013, di conversione del d.l. n. 120 del 2013). Il “blocco” delle azioni esecutive riguardo alle ASL site in Regioni commissariate al fine di garantire l’attuazione dei piani di rientro. La genesi della norma. Le posizioni della giurisprudenza. La declaratoria di incostituzionalità della normativa. B) I vincoli di indisponibilità derivanti da provvedimento amministrativo. Il “caso” delle aziende sanitarie e degli enti locali: evoluzione della normativa. L’art. 159 TUEL: la giurisprudenza costituzionale. Le principali questioni problematiche: quando si perfeziona il vincolo di impignorabilità e da quando esso è opponibile ai creditori; quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo; come è ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità. Cenni alla individuazione ed alla latitudine dei poteri istruttori del Giudice, anche con riferimento al rapporto tra il secondo ed il quarto comma della disposizione. C) Le “gestioni liquidative”: cenni.
1. Introduzione
Il tema della esecuzione coattiva dei crediti nei riguardi delle pubbliche amministrazioni presenta numerosi risvolti problematici.
Guardando all’evoluzione del sistema dal punto di vista storico possono individuarsi tre fasi:
A) la fase della sostanziale “irresponsabilità” delle pubbliche amministrazioni;
B) la fase della equiparazione dell’amministrazione debitrice al comune debitore, sotto il profilo dell’estensione della garanzia patrimoniale;
C) la fase in cui, per effetto di una alluvionale produzione normativa (spesso di difficile lettura), sono state individuate regole peculiari dell’esecuzione forzata verso la pubblica amministrazione.
A sua volta, come segnalato in dottrina[1], la specialità di questo variegato corpus normativo si apprezza sotto tre distinti profili e precisamente:
1) il profilo procedimentale (quali regole vanno seguite per agire esecutivamente nei riguardi della p.a.?);
2) il profilo soggettivo (chi sono i soggetti dell’esecuzione forzata nei riguardi delle pubbliche amministrazioni?);
3) il profilo oggettivo (quali beni – ed in particolare quali crediti – della p.a. possono essere pignorati? Quali sono le tecniche utilizzate dal legislatore per limitare la pignorabilità di crediti della p.a.?).
2. Breve descrizione dell’evoluzione del sistema tra esigenze di tutela del creditore ed esigenza di controllo dei flussi di spesa
Gli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (LAC) pongono una serie di limiti ai poteri cognitori e decisori del Giudice ordinario con riguardo ai casi in cui una delle parti processuali (ed in specie il convenuto) sia una pubblica amministrazione.
Non è il caso di analizzare in questa sede in modo approfondito tali limiti, anche in considerazione del fatto che, relativamente alle sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, l’impostazione della dottrina e della giurisprudenza è stata, fin da tempi remoti, quella di ritenere che “l’autorità giudiziaria (…) non può emettere contro la pubblica amministrazione sentenze di condanna che abbiano un contenuto diverso dal pagamento di una somma di denaro”[2].
Con riferimento a questo tipo di condanna, infatti, non vi erano ragioni per restringere il campo delle sentenze adottabili dall’AGO nei riguardi della pubblica amministrazione, sul presupposto che la lettera e la ratio della LAC escludono l’ammissibilità di tutte quelle pronunce che determinino una “sostituzione della volontà del giudice a quella dell’amministrazione soccombente”[3].
Malgrado la riconosciuta possibilità di ottenere sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro nei confronti di una p.a., per lungo tempo la Cassazione ha escluso che, in ordine a tali decisioni, fosse ammissibile l’esercizio dell’azione esecutiva nelle forme del Codice di rito, in quanto “la Pubblica Amministrazione non può effettuare pagamenti di somme di denaro se non con l’osservanza del procedimento previsto per l’emissione dei relativi mandati, in ordine al sollecito svolgimento dei quali il privato non vanta un diritto soggettivo”[4].
L’ulteriore conseguenza è che “prima dell’emissione del mandato non è configurabile una mora dell’amministrazione comunale ad emetterlo. (…) Il creditore è tutelato, contro un eventuale ingiustificato ritardo da parte dell’ente pubblico, nell’espletamento dei prescritti adempimenti contabili, dalla possibilità di ricorrere, in quanto portatore di un interesse legittimo, al Giudice ordinario”[5].
D’altro canto, solo nel 1973 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[6] ha ritenuto che, per le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro nei riguardi della p.a., fosse esperibile il rimedio dell’ottemperanza[7].
La questione problematica, come si intende, non è quindi relativa alla possibilità di ottenere la condanna della p.a. inadempiente al pagamento del dovuto quanto piuttosto quella della concreta possibilità di eseguire tale pronuncia.
Nel 1979 si registra un significativo mutamento di giurisprudenza.
Le Sezioni Unite, con sentenza 13.7.1979, n. 4071 [8], hanno affermato i seguenti principi:
1) deve ritenersi applicabile “anche all’amministrazione dello Stato il canone generale dell’esecuzione delle condanne pecuniarie contenuto nell’art. 2910 c.c., secondo cui il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore secondo le regole stabilite nel Codice di procedura civile”;
2) ciò posto, ci si chiede se le somme di denaro iscritte in capitoli di bilancio come “crediti” della p.a. siano suscettibili di espropriazione forzata.
È importante notare che, per la prima volta, la Cassazione supera l’idea che la questione relativa alla pignorabilità di somme sia una questione di giurisdizione, trattandosi di questione di merito (nella specie veniva in rilievo la valutazione se i crediti in questione fossero da considerare come canoni locatizi o come canoni concessori).
3) il bilancio “proprio perché contempla tutte le entrate e tutte le uscite in una visione globale non consente in alcun modo di collegare singole entrate (e cioè determinate somme di denaro) a singole uscite (cioè all’espletamento di determinati servizi); e pertanto non può essere considerato come fonte di un vincolo di destinazione in senso tecnico di particolari somme, tale da sottrarle all’azione espropriativa dei creditori dello Stato”;
4) la sussistenza di un corpus normativo speciale sulla contabilità di Stato non è idonea, di per sé, ad escludere che il pagamento imposto da una sentenza di condanna sia “un atto dovuto rispetto al quale all’amministrazione non residua alcun margine di valutazione comparativa con un (non bene identificato) interesse pubblico ad esso contrapposto. La situazione quindi è radicalmente diversa da quella propria delle ipotesi in cui i pubblici poteri determinano i propri comportamenti apprezzandone l’opportunità in vista dell’interesse pubblico da perseguire, ma senza il vincolo di una sentenza che quel comportamento imponga come dovuto”.
Il principio appena esposto va necessariamente letto alla luce della successiva giurisprudenza costituzionale.
Si allude, in particolare, alla pronuncia n. 138 del 1981 della Corte Costituzionale[9].
La Corte Costituzionale si è invece pronunciata sulla legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 826, ultimo comma, 828, ultimo comma, e 830, ultimo comma, c.c., alla cui stregua (secondo l’interpretazione all’epoca del tutto prevalente, già messo in discussione, però, dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite) “bastava l’iscrizione di somme o crediti pecuniari nei bilanci preventivi dello Stato o degli Enti pubblici per farli qualificare come ‘beni destinati ad un pubblico servizio’ ex art. 828 ultimo comma del codice civile, quindi inalienabili e correlativamente inespropriabili”; ciò in quanto “la legge di approvazione del bilancio non vincola soltanto la P.A. ma opera anche nei confronti dei terzi”.
La Corte Costituzionale ha espresso i seguenti principi:
1) la pubblica amministrazione “ha una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto ma in quanto esercita potestà specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie. In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la funzione, ed è alle singole manifestazioni della P.A. che è assicurata efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati. Per converso, al di fuori dell'esercizio delle predette funzioni, l'azione della P.A. rientra nella disciplina di diritto comune e, ove venga a ledere un diritto soggettivo, la potenzialità di tutela di questo affidata al giudice ordinario è completa, incontrando il solo limite del non potere costui sostituirsi all'amministrazione nell'emanare un atto né condannarla ad emanarlo”;
2) l’individuazione dei beni “destinati ad un pubblico servizio” presuppone l’accertamento della esistenza di un vincolo di destinazione in tale senso;
3) dalle disposizioni di legge in esame “non è, però, dato desumere alcun criterio derogatorio rispetto alla regola generale per cui ‘il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri’, ai sensi dell'art. 2740 del codice civile, ed è soggetto alla espropriazione forzata se non esegue spontaneamente il comando contenuto nella sentenza di condanna (art. 2910 del codice civile). Tale regola vale anche per lo Stato e gli Enti pubblici, mentre i limiti di pignorabilità dei loro beni patrimoniali vanno individuati concretamente, in relazione alla natura o alla destinazione degli specifici beni dei quali di volta in volta si chiede l'espropriazione, in conformità della previsione, anch'essa di carattere generale, di cui al secondo comma del citato art. 2740 del codice civile, (ed analogicamente a quanto disposto dagli artt. 514 e 545 del codice di procedura civile in tema di impignorabilità di cose mobili o di crediti)”.
4) la non assoggettabilità all'esecuzione forzata delle somme di denaro o dei crediti pecuniari dello Stato e degli Enti pubblici “può discendere soltanto dal fatto che essi concorrano a formare il patrimonio indisponibile, e cioè, come si è visto, dal fatto che essi siano vincolati ad un pubblico servizio ovvero - come, ad esempio, per i crediti tributari - che nascano dall'esercizio di una potestà pubblica.
Per quanto qui specificatamente interessa, il denaro ed i crediti pecuniari, traenti origine da rapporti di diritto privato, per la natura fungibile e strumentale del denaro stesso, difficilmente possono ritenersi assoggettabili a vincoli di destinazione, a meno che non siano destinati immediatamente, nella loro individualità, ad un fine pubblico.
Il mero fatto della loro iscrizione nel bilancio preventivo non li può trasformare in beni patrimoniali indisponibili, così da annullare la responsabilità patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici. Invero, il bilancio preventivo costituisce strumento di attuazione dei programmi e crea un vincolo nei soli confronti della P.A.; ma non può incidere sulla sostanza dei diritti soggettivi e sottrarre il denaro alla responsabilità patrimoniale che opera per legge in una sfera diversa. Il bilancio preventivo inoltre, in quanto contempla appunto la previsione di tutte le entrate e di tutte le uscite in una visione globale, non consente in alcun modo di collegare singole entrate (e cioè determinate somme di denaro) a singole uscite (e cioè all'espletamento di determinati servizi) e non può quindi essere considerato come un vincolo di destinazione, in senso tecnico, di particolari somme”;
5) al contrario “proprio la impossibilità di correlare nell'ambito del bilancio preventivo determinate somme di denaro o determinati crediti pecuniari a specifiche voci di spesa, infirma in radice l'argomentazione qui considerata. Inoltre, consentire che la mancata previsione in bilancio degli oneri cui l'Amministrazione deve sottostare in adempimento delle obbligazioni che le competono, paralizzi il soddisfacimento del diritto del creditore consacrato in una sentenza di condanna del giudice, non è neppure conforme ai principi del buon andamento e della imparzialità dell'Amministrazione”.
La Corte Costituzionale sintetizza i principi suddetti ritenendo:
a) che di fronte alla sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro la posizione della p.a. non è diversa da quella di ogni altro debitore, sicché anche nei suoi confronti è esperibile l’esecuzione forzata per espropriazione;
b) i limiti di pignorabilità dei beni patrimoniali dello Stato o degli Enti pubblici vanno individuati concretamente in relazione alla natura o alla destinazione degli specifici beni di cui, di volta in volta, si chiede l’espropriazione;
c) la iscrizione nel bilancio preventivo dello Stato o dell’ente pubblico di somme, di qualunque provenienza, o di crediti (salvo che questi non traggano origine da rapporti di diritto pubblico, come i crediti tributari[10]) non può paralizzare l’azione esecutiva, non potendo da essa desumersi un vincolo di destinazione in senso tecnico idoneo a far ricomprendere tali somme o crediti nell’ambito del patrimonio indisponibile;
d) rimane salva l’ipotesi che determinate somme o crediti siano vincolati con apposita norma di legge al soddisfacimento di specifiche finalità pubbliche e resta impregiudicata la questione sul se tale vincolo possa legittimamente sorgere in modo diverso.
L’ultima precisazione è rilevante, perché prelude al successivo sviluppo del sistema [supra lett. C)] nel senso di congegnare regimi peculiari (e talvolta molto diversi tra loro) alla cui stregua, in virtù della legge o di un provvedimento adottato sulla base della legge, le somme di pertinenza della p.a. possono essere “vincolate” ad uno specifico servizio o ad una determinata finalità di interesse pubblico per tale via restando sottratte all’aggressione esecutiva da parte dei creditori dell’amministrazione stessa.
Come sottolineato in dottrina[11] la parificazione della p.a. ad un comune debitore sotto il profilo dell’estensione della garanzia patrimoniale (parificazione realizzata grazie agli arresti giurisprudenziali prima citati) presenta delle problematiche:
1) il processo civile, tanto quello di cognizione quanto quello di esecuzione, si fondano sul principio dispositivo, ragion per cui la dichiarazione di impignorabilità dei beni dipende, in linea generale, da una iniziativa processuale del debitore esecutato da attuarsi nelle forme dell’opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c. (ma vedi quanto sarà osservato infra): “la rigida applicazione di questo strumento di tutela consentirebbe la espropriazione anche dei beni elencati nell’art. 822 c.c.; può avvenire che gli amministratori pubblici non resistano o resistano con scarsa efficacia alle pretese dei creditori (…), ovvero si sottraggano, per il tramite del processo, alla responsabilità derivante dallo spontaneo riconoscimento di una obbligazione”[12];
2) la regola per cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.) mal si attaglia alle caratteristiche della pubblica amministrazione in quanto:
i) i beni suscettibili di essere aggrediti con l’azione esecutiva non sono “limitati” (o lo sono in una misura del tutto differente), così come accade laddove si consideri il patrimonio limitato di un debitore privato;
ii) si tratta di soggetti che non possono cessare la propria attività ed essere sottoposti a procedure liquidative, così come accade per il debitore privato (ma v. quanto notato appresso a proposito delle procedure “liquidative”).
La parificazione dello Stato e delle pubbliche amministrazioni ai debitori privati “ha imposto, quindi, per un verso l’adeguamento in via interpretativa della disciplina comune e, per altro verso, un controllo dei flussi di spesa”[13].
Da quanto sopra rilevato possiamo trarre una prima conclusione: in materia di esecuzione forzata (di crediti) nei confronti della p.a. vi sono due esigenze contrapposte (tutela del creditore e tutela della “funzione” affidata alla p.a.) il cui bilanciamento ha descritto un movimento pendolare dove si è data di volta in volta prevalenza all’una o all’altra delle suddette esigenze ovvero sono stati forgiati dei nuovi strumenti esecutivi in deroga a quelli ordinari.
L’impressione che si ricava è che, a mano a mano che si è aggravata la crisi della finanza pubblica, tali strumenti incidano in senso sempre più marcato sul diritto del singolo creditore di agire in via esecutiva verso la pubblica amministrazione sua debitrice.
Dopo la stagione “della parificazione”, si registra, in altri termini, una crescente intensità dei limiti posti alle azioni esecutive di cui si tratta, al punto che il riequilibrio del rapporto tra le suddette (contrapposte) esigenze è stato in taluni casi attuato dalla Corte Costituzionale, laddove si è reputata “intollerabile” la limitazione del diritto del creditore di realizzare coattivamente la pretesa portata dal titolo.
La individuazione di strumenti incidenti, in senso limitativo, sulla pignorabilità di crediti dell’amministrazione attiene per lo più all’area tematica descritta supra sub C3) [ovvero l’analisi delle normative speciali incidenti sull’oggetto dell’esecuzione forzata] onde se ne parlerà nella sede appropriata.
3. Norme incidenti sullo svolgimento del processo esecutivo nei riguardi dell’amministrazione. L’art. 14, comma 1, l. n. 669 del 1996: evoluzione ed ambito applicativo. Cenni alla questione se tale norma sia applicabile alle società in house. Le principali questioni problematiche: le azioni esperibili dal debitore e il regime degli interventi. L’art. 14, comma 1-bis, l. n. 669 del 1996: le principali questioni problematiche
Da questo punto di vista presenta un notevole interesse pratico – in ragione del suo esteso ambito applicativo – la disposizione contenuta nell’art. 14, comma 1, d.l. n. 669 del 1996 e ss.mm.
La disposizione[14] nasce dalla estensione a tutti i soggetti pubblici (fatta eccezione per gli enti pubblici economici) di una istanza avanzata dall’INPS che chiedeva una “condizione di proponibilità” dell’azione esecutiva sulla falsariga di quanto previsto per le azioni intraprese per ottenere il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli, in quanto il difetto di coordinamento tra le varie strutture territoriali dell’ente (in specie quella che si occupava della fase amministrativo-contabile e quella che si occupava della fase giurisdizionale) determinava la moltiplicazione delle azioni esecutive iniziate sulla scorta di un medesimo titolo.
Per quanto la norma abbia subito delle modifiche (anche significative) ne resta inalterata la funzione di fondo.
La quale è individuata dalla Corte Costituzionale nei termini che seguono:
a) in una prima occasione, il Giudice delle leggi era chiamato a valutare se la mancata inclusione nell’ambito applicativo della norma degli enti pubblici economici rappresentasse una ingiustificata disparità di trattamento.
