Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 802 - pubb. 01/07/2007

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Appello Brescia, 06 Dicembre 2000. Est. Dentoni.


Fallimento – Azione revocatoria ordinaria ex artt. 2901 c.c. e 66 l.f. – Subingresso del curatore del fallimento del debitore convenuto in revocatoria ordinaria – Ammissibilità – Onere della prova dei crediti – Necessità.



 


 


omissis

Contrariis rejectis, in totale riforma della sentenza appellata e in accoglimento dell’atto di appello, respingersi tutte le domande proposte da Andrea Bianchi e dal Fallimento ALFA S.r.l. contro la Delta S.r.l., con salvezza di spese ed onorari del doppio grado

Dell’appellato:

Respingersi l’appello proposto dalla S.r.l. Delta, confermandosi in ogni sua parte l‘impugnata sentenza del Tribunale di Mantova.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione affidato per la notificazione al servizio postale in data 16 maggio 1991, Andrea BIANCHI conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Mantova le società ALFA S.r.l. e DELTA S.r.l. perché fosse dichiarata l’inefficacia, nei suoi confronti, ai sensi dell’art. 2901 cod. civ., dell’atto di compravendita stipulato il 16 ottobre 1990 dalle società predette e in forza del quale la prima aveva venduto alla seconda un immobile sito in Milano alla via Tazzoli. A sostegno della domanda esponeva le seguenti circostanze. Egli andava creditore verso la Alfa per il corrispettivo di prestazioni professionali in relazione al quale aveva ottenuto, il 15 marzo 1991, decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per L.82.506.425. All’atto dell’iscrizione dell’ipoteca legale, l’attore si era avveduto che il precedente 16 ottobre la propria debitrice aveva alienato alla Delta l’unico immobile di sua proprietà che pure risultava già gravato da precedente iscrizione ipotecaria in favore dello stesso Bianchi. L’amministratore della Alfa, Maria Carla Alfredi aveva personalmente curato la costituzione della Delta che era stata creata evidentemente ad hoc per recare pregiudizio alle ragioni dei creditori della stessa Alfa. Ricorrevano quindi, a parere dell’attore, tutte le condizioni previste dall’art. 2901 cod. civ. per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria.

Si costituiva in giudizio la Alfa che innanzitutto rilevava come il credito a garanzia del quale agiva l’attore fosse quasi totalmente inesistente e come avverso il decreto ingiuntivo indicato in citazione fosse stata proposta tempestiva opposizione. La convenuta, inoltre, dichiarava di possedere altri beni oltre quello oggetto della compravendita impugnata sufficienti a soddisfare le reali spettanze di Bianchi e contestava comunque esistessero le condizioni perché l’atto potesse essere oggetto di revocatoria. Concludeva pertanto perché la domanda di controparte fosse respinta e perché l’attore fosse condannato per responsabilità processuale aggravata.

Anche la Delta si costituiva davanti al Tribunale, negando innanzitutto di essere stata costituita al precipuo scopo di frodare i creditori della Alfa. Al riguardo deduceva che fin dal marzo 1990 essa aveva acquistato un’azienda di commercio al minuto di generi alimentari e che aveva sottoscritto due contratti di affitto di immobili commerciali, non essendo andati a buon fine i quali aveva poi acquistato l’immobile della Alfa. Escludeva comunque di aver saputo alcunché dei rapporti tra la sua dante causa e Bianchi. Anche la Delta concludeva quindi perché la domanda di questi fosse respinta, con condanna dello stesso Bianchi al risarcimento dei danni ex art. 96 cod. proc. civ.-

Assunta la prova testimoniale, la causa era rimessa al Collegio per la decisione. Nelle more, con comparsa in data 8 aprile 1997 si costituiva in causa il Fallimento Alfa S.r.l. in sostituzione dell’attore Bianchi. Il curatore rilevava innanzitutto che, a seguito della dichiarazione di fallimento della debitrice, l’attore aveva perduto La legittimazione a proseguire il giudizio che spettava al curatore stesso, giusta il disposto dell’art. 66 della legge fallimentare; aggiungeva che la causa avrebbe dovuto proseguire davanti al giudice ordinario anziché davanti al Tribunale fallimentare e che, in ogni caso, gli effetti dell’eventuale accoglimento della domanda avrebbero dovuto riversarsi a favore non più del singolo creditore, ma dell’intera massa. Nel merito, si confermava nella conclusioni già prese da Bianchi.

