Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6508 - pubb. 01/08/2010
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Cassazione civile, sez. I, 02 Marzo 2009, n. 5019. Est. Rordorf.
Società - Di persone fisiche - Società in accomandita semplice - In genere (nozione, caratteri, distinzioni) - Norme applicabili - Delibera di esclusione dalla società del socio accomandatario - Revoca dello stesso dall'amministrazione della società - Autonomia dei due atti - Configurabilità - Fondamento - Incidenza sullo stato di socio dell'amministratore - Sussistenza - Esclusione.
In tema di amministrazione nella società in accomandita semplice, per effetto della regola per cui l'amministratore non può che essere un socio accomandatario, l'eventuale esclusione di questi dalla società, non diversamente da qualsiasi altra causa di scioglimento del rapporto sociale a lui facente capo, ne comporta "ipso jure" anche la cessazione dalla carica di amministratore, mentre non è predicabile il contrario, ben potendo sussistere, in tale compagine, anche soci accomandatari che non siano amministratori, come desumibile dall'art. 2318 cod. civ.; ne consegue che le questioni dell'esclusione del socio (nella specie, ritenuta dal giudice di merito di competenza degli arbitri, in forza di clausola compromissoria prevista nell'atto costitutivo) e della revoca dell'amministratore per giusta causa (nella specie, oggetto di contestazione promossa dall'interessato avanti al giudice e culminata in pronuncia di illegittimità dell'atto) restano distinte e non sovrapponibili, per disciplina legale e presupposti differenti, essendo l'eventuale revoca dalla carica di amministratore non incidente sulla qualità di socio dello stesso. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente -
Dott. RORDORF Renato - rel. Consigliere -
Dott. BERNABAI Renato - Consigliere -
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere -
Dott. DIDONE Antonio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
VALVO ALFIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso l'avvocato DE STEFANO LUIGI, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
VALVO GREGORIO, FURNÒ AGATA;
- intimati -
sul ricorso n. 24290 - 2004 proposto da:
- intimati -
VALVO GREGORIO, FURNÒ AGATA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALESSANDRIA 25, presso l'avvocato BORROMEO CHIARA, rappresentati e difesi dagli avvocati SALANITRO NICCOLÒ, ITALIA FEDERICO, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrenti e ricorrenti incidentali -
contro
VALVO ALFIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso l'avvocato DE STEFANO LUIGI, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso principale;
- controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 361/2004 della CORTE D'APPELLO di CATANIA, depositata il 29/04/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/01/2009 dal Consigliere Dott. RORDORF RENATO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ABBRITTI PIETRO, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 13 giugno 1995 il sig. Valvo Alfio citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Siracusa i sigg.ri Valvo Gregorio ed Furnò Agata e chiese che venissero dichiarate mille o inefficaci, o comunque annullate, le deliberazioni con le quale i convenuti, in qualità di soci accomandanti della Stampa Sud Editrice di Valvo Alfio & C. s.a.s., lo avevano sia revocato dalla carica di amministratore della società, di cui egli era socio accomandatario, sia escluso dalla società medesima.
I convenuti, oltre a difendersi nel merito, eccepirono l'esistenza nell'atto costitutivo della società di una clausola compromissoria, in forza della quale le controversie tra i soci avrebbero dovuto essere devolute ad arbitri.
Con sentenza emessa il 9 aprile 2001 il tribunale accolse parzialmente l'anzidetta eccezione e si dichiarò incompetente a conoscere della controversia inerente all'esclusione dell'attore dalla compagine sociale. Reputò invece che la clausola compromissoria non potesse operare anche per quel che concerneva la contestata revoca dello stesso attore dalla carica di amministratore della società e, pronunciando a tal riguardo nel merito, annullò siffatta deliberazione di revoca giacché non la riconobbe legittima. Sui contrapposti gravami della parti, la Corte d'appello di Catania, con sentenza resa pubblica il 29 aprile 2004, confermò integralmente la decisione di primo grado.
La corte catanese ritenne - per quanto ancora in questa sede interessa - che, nell'adottare la controversa delibera di esclusione dell'accomandatario, i soci accomandanti, contrariamente a quanto sostenuto dal sig. Valvo Alfio, non avessero implicitamente rinunciato ad avvalersi della clausola compromissoria prevista nell'atto costitutivo della società, giacché tale clausola non investiva lo svolgimento dell'attività sociale, in cui la delibera di esclusione si era esplicata, ma era viceversa destinata ad operare solo dopo che su quella delibera fosse insorta una contestazione e, pertanto, una lite tra i soci. Nè poteva dubitarsi, sempre secondo la corte d'appello, della legittimazione del socio escluso a dar vita al procedimento arbitrale di risoluzione della controversia, sebbene la sua avvenuta estromissione lo avesse privato della qualifica di socio ipotizzata dalla clausola compromissoria, avendo egli comunque il potere di sollecitare un giudizio di riesame della delibera di esclusione.
