Condominio e Locazioni
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20006 - pubb. 22/06/2018
Commette appropriazione indebita l’amministratore che trattiene i versamenti dei condomini senza pagare le spese del condominio
Cassazione penale, 07 Maggio 2018, n. 19729. Est. Pellegrino.
Appropriazione indebita – Amministratore di condominio – Mancato pagamento di debiti condominiali – A fronte della riscossione dei contributi dei condomini – Sussiste
L’amministratore di condominio instaura con i condomini un rapporto di mandato nel cui ambito può ricevere dagli stessi somme di denaro al fine di provvedere all’esecuzione di specifici pagamenti o da riversare nella cassa condominiale onde far fronte alle spese di gestione del condominio. In virtù dei generali principi in tema di consumazione del reato di appropriazione indebita, è ravvisabile un’oggettiva interversione del possesso ogniqualvolta l’amministratore, anziché dare corso ai suoi obblighi, dia alle somme a lui rimesse dai condomini una destinazione del tutto incompatibile con il mandato ricevuto e coerente invece con sue finalità personali.
[Nella fattispecie, la prova della ricorrenza degli elementi costitutivi del reato era costituita dal mancato pagamento di numerose spese condominiali e dal conseguente indebito impossessamento della somma a ciò destinata da parte dell’amministratore, di fatto costringendo il nuovo amministratore a costituire un fondo cassa a carico dei condomini per fare fronte ai debiti mai precedentemente estinti.] (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DAVIGO Piercamillo - Presidente -
Dott. DE SANTIS Anna Maria - Consigliere -
Dott. PELLEGRINO Andrea - rel. Consigliere -
Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere -
Dott. DI PISA Fabio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 18/10/2016, la Corte d'appello di Genova, in parziale riforma della pronuncia di primo grado resa dal Tribunale di Genova in data 21/05/2015 con la quale D.M.G. era stata condannata alla pena di anni uno di reclusione ed Euro 900,00 di multa per il reato di appropriazione indebita aggravata continuata, eliminava la statuizione civile relativa alla provvisionale e confermava nel resto (ivi compresa la condanna della D. al risarcimento dei danni arrecati alle parti civili da liquidarsi in separato giudizio ed i doppi benefici di legge).
Secondo l'Accusa, l'imputata, nella sua qualità di esercente la professione di consulente libero professionista, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, si appropriava indebitamente di somme di denaro, per un totale di Euro 22.238,27 a lei consegnate dai condomini B.R., + ALTRI OMESSI per il pagamento delle spese di amministrazione ordinarie e straordinarie.
2. Avverso detta sentenza, nell'interesse di D.M.G., viene proposto ricorso per cassazione per lamentare:
- violazione di legge per inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale in relazione al mancato riconoscimento del condominio quale soggetto di diritto autonomo (primo motivo);
- violazione e/o inosservanza della legge penale con riferimento all'ammissione della costituzione di parte civile di persone non indicate nel capo di imputazione quali parti lese (secondo motivo);
- mancanza di motivazione con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; necessità di dichiarare l'intervenuta estinzione del reato per decorrenza dei termini massimi di prescrizione (terzo motivo).
2.1. In relazione al primo motivo, si censura la sentenza impugnata che non ha considerato che il condominio si pone quale soggetto terzo rispetto al singolo condomino e all'amministratrice D. la quale ultima, conseguentemente, non si è appropriata in via diretta di alcuna somma.
2.2. In relazione al secondo motivo, si censura la decisione di ammettere come parti civili soggetti non indicati dall'accusa i quali hanno lamentato un danno che non è stato formalmente contestato alla D. che, conseguentemente, non può essere chiamata a risponderne.
2.3. In relazione al terzo motivo, si censura la decisione di non riconoscere le circostanze attenuanti generiche omettendo di considerare come la ricorrente non si fosse mai sottratta all'interrogatorio in fase di indagini preliminari e in dibattimento, fosse soggetto incensurato e le sue condotte sarebbero comunque risalenti ad oltre sette anni addietro. Infine, si è in presenza di reato prescritto in data (*), considerando come le condotte appropriative si erano comunque esaurite nei primi mesi del 2009.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è aspecifico oltre che manifestamente infondato e, come tale, da ritenersi inammissibile.