Il Tribunale con ordinanza in data 8 maggio 1997, sospendeva il giudizio ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. ritenuta la pregiudizialità della causa instaurata a seguito dell’opposizione a decreto ingiuntivo a suo tempo proposta dalla Alfa nei confronti di Bianchi. Con successivo ricorso depositato ai sensi dell’art. 297 cod. proc. civ. il 2 febbraio 1998, il Fallimento Alfa dava atto che la causa di sospensione era venuta meno in quanto il credito di Bianchi era stato ammesso definitivamente al passivo della procedura e chiedeva quindi fissarsi udienza per la prosecuzione del giudizio. La causa veniva rimessa all’udienza collegiale del 10 novembre 1998 e qui trattenuta per la decisione.

Con sentenza in data 15 dicembre 1998 (depositata il 21 gennaio 1999), il Tribunale di Mantova, in accoglimento della domanda, dichiarava l’inefficacia nei confronti del Fallimento Alfa S.r.l. della compravendita intervenuta tra la Alfa e la Delta e condannava quest’ultima alla rifusione delle spese del giudizio. Il giudice dì primo grado fondava la propria decisione sulle testimonianze assunte in corso di causa dalle quali emergeva che la Alfredi, amministratrice della Alfa avrebbe costituito la Delta con la scopo di poter esercitare la propria attività commerciale nonostante le gravi difficoltà in cui versava la prima società e al fine di mettere al sicuro il patrimonio della Alfa medesima. Rilevava inoltre il Tribunale che l’immobile venduto costituiva il solo bene di cui disponeva la società e che erano certamente ravvisabili nella fattispecie sia la conoscenza, nel debitore, del pregiudizio in tal modo arrecato alle ragioni del creditore, sia la consapevolezza, nel terzo, che attraverso quell’atto il debitore medesimo diminuiva le garanzie spettanti ai suoi creditori.

La sentenza, notificata il 24 marzo 1999 alla Delta, veniva da questa tempestivamente impugnata. Con atto notificato il 21 aprile 1999, infatti, la società citava a comparire davanti alla Corte di appello di Brescia il Fallimento Alfa, la società Alfa, e Andrea Bianchi chiedendo che, in totale riforma della sentenza impugnata, fossero respinte tutte le domande proposte da Andrea Bianchi e dal Fallimento Alfa contro essa appellante. L’appello era affidato a sette motivi. Il primo denunciava la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. perché il tribunale aveva dichiarato inefficace l’atto nei confronti del Fallimento Alfa laddove lo stesso curatore si era riportato alla domanda già formulata da Andrea Bianchi che aveva insistito per la declaratoria di inefficacia della compravendita nei confronti di sè medesimo. Col secondo si lamentava la violazione dell’art. 66 della legge fallimentare in quanto il curatore, esercitando un’azione nuova rispetto a quella intrapresa a suo tempo da Bianchi, non aveva indicato quali crediti egli intendesse tutelare attraverso il suo agire in giudizio. Il terzo si fondava sull’assunta violazione dell’art. 111 cod. proc. civ. perché, essendo autonoma l’azione del curatore, quegli non avrebbe potuto succedere nel processo a Bianchi. Col quarto sì denunciava violazione degli artt. 43 e 51 della legge fallimentare perché il Tribunale avrebbe erroneamente omesso di dichiarare interrotto il giudizio ex art. 300 cod. proc. civ. attesa la dichiarazione di fallimento di una delle parti, risultando del tutto illegittima la prosecuzione del processo. Il quinto motivo lamentava la violazione dell’art. 268 cod. proc. civ. perché l’intervento della procedura era avvenuto nell’imminenza della udienza collegiale mediante deposito di memoria neppure scambiata con le controparti. Col sesto, l’appellante si doleva fosse stato disatteso il chiaro disposto dell’art. 66 della legge fallimentare che prevedeva l’esperibilità, da parte del curatore, della revocatoria davanti al tribunale fallimentare. Col settimo infine, si doleva la Delta che il Tribunale avesse fatto errata applicazione dell’art. 2901 cod. civ.; al riguardo sottolineava l’inaffidabilità delle prove testimoniali assunte, l’inesistenza di qualsiasi credito in capo a Bianchi, la conseguente impossibilità, per la Alfa e a maggior ragione per la Delta, di essere conscia di ledere con l’atto le ragioni di garanzia dell’attore.

Davanti alla Corte, si costituiva il solo Fallimento Alfa che contrastate le avversarie deduzioni, concludeva per il rigetto del gravame e la conferma della sentenza impugnata.

Esaurita la fase di trattazione, la causa perveniva all’udienza del 6 dicembre 2000. A questa comparsi, i costituiti procuratori insistevano perché fosse trattenuta dalla Corte per la decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I primi sei motivi di appello formulati dalla società appellante agitano tutti, a diverso titolo, la questione relativa alla legittimità dell’ingresso nel presente giudizio del curatore del debitore convenuto in revocatoria ordinaria successivamente fallito e della conseguente legittimità della pronuncia del giudice di primo grado che, adito al fine di ottenere una pronuncia di inefficacia dell’atto nei confronti del singolo creditore, ha dichiarato inefficace l’atto medesimo nei confronti della massa fallimentare.