Nel ritenere infondata la censura, la Corte[15] ha ritenuto che la ratio della disposizione andasse individuata in ciò che il differimento dell’esecuzione forzata serve a garantire “uno spatium adimplendi per l'approntamento dei mezzi finanziari occorrenti al pagamento dei crediti azionati, persegue lo scopo di evitare il blocco dell'attività amministrativa derivante dai ripetuti pignoramenti di fondi, contemperando in tal modo l'interesse del singolo alla realizzazione del suo diritto con quello, generale, ad una ordinata gestione delle risorse finanziarie pubbliche”;
b) in altra occasione, il Giudice remittente lamentava che l’onere di una nuova notificazione del titolo ogni qualvolta si intenda procedere (ricavabile dalla interpretazione della norma) avrebbe implicato “un indubbio svantaggio per il creditore procedente ed un irragionevole privilegio a favore della Pubblica Amministrazione esecutata, rispetto alla generalità dei debitori, violando così il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.”.
La Corte Costituzionale[16], ricordata la propria pregressa giurisprudenza, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione siccome “la disposizione enunciata non deroga al principio di unicità della notificazione del titolo esecutivo, non potendosi desumere tale deroga né da una interpretazione testuale della disposizione de qua, non soccorrendo nella stessa alcun elemento in tal senso, né dalla ratio legis, ben potendo l’esigenza, richiamata dal remittente, di consentire all’amministrazione un costante controllo sul debito portato dal titolo esecutivo, essere adeguatamente soddisfatta, in caso di nuova esecuzione, dalla necessaria notificazione di un nuovo atto di precetto”.
Alla luce della suddetta finalità – che giustifica la compatibilità della norma anche con riguardo alla direttiva 2000/35 in materia di lotta contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali[17] - non può ritenersi la divisata omogeneità tra i soggetti ricompresi nell’ambito applicativo della disposizione e quelli che ne restano esclusi.
In dottrina, in senso contrario, si è osservato che, questa essendo la ratio della disposizione, il legislatore “sembra di certo aver ecceduto lo scopo, dacché il riferimento nella formulazione letterale agli enti pubblici non economici involge nell’ambito di operatività della disposizione soggetti che per il pagamento di somme possono non adoperare lo strumentario della contabilità pubblica”[18].
Anziché essere troppo ristretta, la compagine dei soggetti riguardati da tale norma pare, invece, troppo estesa (pur nell’attuale formulazione), considerata la eterogeneità dell’universo degli enti pubblici non economici e, in una chiave evolutiva, dello stesso concetto di “pubblica amministrazione”.
Sulla nozione di “pubblica amministrazione” deve registrarsi, rispetto al passato, il passaggio da una nozione “formale” ad una nozione “funzionale”.
Questo perché il concetto di pubblica amministrazione “in senso soggettivo” tende ad assumere “contorni sfumati se non addirittura evanescenti”[19].
La natura “cangiante” della nozione di pubblica amministrazione ed il suo carattere di “figura a geometria variabile” a seconda del corpus normativo che si prenda in considerazione è testimoniata da un caso molto interessante.
Si allude alla questione (a quanto consta non trattata dalla giurisprudenza di legittimità) se una società in house sia o meno assoggettabile all’art. 14 d.l. n. 669 del 1996 in ragione della sua “equiparazione” ad una pubblica amministrazione.
Volendo sintetizzare all’estremo un tema di notevole complessità ed attualità, l’in house providing è ritenuta una forma di “autoproduzione” o comunque di erogazione di servizi pubblici “direttamente” ad opera dell’amministrazione, attraverso strumenti “propri”.
Questa forma è alternativa alla esternalizzazione e la giurisprudenza amministrativa in atto prevalente ha chiarito che non si tratta di regimi posti in rapporto di regola/eccezione, ma semplicemente di regimi tra loro diversi e ricollegabili ad una precisa scelta “strategica” della pubblica amministrazione che decide di gestire un determinato servizio avvalendosi dell’una o dell’altra forma.
Ebbene, quando la p.a. decide di gestire un servizio in “autoproduzione”, può farlo anche “servendosi” di una società di capitali, società che però, al di là della forma privatistica, si configura come una longa manus della pubblica amministrazione in quanto assoggettata ad un “controllo analogo” a quello che la stessa amministrazione esercita sui propri organi od uffici.
In ragione della particolare conformazione del rapporto che lega la pubblica amministrazione e la società in house,va esclusa, al di là del profilo formale, la alterità dei soggetti e, quindi, si può procedere all’affidamento diretto (ossia senza gara) del servizio.
Il soggetto affidatario è una longa manus della pubblica amministrazione, distinto da essa solo sul piano formale, ma ad essa completamente assoggettato quanto alla definizione degli indirizzi aziendali.
La giurisprudenza ha, in queste ipotesi, ammesso l’affidamento diretto a società in house, ma l’ha circoscritto entro limiti molto rigorosi. In specie, si è ritenuto che, per aversi società in house (e quindi per ammettersi l’affidamento diretto), devono ricorrere cumulativamente le seguenti condizioni:
1. il capitale della società deve essere interamente detenuto da un soggetto pubblico (per quanto oggi il Codice degli appalti pubblici (artt. 5, d.lgs. n. 50 del 2016) ammetta anche la partecipazione di soci privati, entro limiti esigui e predefiniti);
2. la società deve essere istituita con la finalità (che deve potersi rilevare dallo Statuto) di svolgere la maggior parte della propria attività a favore dell’amministrazione che partecipa in via totalitaria al relativo capitale (la giurisprudenza individua questo limite “quantitativo” nel 90% dell’attività sociale, ma, come si è detto, la normativa comunitaria di imminente attuazione prevede delle soglie più basse);
3. il soggetto pubblico deve esercitare sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui servizi svolti in proprio (elemento “indiziato” dalla totale partecipazione al capitale sociale da parte della p.a., ma da esso formalmente distinto. Si pensi al caso, controverso, dell’in house c.d. frazionato: in questa ipotesi, vari soggetti pubblici detengono il capitale azionario della società. Ebbene, l’ente pubblico che detiene una partecipazione minoritaria non potrà procedere ad affidamento diretto a favore della società in house difettando il requisito del controllo analogo; controllo esercitato, invece, da altro ente conferente che potrà procedere all’affidamento diretto. Si pensi ancora al caso dell’in house c.d. a cascata dove ente affidante e società affidataria sono sottoposti al comune controllo – e quindi al controllo analogo – di un’altra amministrazione: il caso è venuto in rilievo con riguardo agli affidamenti diretti da parte della Università di Amburgo, interamente pubblica, ad una società privata con capitale detenuto da vari Enti pubblici tra cui la città di Amburgo che controllava interamente la predetta Università: cfr. CGUE, Sez. V, 8 maggio 2014, in causa C-15/13, Technische Universitat).
Nondimeno, quando una società in house si rivolge al mercato, anche solo al limitato fine di dismettere una parte del capitale sociale a favore di investitori privati, è tenuta ad osservare la regola della gara, in virtù dell’art. 3, comma 26, Codice dei contratti pubblici, che delinea l’ambito soggettivo di applicazione della predetta regola includendo tra i soggetti tenuti al suo rispetto, oltre alle pubbliche amministrazioni, gli organismi di diritto pubblico, cui la società in house, quando assume la veste di stazione appaltante, deve essere senz’altro ricondotta[20].
È in questo caso, e limitatamente ai menzionati fini, che opera l’exequatur tra pubbliche amministrazioni propriamente dette e soggetti che, dal punto di vista formale, amministrazioni non sono, quantunque risultino alle stesse collegate in modo più (società in house) o meno (società mista, a partecipazione pubblico-privata) intenso.
Diversamente opinando, alla pubblica amministrazione che intendesse affidare un appalto senza svolgere una regolare gara sarebbe sufficiente costituire un soggetto formalmente privato (come tale in tesi astratta sottratto alle regole dell’evidenza pubblica) e delegarlo ad appaltare un certo lavoro o servizio, con conseguente aggiramento della normativa pro-concorrenziale sopra ricordata.
Ebbene, tornando all’ambito applicativo dell’art. 14, d.l. n. 669 del 1996, quando il debitore sia una società in house (pensiamo ad una società che gestisca, su affidamento diretto del Comune, il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), ci si chiede se il creditore debba rispettare o meno lo spatium deliberandi previsto per il caso in cui il debitore sia una pubblica amministrazione in senso formale.
Alla luce di quanto sopra rilevato, e cioè alla luce della considerazione che “ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali”[21], sembra preferibile concludere nel senso che la “equiparazione” tra p.a. affidante e soggetto affidatario che giustifica l’affidamento senza gara o che giustifica la necessità di includere le società in house nella nozione di organismo di diritto pubblico, allorché le stesse si rivolgano al mercato per individuare una controparte contrattuale, non possa essere automaticamente trasposta al di fuori degli ambiti appena citati e, per quanto qui interessa, non si può da essa inferire la automatica sottoposizione delle società in house alla disposizione dell’art. 14 d.l. n. 669 del 1996.
In questo senso si è orientato il Tribunale di Napoli (sentenza 19.11.2014, in proc. 14619/2013) che ha così statuito: “la qualificazione di un soggetto come società in house, se rileva ai fini prima descritti (applicazione o meno delle regole in materia di procedure evidenziali) per l’assoggettamento di queste soggettività ad un regime giuridico peculiare, non può essere assunta come presupposto concettuale sulla scorta del quale estendere alla società in house una regola specificamente dettata per la pubblica amministrazione (e gli enti pubblici non economici), regola che, atteso il suo carattere eccezionale, risulta insuscettibile di interpretazione analogica (art. ex 14, disp. prel. c.c.). Lo spatium deliberandi previsto dal citato art. 14 costituisce, infatti, una sospensione dell'efficacia del titolo esecutivo che fonda la sua ratio, affatto peculiare (e pertanto non estensibile a casi diversi da quelli espressamente contemplati), nell’esigenza di consentire alle pubbliche amministrazioni di completare le procedure preordinate al pagamento di somme di denaro, procedure che sono rette da norme di contabilità pubblica. Per questo motivo la notificazione di un atto di precetto in tale fase e la relativa intimazione ad effettuare il pagamento in un momento in cui l'amministrazione non è tenuta a procedere, deve ritenersi inutilmente effettuata. Epperò nel caso della società in house la richiamata esigenza non sussiste, anche in considerazione del fatto che la stessa, assumendo forma privatistica, agisce principalmente secondo le norme di diritto comune”.
Chiarita la ratio della disposizione in esame, passiamo ad esaminare il contenuto del primo comma.
Si prevede un termine dilatorio (originariamente di sessanta giorni e poi esteso a centoventi) prima della cui scadenza l’esecuzione forzata nei confronti delle amministrazioni e degli enti pubblici non economici non può essere iniziata.
Nella sua versione originaria il primo comma della disposizione in esame così prevedeva: “1. Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non ha diritto di procedere ad esecuzione forzata nei confronti delle suddette amministrazioni ed enti, nè possono essere posti in essere atti esecutivi”.
Tale versione della norma aveva posto vari problemi.
Ci si era chiesti, in specie, se durante la pendenza del termine in questione potesse o meno essere intimato il precetto.
Aderendo alla tesi positiva, sul rilievo che il precetto è atto preliminare all’esecuzione ed alla stessa prodromico, si è ritenuto che la inosservanza del termine attenesse al quomodo dell’esecuzione, rilevando quindi come motivo di opposizione agli atti esecutivi[22].
Tuttavia, le successive modifiche della disposizione hanno portato a rivedere siffatta impostazione[23].
In specie, per effetto del d.l. n. 269 del 2003 (conv. in l. n. 326 del 2003), la disposizione è stata così novellata: “1. Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”.
Da un lato, l’elevazione del termine a centoventi giorni ha la funzione di impedire la contestuale notifica di titolo e precetto (prima ritenuta possibile anche tenuto conto di quanto previsto dall’art. 481 c.p.c.)[24]; dall’altro lato, è stato definitivamente chiarito che il precetto non può essere notificato prima del decorso del termine contemplato dalla norma (e questo anche al fine di non “caricare” la p.a. di ulteriori costi[25]).
In considerazione di quanto sopra, ed in specie alla luce del rilievo che la disciplina in parola opera su un segmento della vicenda che è anteriore a quello delineato dal combinato disposto degli artt. 479 e 482 c.p.c. (sull’intervallo di tempo che deve intercorrere tra il precetto ed il pignoramento, funzionale a consentire al debitore di evitare l’esecuzione forzata), si è ritenuto che il rispetto del termine in questione rappresenta una condizione di ammissibilità dell’azione esecutiva.
In particolare, la giurisprudenza ha affermato che “il decorso del termine legale diviene condizione di efficacia del titolo esecutivo, la cui inosservanza, per l'inscindibile dipendenza del precetto dall'efficacia esecutiva del titolo che con esso si fa valere, rende nullo il precetto intempestivamente intimato, con la conseguenza che la relativa opposizione si traduce in una contestazione del diritto di procedere all'esecuzione forzata e integra un’opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615, comma 1, c.p.c., non concernendo solo le modalità temporali dell'esecuzione stessa. Tale lettura della norma di cui all'art. 14 d.l. 31 dicembre 1996 n. 669 è confermata dalla norma interpretativa introdotta con l'art. 44, comma 3 d.l.30 settembre 2003 n. 269, conv. in l. 24 novembre 2003 n. 326 con la quale è stato sancito il divieto di procedere alla notifica del precetto prima del decorso del citato termine”[26].
Da ciò si è evinta la rilevabilità d’ufficio della violazione del termine, con conseguente dichiarazione di inammissibilità dell’azione esecutiva[27].
Altra questione trattata dalla giurisprudenza di merito e, più di recente, dalla Corte di Cassazione è quella che concerne il rapporto tra la disposizione in esame e l’art. 654 c.p.c. che esclude, ai fini dell’esecuzione, la necessità di una nuova notificazione del decreto ingiuntivo non ancora esecutivo.
Si è ritenuto da parte dell’una[28] e dell’altra[29] che la disposizione contenuta nell’art. 14, d.l. n. 669 del 1996 va interpretata “nel senso che ha imposto al creditore di detti soggetti, quando debba procedere sulla base di un titolo esecutivo per il quale l’esecuzione è consentita da una norma speciale (verso il debitore in genere) – come l’art. 654, secondo comma, c.p.c. in tema di decreto ingiuntivo – senza previa notificazione del titolo, l’obbligo di provvedervi, in deroga a tale norma speciale, di modo che solo da essa decorre il termine dilatorio previsto per iniziare l’esecuzione e comunque per il precetto”.
La pronuncia della Cassazione, in specie, contiene una affermazione che sarà ripresa dalla giurisprudenza successiva e cioè che “la deroga che così si avalla alla previsione dell'art. 654, comma 2, ed ad altre eventualmente presenti nell'ordinamento sempre nel senso di consentire l'esecuzione senza previa notificazione del titolo, finisce allora per essere una deroga che non è espressione della sopravvenienza di una lex posterior generalis - come sarebbe stata se fosse stata introdotta (per assurdo) nel tessuto del codice una nuova norma prevedente una notificazione del titolo esecutivo per due volte con un intervallo temporale e ciò anche senza far salve norme dispositive altrimenti - bensì è espressione della sopravvenienza di una nuova regolamentazione speciale di uno specifico minisistema, quello dell'esecuzione contro le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici economici, costituente soltanto parte della norma generale dell'art. 479 c.p.c.”.
Consegue da quanto sopra che “un contenuto precettivo di meno immediata percezione può, tuttavia, ritenersi espresso dalla norma anche nel senso che, là dove l'ordinamento non prevedeva prima di essa a carico del creditore la notificazione del titolo esecutivo formatosi nei confronti del debitore e questo potesse essere rappresentato anche da un'amministrazione dello Stato o da un ente pubblico economico, essa diventasse per questi soggetti comunque necessaria, proprio per assicurare loro lo spatium previsto dalla norma”.
Si discute, infine, sulla applicabilità della disposizione (e segnatamente del termine dilatorio ivi previsto) di che trattasi agli interventi.
Al riguardo è opportuno fare una precisazione di fondo circa la “funzione” dell’intervento nel processo esecutivo.
Si può infatti ritenere:
a) che lo stesso vada inteso alla stregua di un atto tendenzialmente assimilabile a quello con cui il procedente dà avvio all’esecuzione;
b) che si tratti di una mera domanda di partecipazione alla distribuzione della somma ricavata cui la legge collega il potere di svolgere atti di impulso della procedura.
Ebbene, intendendo nel primo senso la funzione dell’intervento (come pare preferibile alla luce della giurisprudenza della Cassazione, anche con riferimento al “rapporto” tra l’azione esecutivaproposta dal procedente e quella proposta dall’interveniente, allorché si è ritenuto che il venir meno della prima – ad esempio per rinuncia – non implica il venir meno della seconda[30]), si pone la questione se il creditore che intenda intervenire in una procedura da altri intrapresa nei confronti della p.a. debba preventivamente notificare alla stessa il titolo esecutivo ed attendere il termine di 120 giorni prima di depositare l’intervento (mancando per l’interveniente la necessità di intimare il precetto).
La dottrina[31] aveva ricavato la soluzione positiva, in ordine ai soli interventi titolati, da quanto ritenuto, incidentalmente, dalla Corte Costituzionale[32]: chiamata a pronunciarsi sul comma 1-bis della disposizione (che individua particolari regole di competenza per i procedimenti esecutivi intrapresi nei riguardi dell’INPS) la Corte ha ritenuto che anche agli atti di intervento si applicassero le particolari regole di competenza territoriale ivi previste, sull’assunto che l’intervento, al pari del pignoramento, rappresenta una possibile declinazione dell’esercizio dell’azione esecutiva e deve quindi ricevere il medesimo trattamento riservato all’azione esecutiva promossa dal procedente.
Si proponeva, quindi, “una lettura estensiva – e costituzionalmente orientata – della locuzione ‘procedere ad esecuzione forzata’ operata dal comma 1 dell’art. 14 e di assoggettare anche l’intervento alla condizione temporale in esso stabilita, con un doveroso adattamento per dir così ‘strutturale’: poiché l’intervento non richiede, quale prodromo necessario, l’intimazione del precetto, il termine dilatorio dei centoventi giorni va computato, a pena di inammissibilità dell’intervento, dalla notifica del titolo esecutivo alla data di deposito dell’intervento, che è il momento in cui viene in tale forma sperimentata l’azione esecutiva”[33].