La medesima corte reputò anche, infine, che non vi fosse alcuna incompatibilità logica tra l'avere il tribunale confinato nell'ambito del giudizio arbitrale la questione della legittimità della delibera di esclusione del socio accomandatario dalla società e l'avere invece giudicato nel merito sulla validità della delibera di revoca dello stesso accomandatario dalla carica di amministratore, ponendosi le due delibere su piani diversi ed essendo, per il resto, irrilevante l'eventuale confluenza dei loro effetti in un medesimo risultato pratico.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il sig. Valvo Alfio, prospettando cinque motivi di doglianza.
I sigg.ri Valvo Gregorio ed Furnò Agata si sono difesi con controricorso ed hanno formulato anche un motivo di ricorso incidentale, al quale il sig. Valvo Alfio ha replicato, a propria volta, con un controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi proposti avverso la medesima sentenza debbono essere preliminarmente riuniti, come dispone l'art. 335 c.p.c.. 2. Conviene cominciare dall'esame del ricorso principale che, come già accennato, si articola in cinque motivi.
2.1. Il primo di tali motivi, nel denunciare la violazione degli artt. 1362 e 1367 c.c., oltre a vizi di motivazione dell'impugnata sentenza, si appunta sull'affermazione della corte d'appello secondo cui la clausola compromissoria contenuta nello statuto sociale non avrebbe impedito la legittima adozione della deliberazione (erroneamente definita assembleare) di esclusione del socio accomandatario, operando essa solo per la controversia successivamente sorta in ordine alla validità di detta deliberazione. A parere del ricorrente, viceversa, già l'asserito inadempimento del socio agli obblighi inerenti a tale sua qualità avrebbe comportato il manifestarsi di una controversia, onde una corretta interpretazione della clausola compromissoria doveva necessariamente condurre a ritenere che la stessa decisione di esclusione non fosse possibile se non sulla base di un'apposita decisione arbitrale in tal senso sollecitata. E tale conclusione, sempre secondo il ricorrente, sarebbe avvalorata dal rilievo per cui l'interpretazione fatta propria dalla corte catanese condurrebbe invece ad un'insanabile aporia: perché, muovendo dal presupposto che la controversia sottoponibile ad arbitri sia solo quella conseguente alla già deliberata esclusione del socio, ne discenderebbe l'impossibilità di promuovere l'arbitrato da parte di chi, non essendo ormai più socio, non rientra tra i soggetti cui la clausola si riferisce.
2.2. Col secondo motivo, nuovamente lamentando vizi di motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente si duole del fatto che detta sentenza non abbia dato risposta all'eccezione con cui era stata sottolineata la rinuncia all'arbitrato da parte dei soci accomandanti, implicita nel fatto stesso che essi avevano preteso di deliberare l'esclusione dell'altro socio dalla società senza preventivamente far ricorso ad arbitri.
2.3. La criticata conclusione della corte d'appello sul punto già sopra richiamato comporterebbe altresì, a giudizio dei ricorrente, la disapplicazione della regola, desumibile dagli artt. 806 ed 808 c.p.c., in virtù della quale possono formare oggetto di clausola arbitrale anche le controversie non ancora insorte tra le parti. Donde la violazione degli articoli da ultimo menzionati, denunciata nel terzo motivo di ricorso.
2.4. Il quarto motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione dell'art. 2287 c.c., oltre che vizi di motivazione, torna a negare che il socio escluso, proprio perché tale, fosse legittimato a promuovere un arbitrato previsto per la risoluzione delle controversie insorte tra soggetti aventi la qualità di socio. 2.5. La violazione del già citato art. 2287 c.c., in combinazione col disposto dell'art. 2272 c.c., n. 3, forma oggetto dell'ultimo motivo del ricorso principale, volto a sostenere che non sarebbe consentito ai soci accomandanti escludere l'unico socio accomandatario dalla società, implicando ciò un effetto di scioglimento della società medesima, impossibile da realizzarsi senza il consenso unanime di tutti i soci.
3. Nessuna delle riferite censure appare condivisibile. 3.1. La doglianza espressa nel secondo motivo di ricorso è, sul piano logico, la prima a dover essere esaminata.