Col primo motivo, infatti, si contesta il vizio di ultrapetizione appunto perché il Tribunale, pur dopo che il curatore del Fallimento Alfa aveva concluso, nel costituirsi in causa, riportandosi alle domande già formulate da Bianchi che aveva chiesto declaratoria di inefficacia nei confronti di sè medesimo dell’atto dispositivo compiuto dalla debitrice Alfa, ha invece pronunciato l’inefficacia dell’atto stesso nei confronti del Fallimento predetto, senza che mai siffatta declaratoria gli fosse stata sollecitata da alcuna delle parti in causa. Il secondo mezzo denuncia invece violazione del disposto dell’art. 66 della legge fallimentare sotto questo particolare profilo. Il curatore che subentra nell’azione revocatoria iniziata dal creditore, non prosegue l’azione stessa in nome dell’originario attore, ma esercita un’azione che è sua propria, con la conseguenza che egli dovrà indicare specificatamente quali siano il credito o i crediti che intende con tale strumento tutelare cosicché sia possibile, in relazione a ciascuno dei crediti indicati, verificare la sussistenza, nella specie, dei  requisiti richiesti dall’art. 2901 cod. civ. per il favorevole esperimento del rimedio revocatorio. Nel caso di specie, però, a dire dell’appellante, nessun accenno sarebbe stato fatto dal curatore sul punto, con la conseguenza che non ne sarebbe risultata qualificata l’azione esercitata ex art. 66 della legge fallimentare. Il terzo mezzo lamenta invece la violazione del disposto di cui all’art. 111 cod. proc. civ.: essendo la revocatoria ordinaria esperibile dal curatore azione autonoma rispetto a quella già iniziata dal creditore singolo, mai potrebbe verificarsi una successione nel processo del primo rispetto al secondo, con la conseguente illegittimità, nella fattispecie, del subingresso del curatore del Fallimento Alfa a Bianchi, creditore della società poi fallita. In qualche modo collegato alla doglianza appena esposta è poi il quarto motivo col quale la Delta lamenta violazione degli artt. 43 e 51 della legge fallimentare laddove il giudice di primo grado, a fronte della notizia certa del fallimento della Alfa e della conseguente perdita di legittimazione passiva del debitore convenuto, non ha dichiarato l’interruzione del processo che avrebbe poi potuto riattivarsi solamente dopo la chiusura della procedura e il conseguente ritorno in bonis del debitore medesimo. Qualificato come intervento l’ingresso nel giudizio del curatore, il quinto mezzo di gravame denuncia quindi l’illegittimità dello stesso in quanto avvenuto in spregio delle forme previste dall’art. 268 cod. proc. civ. e cioè mediante comparsa depositata allorché la causa era già stata rimessa al Collegio per la decisione e mai comunicata alle altre parti neppure in sede di notificazione del ricorso per la prosecuzione del processo dopo il venire meno della causa di sospensione. Col sesto motivo, infine, l’appellante segnala che la decisione del Tribunale avrebbe violato l’inderogabile competenza prevista dall’art. 66 della legge fallimentare per l’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria da parte del curatore, prevedendo tale disposizione la competenza a decidere del tribunale fallimentare.

I motivi di gravame cosi esposti possono essere trattati congiuntamente in quanto presuppongono l’analisi e la risoluzione di questioni che si collocano tutte nell’ambito dell’art. 66 della legge fallimentare e, in particolare, del rapporto tra questa norma e le situazioni in cui l’azione revocatoria sia stata già promossa, prima del fallimento del debitore, da un creditore di questi.