È questa – anche per ciò che concerne il riferito “adattamento strutturale” - la soluzione seguita da Cass. 18 aprile 2012, n. 6087.
Al riguardo però una precisazione si impone.
Una lettura superficiale di tale pronuncia potrebbe indurci a ritenere che la soluzione indicata dalla Cassazione valga indistintamente a seconda che l’intervento sia fondato su un titolo esecutivo oppure no.
Invero, la vicenda scrutinata dalla S.C. aveva riguardo ad un intervento spiegato nel vigore della disciplina previgente alle modifiche introdotte dalla d.l. n. 35 del 2005 (conv. in l. n. 80 del 2005) e dalla l. n. 263 del 2005, onde “in base a tale disciplina previgente, era pacificamente consentito al creditore di dispiegare intervento in ogni procedura esecutiva, anche se il suo credito non era recato da titolo esecutivo: ed in tale regime non era prevista di norma alcuna immediata verifica dei presupposti di ammissibilità dell'intervento - tra cui la certezza, liquidità ed esigibilità del credito vantato - prima del momento della distribuzione, salvo che non ne fosse sorta la necessità in tempo anteriore (come ad esempio in caso di riduzione o conversione del pignoramento), tanto che si escludeva perfino l'onere dell'interventore di produrre, prima di tali occasioni, i titoli o i documenti giustificativi del credito azionato (tra le altre, Cass. 19 luglio 2005 n. 15219)”.
La Corte di Cassazione, quindi, pur considerando in astratto ammissibile l’intervento del ricorrente (benché sine titulo) – e ciò sulla base della considerazione che lo stesso fosse retto dalla disciplina previgente a quella sopravvenuta nelle more della vicenda giudiziaria concreta -, ha ritenuto, sulla base delle motivazioni già indicate dalla citata dottrina (sebbene con specifico riguardo agli interventi titolati), che gli interventi siano sottoposti al rispetto del termine dilatorio di centoventi giorni.
Per gli interventi non titolati, quindi, il problema se gli stessi siano o meno soggetti alla disciplina di cui all’art. 14 si pone ancora. E si pone con specifico riferimento ai titolari di un credito pecuniario risultante da scritture contabili ex art. 2214 c.c..
Il Tribunale di Napoli, Sezione distaccata di Pozzuoli[34], ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 499 c.p.c. nella parte in cui inibisce l’intervento non titolato a soggetti diversi dagli imprenditori (si trattava nella specie di lavoratori) che siano sprovvisti della documentazione attestante la verosimiglianza della pretesa.
Ai fini della rilevanza della questione, il remittente ha giudicato ammissibile l’intervento non titolato anche nei confronti della p.a. e, sulla scorta di questo assunto, ha ritenuto ingiustificatamente privilegiata la posizione del debitore/pubblica amministrazione.
La Corte Costituzionale[35] ha dichiarato la questione inammissibile sottolineando che la disposizione che consente l’intervento non titolato per crediti risultanti da scritture contabili ha natura eccezionale rispetto al principio della par condicio creditorum e non può quindi essere applicata al di là dei casi espressamente previsti.
Una parte della dottrina, invece, richiamando la (già citata) pronuncia Cass. 26 novembre 2010, n. 24078, ha ritenuto che la creazione di un “minisistema” implica la specialità della disciplina contenuta nell’art. 14 “non solo dal punto di vista soggettivo (cioè per i destinatari della statuizione) ma anche nello stabilire – con la notifica del titolo esecutivo e il decorso del termine per l’adempimento – un incombente ineludibile nelle procedure esecutive in danno della p.a., un’attività prodromica necessaria per i creditori che intendano esperire l’azione esecutiva in tutte le sue possibili modalità”, ovvero la previa notifica del titolo esecutivo[36].
Ne consegue che ogni disposizione che ammette l’esperibilità dell’azione esecutiva senza la previa notificazione di un titolo (v. pure l’art. 654 c.p.c. e, per quanto qui interessa, l’art. 499 c.p.c. nella parte in cui ammette l’intervento non titolato fondato sulle scritture contabili) si pone in contrasto con tale “minisistema” non potendo, nell’ambito dello stesso, trovare applicazione.
Per mera completezza va analizzata la questione se la speciale disposizione in esame trovi applicazione anche con riguardo al giudizio di ottemperanza (mentre la questione dei rapporti tra le due forme di esecuzione, quella prevista dal Codice di procedura civile e quella prevista dal Codice del processo amministrativo ha costituito oggetto di una rilevante pronuncia dell’Adunanza Plenaria[37]).
Sul punto, due sono le tesi che si contendono il campo:
1) l’orientamento prevalente è nel senso che il termine in questione si applichi anche all’azione di ottemperanza in quanto, malgrado il testuale riferimento all’esecuzione forzata, resta pur sempre necessario assicurare alla p.a. un adeguato intervallo tra la richiesta di pagamento mediante la notifica del titolo esecutivo e l’avvio della relativa procedura coattiva[38];
2) quello che esclude la soggezione del giudizio di ottemperanza all’art. 14, sul rilievo che tale norma ha carattere “eccezionale” e che quindi non può trovare applicazione “oltre i tempi e i casi in essa considerati”[39].
Rileva anche l’esame del comma 1-bis dell’art. 14 del d.l. n. 669 del 1996.
Nella versione introdotta nel 2000, per effetto della l. n. 388 – versione completamente sopravanzata da una successiva novella -, la norma aveva previsto che: “Gli atti di pignoramento e sequestro devono essere a pena di nullità notificati presso la struttura territoriale dell'ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici dell'interessato, il codice fiscale e il domicilio. L'ente comunque risponde con tutto il patrimonio”.
Anche questa norma veniva introdotta per venire incontro alle difficoltà dell’Inps nell’erogare tempestivamente le prestazioni indicate nelle sentenze di condanna.
Nell’ottica di realizzare pienamente quest’obiettivo (che avuto riguardo alla primigenia formulazione della norma restava in parte non attuato visto che prescrizione era relativa solo agli atti di pignoramento e non anche a quelli precedenti) il legislatore, con il d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003, ha previsto lo stesso regime anche per “gli atti introduttivi del processo di cognizione [e] l’atto di precetto”[40].
Con particolare riguardo al primo atto dell’esecuzione ed agli atti propedeutici, la ratio della disposizione va colta nella esigenza di assicurare che il procedimento di erogazione sia “gestito” dalla struttura territoriale dell’Ente (specialmente degli Enti previdenziali rispetto ai quali la difficoltà si è concretamente posta) che abbia “in carico” il rapporto.
Sempre per effetto della riforma del 2003, al comma 1-bis in esame è stato aggiunto un nuovo alinea che così stabilisce: “Il pignoramento di crediti di cui all'articolo 543 del codice di procedura civile promosso nei confronti di Enti ed Istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale deve essere instaurato, a pena di improcedibilità rilevabile d'ufficio, esclusivamente innanzi al giudice dell'esecuzione della sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa. Il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia stata disposta l'assegnazione. L'ordinanza che dispone ai sensi dell'articolo 553 del codice di procedura civile l'assegnazione dei crediti in pagamento perde efficacia se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede all'esazione delle somme assegnate”.
È stata quindi introdotta – relativamente all’esecuzione intrapresa nei riguardi degli Enti previdenziali – una particolare regola sulla competenza territoriale: il pignoramento presso terzi “promosso” verso questi Enti deve essere “instaurato” esclusivamente innanzi al G.E. della sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa”.
La disposizione “deroga dunque al principio tradizionale, rispondente all’esigenza di causare il minor disagio possibile al terzo [ma vedi oggi quanto previsto dall’art. 26-bis c.p.c. in specie al secondo comma, n.d.s.] che non è parte del processo e radica invece la competenza avendo riguardo alle sole esigenze organizzative del debitore, con perfetta insensibilità alle eventuali variazioni nell’organizzazione su base territoriale dei servizi di cassa”, con l’obiettivo “di consentire alla sede Inps che ha gestito la fase giudiziale contenziosa di seguire anche quella esecutiva”[41].
Particolari difficoltà interpretative pone invece la regola per cui “il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia disposta l’assegnazione”.
Se si leggono le varie proposizioni del comma in esame in modo “sequenziale”, occorre ritenere che la disposizione attiene solo alle procedure riguardate dal periodo antecedente (e quindi solo dalle procedure espropriative presso terzi intraprese nei riguardi di Enti previdenziali) in quanto, se si fosse voluto attribuire a tale disposizione un ambito precettivo più ampio, sarebbe stato necessario inserirla in un comma a sé stante. D’altro canto, a parte questo argomento “sintattico”, depone nel senso anzidetto, la considerazione che la disposizione, per il suo carattere eccezionale, andrebbe interpretata in modo restrittivo.
È stato poi notato che la norma “con meccanismo assolutamente inedito nel nostro ordinamento ricollega la perdita di efficacia di un atto di parte (…) ad una condotta omissiva del giudice che non disponga tempestivamente l’assegnazione dei crediti pignorati mediante la pronuncia della relativa ordinanza”[42].
La questione, a dire il vero, si poneva in un quadro normativo diverso, quale quello anteriore alle riforme del 2005-2006 che – prima ancora delle riforme successive e più recenti – hanno profondamente inciso sull’assetto regolatorio del procedimento presso terzi: a quel tempo, infatti, non era prevista la limitazione oggi contemplata dall’art. 546 c.p.c. (l’importo del credito precettato aumentato della metà) e la Cassazione era orientata nel senso che “nell’esecuzione presso terzi di somme di denaro o di prestazioni continuative di somme di denaro, oggetto del pignoramento non è una quota pari al credito per il quale l’esecutante agisce in via esecutiva, ma la somma unitaria o frazionata nel tempo di cui il terzo è debitore dell’esecutato”[43]).
Alla luce del quadro normativo allora vigente e tenuto conto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, gli enti debitori correvano il rischio di veder bloccate ingenti linee di credito a fronte di crediti azionati di importo inferiore, anche perché – sempre tenuto conto del compendio normativo allora vigente – se si riteneva (ma come abbiamo già rilevato si tratta di una vexata quaestio)che il momento perfezionativo del pignoramento coincidesse con la dichiarazione del terzo o con l’accertamento giudiziale del credito, il termine annuale previsto da tale disposizione decorreva da tale momento: il che portava alla sostanziale vanificazione della ratio della disposizione, ovvero creare un regime di favore per gli enti previdenziali.
È diffusa in giurisprudenza – pur a fronte di un diverso quadro normativo – l’idea che il pignoramento presso terzi costituisce una fattispecie complessa a formazione progressiva che si perfeziona non con la notificazione dell’atto, ma con l’individuazione del suo oggetto, ovvero con la dichiarazione positiva del terzo o con l’ordinanza che accerti l’esistenza del relativo obbligo verso il debitore[44]; tuttavia, si ritiene che la notificazione del pignoramento segna il momento iniziale dell’esecuzione ed il momento a partire dal quale ogni atto dispositivo del bene o del credito pignorato è inopponibile al creditore procedente[45] ed il momento a partire dal quale il debitore è facultato a proporre l’opposizione agli atti esecutivi[46].
Considerato quanto sopra, e guardando al tenore letterale della disposizione (che si riferisce al “compimento del pignoramento”), si può ritenere che il termine di un anno decorra dalla notifica del pignoramento: è dubbio se, con riguardo al giudizio endoesecutivo di accertamento, sia predicabile quella “interpretazione che consideri la possibilità di ritenere sospeso il termine in questione fino alla definizione del giudizio di accertamento” che taluno ipotizzava con riguardo alla disciplina anteriore alle modifiche del 2012[47].
Una ulteriore questione interpretativa si è posta con riguardo all’ultimo alinea del comma in esame, che così recita: “L'ordinanza che dispone ai sensi dell'articolo 553 del codice di procedura civile l'assegnazione dei crediti in pagamento perde efficacia se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede all'esazione delle somme assegnate”.
Ebbene, rilevato che ai sensi dell’art. 553 c.p.c. l’assegnazione avviene “salvo esazione”, e che ai sensi dell’art. 2928 c.c. “il diritto dell’assegnatario verso il debitore che ha subito l’espropriazione non si estingue che con la riscossione del credito assegnato”, si dovrebbe a rigore sostenere che tutte le volte che, entro un anno dalla data di emissione dell’ordinanza di cui si tratta, non intervenga il pagamento da parte del terzo, l’ordinanza stessa perderebbe efficacia.
Tuttavia, è stata proposta una diversa interpretazione della norma secondo cui sarebbe opportuno “sganciare il requisito dall’effettivo incasso del credito assegnato, prendendo atto che la ratio dell’art. 2928 c.c. è diversa da (e per certi versi opposta a) quella della norma oggi in esame e che, quindi, il termine ivi previsto potrebbe ritenersi rispettato con la semplice attivazione di procedure formali di riscossione, prescindendo dai tempi di realizzazione effettiva del diritto”[48].
4. Norme incidenti sui soggetti dell’esecuzione: la disciplina della tesoreria unica. Cenni all’ammissibilità del pignoramento sulle “anticipazioni di cassa”
La peculiarità del debitore-pubblica amministrazione si apprezza anche sotto un distinto punto di vista.
Precisamente, come rilevato dalla migliore dottrina[49], laddove il bene che il creditore intenda pignorare sia un credito verso terzi (ed in specie nei riguardi del tesoriere), deve tenersi conto della circostanza che, per tale tipologia di bene, è previsto un particolare regime di circolazione.
Prima della legge sulla tesoreria unica, rileva l’esame del combinato disposto degli artt. 325, r.d. n. 383 del 1934 e 205, r.d. n. 297 del 1991, secondo cui i crediti della p.a. potevano circolare soltanto in forza di mandati di pagamento.
Inoltre, a mente degli artt. 23, commi 6 e 7, l. n. 153 del 1980 e del d.m. 26 gennaio 1981, l’espropriazione forzata del pubblico denaro si compiva mediante pignoramento presso gli Uffici della Tesoreria dello Stato che provvedevano al pagamento mediante vaglia del tesoro da estinguersi in conto corrente postale intestato al creditore.
Infine, ai sensi dell’art. 40, l. n. 119 del 1981, il denaro pubblico va depositato presso la Tesoreria dello Stato (relativamente alle somme eccedenti il 12% delle entrate previste dal bilancio di competenza), laddove le aziende e gli istituti di credito che esercitano il servizio di tesoreria a favore degli enti pubblici sono tenuti ad eseguire operazioni di incasso e pagamento con riguardo a somme di cui materialmente non dispongono (secondo il regime dell’anticipazione di cassa).
Da tale quadro normativo conseguiva “che le aziende e gli istituti esercenti il servizio di tesoreria per gli enti pubblici, citati innanzi al (…) Giudice dell’esecuzione non solo non possono eseguire alcun pagamento ma non possono neppure rendere una dichiarazione positiva ai sensi dell’art. 547 c.p.c.: essi devono indicare quale depositario del pubblico danaro e debitore del soggetto passivo del processo esecutivo la Tesoreria di Stato”[50].
Dopo una lunga serie di decreti non convertiti, la materia ha trovato nella l. n. 720 del 1984 la propria disciplina.
Le operazioni di pagamento e incasso svolte dai tesorieri sono “a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato”, dal che consegue la inconfigurabilità di un rapporto di credito-debito tra gli enti pubblici ed i rispettivi tesorieri (che peraltro neanche detenevano materialmente le somme).
A tale inconveniente ha posto rimedio il legislatore con l’introduzione (ad opera del d.l. n. 359 del 1987) dell’art. 1-bis della l. n. 720 del 1984, secondo cui (comma 1) “i pignoramenti ed i sequestri, a carico degli enti ed organismi pubblici di cui al primo comma dell'articolo 1, delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate ai predetti enti ed organismi pubblici si eseguono, secondo il procedimento disciplinato al capo III del titolo II del libro III del codice di procedura civile, con atto notificato all'azienda o istituto cassiere o tesoriere dell'ente od organismo contro il quale si procede nonché al medesimo ente od organismo debitore”.
Il tesoriere assume la veste di terzo nel procedimento di espropriazione forzata del credito e, quindi, oltre a dover custodire le somme, deve rendere la prescritta dichiarazione di quantità.
Tuttavia, “in caso di pignoramenti o sequestri di entrate proprie degli enti ed organismi pubblici di cui al primo comma dell'articolo 1 eseguiti anteriormente al versamento di queste in contabilità speciale, il cassiere o tesoriere provvede ugualmente al dovuto versamento nella contabilità speciale con annotazione del relativo vincolo” (art. 1-bis, comma 3).
Restano però salve “le cause di impignorabilità, insequestrabilità ed incedibilità previste dalla normativa vigente, nonché i vincoli di destinazione imposti, o derivanti dalla legge” (art. 1-bis, comma 4).
Alla stregua di tale dato normativo, dunque, il pignoramento poteva indifferentemente colpire le somme di pertinenza dell’ente esecutato già affluite nelle contabilità speciali quanto quelle incassate dal tesoriere ma da questi non ancora riversate nelle suddette contabilità[51].
Sennonché, il quadro normativo è mutato ulteriormente per effetto della introduzione, nel tessuto del citato art. 1-bis, del comma 4-bis, che prevede che “non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni medesime né sospendono l'accreditamento di somme nelle contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici di cui alla tabella A annessa alla presente legge”.
A fronte della introduzione di tale norma si è posto il problema se la indicazione del tesoriere quale terzo pignorato implichi l’impossibilità di aggredire crediti che l’ente esecutato vanti verso diversi soggetti, anche di natura privatistica.