2. Va preliminarmente evidenziato come, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, Casula, Rv. 233708), anche alla luce della nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dettata dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) "effettiva", ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non "manifestamente illogica", ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non internamente "contraddittoria", ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente "incompatibile" con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione (nell'affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l'esistenza di "atti del processo" non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l'atto processuale cui intende far riferimento, l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati, nonchè dell'esistenza effettiva dell'atto processuale in questione, indicare le ragioni per cui quest'ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l'interna coerenza della motivazione).
2.1. Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l'analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E', invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo".
2.2. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 8, "mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano" (Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola e altri, Rv. 238215).
2.3. Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può quindi estendersi all'esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa.
Nè la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l'argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all'esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, Ciavarella, Rv. 241214).
2.4. La medesima giurisprudenza di legittimità considera, inoltre, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, n. 25559 del 15/06/2012, Pierantoni; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, p.m. in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, Giagnorio, Rv. 231708). In altri termini, è del tutto evidente che a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d'appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838).
Sulla base di questi principi va esaminato l'odierno ricorso.
3. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso.
Assume la ricorrente che nel momento in cui i singoli condomini versavano le varie somme per spese ordinarie e straordinarie sul conto intestato al condominio, il denaro entrava nella disponibilità di quest'ultimo soggetto, da considerarsi come formalmente distinti sia da ogni singolo condomino che dall'amministratore.
3.1. Il più recente orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, ritiene che il delitto di appropriazione indebita sia reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, quando l'agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Sez. 5, n. 1670 del 08/07/2014, dep. 2015, Ronconi, Rv. 261731; Sez. 2, n. 17901 del 10/04/2014, Idone, Rv. 259715).
3.2. La Corte territoriale ha di fatto richiamato la giurisprudenza delle sezioni civili di questa Suprema Corte secondo cui l'amministratore instaura con i condomini un rapporto di mandato (Sez. 2, n. 10815 del 16/08/2000, Rv. 539589; nello stesso senso, Sez. 2, n. 16698 del 22/07/2014, Rv. 632063).
Nell'ambito di questo contratto di mandato, volto al compimento di più atti giuridici nell'interesse dei condomini, l'amministratore può ricevere dai condomini somme di denaro al fine di provvedere all'esecuzione di specifici pagamenti o da riversare nella cassa condominiale onde far fronte alle spese di gestione del condominio secondo i bilanci approvati dall'assemblea. Nel primo caso, l'amministratore deve provvedere a compiere il pagamento a cui è obbligato secondo le modalità e i termini convenuti, mentre nel secondo, egli è tenuto a una generale destinazione dei fondi confluiti sul conto comune alle spese condominiali secondo le modalità stabilite dall'assemblea con obbligo di rendiconto e di restituzione alla scadenza di quanto ricevuto nell' esercizio del mandato, ai sensi dell'art. 1713 c.c..
3.3. I generali principi in tema di consumazione del reato in contestazione - in base ai quali ove l'agente abbia la disponibilità di denaro altrui in virtù dello svolgimento di un incarico gestorio il reato di appropriazione indebita è integrato dall'interversione del possesso, che si manifesta quando l'autore si comporti uti dominus compiendo un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria - si declinano tenendo conto delle precipue caratteristiche del rapporto intercorrente fra l'amministratore e il condominio (Sez. 2, n. 31322 del 31/05/2017, Narducci). Sarà, infatti, ravvisabile un'oggettiva interversione del possesso ogni qualvolta l'amministratore di condominio, anzichè dare corso ai suoi obblighi, dia alle somme a lui rimesse dai condomini una destinazione del tutto incompatibile con il mandato ricevuto e coerente invece con sue finalità personali ("Commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, violando le disposizioni impartitegli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto utilizzandolo per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante" Sez. 2, n. 23347 del 03/05/2016, P.C. in proc. Danielis e altro, Rv. 267086; nello stesso senso, Sez. 2, n. 50156 del 25/11/2015, Fratini, Rv. 265513).