Essa appare, peraltro, manifestamente infondata.
Non è vero, infatti, che la corte d'appello abbia trascurato l'eccezione con cui l'odierno ricorrente aveva sostenuto esservi stata un'implicita rinuncia dei soci accomandanti all'arbitrato previsto nell'atto costitutivo della società. Detta corte ha invece espressamente fatto riferimento in motivazione alla menzionata eccezione (pagg. 11 - 12 della sentenza impugnata), ma ha ritenuto che non fossero ravvisabili, nell'attivazione del procedimento endosocietario di esclusione di un socio dalla società, gli estremi di una rinuncia degli altri soci, per facta concludentia, ad avvalersi della clausola arbitrale per la risoluzione del contrasto che agitava la compagine sociale.
A tale conclusione la corte territoriale è pervenuta sul presupposto che l'anzidetta clausola arbitrale potesse riguardare solo la controversia insorta a seguito dell'opposizione dell'accomandatario alla delibera di esclusione adottata nei suoi confronti, sicché il fatto stesso che quella delibera fosse stata assunta dagli altri soci non poteva evidentemente in alcun modo implicare la loro intenzione di lasciar cadere l'opzione arbitrale. E si tratta - occorre dirlo - di un presupposto del tutto ragionevole, giacché altro è prevedere il ricorso ad arbitri per risolvere le eventuali controversie tra i soci (o tra costoro e la società), altro è derogare a previsioni di legge che, come nel caso dell'art. 2287 c.c., attribuiscono alla maggioranza dei soci determinati poteri nei confronti della minoranza (ferma la possibilità per quest'ultima di invocare poi il vaglio giurisdizionale) e regolano il procedimento endosocietario mediante il quale quei poteri possono essere esercitati. Ragion per cui appare del tutto privo di base logica l'assunto del ricorrente che vorrebbe invece scorgere nell'anzidetta clausola compromissoria un patto sociale in deroga al citato art. 2287 c.c., per poi dedurne che, avendo inteso esercitare i poteri loro conferiti da quell'articolo, gli accomandanti avrebbero implicitamente anche inteso rinunciare ad avvalersi della clausola compromissoria.
3.2. Passando ora ai rimanenti motivi del ricorso, giova anzitutto sgomberare il campo da questioni che, nella presente causa, hanno rilievo meramente terminologico. Così, se è vero che la decisione di esclusione di un socio di società di persone, ad opera degli altri soci, non può esser definita una "deliberazione assembleare" (a meno che l'atto costitutivo non preveda l'adozione di un procedimento collegiale di tipo propriamente assembleare), resta, nondimeno, che si tratta di una "deliberazione sociale", se adottata con riferimento alla previsione dell'art. 2287 c.c., la cui validità ed efficacia deve essere vagliata in base a quanto detto articolo del codice dispone.
Orbene, i rilievi con i quali il ricorrente vorrebbe sostenere che i soci accomandanti non avrebbero potuto, nella fattispecie in esame, legittimamente adottare una siffatta deliberazione di esclusione dell'accomandatario, perché lo impediva la clausola compromissoria contenuta nell'atto costitutivo, oltre ad apparire scarsamente compatibili con quanto già sopra osservato in ordine alla diversità di fasi nelle quali sono destinata ad operare il procedimento endosocietario di esclusione del socio ed il successivo eventuale giudizio di opposizione (questo solo configurabile come una controversia suscettibile di esser devoluta ad arbitri), non colgono nel segno: per la decisiva ragione che la sentenza impugnata non ha nè affermato ne' negato la legittimità della contestata delibera di esclusione, ma si è limitata a ritenere che di ciò si dovessero occupare gli arbitri contemplati in detta clausola compromissoria. Se dunque anche fosse vero (e si è visto che invece non lo è) che, come pretende il ricorrente, la convenzione arbitrale stipulata tra i soci all'atto della costituzione della società si estendeva alla possibilità stessa di deliberare l'esclusione di un socio ad opera degli altri, e non soltanto alla rimessione ad arbitri del successivo giudizio di opposizione, a maggior ragione si dovrebbe concludere che è sottratta al Giudice, per essere stata appunto rimessa agli arbitri, la controversia nascente dal fatto che gli accomandanti hanno invece preteso di escludere l'altro socio con propria delibera e che l'altro socio contesta tale loro facoltà.
Il che è sufficiente al rigetto delle doglianze espresse nel primo, nel terzo e nel quinto motivo di ricorso.