La giurisprudenza di merito appare prevalentemente orientata nel senso che l’esecuzione presso terzi intrapresa nei riguardi di un terzo diverso dal tesoriere debba essere dichiarata inammissibile, anche su rilievo d’ufficio (Trib. Napoli, 12.12.2005).
In dottrina (Rossi, op. cit., 279 e ss.), peraltro, si ritiene (a nostro avviso condivisibilmente) che, fuori dal caso peculiare in cui il debitore sia un Ente locale (o altro soggetto ricadente nell’ambito di applicazione dell’art. 159 TUEL), la soluzione da preferire sia quella opposta.
Si rileva, da un lato, che la ratio della disciplina sulla tesoreria sia quella di garantire una ordinata gestione della contabilità (e rispetto a tale ratio la rilevata inammissibilità del pignoramento appare ultronea) e, dall’altro lato, che una lettura costituzionalmente orientata del sistema dovrebbe condurre a ripudiare orientamenti che portino ad estendere la portata applicativa di ostacoli o impedimenti al pieno dispiegarsi del diritto di procedere in via esecutiva.
Disputata è la questione se sia ammissibile il pignoramento presso il tesoriere laddove il rapporto tra quest’ultimo e l’ente pubblico sia gestito secondo il regime della anticipazione di cassa.
Due sono i punti critici: quello concernente la inopponibilità al creditore pignorante non solo degli atti dispositivi, ma anche dei fatti estintivi verificatisi successivamente alla notifica del pignoramento ai sensi dell’art. 2917 c.c.; quello concernente la qualificazione della posizione vantata dal debitore nei riguardi della banca quando tra l’uno e l’altro sussista un rapporto di anticipazione di cassa riconducibile allo schema del contratto di apertura di credito bancario.
In virtù di questo contratto, la banca si impegna verso il cliente a “tenere a disposizione” somme di denaro a favore di quest’ultimo (art. 1842 c.c.).
Si discute, quindi, se il cliente sia immediatamente creditore della somma (se sia cioè titolare, rispetto alla anticipazione, di un diritto di godimento) ovvero se l’impiego dell’anticipazione (art. 1843 c.c.) costituisca l’oggetto di un potere dispositivo da molti qualificato in termini di diritto potestativo.
Ebbene, laddove tra il cliente e la banca sia convenuto che le somme rimesse a favore del cliente vengano imputate prioritariamente a titolo di “rientro dell’anticipazione”, ci si chiede, in definitiva, se tali rimesse, quando intervenute dopo l’atto di pignoramento (e prima della dichiarazione), ricadano o meno nel vincolo di indisponibilità che dal pignoramento promana.
Alla posizione affermativa di certa giurisprudenza di merito[52] – basata essenzialmente sulla riconosciuta pignorabilità di crediti futuri o inesigibili - fa da riscontro l’opinione di una parte della dottrina che – ricordando una remota giurisprudenza in senso opposto a quella sopra citata[53] – evidenzia che l’accreditato ha la disponibilità economica della somma ma non anche la disponibilità giuridica della stessa con la conseguenza che l’assegnazione resterebbe subordinata alla mera volontà del debitore esecutato e sarebbe, quindi, impossibile: “non è possibile sottoporre a pignoramento il credito futuro, eventuale e condizionato che l’accreditato vanterà nei confronti della banca quando eserciterà, se lo vorrà, il potere di esigere le somme messe a sua disposizione, perché la posizione giuridica attiva non appare in questo momento dotata di capacità satisfattiva futura”[54].
A parere di questa dottrina, pertanto, se la chiave di lettura della questione è offerta (in un senso o nell’altro) dalla potestatività della posizione dell’accreditato, occorrerebbe notare che il diritto potestativo è, di norma, non cedibile; inoltre, la somma “anticipata” sarebbe impignorabile in quanto non solo temporaneamente inesigibile ma in quanto non dovuta, essendo la relativa debenza collegata all’esercizio di un diritto potestativo del debitore che non integra una condizione in senso tecnico ma un elemento costitutivo del tipo contrattuale di riferimento.
Va però rilevato che – per i soggetti cui si applica la l. n. 720 del 1984 – trova applicazione l’art. 4, d.m. 4.8.2009 (attuativo della legge sulla tesoreria unica) secondo cui “le anticipazioni effettuate agli enti ed organismi pubblici dai tesorieri, nei limiti previsti dalla normativa in vigore, in mancanza di disponibilità non vincolate nelle contabilità speciali in essere presso la Tesoreria dello Stato, devono essere estinte, a cura dei tesorieri, non appena siano acquisiti introiti non soggetti a vincolo di destinazione sul conto corrente bancario intestato agli enti e organismi pubblici, ovvero entro il giorno lavorativo successivo qualora gli introiti siano stati acquisiti sulla contabilità speciale presso la Tesoreria dello Stato”.
Alla luce di ciò risulta difficile giustificare l’applicabilità al caso in questione dell’art. 2917 c.c., posto che le operazioni aventi ad oggetto somme di denaro necessarie per il “rientro dell’anticipazione” hanno funzione ripristinatoria e non solutoria.
In definitiva, pare doversi propendere per la tesi che esclude – nei casi riguardati dal complesso normativo sopra esaminato – la possibilità di assegnare somme detenute dal terzo in regime di “anticipazione di cassa”: soluzione, questa, che potrebbe trovare una sponda nella giurisprudenza in tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, secondo cui “qualora le operazioni siano compiute anteriormente all'ammissione del correntista alla procedura di amministrazione controllata, occorre accertare, nel caso in cui il fallimento (successivamente dichiarato) del medesimo agisca per la restituzione dell'importo delle ricevute incassate dalla banca, se la convenzione relativa a quella anticipazione contenga una clausola attributiva del diritto di ‘incamerare’ le somme riscosse in favore della banca stessa (cd. patto di compensazione o di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto), atteso che solo in tale ipotesi quest'ultima ha diritto a compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito in dipendenza di operazioni regolate nel medesimo conto corrente senza che rilevi l'anteriorità del credito e la posteriorità del debito rispetto all'ammissione alla procedura concorsuale, non operando, in tale evenienza, il principio della cristallizzazione dei crediti” (da ultimo, v. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3336)
Al di fuori dei casi ricadenti nell’ambito di applicazione della l. n. 720 del 1980 e del connesso decreto attuativo, occorre verificare, in concreto, la disciplina del rapporto contrattuale, verosimilmente nell’ambito di un giudizio sommario di accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 549 c.p.c..
5. Norme incidenti sull’oggetto dell’azione esecutiva. A) I vincoli di indisponibilità posti direttamente dalla legge: l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993 (conv. con modifiche in l. n. 460 del 1994), ovvero il c.d. pignoramento contabile (le principali questioni problematiche); 2) l’art. 6, d.l. n. 263 del 2006, conv. in l. n. 290 del 2006 (sulla emergenza rifiuti in Campania); 3) l’art. unico, comma 1348, della l. n. 296 del 2006; 4) l’art. 62, d.p.r. 24 novembre 2016; 5) l’art. 6, comma 4-bis, d.l. n. 93 del 2013 (introdotto dalla l. n. 137 del 2013, di conversione del d.l. n. 120 del 2013). Il “blocco” delle azioni esecutive riguardo alle ASL site in Regioni commissariate al fine di garantire l’attuazione dei piani di rientro. La genesi della norma. Le posizioni della giurisprudenza. La declaratoria di incostituzionalità della normativa. B) I vincoli di indisponibilità derivanti da provvedimento amministrativo. Il “caso” delle aziende sanitarie e degli enti locali: evoluzione della normativa. L’art. 159 TUEL: la giurisprudenza costituzionale. Le principali questioni problematiche: quando si perfeziona il vincolo di impignorabilità e da quando esso è opponibile ai creditori; quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo; come è ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità. Cenni alla individuazione ed alla latitudine dei poteri istruttori del Giudice, anche con riferimento al rapporto tra il secondo ed il quarto comma della disposizione. C) Le “gestioni liquidative”: cenni
Come rilevato in precedenza, sebbene sia stato conseguito l’obiettivo della (tendenziale) equiparazione tra la pubblica amministrazione ed il debitore di diritto comune (quanto ad ampiezza della responsabilità patrimoniale ed assoggettamento alla regola generale di cui all’art. 2910 c.c.), limiti al diritto del creditore di procedere in via esecutiva possono discendere dalla sussistenza (ed opponibilità) di vincoli di indisponibilità delle somme detenute dall’amministrazione presso il proprio tesoriere: precisamente, tali vincoli possono sorgere o recta via per effetto di una disposizione di legge oppure per effetto di un provvedimento amministrativo, adottato sulla base della legge [sul tema v. Delle Donne, L’espropriazione nei confronti delle p.a. e la rincorsa perenne del bilanciamento dei valori tra ragioni della finanza pubblica e tutela del credito, in Riv. esec. forz., 2015, 559 e ss].
La ratio dell’impianto normativo che ci accingiamo ad esaminare (senza pretesa di esaustività) fonda, evidentemente, su istanze protettive di una “funzione” o di un “servizio” affidati alla pubblica amministrazione: nella misura in cui una certa somma sia collegata expresse all’espletamento di tale funzione o di tale servizio, si prevede (per legge o in forza di provvedimento ad hoc) la sua non assoggettabilità ad esecuzione forzata.
In altre ipotesi, le predette istanze protettive si sono tradotte, draconianamente, in divieti di esercitare l’azione esecutiva (o l’azione esecutiva individuale, come nel caso delle procedure “liquidative” disciplinate dagli artt. 248 e ss., d.lgs. n. 267 del 2000, c.d. TUEL; procedure che qui non mette conto di approfondire).
Negli uni e negli altri casi, la Corte Costituzionale è spesso intervenuta a “riequilibrare” il sistema, laddove lo stesso risultasse ingiustificatamente sbilanciato a vantaggio del debitore pubblica amministrazione.
Quanto ai vincoli derivanti una volta e per tutte da disposizioni di legge, si ricordano, tra le altre, le seguenti disposizioni:
- l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993, convertito con modifiche dalla l. n. 460 del 1994, o di “impignorabilità ad efficacia soggettivamente relativa” (Rossi, op. cit., 361). Ed infatti, anche sui fondi e sulle somme ex lege dichiarate impignorabili “è infatti comunque garantita la possibilità della espropriazione a tutela e per la soddisfazione di crediti qualificati dalla ragione causale della pretesa ascrivibile (...) a crediti alimentari o di mantenimento derivanti da separazione o divorzio tra i coniugi oppure ad emolumenti lato sensu retributivi (...) spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni interessate”; espropriazione che segue regole peculiari che qui non mette conto di esaminare (si rinvia, per questo, a Rossi, loc. ult. cit.);
- l’art. 6, d.l. n. 263 del 2006, che ha previsto la impignorabilità delle risorse finanziarie destinate a fronteggiare l’emergenza rifiuti in Campania;
- l’art. unico, comma 1348, l. n. 296 del 2006, che ha previsto la impignorabilità dei fondi destinati al pagamento di spese per servizi e forniture aventi finalità giudiziaria o penitenziaria, delle aperture di credito a favore di determinati Uffici pubblici, nonché dei fonti destinati al pagamento di somme liquidate ex lege n. 89 del 2001.
Su tale aspetto va segnalata la “miniriforma” della legge Pinto, attuata tramite la legge di stabilità per l’anno 2016, imposta da una pronuncia di condanna della CEDU nei confronti della Repubblica italiana (CEDU, 21 dicembre 2010, Gaglione e altri c. Italia).
Per quanto specificamente interessa le questioni relative alle modalità ed ai tempi di pagamento delle obbligazioni pecuniarie nascenti da una pronuncia ex lege Pinto, va esaminato il nuovo art. 5-sexies di tale legge introdotto dal comma 777 lett. l) della l. stabilità citata.
Si prevede (comma 1) che ciascun avente diritto inoltri all’amministrazione debitrice una “dichiarazione ai sensi degli artt. 45 e 46 d.p.r. n. 445 del 2000, attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta (...)”.
Altra novità è rappresentata dalla disposizione del quinto comma, a mente del quale “l’amministrazione effettua il pagamento entro sei mesi dalla data in cui sono integralmente assolti gli obblighi previsti ai commi precedenti. Il termine di cui al periodo precedente non inizia a decorrere in caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione ovvero della documentazione di cui ai commi precedenti”.
Quindi, il termine è di sei mesi, come rilevato dalla Corte, ma decorre dall’assolvimento dell’inedito onere di autocertificazione da parte dell’avente diritto; non sono stanziate nuove risorse per provvedere a tale pagamento (prevedendosi solo che gli stessi possano avvenire mediante anticipazioni di tesoreria con pagamento in conto sospeso).
Lasciando ad ognuno la valutazione se la norma sia rispettosa o meno dei dicta della CEDU, rileva piuttosto sottolineare che il successivo comma 7 individua una nuova disciplina di favore nell’esecuzione contro le p.a. in quanto “prima che sia decorso il termine di cui al comma 5, i creditori non possono procedere all'esecuzione forzata, alla notifica dell'atto di precetto, né proporre ricorso per l'ottemperanza del provvedimento”.
Non è chiaro come questa disposizione si coordini con l’art. 14, d.l. n. 669 del 1996: in altre parole, si tratta di stabilire se la disposizione sopra citata rappresenti la fonte disciplinare “compiuta” della esecuzione (nei riguardi dello Stato) per i crediti ex lege Pinto, dovendo la “esecuzione forzata” intendersi come il “processo esecutivo nelle forme ordinarie” (in specie per quanto attiene alla notifica del titolo – aspetto sul quale il legislatore della stabilità “tace clamorosamente” - e del precetto), ovvero se il riferimento all’esecuzione forzata vada inteso come un riferimento alle speciali forme che tale esecuzione deve assumere laddove il debitore esecutato sia una p.a. (e quindi alle forme e soprattutto ai tempi di cui all’art. 14 cit.).
Considerato quanto affermato dalla CEDU e considerato che l’amministrazione già gode ai sensi del citato art. 5-sexies di un termine adimplendi di sei mesi prima che possa iniziare l’esecuzione, sarebbe irrazionale ritenere che, in caso di infruttuoso decorso del termine per il pagamento “spontaneo” (“sollecitato” con l’inoltro dell’autocertificazione), occorra attendere un nuovo termine dilatorio, questa volta perché previsto in via generale dall’art. 14, d.l. n. 669 del 1996, alla luce della finalità di questa disposizione così come individuata dalla giurisprudenza costituzionale;
- l’art. 62, d.p.r. 24 novembre 2016, che prevede la impignorabilità dei fondi depositati sui conti correnti bancari dal DIS (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) dall’AISE (Agenzia informazioni e sicurezza esterna e dall’AISI (Agenzia informazioni e sicurezza interna);
- l’art. 6, comma 4-bis, d.l. n. 93 del 2013 (introdotto dalla l. n. 137 del 2013, di conversione del d.l. n. 120 del 2013, sul riequilibrio della finanza pubblica), che prevede l’impignorabilità dei fondi destinati all'adeguamento dei centri di identificazione ed espulsione, anche attraverso la ristrutturazione di immobili demaniali. L’eventuale pignoramento è nullo e non vi sono obblighi di accantonamento in capo al tesoriere.
Talora la legge si è spinta oltre prevedendo un divieto di azioni esecutive nei confronti dell’Ente locale: è il caso dell’art. 1, comma 51, della l. n. 220 del 2010.
Nella sua originaria formulazione la norma prevedeva che, nei confronti delle ASL operanti in Regioni che avessero adottato dei piani di rientro dai disavanzi sanitari ex lege n. 311 del 2004, non potessero essere “intraprese o proseguite azioni esecutive” (né azioni di ottemperanza ai sensi del Codice del processo amministrativo), fino al 31 dicembre 2012.
Il termine è stato più volte prorogato e, nel novellare la norma, è stato anche previsto che “i pignoramenti (...) sono estinti di diritto” e “cessano i doveri di custodia” con obbligo dei tesorieri di rendere le somme immediatamente disponibili “senza previa pronuncia giurisdizionale”.
A fronte di un orientamento secondo cui il blocco previsto dalla normativa in questione operasse solo in presenza della effettiva predisposizione da parte delle ASL dei piani di rientro (e quindi alla effettiva individuazione dei debiti e delle modalità temporali della relativa soddisfazione)[55], per altra opinione la normativa in esame si poneva tout court in contrasto con la Costituzione.
La Corte[56], investita della q.l.c. riguardante la primigenia versione della norma, operato il “trasferimento” della stessa sul testo frattanto novellato (sul rilievo che la novella avesse approfondito il vulnus ai principi costituzionali già ricollegabile alla originaria formulazione della disposizione), ha osservato che “un intervento legislativo - che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore - può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenze n. 155 del 2004 e n. 310 del 2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l'estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte (sentenze n. 277 del 2012 e n. 364 del 2007). Viceversa, la disposizione ora censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un anno, già è stata, con due provvedimenti di proroga adottati dal legislatore, differita di ulteriori due anni sino al 31 dicembre 2013, oltre a prevedere, nella attuale versione, la estinzione delle procedure esecutive iniziate e la contestuale cessazione del vincolo pignoratizio gravante sui beni bloccati ad istanza dei creditori delle aziende sanitarie ubicate nelle Regioni commissariate, con derivante e definitivo accollo, a carico degli esecutanti, della spese di esecuzione già affrontate, non prevede alcun meccanismo certo, quantomeno sotto il profilo di ordinate procedure concorsuali garantite da adeguata copertura finanziaria, in ordine alla soddisfazione delle posizioni sostanziali sottostanti ai titoli esecutivi inutilmente azionati (...). Va, altresì, considerata la circostanza che, con la disposizione censurata, il legislatore statale ha creato una fattispecie di ius singulare che determina lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco, esentando quella pubblica, di cui lo Stato risponde economicamente, dagli effetti pregiudizievoli della condanna giudiziaria, con violazione del principio della parità delle parti di cui all'art. 111 Cost.”[57].