Da qui la manifesta infondatezza della "fantasiosa" tesi difensiva secondo cui il condominio è soggetto terzo rispetto al suo amministratore il quale, pur compiendo atti in nome e per conto dello stesso, finirebbe per "imputarli" ad un soggetto a sè estraneo privo di responsabilità, con sostanziale creazione di un ambito di non punibilità che è del tutto fuori dal sistema.
3.4. Invero, la Corte territoriale ha fatto buon governo dei principi precedentemente esposti, avendo correttamente riconosciuto come l'amministratrice D., sulla base delle oggettive risultanze probatorie, si fosse appropriata ai danni di otto condomini ( B.R., + ALTRI OMESSI, tutti condomini dell'immobile sito in (*)) della complessiva somma di Euro 22.238,27, di fatto costringendo il nuovo amministratore ( T.D., subentrata alla D. nell'estate del 2009) a costituire un "fondo cassa" ai carico dei condomini per far fronte ai debiti mai precedentemente estinti (esposizione debitoria ricostruita con certezza ma con grande fatica avendo dovuto il nuovo amministratore richiedere l'intervento dell'ufficiale giudiziario per ottenere la consegna dal predecessore della documentazione).
I giudici di appello hanno perciò evinto la prova della ricorrenza degli elementi costitutivi del reato in contestazione dalla constatazione dal mancato pagamento di numerose spese e dal conseguente indebito impossessamento della somma a ciò destinata da parte di chi era incaricato di provvedere al pagamento, implicitamente ritenendo che una simile condotta rendesse più che evidente la volontà dell'imputata di appropriarsi del denaro dalla medesima detenuto nella consapevolezza di agire senza diritto e con lo scopo di trarre per sè o per altri una qualsiasi illegittima utilità: siffatta valutazione, scevra da manifesti vizi logici, non si presta a censure di sorta sotto un profilo giuridico nè può essere rivisitata nel merito in questa sede.
4. Del tutto aspecifico è il secondo motivo di ricorso. Lo stesso reitera censura già discussa e ritenuta infondata dal giudice del gravame con motivazione congrua e priva di vizi logico-giuridici, nei confronti della quale la ricorrente omette di "misurarsi".
4.1. Invero, la mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità (Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, n. 39598 del 30/09/2004, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, n. 35492 del 06/07/2007, Tasca, Rv. 237596).
4.2. Nella fattispecie, dopo aver ricordato che il soggetto passivo è il titolare dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice, mentre il danneggiato è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione o all'omissione del soggetto attivo del reato, il Collegio non può non evidenziare come, sulla questione dedotta, la Corte territoriale avesse chiaramente spiegato come fosse da ritenersi infondato "il motivo che attiene all'ammissione della costituzione di parte civile di persone non indicate quali parti lese nel capo d'imputazione, essendo legittimato a costituirsi ogni soggetto cui il reato abbia arrecato danno, indipendentemente dalle enunciazioni contenute nel capo d'accusa e non rilevando quindi la mancata indicazione del suo nominativo".
5. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso.
5.1. Nella fattispecie, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità, che, pertanto, è insindacabile in cassazione (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi e altri, Rv. 242419), anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244).
In ogni caso, va ricordato che, avendo le circostanze attenuanti generiche lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità a delinquere dello stesso, il relativo riconoscimento richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo e altri, Rv. 252900): elementi di segno positivo che, nella fattispecie, non sono stati individuati.
5.2. Il reato è contestato (ed un'eventuale indagine di fatto sulla diversità del tempo di realizzazione non è consentita nella presente sede di legittimità) come commesso in epoca anteriore e prossima al (*). Lo stesso ha un termine prescrizionale di anni sei, prorogabile nel massimo, per gli eventi interruttivi, ad anni sette e mesi sei. Il termine di prescrizione si fissa quindi alla data del 16/08/2017, in epoca quindi successiva alla sentenza di appello. Come è noto, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, l'inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, la circostanza preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all'art. 129 c.p.p., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, Ciaffoni, Rv. 256463).
6. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila a favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 21 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2018.