3.3. Del pari destituita di fondamento è la censura espressa nel quarto motivo di ricorso.
È frutto di un sofisma l'affermare che non rientrerebbe nelle controversie tra soci (e, quindi, nella previsione della clausola compromissoria che a tali controversie fa riferimento) quella in cui si discuta della legittimità dell'esclusione di un socio, in quanto la stessa esclusione determinerebbe la conseguenza che egli non è più socio e farebbe perciò difetto la sua legittimazione ad avvalersi del procedimento arbitrale riservato soltanto ai soci. Quando l'esercizio di poteri e facoltà previsti dalla legge o dall'atto costitutivo della società dipenda dalla qualità di socio, che funge quindi anche da condizione di legittimazione in rapporto all'azione mediante la quale quei poteri o facoltà debbano essere esercitati, tale legittimazione non può esser negata a colui che agisca appunto per lamentare di essere stato illegittimamente privato di detta qualità. Nei casi nei quali il venir meno della qualifica di socio in capo all'attore sia diretta conseguenza proprio dalla delibera la cui legittimità egli contesta, la stessa legittimazione dell'attore sta o cade a seconda che la delibera impugnata risulti o meno legittima. Se, perciò, l'annullamento della delibera può condurre al ripristino della qualifica di socio, e ciò costituisce giustappunto una delle ragioni per le quali quella delibera è impugnata, sarebbe logicamente incongruo l'addurre come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l'attore assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti. Ne consegue che il socio escluso, il quale contesti la legittimità della sua esclusione, è pienamente legittimato a farlo avvalendosi di tutti gli strumenti di reazione che (non soltanto la legge, ma anche eventualmente) l'atto costitutivo abbia attribuito ai soci. 4. Resta da vagliare il ricorso incidentale, col quale, denunciando vuoi la violazione degli artt. 2286, 2287, 2315 e 2319 c.c., vuoi difetti di motivazione della sentenza impugnata, i soci accomandanti censurano detta sentenza nella parte in cui ha ritenuto di poter scindere la questione della legittimità della delibera di esclusione dell'accomandatario (rimessa alla cognizione degli arbitri) dall'impugnazione della contestuale delibera di revoca del medesimo accomandatario dalla carica di amministratore della società. Anche tale doglianza è priva di fondamento.
La corte d'appello ha puntualizzato espressamente che la sentenza di primo grado "nel capo in cui ha ritenuto non compromettibile in arbitri la questione concernente la revoca di Valvo Alfio dalla carica di amministratore non è stata fatta oggetto di specifico gravame (e che la stessa esente da censure è rimasta anche nella parte in cui tale revoca, in quanto deliberata soltanto dai soci accomandanti, ha dichiarato illegittima)". Sulla circostanza che la clausola arbitrale fosse validamente operante solo per la delibera di esclusione dell'accomandatario dalla società, e non anche per la delibera di revoca dalla carica di amministratore, si è dunque formato un giudicato interno, preclusivo di ogni ulteriore possibile discussione in argomento.
Ma, stando così le cose, e non potendosi certo dubitare che l'interessato avesse comunque diritto d'invocare la tutela giurisdizionale anche avverso la delibera di revoca dalla carica amministrativa, restando attribuita agli arbitri la risoluzione della sola controversia concernente la sua esclusione dalla società, non si vede come quella tutela potesse essere assicurata dal giudice adito se non, appunto, tenendo separate le due questioni e provvedendo unicamente sulla prima di esse.
D'altro canto, come già in precedenti occasioni questa corte ha avuto modo di puntualizzare (cfr., in motivazione, Cass. 22 dicembre 2006, n. 27504), se è vero che nell'accomandita semplice l'amministratore non può essere che un socio accomandatario, onde la sua esclusione dalla società, non diversamente da qualsiasi altra causa di scioglimento del rapporto sociale a lui facente capo, automaticamente comporta anche la cessazione dalla carica di amministratore, non è vero il reciproco, ben potendovi essere anche accomandatari che amministratori non siano (come agevolmente si argomenta dall'art. 2318 c.c.); di modo che l'esclusione del socio e la revoca dell'amministratore costituiscono situazioni affatto distinte, legate a presupposti non necessariamente coincidenti, e ciò non consente di sovrapporre la disciplina legale dell'una figura a quella dell'altra, ne' implica che l'eventuale revoca dalla carica di amministratore (peraltro esclusa dalla pronuncia impugnata, nel caso di specie, per ragioni che non sono state oggetto di censura) incida sul perdurare del rapporto sociale.
5. Il rigetto di entrambi i ricorsi comporta la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte riunisce i ricorsi, li rigetta e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2009