Circa i vincoli stabiliti di volta in volta con provvedimento amministrativo va segnalata la tormentata evoluzione della normativa in materia di ASL (già USL) ed Enti locali.
Queste discipline hanno disegnato percorsi similari e, come si dirà, reciprocamente interferenti.
Quanto alle USL, l’art. 1, comma 5, d.l. n. 9 del 1993, conv. con modifiche in l. n. 67 del 1993, nel suo originario tenore letterale, prevedeva: “le somme dovute a qualsiasi titolo alle unità sanitarie locali e agli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico non sono sottoposte ad esecuzione forzata nei limiti degli importi corrispondenti agli stipendi e alle competenze comunque spettanti al personale dipendente o convenzionato, nonché nella misura dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini dell’erogazione dei servizi sanitari definiti con decreto del Ministro della Sanità di concerto con il Ministro del tesoro da emanare entro due mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.
Quanto agli Enti locali, l’art. 11, comma 1, d.l. n. 8 del 1993, conv. con modifiche in l. n. 68 del 1993, nel suo originario tenore letterale, prevedeva: “1. Non sono soggette ad esecuzione forzata le somme delle regioni, dei comuni, delle province, delle comunità montane e dei consorzi fra enti locali destinate al pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi, al pagamento delle rate dei mutui scadenti nel semestre in corso, nonché le somme specificamente destinate all'espletamento dei servizi locali indispensabili quali definiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro del tesoro, da emanarsi entro due mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, a condizione che la giunta, con deliberazione da adottarsi per ogni trimestre, quantifichi preventivamente gli importi delle somme innanzi destinate e che dall'adozione della predetta delibera la giunta non emetta mandati a titoli diversi da quelli vincolati, se non seguendo l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non soggette a fattura, della data di deliberazione di impegno da parte dell'ente” (corsivo nostro).
Dal confronto tra le due normative si evince una asimmetria per ciò che concerne le condizioni in presenza delle quali può operare il vincolo di impignorabilità: nel caso degli enti locali si prevedeva la necessaria adozione di una delibera che quantificasse gli importi destinati alle specifiche finalità indicate dalla legge e dal decreto ministeriale e che tale delibera non fosse efficace in caso di emissione di mandati di pagamento a titoli diversi da quelli vincolati, se fatta in violazione dell’ordine cronologico.
Se ne è dedotto che la normativa in materia di USL si ponesse in contrasto con l’art. 3 Cost. sia sotto il profilo della ragionevolezza che sotto il profilo della disparità di trattamento.
Dal primo punto di vista, infatti, il creditore potrebbe vedersi opposta la impignorabilità delle somme per vincolo di destinazione delle stesse al servizio sanitario anche quando il suo stesso credito sia maturato in relazione all’espletamento di una prestazione connessa a quel servizio o di altro servizio (in relazione al quale sia previsto il vincolo).
Dal secondo punto di vista, il creditore delle USL disporrebbe di una tutela deteriore rispetto a quella del creditore degli Enti locali in quanto, ai fini della insorgenza del vincolo e della relativa efficacia, rileverebbe soltanto l’adozione del decreto ministeriale richiamato dalla norma e quindi si darebbe rilievo “esterno” (sotto il profilo della opponibilità ai creditori) ad un atto privo di tale portata. Al contrario, occorre una delibera che specifichi il vincolo di destinazione con riguardo ad un determinato periodo di tempo. Diversamente opinando, la destinazione delle somme al pagamento degli stipendi ovvero all’erogazione di servizi sanitari essenziali è idonea a sottrarre le somme all’esecuzione forzata promossa dai creditori senza bisogno di esibizione di ordini specifici di pagamento e dei relativi mandati in data anteriore all’atto introduttivo del processo esecutivo.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 285 del 1995[58], ravvisando la disparità di trattamento tra le due classi di creditori (quelli delle USL e quelli degli Enti locali) ha dichiarato la incostituzionalità dell’art. 1, comma 5, d.l. n. 9 del 1993, “nella parte in cui, per l’effetto della non sottoponibilità ad esecuzione forzata delle somme destinate ai fini ivi indicati, non prevede la condizione che l’organo di amministrazione dell’unità sanitaria locale, con deliberazione da adottare ogni trimestre, quantifichi preventivamente gli importi delle somme innanzi destinate e che dall’adozione della predetta delibera non siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, se non seguendo l’ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, dalla data della deliberazione di impegno da parte dell’ente”.
Rileva segnalare che l’art. 35, comma 8, d.l. n. 66 del 2014 (conv. con modifiche in l. n. 89 del 2014) ha modificato la norma in questione (oltre che per i profili riguardanti la denominazione delle USL) aggiungendo al comma 5 il seguente periodo: “A tal fine l'organo amministrativo dei predetti enti, con deliberazione adottata per ogni trimestre, quantifica preventivamente le somme oggetto delle destinazioni previste nel primo periodo.”
Una questione del tutto simile, in quanto in una certa misura speculare a quella appena richiamata, ha riguardato l’art. 113 d.lgs. n. 77 del 1995 (come modificato dal d.lgs. n. 36 del 1996 ed oggi abrogato dal TUEL) che ha previsto, relativamente agli Enti locali, che: “2. Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio dal giudice, le somme di competenza degli enti locali di cui all'art. 1, comma 2, destinate a:
a) pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi;
b) pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso;
c) espletamento dei servizi locali indispensabili.
3. Per l'operatività dei limiti all'esecuzione forzata di cui al comma 2 occorre che l'organo esecutivo, con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata al tesoriere, quantifichi preventivamente gli importi delle somme destinate alle suddette finalità (corsivo nostro).
4. Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non determinano vincoli sulle somme né limitazioni del tesoriere.”
Con ordinanze di rimessione del Pretore di Napoli (Sezione distaccata di Pozzuoli) e del Pretore di Catania è stata messa in dubbio la legittimità costituzionale di tale normativa.
In particolare, avuto riguardo alla disciplina delle USL, come risultante a seguito della pronuncia n. 285 del 1995 della Corte Costituzionale, il creditore di un ente locale verrebbe a trovarsi in una posizione irragionevolmente deteriore rispetto a quella del creditore di una USL in quanto mentre l'ente locale esecutato potrebbe, agli effetti dell'impignorabilità (delle somme di sua pertinenza), limitarsi ad opporre al creditore procedente la delibera di quantificazione delle somme destinate ai fini indicati dal legislatore, la unità sanitaria locale sarebbe tenuta anche a provare che dalla data di detta deliberazione non sono stati emessi - a titoli diversi da quelli vincolati - mandati di pagamento se non seguendo uno specifico ordine cronologico.
Ne consegue la violazione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
Una ulteriore violazione dello stesso principio viene ravvisata dal rimettente nella rilevabilità d'ufficio della nullità, sancita dal secondo comma della disposizione denunciata, per effetto della quale il creditore di un ente locale, diversamente da quello di una unità sanitaria locale, potrebbe veder frustrata la propria pretesa esecutiva anche in mancanza di opposizione da parte del debitore esecutato.
Si osserva ancora che la ampiezza della tutela giurisdizionale del creditore potrebbe dipendere da una scelta difensiva dell’Ente esecutato: se quest’ultimo non proponga opposizione all’esecuzione per dedurre il vincolo di impignorabilità e questo sia rilevato d’ufficio dal Giudice dell’esecuzione con ordinanza dichiarativa della nullità del pignoramento, essendo in questo caso esperibile la sola opposizione agli atti esecutivi, vi sarebbe la perdita di un grado di giudizio.
Merita qualche cenno anche la difesa svolta dall’Avvocatura dello Stato.
Si rileva, in particolare, che la sentenza n. 285 del 1995 avrebbe “integrato la disciplina delle USL mediante un rinvio non recettizio alla disciplina degli Enti locali e che, pertanto, la successiva modificazione di quest’ultima si estenderebbe direttamente alla prima facendo venir meno la disparità di trattamento denunciata dal ricorrente”, poiché a fronte del rinvio mobile la norma richiamata viene assorbita da quella che la richiama non in modo “fisso” ma siccome tale norma “vive” nell’ordinamento di appartenenza.
Volendo invece intendere il rinvio operato dalla pronuncia come un rinvio recettizio ne discenderebbe una preclusione in capo al legislatore di modificare la normativa “recepita”, e ciò esulerebbe dai poteri della Corte Costituzionale.
Al riguardo la Corte Costituzionale[59] osserva: “in proposito, una precisazione appare necessaria. Secondo quanto sostenuto dall'Avvocatura dello Stato poiché la sentenza n. 285 del 1995 disporrebbe per le unità sanitarie locali un rinvio non ricettizio alla disciplina degli enti locali, la intervenuta modificazione di quest'ultima si comunicherebbe direttamente alle unità sanitarie locali eliminando in radice la stessa possibilità di una qualsiasi diversità tra le due discipline (e tra le due categorie di enti).
L'erroneità della tesi risiede nello stesso presupposto da cui muove, posto che il riferimento ad un rinvio non ricettizio asseritamente operato con la più volte citata sentenza non trova alcun conforto nella lettera e nel contenuto della stessa sentenza.
Privo di fondamento è anche l'assunto della difesa erariale della immodificabilità della disciplina delle unità sanitarie locali quale conseguenza per così dire necessitata del carattere ricettizio del rinvio. È, infatti, evidente che una sentenza di questa Corte non può in alcun caso comportare una limitazione della libertà del legislatore diversa da quella rappresentata dall'osservanza della Costituzione.
Mentre va dunque ribadita la persistente diversità di disciplina tra unità sanitarie locali ed enti locali, quel che si tratta di accertare è se tale diversità risulti o meno conforme alla Costituzione”.
Partendo da tale premessa, e cioè che le normative in materia di USL e di Enti locali sono differenti (questa volta perché la seconda implica un trattamento deteriore del creditore rispetto alla prima), la Corte Costituzionale ritiene che siffatta differenziazione sia irragionevole e quindi censurabile alla stregua dell’art. 3 Cost..
In particolare la Corte Costituzionale osserva: “in proposito, attesa la identità delle questioni affrontate, debbono essere richiamate le considerazioni svolte da questa Corte nella citata sentenza n. 285 del 1995 riguardo sia all'omogeneità delle due situazioni giuridiche (delle unità sanitarie locali e degli enti locali) poste in confronto che alla irragionevole disparità di trattamento in cui si traduce la diversità di disciplina di tali categorie di enti (e dei rispettivi creditori). La norma denunciata accordando, come si è visto, ai soli enti locali la possibilità di opporre l'impignorabilità di somme di denaro indipendentemente dalla osservanza di un determinato ordine cronologico nell'emissione di mandati a titoli diversi da quelli vincolati risulta immotivatamente diversa da quella in vigore per le unità sanitarie locali ed in quanto tale lesiva del principio costituzionale di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
Si deve, pertanto, far luogo ad una dichiarazione di incostituzionalità che, nei limiti dell'ordinanza di rimessione, riconduca la disposizione denunciata in termini corrispondenti alla disciplina prevista dall'art. 1, comma 5, del d.l. n. 9 del 1993, convertito nella legge n. 67 del 1993, come risulta a seguito della sentenza di questa Corte n. 285 del 1995”.
Ne è conseguita la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della norma censurata “nella parte in cui non prevede che l'impignorabilità delle somme destinate ai fini ivi indicati non opera qualora, dopo l'adozione da parte dell'organo esecutivo della delibera semestrale di quantificazione preventiva degli importi delle somme stesse, siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell'ente”.
Riguardo agli Enti locali va analizzata, oggi, la disciplina contenuta nell’art. 159 TUEL.
Per comodità del lettore si riporta il testo della disposizione:
“1. Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa.
2. Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio dal giudice, le somme di competenza degli enti locali destinate a:
a) pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi;
b) pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso;
c) espletamento dei servizi locali indispensabili.
3. Per l'operatività dei limiti all'esecuzione forzata di cui al comma 2 occorre che l'organo esecutivo, con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata al tesoriere, quantifichi preventivamente gli importi delle somme destinate alle suddette finalità.
4. Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non determinano vincoli sulle somme né limitazioni all'attività del tesoriere.
5. I provvedimenti adottati dai commissari nominati a seguito dell'esperimento delle procedure di cui all'art. 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e di cui all'art. 27, comma 1, n. 4, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, emanato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, devono essere muniti dell'attestazione di copertura finanziaria prevista dall'art. 151, comma 4, e non possono avere ad oggetto le somme di cui alle lettere a ), b ) e c ) del comma 2, quantificate ai sensi del comma 3.”
La disposizione rappresenta l’esito del tormentato iter normativo testé passato in rassegna.
Malgrado ciò, il legislatore aveva originariamente subordinato l’efficacia del vincolo alla sola adozione e notifica al tesoriere della delibera di impignorabilità (senza far alcun riferimento a situazioni che determinassero l’inefficacia di quel vincolo).
Di tale profilo si è occupata, ancora una volta, la Corte Costituzionale[60], che ha preliminarmente rilevato che “la norma impugnata, per la parte che interessa, riproduce, infatti, il testo dell'art. 113 del d.lgs. n. 77 del 1995 che, come si è ricordato, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 69 del 1998”, con la conseguenza “che le medesime considerazioni si ripropongono con riferimento alla disciplina ora impugnata”.
Fatta tale premessa, la Corte ha evidenziato che, nella citata sentenza del 1998, “[si] ebbe (...) ad osservare che, stante la omogeneità delle situazioni giuridiche riferibili, rispettivamente, alle unità sanitarie locali ed agli enti locali, del tutto irragionevole risultava la disparità di trattamento della disciplina censurata nella parte in cui disponeva la impignorabilità delle somme di danaro destinate alla realizzazione degli scopi essenziali degli enti locali senza condizionarla, in conformità a quanto previsto per le unità sanitarie locali, alla inesistenza di pagamenti c.d. preferenziali e cioè effettuati da tali enti senza l'osservanza di un determinato ordine cronologico”.
Ne è conseguita, pertanto, “una dichiarazione di incostituzionalità della disposizione denunciata negli stessi termini di cui alla citata sentenza n. 69 del 1998”[61].
Ciò detto, è indispensabile chiarire:
a) quando si perfeziona il vincolo di impignorabilità e da quando esso è opponibile ai creditori;
b) quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo;
c) come sia ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità.
Riguardo alla questione sub a), due sono le tesi che si contendono il campo (ed è bene notare, sin da ora, che la condivisione dell’una o dell’altra importa conseguenza applicative di rilievo):
i) una parte della dottrina[62], ha ritenuto che il perfezionamento del vincolo è subordinato ad una duplice condizione.
Segnatamente:
1) una condizione positiva, consistente nella adozione di una delibera di quantificazione;
2) una condizione negativa, consistente nella mancata emissione di mandati di pagamento a titolo diverso violativi dell’ordine cronologico dei pagamenti.
ii) per altra parte della dottrina[63] e per la giurisprudenza[64], invece, l’adozione della delibera implica di per sé la nascita del vincolo mentre la emissione di mandati di pagamento a titolo diverso in violazione dell’ordine cronologico delle fatture rileva come circostanza (peraltro eventuale) che incide su un vincolo già perfetto.
Diversamente opinando, il perfezionamento del vincolo di impignorabilità sarebbe “in continuo, mutevole divenire e privo di una sua collocazione temporale precisa occorrendo a questo scopo sempre verificare per tutto il tempo successivo all’approvazione della delibera (fatto positivo) la mancata emissione di un mandato siffatto (fatto negativo)”[65].
In sintesi:
1) l’adozione della delibera è sufficiente ai fini del perfezionamento del vincolo. Il diverso e successivo momento della notifica al tesoriere incide solo sui “rapporti interni” tra questo e l’ente debitore, in quanto solo dalla notifica della delibera di impignorabilità il tesoriere è tenuto a “bloccare” le somme indicate in tale delibera (e può operare, anche prima della declaratoria giudiziaria della nullità del pignoramento come se lo stesso non fosse avvenuto: v. il comma 4 e le considerazioni in relazione allo stesso svolte infra);
2) l’emissione di mandati di pagamento a titolo diverso è fatto estintivo del vincolo;
3) il rispetto dell’ordine cronologico dei pagamenti per titoli diversi rappresenta un fatto impeditivo del dispiegarsi dell’effetto estintivo connesso all’emissione dei mandati di pagamento a titolo diverso.
Discussa è anche la questione della opponibilità del vincolo, che:
i) per una prima impostazione è collegata all’adozione della delibera in data anteriore alla fornitura, da parte del terzo, della dichiarazione di quantità.
Se quindi la delibera viene emanata dopo la notifica del pignoramento, ma prima della dichiarazione di quantità, il vincolo dalla prima derivante sarebbe opponibile al creditore.
Questa soluzione è stata seguita da una isolata pronuncia della Corte di Cassazione[66];
ii) per altra impostazione – che muove da una diversa ricostruzione della fattispecie del pignoramento presso terzi e, su un piano pratico, dalla motivata preoccupazione che, a seguire l’orientamento sub i), si darebbe agli Enti locali una facile scappatoia per sottrarsi all’esecuzione (già) promossa nei loro riguardi – è opponibile al creditore solo quella delibera che sia stata adottata e munita di efficacia in data anteriore alla notifica del pignoramento[67].
È questa la soluzione preferibile.
Si ritiene che, da questo momento, il vincolo di impignorabilità operi nei riguardi di tutti i creditori e cioè, in ipotesi, anche il creditore che vanti un diritto collegato ad uno dei “titoli” di cui all’art. 159, comma 2, TUEL (ovvero ad esempio un credito di lavoro o un credito collegato all’espletamento di prestazioni connesse ad un servizio pubblico indispensabile).
A fronte di chi invoca la necessità di un intervento della Consulta[68], si colloca la posizione di quella dottrina[69] che (sebbene con riferimento – quanto agli enti locali - al quadro normativo previgente, ma il discorso è valido anche con riferimento alle norme conferenti del TUEL) ha rilevato che “non è inopportuno ricordare che, tra diverse possibili interpretazioni, l’interprete è tenuto ad accogliere quella più aderente ai principi deducibili dalla Costituzione, mentre il rilievo della illegittimità costituzionale costituisce l’ultima ratio alla quale occorre fare ricorso, quando né l’interpretazione letterale né quella storica e sistematica si rivelano idonee a conciliare la norma con i valori fondamentali dell’ordinamento”.
Si impone così una lettura costituzionalmente orientata alla cui stregua “le limitazioni alla garanzia patrimoniale ed i vincoli di indisponibilità non sono opponibili al personale dipendente o convenzionato e a coloro che vantano crediti relativi alla erogazione dei servizi sanitari, per i quali la USL ha vincolato specifici fondi”.
Riguardo alla questione prospettata supra sub b) [quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo], si registrano opinioni divergenti:
i) secondo una tesi che sembra minoritaria (ma v. quanto notato infra) “nell’espropriazione forzata presso terzi, l'eccezione che il credito verso il terzo non è assoggettabile ad esecuzione forzata costituisce motivo di opposizione agli atti esecutivi e non di opposizione all'esecuzione, trattandosi di contestazione attinente non al diritto di procedere ad esecuzione forzata, ma alla procedibilità di questa, ed alla stessa qualificazione occorre pervenire quando l'eccezione riguardi il fatto che la dichiarazione resa dal terzo sia inficiata da errori, o che la somma da assegnare non sia stata determinata correttamente. Tali principi valgono anche quando il debitore (come nella fattispecie) sia un ente locale che si sia avvalso del potere di destinare a finalità specifiche le somme di sua competenza nei limiti indicati dall'art. 113 del d.lg. n. 77 del 1995 (modificato dall'art. 39 del d.lg. n. 336 del 1996 e riprodotto nell'art. 159, comma 2, del d.lg. n. 267 del 2000), con la conseguenza che le contestazioni con le quali, sotto profili diversi, l'ente locale fa valere ragioni concernenti il rispetto delle procedure di imposizione del vincolo di indisponibilità sulle predette somme, comportante l'impignorabilità delle stesse ad opera di terzi creditori, configurano motivi di opposizione agli atti esecutivi”[70];
ii) è invece più diffusa sia in dottrina[71] che in giurisprudenza[72] l’idea che una simile contestazione debba svolgersi nelle forme dell’opposizione all’esecuzione in quanto attinente alla “pignorabilità” dei beni aggrediti;
iii) per altra impostazione – a quanto consta del tutto minoritaria – “i vincoli di indisponibilità (...) e le limitazioni alla garanzia patrimoniale (...) qualora siano opposti dal terzo tesoriere e contestati dal creditore sono destinati ad essere accertati esclusivamente nell’ambito del giudizio previsto dall’art. 548 c.p.c.”[73].
Quest’ultima impostazione è criticata:
- in modo drastico da chi osserva che “contrariamente a quanto affermato talvolta da alcuni giudici dell’esecuzione deve escludersi che [una simile contestazione, n.d.s.] comporti una contestazione in merito alla dichiarazione di quantità tale da giustificare l’instaurazione di un giudizio dell’obbligo del terzo. A tale giudizio potrà farsi luogo esclusivamente nel caso in cui il creditore non contesti l’operatività del vincolo, ma il contenuto della dichiarazione di quantità, sostenendo, ad esempio, che contrariamente a quanto dichiarato dal terzo esistono disponibilità di fondi in misura superiore a quella degli importi vincolati”[74];
- in modo più argomentato da chi[75]:
1) in primo luogo valorizza i poteri officiosi del Giudice della esecuzione che, in sintesi, troverebbero ragion d’essere nella particolare rilevanza degli interessi sottesi alla apposizione del vincolo di indisponibilità. In specie, nell’esercizio di tali poteri, il Giudice dell’esecuzione potrebbe, anche dopo la fornitura da parte del terzo di “chiarimenti”, dichiarare con ordinanza la improcedibilità ovvero la estinzione. In questo caso l’ordinanza resa dal G.E. potrebbe essere gravata attraverso opposizione agli atti esecutivi[76];
2) e in secondo luogo osserva che, laddove il G.E., utilizzando il proprio potere officioso, risolva in senso sfavorevole al debitore questioni che potevano essere trattate in sede di opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 2, c.p.c., lo strumento di tutela che compete al debitore esecutato sarebbe, pur sempre, quello della opposizione all’esecuzione in quanto “si rimane nell’ambito della contestazione di procedere all’esecuzione forzata o della pignorabilità dei beni”[77].
In disparte quanto previsto dall’art. 548 c.p.c. (che si riferisce ad ipotesi diverse da quella qui passata in rassegna), va però richiamato il diverso orientamento della Corte di Cassazione secondo cui il sindacato sulla legittimità dell’ordinanza resa dal G.E. che statuisca sulla impignorabilità ex art. 159 TUEL si attua in ogni caso – e cioè anche quando, a fronte del mancato rilievo officioso, l’opposizione provenga dal debitore – nelle forme dell’opposizione agli atti esecutivi: specificamente, il debitore utilizzerà questo strumento per impugnare l’ordinanza di assegnazione (per esempio deducendo il mancato esercizio del potere di rilievo officioso della impignorabilità delle somme), mentre il creditore utilizzerà lo stesso strumento per impugnare l’ordinanza che – sul rilievo del carattere impignorabile delle somme staggite – statuisca nel senso della improcedibilità o della estinzione della procedura[78].
Questa impostazione è criticata dalla dottrina in commento sulla scorta di argomenti di natura sistematica “ed appare, se paragonata all’altra soluzione, improntata ad un minor rigore formale: mal si comprende, infatti, come la questione di impignorabilità possa subire una sorta di mutazione genetica se fatta valere dopo la pronuncia del G.E., divenendo da motivo (...) di opposizione all’esecuzione ragione di opposizione agli atti esecutivi, con perdita ‘secca’ di un grado di giudizio[79].
Ebbene, la tesi secondo cui le contestazioni relative alla esistenza ed alla latitudine di un vincolo di impignorabilità potrebbero trovare collocazione nell’ambito dell’accertamento (oggi endoesecutivo) dell’obbligo del terzo, allo stato del tutto minoritaria - merita, forse, di essere riconsiderata.
Va infatti rilevato – pur nella piena consapevolezza che altro sono le contestazioni rientranti nella disciplina dell’art. 615, comma 2, c.p.c. ed altro le contestazioni sulla dichiarazione che possono dar luogo ad un accertamento del (contestato) rapporto tra debitore e terzo - che:
- le modifiche intervenute negli ultimi anni sono nel senso di individuare dei casi in cui il G.E. “conosce per eseguire” e probabilmente non è casuale, se si tiene conto di quanto ritenuto da Cass. 16 settembre 2008, n. 23727, che l’ultima modifica dell’art. 549 c.p.c. vada proprio nel senso di prevedere che l’ordinanza con cui il Giudice dell’esecuzione chiude il giudizio endoesecutivo di accertamento sommario dell’obbligo del terzo sia impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’art. 617 c.p.c.;
- il confine tra i casi in cui il debitore contesti tout court che le somme sono impignorabili (nel qual caso dovrebbe, stando alla tesi di cui sopra, esperire l’opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c.) e i casi in cui si contesti una “inesattezza” della dichiarazione, nel punto in cui sono additate come “libere da vincoli” somme che non sono tali (nel qual caso, trattandosi di definire innanzitutto l’ammontare esatto della disponibilità dell’Ente presso il tesoriere, si verte nella materia disciplinata dall’art. 549 c.p.c.) può in concreto rivelarsi labile ed incerto;
- la tutela offerta dall’art. 615, comma 2, c.p.c. può dimostrarsi meno efficace di quella offerta (nell’ipotesi in cui si condividesse la conclusione in esame) dall’art. 549 c.p.c.. Ed infatti, in un caso (e sempre che non sia intervenuta l’ordinanza di assegnazione), il debitore potrebbe ottenere la sospensione della procedura e non - a rigore (e salvo l’intervento officioso del Giudice) – la liberazione delle somme pignorate; ciò che invece ben può accadere all’esito del giudizio sommario di accertamento (nell’ambito del quale la rilevabilità officiosa dei vincoli resta ammessa), laddove il G.E. si risolva nel senso della indisponibilità delle somme.
Oltretutto, aderendo a questa impostazione, il rimedio offerto dall’ordinamento sarebbe il medesimo sia che lo invochi il creditore (ad esempio deducendo la inefficacia in parte qua della delibera di impignorabilità) sia che lo invochi il debitore e, ancora, sarebbe lo stesso il rimedio “impugnatorio” concesso avverso l’ordinanza emanata dal G.E. all’esito dell’accertamento endoesecutivo.
Il che potrebbe indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso creare, con riferimento alle questioni relative alla “impignorabilità” siccome evincibile dalla dichiarazione di quantità o comunque ad essa connessa, un mini-sistema che vive di regole proprie e parzialmente diverse rispetto a quelle generali in tema di opposizioni.
Riguardo alla questione sub c) [ripartizione dell’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità], si sono susseguiti diversi orientamenti:
i) l’orientamento più risalente[80] addossava l’onere della prova al creditore[81];
ii) più di recente, invece, in ossequio al principio di vicinanza dell’onere della prova, la giurisprudenza ha ritenuto che il creditore procedente che intenda far valere l'inefficacia del vincolo di destinazione ha “l’onere di allegare gli specifici pagamenti per debiti estranei eseguiti successivamente alla delibera, mentre, in base al principio della vicinanza della prova, spetta all’Ente locale provare che tali pagamenti sono stati eseguiti in base a mandati emessi nel rispetto del dovuto ordine cronologico”[82];
iii) da ultimo, peraltro, la giurisprudenza ha fornito un notevole contributo al fine di individuare le condizioni ricorrendo le quali si può dire che il creditore abbia soddisfatto l’onere di allegazione su di lui gravante.
In una perspicua pronuncia, la S.C., condividendo l’impostazione di fondo della giurisprudenza sub ii), ha precisato che il creditore assolve l’onere della prova incombente su di lui adducendo “numerose circostanze di fatto”[83] dalle quali sia desumibile “il sospetto” (così testualmente) della sussistenza dell'indicata condizione preclusiva (ossia la violazione dell’ordine cronologico dei pagamenti), mentre è stato, per altro verso, precisato che tale allegazione non è validamente contrastata dalla produzione di una mera certificazione proveniente da uno degli organi o uffici dell'ente, in quanto, nel processo civile, salvo specifiche eccezioni previste dalla legge, nessuno può formare prove a proprio favore, tanto più che il giudice, specie a fronte dell'impossibilità per il creditore di fornire ulteriore prova, può disporre consulenza tecnica di ufficio[84].
Siffatto orientamento appare maggiormente in linea con una ricostruzione della vicenda (relativa alla operatività ed alla eventuale inefficacia dei vincoli ex art. 159 TUEL) secondo cui:
a) l’adozione ad opera degli organi esecutivi dell’ente pubblico di una delibera periodica di quantificazione degli importi necessari ai fini ex lege previsti rappresenta il fatto costitutivo del vincolo di indisponibilità;
b) l’emissione di mandati di pagamento per titoli diversi o estranei agli impieghi protetti integra un fatto estintivo degli effetti del vincolo e, pertanto, secondo il parametro di cui all’art. 2697 c.c., riferibile al creditore procedente;
c) il rispetto dell’ordine cronologico da seguire per l’effettuazione dei pagamenti dei titoli diversi va qualificato come fatto impeditivo dell’operare della vicenda estintiva del vincolo di cui alla lett. b), quindi una circostanza ascrivibile senz’altro all’Ente esecutato[85].
Discende da quanto sopra, tenuto conto del principio della vicinanza della prova (costantemente affermato in giurisprudenza non solo con riguardo alla materia di cui si tratta), che:
i) l’avvenuta emanazione del vincolo in maniera opponibile al ceto creditorio della delibera di quantificazione delle somme deve essere allegata ed asseverata dall’Ente locale che ne assume l’esistenza. Al riguardo, è appena il caso di precisare che è inopponibile ai creditori soltanto la delibera di quantificazione degli importi vincolati ex art. 159 TUEL adottata e munita di efficacia in data successiva all’ingiunzione formulata all’ente debitore con la notifica dell’atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c.[86];
ii) il creditore procedente, al fine di ottenere la declaratoria di inefficacia della delibera di destinazione delle somme nei suoi confronti, è tenuto ad allegare (ma non già dimostrare) l’emissione di mandati di pagamento per debiti estranei alle finalità protette. All’uopo la allegazione non può essere generica ma va compiuta in modo specifico con l’esplicitazione degli elementi determinanti per rendere inoperante il vincolo di indisponibilità (elementi che devono essere plurimi): epoca del pagamento (successivo alla delibera di impignorabilità), sua giustificazione causale (ascrivibile a prestazioni esulanti dal novero dei servizi essenziali e quindi comportanti l’impiego di somme per scopi diversi dalla destinazione impressa con la delibera);
iii) laddove il creditore assolva all’onere impostogli, ricade sull’Ente esecutato che voglia giovarsi del vincolo di impignorabilità provare che il pagamento ex adverso dedotto è stato eseguito per servizi indispensabili vincolati con la delibera; oppure provare la corrispondenza cronologica dei mandati emessi per titoli diversi da quelli vincolati all’ordine delle fatture pervenute per il pagamento ovvero, quanto non sia prescritta fattura, alla sequenza temporale delle deliberazioni di impegno di spesa.
Si discute circa i poteri istruttori del Giudice dell’esecuzione (a prescindere dalla questione di quale sia la sede in cui gli stessi sono esercitati: v. supra) al fine di accertare l’esistenza o (soprattutto) l’efficacia di un vincolo di indisponibilità ex art. 159 TUEL (ma il discorso vale tal quale anche per le ASL).
A parte il potere di richiedere “chiarimenti” al terzo, attesa la sua funzione di ausiliario del Giudice[87], risulta, in specie, problematica l’ammissibilità di un ordine di esibizione rivolto all’Ente esecutato con riferimento alle determine (prodromiche ai mandati di pagamento) asseritamente adottate in violazione della delibera di impignorabilità, laddove prevedano impegni di spesa per finalità estranee a quelle contemplate nella delibera di impignorabilità medesima senza tener conto dell’ordine cronologico che è viceversa doveroso osservare[88].
Va data contezza, infine, di una questione interpretativa che non risulta particolarmente approfondita in dottrina e trattata dalla giurisprudenza: quella del coordinamento tra il comma 2 ed il comma 4 dell’art. 159 TUEL.
Mentre il comma 2, come detto, prevede la nullità “rilevabile d’ufficio” del pignoramento che interessi somme vincolate con delibera, il comma 4 prevede che “le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non determinano vincoli sulle somme né limitazioni all'attività del tesoriere”.
Per come è formulata, la disposizione da ultimo menzionata sembrerebbe disciplinare una ipotesi di nullità (o comunque di assoluta inefficacia) ex lege del pignoramento effettuato su somme vincolate con delibera, al punto che il tesoriere può prescindere da tale pignoramento ai fini della successiva attività di gestione dei flussi di cassa.
Ebbene, se così fosse, è difficile fornire una spiegazione razionale della previsione di un potere officioso teso alla declaratoria della nullità, l’inefficacia del pignoramento discendendo (ai sensi del comma 4) direttamente dalla legge e senza necessità di alcun intervento giudiziale.
È però preferibile ritenere che la disposizione – che certo non brilla per chiarezza di locuzione – sia diretta solo ad escludere la responsabilità del tesoriere che, pur prescindendo dalla (ed anzi prima della) pronuncia giudiziale, consideri il pignoramento tamquam non esset.
Altrimenti detto, il comma 2 è immediatamente rivolto alla tutela dell’attività di rilievo pubblicistico dell’ente esecutato, quando attinente ai servizi essenziali ivi indicati (fermo restando quanto detto supra ai fini dell’operatività del vincolo); il comma 4 attiene, invece, alle responsabilità del tesoriere in epoca successiva alla notifica della delibera di impignorabilità (ma anteriore alla declaratoria di nullità), al fine di escludere gli obblighi di custodia.
Il legislatore ha poi sperimentato delle misure più drastiche che, pur nella diversità delle singole disposizioni che le prevedono, possiamo raggruppare sotto la dizione “gestioni liquidative”.
Il legislatore prevede la “sostituzione” dell’ente pubblico debitore al quale quindi era consentita la prosecuzione della propria attività istituzionale, mentre la liquidazione dei creditori è demandata ad altri soggetti.
Anche in questo caso la normativa conferente è confusionaria e di difficile lettura.
Quest’ultima, inoltre, ha dato luogo a dei significativi interventi della Corte Costituzionale.
La procedura c.d. di dissesto degli Enti locali è stata inizialmente disciplinata dagli artt. 24 e 25, d.l. n. 66 del 1989.
A mente dell’art. 24 (che si riporta nella parte che qui specificamente interessa):
“5. L'ente è tenuto a convenire con i creditori, con atti formali, il piano di rateizzazione, che deve trovare corrispondenza con quello approvato dal consiglio. L'ente è tenuto ogni anno a stanziare in bilancio i relativi importi. A garanzia dei creditori i contributi erariali ordinari e perequativi hanno vincolo di destinazione per il corrispondente valore annuo e non possono essere distolti per altro titolo.
6. La richiesta del comune, dell'amministrazione provinciale e della comunità montana per convenire con i creditori la rateizzazione comporta la sospensione della procedura esecutiva eventualmente intrapresa, per il periodo di non meno di tre e non più di sei mesi, sospensione che deve essere disposta dal giudice competente adito”.
Secondo l’art. 25 (che pure si riporta nella parte che qui specificamente interessa):
“1. Le amministrazioni provinciali ed i comuni che si trovano in condizioni tali da non poter garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi primari, sono tenuti ad approvare, con deliberazione dei rispettivi consigli, il piano di risanamento finanziario per provvedere alla copertura delle passività già esistenti e per assicurare in via permanente condizioni di equilibrio della gestione.
[...]
10. Dalla deliberazione del piano di risanamento e fino alla emissione del decreto di approvazione del piano stesso, sono sospesi i termini per la deliberazione del bilancio. Nelle more, possono essere disposti impegni solo per le spese espressamente previste dalla legge. La deliberazione del piano di risanamento sospende altresì le azioni esecutive dei creditori dell'ente”.
In un primo momento, quindi, la normativa prevedeva la semplice sospensione delle azioni esecutive intraprese nei riguardi dell’ente.
Questa misura si rivelò però inidonea a consentire agli enti esecutati di sanare il disavanzo, visto che gli stessi non recuperavano la disponibilità delle somme pignorate.
Per ovviare a questo inconveniente, già l’art. 12-bis, d.l. n. 6 del 1991 aveva previsto, al comma 6 (introdotto dalla legge di conversione n. 80 del 1991), quanto segue: “6. La sospensione delle procedure esecutive stabilite al comma 6 dell'art. 24 ed al comma 10 dell'art. 25 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, a seguito di richiesta di rateizzazione dei debiti fuori bilancio o di procedura di dissesto, comporta la liberazione delle somme delle quali si sia chiesto il sequestro e l'obbligo per gli enti di provvedere con le risorse reperite a norma dell'art. 1-bis del decreto-legge 1° luglio 1986, n. 318, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 1986, n. 488”.
Successivamente, l’art. 21, d.l. n. 8 del 1993 ha previsto la estinzione delle procedure con liberazione delle somme pignorate.
Rilevano, in particolare, le disposizioni contenute nei commi 1 e 3 della citata disposizione (come modificate in sede di conversione):
“1. La deliberazione di dissesto di cui all'art. 25 del decreto-legge n. 66 del 1989, deve essere obbligatoriamente adottata dal consiglio dell'ente locale ogni qualvolta non può essere garantito l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti dell'ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi ai quali non sia stato fatto validamente fronte, nei termini, con i mezzi indicati all'art. 24 dal predetto decreto-legge n. 66 del 1989 e successive modificazioni ed integrazioni, ovvero non possa farsi fronte con le modalità previste all'art. 1- bis del decreto-legge 1° luglio 1986, n. 318, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 1986, n. 488. L'omissione integra l'ipotesi di cui all'art. 39, comma 1, lettera a), della legge n. 142 del 1990, con l'applicazione prioritaria della procedura di cui al comma 2 del medesimo art. 39. L'obbligo di deliberazione dello stato di dissesto si estende, ove ne ricorrano le condizioni, al commissario comunque nominato ai sensi del comma 3 del citato art. 39 della legge n. 142 del 1990. La deliberazione non è revocabile e può essere adottata solo se non è stato deliberato il bilancio per l'esercizio relativo. La deliberazione è pubblicata per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana”.
[...]
“3. Il commissario o la commissione, di cui al comma 2, provvedono all'accertamento della situazione debitoria a norma di legge e propongono il piano di estinzione. La commissione di ricerca per la finanza locale cura l'istruttoria del piano, proponendone l'approvazione, con eventuali modifiche o integrazioni, al Ministro dell'interno che vi provvede con proprio decreto. In deroga ad ogni altra disposizione, dalla data di deliberazione di dissesto i debiti insoluti non producono più interessi, rivalutazioni monetarie od altro, sono dichiarate estinte dal giudice, previa liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese, le procedure esecutive pendenti e non possono essere promosse nuove azioni esecutive. Il commissario o la commissione individuano l'attivo della liquidazione, accertando i residui da riscuotere, i ratei di mutuo disponibili ed ogni attività non indispensabile da alienare. Il commissario o la commissione hanno titolo ad acquisire entrate relative alla gestione pregressa e ad alienare beni senza alcuna autorizzazione. All'attivo della liquidazione lo Stato concorre con il ricavato di un mutuo -- da assumere in unica soluzione con la Cassa depositi e prestiti dal commissario o dalla commissione, a nome dell'ente locale -- il cui ammontare non può comunque superare l'importo mutuabile determinato sulla base di una rata di ammortamento pari alle quote del fondo investimenti rimaste accantonate a favore dell'ente locale incrementate di un contributo statale. Detto contributo -- finanziato con il fondo di cui all'art. 4, comma 1, lettere b ) e c ) -- è determinato nell'importo massimo pari a cinque volte la rispettiva quota capitaria stabilita per gli enti dissestati dal citato art. 4. Il commissario o la commissione hanno titolo a transigere vertenze in atto o pretese in corso. I debiti vengono liquidati, a cura del commissario o della commissione, nei limiti della massa attiva disponibile, entro i sei mesi successivi all'acquisizione del mutuo. Entro il termine di un anno dall'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministero dell'interno, il commissario o la commissione sono tenuti a deliberare il rendiconto della gestione, che è sottoposto all'esame del comitato regionale di controllo. Dopo l'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministro dell'interno non sono ammesse ulteriori richieste di crediti di data anteriore alla decisione del comitato stesso. L'organo di revisione dell'ente locale ha competenza sul riscontro della liquidazione”.
La normativa sopra citata ha subito, nel corso degli anni ’90, numerosi rimaneggiamenti.
In primo luogo, vi è stata l’abrogazione per effetto dell’art. 123, d.lgs. n. 77 del 1995: 1) dell’art. 25, d.l. n. 66 del 1989; 2) del comma 6 dell’art. 12-bis del d.l. n. 6 del 1991; 3) dell’art. 21 del d.l. n. 8 del 1993.
In secondo luogo, questo stesso provvedimento normativo ha posto una nuova disciplina che poi è stata sostanzialmente trasfusa negli artt. 248 e ss. TUEL.
Tralasciando la normativa che ha inciso, dopo il TUEL, sull’attuazione, dal punto di vista finanziario, delle sopraesposte disposizioni, è stato rilevato che “da un divieto assoluto e generalizzato di nuove procedure esecutive nei confronti dell’ente dissestato si è passati al divieto di proseguire o intraprendere esecuzioni individuali limitato ai debiti rientranti nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione”[89].
La normativa passata in rassegna ed in specie quella degli anni ’90 è stata oggetto – come anticipato - di rilevanti pronunce della Corte Costituzionale: tuttavia, l’impianto motivazionale di queste pronunce può essere tenuto presente anche nella lettura delle disposizioni del TUEL:
i) Corte Cost., 21 aprile 1994, n. 149[90];
ii) Corte Cost., 21 aprile 1994, n. 155[91];
iii) Corte Cost., 16 giugno 1994, n. 242 (relativa specificamente al “blocco degli interessi”)[92].
Nella prima occasione la Corte ha ritenuto che “l'arresto della procedura esecutiva individuale (che conseguentemente si estingue) non vulnera i parametri costituzionali evocati (e soprattutto gli artt. 24 e 113 Cost.) perché - essendo previsto in favore dell'accesso ad una procedura di liquidazione che ha i tratti essenziali di una procedura concorsuale - sussiste comunque il controllo giurisdizionale della legittimità di ogni suo atto; mentre - come già si è detto - in questa sede non rilevano, ai fini della valutazione della costituzionalità della disposizione che il giudice rimettente è chiamato ad applicare, i profili differenziali di disciplina rispetto alle altre procedure concorsuali”.
È stato poi ulteriormente specificato che la previsione di una gestione liquidativa a carattere amministrativo “non significa negazione della giustiziabilità delle posizioni soggettive versate nella procedura di liquidazione e non comporta vulnerazione di quel supremo principio dell’ordinamento costituzionale (...) che è il diritto alla tutela giurisdizionale” (Corte Cost., 21 aprile 1994, n. 155).
Vero è che la Corte non ha individuato gli strumenti di tutela dei crediti nell’ambito della procedura concorsuale amministrativa: “l’arresto della procedura esecutiva individuale (...) non vulnera i parametri costituzionali (...) perché - essendo previsto in favore di una procedura di liquidazione che ha i tratti essenziali di una procedura concorsuale - sussiste comunque il controllo giurisdizionale della legittimità di ogni suo atto”; “la mancata menzione di specifici mezzi processuali di tutela - (...) - potrà - (...) - in ipotesi rilevare, al fine di attivare la verifica di costituzionalità di tale tutela differenziata e in tesi limitata alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo” (Corte Cost., 21 aprile 1994, n. 155, richiamata in parte qua da Corte Cost., 16 giugno 1994, n. 242).
Si segnala ancora la recente introduzione degli artt. 243-bis e ss. TUEL relativi alla “procedura di riequilibrio finanziario” cui possono accedere (comma 1) “i comuni e le province per i quali, anche in considerazione delle pronunce delle competenti sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci degli enti, sussistano squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario, nel caso in cui le misure di cui agli articoli 193 e 194 non siano sufficienti a superare le condizioni di squilibrio rilevate”.
Il successivo comma 4 prevede: Le procedure esecutive intraprese nei confronti dell'ente sono sospese dalla data di deliberazione di ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale fino alla data di approvazione o di diniego di approvazione del piano di riequilibrio pluriennale di cui all'articolo 243-quater, commi 1 e 3.
* Il presente contributo costituisce lo sviluppo di una riflessione avviata in occasione della relazione dal titolo “L’esecuzione nei confronti della pubblica amministrazione” tenuta nell’ambito del Corso di formazione “Il pignoramento presso terzi e l’esecuzione esattoriale”, organizzato dalla Scuola Superiore della magistratura nel marzo 2016.
** Giudice presso il Tribunale di Napoli Nord in Aversa e dottore di ricerca in Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II.
[1] Rossi, L’espropriazione presso terzi di crediti e di cose della pubblica amministrazione, in Auletta F., Espropriazione presso terzi, Bologna, 2011, 259 e ss.
[2] Falzone, Le obbligazioni dello Stato, Milano, 1960, 406; in dottrina, sul tema v. inoltre Amorth, Fondamento e limiti delle sentenze di condanna contro la pubblica amministrazione, in FL, 1937; Malenotti, In tema di limiti della giurisdizione ordinaria nei confronti della p.a., in GI, 1955; Montesano, La condanna nel processo civile, anche tra privati e p.a., Napoli, 1957; Id., Processo civile e p.a., Napoli, 1960; in giurisprudenza, sulle pronunce adottabili dal GO in considerazione delle limitazioni poste dagli artt. 4 e 5 LAC, v.: Cass. 19 luglio 1965, n. 1628, in Foro it., 1966, I, 561 del 1965; Cass. 3 marzo 1970, n. 504, in Giust. Civ., 1970, I, 682.
[3] Falzone, loc. ult. cit.; d’altro canto, va sottolineato che i tradizionali orientamenti limitativi con riguardo alle pronunce ammissibili - beninteso al di fuori dell’ambito delle già ammesse sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro: si pensi alla materia possessoria – hanno subito, già da tempo, un forte ridimensionamento con riguardo ai casi in cui la p.a. agisca iure privatorum o sine titulo. Lo ricorda Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, II, 1246; in giurisprudenza v. Cass. 10 marzo 1965, n. 395, in Giust. Civ., 1965, I, 2318; Cass. 17 ottobre 1977, n. 4423, in Foro it., 1977, I, 2420.
[4] Cass. 12 maggio 1971, n. 1352, in Rep. Foro it., 1971, voce “Comune”.
[5] Cass. 12.5.1971, n. 1352, cit.; il principio suesposto verrà superato da Cass. 8.11.1983, n. 6597, in Foro it., 1984, I, 462.
[6] Sentenza 9 marzo 1973, n. 1, in Foro it., 1973, 7-8, 225 e ss..
[7] Anche se in questa sede si vogliono specificamente analizzare le tecniche di tutela esecutiva nei confronti della p.a. sperimentabili innanzi al GO, non sembra un fuor d’opera ripercorrere la ratio decidendi della citata pronuncia della Plenaria, dacché la stessa contiene una serie di interessanti spunti di riflessione, per molti versi ancora attuali. La sentenza in questione è idealmente scindibile in tre parti: A) la ricostruzione storica del quadro ordinamentale, ove il Collegio si sofferma a sottolineare che il rimedio dell’ottemperanza nasce con specifico riferimento all’esigenza di dare esecuzione alle pronunce dell’Autorità giudiziaria ordinaria che avessero, incidentalmente, disapplicato provvedimenti amministrativi illegittimi. Siccome, infatti, la LAC prevedeva un “divieto di repressione dell’Autorità giudiziaria ordinaria” la previsione del rimedio in esame servì a completare “il sistema delineato dalla legge abolitiva del contenzioso predisponendo gli strumenti per rendere coercibile l’obbligo di ‘conformarsi al giudicato’, obbligo precedentemente lasciato dalla legge del 1865 senza la previsione di strumenti coattivi per il suo adempimento”; B) la individuazione degli orientamenti interpretativi riguardo all’ambito applicativo del rimedio in esame. L’orientamento prevalente al tempo in cui si è pronunciata la Plenaria era nel senso di circoscrivere l’ambito applicativo dell’azione di ottemperanza alla esecuzione di decisioni che importassero l’adozione di provvedimenti autoritativi da parte della p.a., essendo del tutto precluso al GO muoversi in un ambito coperto, vista la sussistenza di poteri discrezionali, dalla riserva di amministrazione. Con riferimento alle pronunce di “mera” condanna, trattandosi di attuare un obbligo adempitivo, non involgente l’adozione di atti autoritativi ma solo attività materiali o l’adozione di meri atti, si riteneva ultroneo il rimedio in esame. Tuttavia, la Plenaria ritiene di rivedere l’orientamento della giurisprudenza amministrativa prevalente, rilevando che, tanto nell’uno quanto nell’altro caso, si tratta pur sempre di procurare l’attuazione di una decisione giudiziaria rimasta ineseguita da parte dell’amministrazione. La circostanza che tale obbligo sia coercibile anche nelle forme del processo esecutivo innanzi al GO non esclude la utilità dell’ottemperanza, che si pone con il primo in rapporto di concorrenza e non di alternatività. Oltre che alla luce dell’evoluzione del sistema, la Plenaria deduce la soluzione positiva da un preciso dato normativo: la legge istitutiva dei Tar ha infatti previsto la possibilità per il GA di condannare la p.a. al pagamento di somme di denaro (beninteso in materia di diritti rimessi alla propria giurisdizione esclusiva) e, contestualmente, ha esteso il rimedio dell’ottemperanza – sorto, si ripete, per consentire l’attuazione delle sole decisioni del GO – a quelle rese dai Tar e dal Consiglio di Stato. Tra queste, chiaramente, sono comprese le pronunce recanti la condanna al pagamento di somme di denaro, ragion per cui lo stesso rimedio deve ammettersi per le sentenze di condanna del GO (solo se passate in giudicato); C) la individuazione degli strumenti concreti a disposizione del GA quando provvede all’esecuzione di una pronuncia recante la condanna al pagamento di somme. In questa parte la pronuncia è molto interessante anche perché mette in evidenza quelli che, almeno nel contesto storico di riferimento, potevano essere i vantaggi dell’azione di ottemperanza rispetto alla concorrente azione esecutiva innanzi al GO. Premesso che in materia di ottemperanza i poteri del GA sono quelli tipici di una giurisdizione di merito (eccezionale per il GA), “l’attività del giudice adito ex art. 27, n. 4 viene ad incidere di regola nella fase di c.d. procedimentalizzazione della erogazione della spesa, vale a dire nella fase in cui l’amministrazione è tenuta ad adottare una serie di atti diretti allo scopo di dare concreto adempimento, con l’emanazione del mandato di pagamento, all’obbligazione pecuniaria”. Rispetto a questa attività “l’esaurimento dei fondi di bilancio o la mancanza di disponibilità di cassa non costituiscono legittima causa di impedimento all’esecuzione del giudicato, dovendo l’amministrazione porre in essere tutte le iniziative necessarie per rendere possibile il pagamento, procedendo alla liquidazione, alla formazione dei mandati, al reperimento dei fondi, salvo una eventuale ragionevole rateazione dei pagamenti in relazione alle concrete disponibilità (…)”. Si tratta di una affermazione molto significativa a fronte della coeva giurisprudenza della Cassazione che affermava la indisponibilità delle somme iscritte “a credito” nel bilancio della p.a..
[8] In Giust. Civ., 1980, I, 145.
[9] In Foro it., 1981, I, 2353.
[10] Cass. 15 gennaio, n. 493, in Giust. Civ. Mass., 2003, 1, 100; Id., 5 maggio 2009, n. 10284, ivi, 2009, 5, 717; Id., 17 dicembre 2009, n. 26497, ivi, 12, 1700.
[11] Costantino, L’espropriazione forzata in danno delle unità sanitarie e dei comuni (un altro capitolo di una storia infinita), in Riv. Trim. Proc. Civ., 1993, 671 e ss.; più di recente Id., La tutela dei crediti verso le pubbliche amministrazioni, in Riv. Dir. Proc., 2014, 2, 302 e ss..
[12] Costantino, La tutela dei crediti, cit., spec. 306.
[13] Costantino, loc. ult. cit..
[14] Sulla cui genesi v. Auletta F., nota a Corte Cost., 30 dicembre 1998, n. 463, in Giur. civ., 1999, 1280.
[15] Sentenza 23 aprile 1998, n. 142, in Foro it., 1999, I, 3473.
[16] Ordinanza 16 dicembre 1998, n. 463, in Giur. civ., 1999, 1280, con nota di Auletta F., cit..
[17] V. CGUE, 11 settembre 2007, n. 265, rinvenibile sul sito istituzionale della Corte.
[18] Rossi, op. cit., spec. 346, laddove si richiama la nutrita casistica giurisprudenziale, dal cui esame emerge un profilo frastagliato dove soggetti molto diversi sono assoggettati alla disposizione in esame, pur in mancanza, per alcuni di essi, del ritenuto presupposto giustificativo del termine dilatorio – assicurare l’espletamento delle procedure di contabilità pubblica occorrenti per provvedere al pagamento spontaneo. Sono stati fatti rientrare nell’ambito applicativo della disposizione: l’ACI (Trib. Napoli, 15 dicembre 2008), la Banca d’Italia (Cass. 12.4.2011, n. 8324), il Consorzio Unico di Bacino per le province di Napoli e Caserta (ma la questione è oggi controversa, stante il diverso orientamento del Tribunale di Napoli Nord: v. ordinanza 17 febbraio 2015, in www.neldiritto.it ed in www.expartecreditoris.it
[19] T.A.R. lazio, Sez. III-quater, 3 marzo 2008, n. 1938, citata da Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2015, spec. 317.
[20] Cons. St., Ad. Plen., 3.3.2008, n. 1, in Foro amm. C.d.S., 2008, 3, 756, con nota di commento di Liguori F. e Acocella C..
[21] V. ancora Cons. St., Sez. VI, n. 2660 del 2015, cit.
[22] In dottrina v. Vaccarella, Postilla (a proposito del termine di efficacia del precetto), in Riv. esec. forz., 2000, 769; Storto, L’espropriazione forzata nei confronti degli enti pubblici (con particolare riguardo agli enti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie) dopo l’intervento urgente del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, ivi, 2003, 754; in giurisprudenza v. Cass. 10 marzo 2003, n. 3530, a quanto consta inedita; Cass. 21 dicembre 2001, n. 16143, in Giust. Civ. Mass., 2001, 2195, su cui esprime perplessità Tatangelo, Questioni attuali in tema di espropriazione forzata presso terzi, con specifico riferimento all’espropriazione dei crediti della pubblica amministrazione, ivi, 2003, 408 e ss., spec. 510.
[23] Ma in senso contrario v. Storto, L’espropriazione forzata nei confronti degli enti pubblici, con particolare riguardo agli enti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie dopo l’intervento urgente del d.l. 30.9.2003, n. 269, in Riv. esec. forz., 2003, 751 e ss.. In particolare, secondo tale A. la modifica dell’espressione per cui il creditore, prima del termine, “non ha diritto di procedere ad esecuzione forzata” con l’espressione “non può procedere” avvalorerebbe la tesi sostenuta dalla giurisprudenza prima citata. Vedi tuttavia infra quanto ritenuto dalla giurisprudenza più recente
[24] Rossi, op. cit., 348.
[25] Storto, op. cit..
[26] Cass. 24 febbraio 2011, n. 4498, in Giust. Civ. Mass., 2011, 2, 294; Id., 20 settembre 2006, n. 20330, in Giust. Civ. Mass, 2006, 9; nel medesimo senso, v. Cass. 23 febbraio 2010, n. 4357, in Giust. Civ. Mass., 20102, 262; Id., 26 marzo 2009, n. 7360, in Giust. Civ. Mass., 2009, 3, 529; Id., 17 settembre 2008, n. 23732, in Giust. Civ. Mass., 2008, 9, 1371; di recente v. Cass. 17 febbraio 2015, n. 3133, in Diritto & giustizia, 2015, 18 febbraio.
[27] Trib. Napoli, 25.9.2006, inedita; vedi anche T.A.R. Lazio, Roma, 24 gennaio 2008, n. 531, in Resp. civ. e prev., 2008, 4, 936; T.A.R. Campania, Napoli, 26 aprile 2011, n. 2288, in www.giustizia-amministrativa.it; in dottrina v. Rossi, op. cit., spec. 350. Vedi anche Tatangelo, op. cit., 510, il quale ricava la soluzione positiva dalla disposizione dell’art. 4, del d.m. 2.4.1997 – sostituito da un d.m. successivo - secondo cui “Le tesorerie dello Stato, in caso di notifica di atti di pignoramento o sequestro contro amministrazioni dello Stato, effettuano i relativi accantonamenti soltanto nei casi in cui da tali atti esecutivi si desuma che il relativo titolo esecutivo è stato notificato all'amministrazione esecutata e questa non ha provveduto al pagamento nel termine di sessanta giorni di cui all'art. 14, comma 1, del decreto-legge 31 novembre 1996, n. 669, convertito nella legge 28 febbraio 1997, n. 30. Nel casi in cui dagli atti esecutivi non possa desumersi quanto indicato nel comma precedente, la tesoreria si astiene dall'eseguire l'accantonamento e nella dichiarazione di terzo fa presente di non aver effettuato alcun accantonamento in quanto dall'atto di pignoramento o sequestro non si desume che il relativo titolo esecutivo è stato notificato all'amministrazione esecutata e che questa non ha provveduto al pagamento nonostante sia scaduto il termine di sessanta giorni di cui all'art. 14, comma 1, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito nella legge 28 febbraio 1997, n. 30”.
[28] P. Roma, 20 luglio1999, in Foro it., 1999, I, 3474.
[29] Cass. 26 novembre 2010, n. 24078, in Il civilista, 2011, 1, 18.
[30] La questione è stata rimeditata alla luce delle profonde modifiche recate alla disciplina dell’intervento nel processo esecutivo, e segnatamente agli artt. 499 e 500 c.p.c., dal d.l. n. 35 del 2005, conv. in l. n. 80 del 2005, in forza delle quali l’intervento nell’espropriazione da altri intrapresa (che dà diritto a compiere atti di impulso della procedura stessa) è ristretto tendenzialmente (cioè al di fuori dei casi in cui vi siano delle cause legittime di prelazione da soddisfare) al creditore che vanti un titolo esecutivo, mentre per i creditori non muniti di titolo esecutivo la partecipazione al processo esecutivo è affidata a meccanismi surrogatori ovvero all’accantonamento delle somme per dare comunque modo ad essi di munirsi, medio tempore, di un titolo esecutivo.
Come si diceva, la riferita riforma ha indotto a modulare il rapporto tra il titolo vantato dal creditore procedente ed il titolo vantato dal creditore intervenuto in termini diversi dalla (in passato pacifica) necessaria accessorietà del secondo rispetto al primo: in specie la questione se la caducazione del titolo esecutivo originario importi la caducazione dell’intero processo esecutivo, anche laddove vi siano dei creditori intervenuti sulla base di un autonomo titolo esecutivo, un tempo risolta in senso affermativo (Cass. 13 febbraio 2009, n. 3531, in Giust. Civ., 2010, 9, 2033, con nota di Farina), è stata da ultimo oggetto di ripensamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 7 gennaio 2014, n. 61, in Diritto & giustizia, 2014, 8 gennaio) hanno affermato che “nel processo di esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura, va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento”.
A tale conclusione, la Suprema Corte è giunta sottolineando che in un sistema “che accoglie il principio della par condicio creditorum e rifiuta il diritto di ‘priorità’ al creditore procedente (diritto invece riconosciuto nel sistema tedesco), dal citato art. 500 c.p.c. deve farsi derivare che il creditore intervenuto munito di titolo esecutivo si trova in una condizione paritetica a quella del creditore procedente”, con la conseguenza che “una volta iniziato il processo in base ad un titolo esecutivo esistente all’epoca, il processo può legittimamente proseguire, a prescindere dalle sorti del titolo originario, se vi siano intervenuti creditori a loro volta muniti di valido titolo esecutivo”.
[31] Rossi, op. cit., 352 e ss..
[32] Sentenza 27 ottobre 2006, n. 343, in Giur. cost., 2006, 5, 3409.
[33] Rossi, op. cit., 354.
[34] Ordinanza 15 luglio 2010.
[35] Ordinanza 6 luglio 2011, n. 202, in Giur. cost., 2011, 4, 2696.
[36] Rossi, op. cit., 358.
[37] Secondo Cons. St., Ad. Plen., 10 aprile 2012, n. 2, in Foro amm. C.d.S., 2012, 4, 801, anche tenuto conto delle disposizioni del Codice del processo amministrativo, laddove si prevede l’ottemperabilità, con riferimento ai provvedimenti del GO, non solo delle sentenze passate in giudicato ma anche dei provvedimenti ad esse equiparati, ha ritenuto che “l'ordinanza di assegnazione del credito resa ai sensi dell'art. 553 c.p.c., nell'ambito di un processo di espropriazione presso terzi, emessa nei confronti di una p.a. o soggetto ad essa equiparato ai sensi del c. proc. amm., avendo portata decisoria (dell'esistenza e ammontare del credito e della sua spettanza al creditore esecutante) e attitudine al giudicato, una volta divenuta definitiva, per decorso dei termini di impugnazione, è suscettibile di esecuzione mediante giudizio di ottemperanza.
[38] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 16 dicembre 2015, n. 5733, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 29 ottobre 2015, n. 12256, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 7 aprile 2015, n. 1772, in www.giustizia-amministrativa.it, laddove si rileva la “sostanziale identità di ratio con l’esecuzione forzata regolata dal c.p.c., trattandosi di istituti che, ancorché per vie diverse e con risultati diversi, hanno ambedue ad oggetto l’adempimento di obbligazione pecuniaria derivanti dall’ordine del giudice”
[39] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1844, in Foro amm., 2015, 2, 596.
[40] Di modo che il tenore letterale del primo alinea della disposizione è oggi il seguente: Gli atti introduttivi del giudizio di cognizione, gli atti di precetto nonché gli atti di pignoramento e sequestro devono essere notificati a pena di nullità presso la struttura territoriale dell'Ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici dell'interessato, il codice fiscale ed il domicilio.
[41] Storto, op. cit., 756.
[42] Storto, op. cit., 757.
[43] Cass. 22 aprile 1995, n. 4584, in Foro it., 1996, I, 3770, con nota di Acone; Cass. 29 gennaio 1999, n. 798, in Giust. Civ. Mass., 1999, 199; Cass. 4 gennaio 2000, n. 16, in Riv. esec. forz., 2000, 640. Su questo aspetto, vedi di recente Corte Cost., 22 dicembre 2010, n. 368, in Giur. cost., 2010, 6, 5152, secondo cui la previsione del limite al vincolo esecutivo del pignoramento rappresenta il frutto di una scelta non incongrua né irragionevole del legislatore nell’ottica dell’ottimale contemperamento dei diversi interessi in gioco: da un lato l’interesse del creditore; dall’altro quello del debitore di non subire il “blocco totale” delle somme di propria pertinenza detenute dal terzo.
[44] Cass. 9 marzo 2011, n. 5529, in Giust. Civ. Mass., 2011, 3, 374; Cass. 23.3.2011, n. 6666, ivi, 451.
[45] Cass. 9.3.2011, n. 5529, cit..
[46] Cass. 23.3.2011, n. 6666, cit..
[47] Storto, op. cit., 758.
[48] Storto, op. cit., 760.
[49] Costantino, La tutela espropriativa contro la p.a.. Il pignoramento di crediti in riferimento al sistema di tesoreria unica, in Mazzamuto, a cura di, Processo e tecniche di attuazione dei diritti, II, Napoli, 1989, 967 e ss.
[50] Costantino, op. ult. cit., 968
[51] Cass. S.U., 17 giugno 1988, n. 4136, in Giust. Civ. Mass., 1988, 6.
[52] Trib. Napoli, 12 aprile 2010/o., a quanto consta inedita.
[53] P. Monza, 3 marzo 1989, in Foro it., 1990, 1407.
[54] Pucciariello, Espropriazione presso terzi e servizio di tesoreria: può essere apposto il vincolo ex art. 543 c.p.c. sulla somma rimessa dalla Regione sul conto corrente assistito da apertura di credito, in Riv. esec. forz., 2010, 963
[55] Trib. Napoli, Sez. Pozzuoli, nn. 585 e 660 del 2011, a quanto consta inedite.
[56] Sentenza 12 luglio 2013, n. 186, in Rass. Dir. Far., 2013, 6, 1293.
[57] La Corte ha, altresì, osservato che “Non può, infine, valere a giustificare l'intervento legislativo censurato il fatto che questo possa essere ritenuto strumentale ad assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali connesse al servizio sanitario: infatti, a presidio di tale essenziale esigenza già risulta da tempo essere posta la previsione di cui all'art. 1, comma 5, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria e socio assistenziale), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993, n. 67, in base alla quale è assicurata la impignorabilità dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini della erogazione dei servizi sanitari”. Su tale norma vedi quanto osservato infra nel testo.
[58] In Foro amm., 1996, 1665.
[59] Sentenza 20 marzo 1998, n. 69, in Foro it., 1998, I, 1352.
[60] Sentenza 18 giugno 2003, n. 211, in Foro it., 2003, I, 2217.
[61] La Corte ha invece ritenuto inammissibile – perché irrilevante nel caso di specie – la questione relativa previsione del potere officioso del G.E., profilo che avrebbe rappresentato una intollerabile asimmetria rispetto ad altre discipline similari ove tale potere non è contemplato. Sul punto è tornata anche la giurisprudenza di legittimità, la quale ha ritenuto che “l’impignorabilità quando prevista per ragioni di pubblico interesse e cioè a tutela di un interesse pubblicistico è sempre rilevabile d’ufficio, così elidendosi la rilevanza della mancata espressa previsione: Cass. 31 agosto 2011, n. 17873, in www.expartecreditoris.it.
[62] Vaccarella, Impignorabilità di somme “vincolate” dall’ente locale, in Riv. esec. forz, 2006, 3.
[63] Rossi, op. cit., 2969.
[64] Cass. 16 settembre 2008, n. 23727, in Giust. Civ. Mass., 2008, 9, 1370; Cass. 27 maggio 2009, n. 12259, ivi, 2009, 5, 835; Cass. 21 febbraio 2011, n. 4207, in www.personaedanno.it.
[65] Rossi, ibidem.
[66] Cass. 27 gennaio 2009, n. 1949, in Giust. Civ. Mass., 2009, 1, 123.
[67] Cass. 24 aprile 2008, n. 10654, in Giust. Civ. Mass., 2008, 4, 627; Cass. 18 gennaio 2000, n. 496, in Riv. esec. forz., 2000, 663.
[68] Rossi, op. cit., 304.
[69] Costantino, L’espropriazione forzata in danno delle unità sanitarie e dei Comuni, cit., spec. 868.
[70] Cass. 20 febbraio 2006, n. 3655, in Giust. Civ. Mass., 2006, 2.
[71] Rossi, op. cit., 306, con ulteriori richiami; Tatangelo, op. cit., spec. 522.
[72] Cass. 11 gennaio 2007, n. 387, in Giust. Civ. Mass., 2007, 1; Cass. 16 novembre 2005, n. 23084, ivi, 2005, 7/8.
[73] Costantino, op. ult. cit., 687.
[74] Tatangelo, loc. ult. cit.; si tratta peraltro di una posizione che riflette l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui sono estranee al giudizio di accertamento del terzo tutte le questioni integranti la materia tipica delle opposizioni esecutive: Cass. 8 gennaio 2004, n. 101, in Giust. Civ. Mass., 2004, 1; Cass. 12 marzo 2004, n. 5153, ivi, 3; Cass. 27 gennaio 2009, n. 1949, cit.; Cass. 4 ottobre 2010, n. 20595, ivi, 2010, 10, 1290.
[75] Rossi, op. cit., 306 e ss.
[76] Cass. 16 novembre 2005, n. 23084, cit..
[77] Come rilevato da Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli, 1987, spec. 164
[78] Cass. 16 settembre 2008, n. 23727, cit..
[79] Rossi, op. cit., spec. 321, ove vengono individuate della “esigenze di natura pratica” che potrebbero giustificare il criticato orientamento. Essenzialmente, si rileva da parte del citato A., che l’opposizione all’esecuzione potrebbe risolversi in un’arma spuntata “per mancanza di uno spazio temporale che ne consenta la utile proposizione, e vanificare così le possibilità di difesa contro un provvedimento in thesi errato: ragioni senza dubbio apprezzabili ma che lasciano fermi gli aspetti di criticità della ricostruzione innanzi rimarcati”.
[80] Criticato in dottrina: Vaccarella, Impignorabilità, cit., spec. 588 e ss.
[81] Cass. 6 giugno 2006, n. 13263, in Riv. esec. forz., 2006, 585, secondo cui sul creditore procedente grava l’onere di dimostrare “l’emissione di mandati di pagamento per titoli diversi da quelli vincolati e senza seguire l’ordine indicato dalla legge”.
[82] Cass. 16 settembre 2008, n. 23727, cit. ; Cass. 27 maggio 2009, n. 12259, cit..
[83] Si noti che, nella massima disponibile sulle principali banche dati in uso, il termine “numerose” viene omesso.
[84] Cass. 26 marzo 2012, n. 4820, in www.expartecreditoris.it.
[85] In questi termini si v. Rossi, op. cit., 330
[86] Cass. 24 aprile 2008, n. 10654, cit..
[87] Cass. 18.12.1987, n. 9407.
[88] In dottrina, v., in senso affermativo, Costantino, L’espropriazione forzata in danno delle unità sanitarie e dei comuni, cit., spec. 694.
[89] Tatangelo, op. cit., spec. 527 e ss.
[90] In Foro it., 1994, I, 3348, con nota di Costantino.
[91] In Foro amm., 1998, 1667.
[92] In Finanza locale, 1995, 1177.
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