L’art. 66 della legge fallimentare prevede che il curatore possa domandare siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori secondo le norme del codice civile. Nell’evidenza del richiamo all’art. 2901 cod. civ., non può essere tuttavia disconosciuta la particolarità che l’azione revocatoria ordinaria viene ad assumere per il solo fatto di essere esercitata, anziché dal singolo creditore a tutela dei proprio credito, dal rappresentante della massa fallimentare che, come tale, agisce ai generali fini della ricostituzione del patrimonio del fallito onde garantire la soddisfazione concorsuale di tutti i creditori. Tale particolare atteggiarsi della revocatoria ordinaria nel caso in cui essa sia esperita dal curatore del debitore, successivamente dichiarato fallito, è stata ben colta dalla giurisprudenza che non ha mancato di rilevare come tale azione presenti struttura e disciplina eclettiche, in quanto partecipi sia dell’azione revocatoria ordinaria, sia di quella fallimentare. “E’ sufficiente riflettere”, evidenzia Cassazione civile, sez. I, 10 dicembre 1987, n. 9122, “che, mirando essa a tutelare la garanzia patrimoniale di tutti i creditori presenti e futuri dell’imprenditore, non è necessario distinguere fra atti negoziali (compiuti in frode) posteriori o anteriori al sorgere dei crediti altrui, perché l’essenza del rimedio si basa sull’unico pregiudizio possibile: quello che con l’atto si sia “determinato” oppure aggravato lo “stato d’insolvenza” dell’imprenditore”. Se dunque in questo va ravvisata la particolarità nei riguardi dell’azione ex art. 2901 cod. civ. esperita dal creditore singolo, la nota differenziante rispetto alla revocatoria fallimentare va invece individuata nel fatto che “la prova che l’atto negoziale abbia inciso sullo stato d’insolvenza dev’essere data dal curatore (eventus damni) al pari della prova della scientia damni del debitore e del consilium fraudis del terzo: entrambi consistenti nella consapevolezza della determinazione dell’”eventus damni”. In sostanza, il curatore non può giovarsi delle presunzioni che lo ausiliano nella revocatoria fallimentare dove l’avvenuta dichiarazione di insolvenza fa senz’altro presumere il carattere pregiudizievole degli atti specificamente indicati nell’art. 67 della legge fallimentare.

La giurisprudenza del Supremo Collegio si è più volte occupata del caso in cui, esperita l’azione revocatoria da parte del creditore, intervenga in corso di causa il fallimento del debitore convenuto. In questa evenienza unanime è la conclusione che “la legittimazione all’esercizio dell’azione spetta, in via esclusiva, al curatore” (Cassazione civile, sez. I, 4 agosto 1977 n. 3485; Cassazione civile, sez. I, 21 luglio 1998, n. 7119). La ragione dell’impossibilità, da parte del creditore - attore originario - di proseguire nell’azione è agevolmente rintracciabile nel fatto che, a seguito del fallimento, viene meno il suo interesse all’azione poiché la funzione di garanzia patrimoniale cui questa assolve e che consiste non già nel rientro del bene in se stesso nel patrimonio del debitore, ma nell’assicurare l’assoggettabilità di detto bene all’azione esecutiva del creditore vittorioso in revocatoria, non potrebbe più essere soddisfatta in presenza di una dichiarazione di fallimento da cui deriva immediatamente, ai sensi dell’art. 51 legge fallimentare, l’impossibilità dell’inizio e della prosecuzione di qualsivoglia azione esecutiva individuale sui beni del fallito (Cassazione civile sez. I, 21 Luglio 1998, n. 7119). L’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria in ordine agli atti di disposizione del fallito è in ogni caso destinata a risolversi a vantaggio di tutti i creditori e anche, come si è già notato, di quelli che hanno acquistato tale posizione successivamente al compimento dell’ano che ha depauperato il patrimonio del fallito.

La legittimazione esclusiva del curatore a esperirenre — in alternativa con le azioni revocatorie fallimentari previste dall’art. 67 della lègge fallimentare — l’azione revocatoria ordinaria può avvenire mediarte l’autonoma instaurazione della causa ma anche, come ritiene l’unanime giurisprudenza di legittimità, mediante il subentro del curatore medesimo nella causa già iniziata dal creditore (si veda da ultimo la già citata pronuncia del giudice di legittimità n. 7119 del 1998).

Cassazione civile, sez. I, 4 agosto 1977 n. 3485 spiega l’affermata possibilità, per il curatore, di proseguire l’azione revocatoria iniziata dal creditore osservando che il primo agisce sia come il sostituto processuale della massa dei creditori, privati della legittimazione ad iniziare o proseguire l’azione per tutta la durata della procedura fallimentare, sia come sostituto processuale del debitore fallito il quale perde la capacità di stare in giudizio rispetto ai rapporti patrimoniali compresi nei fallimento. L’affermazione non può sorprendere laddove postula l’assunzione, da parte del curatore, delle funzioni di sostituto processuale di due delle parti in origine contrapposte (il creditore e il debitore), perché l’azione revocatoria ordinaria esperita dal curatore ex ad. 66 legge fallimentare si differenza da quella esperita dal curatore anche per la struttura soggettiva in quanto, evidentemente, la prima non può che avere come parti solamente il fallimento e il terzo acquirente: anche dal punto di vista soggettivo, dunque, l’intervento del curatore fa assumere all’azione caratteri tutt’affatto peculiari. L’osservazione secondo la quale il curatore viene ad agire (anche) come sostituto processuale della massa dei creditori, poi, trova un significativo aggancio con quanto dispone l’art. 107 della legge fallimentare che prevede, nel caso di espropriazione immobiliare in corso alla data del fallimento, che il curatore si sostituisca nella procedura al creditore istante. In questa fattispecie si è all’evidenza optato, invece che per la rigorosa applicazione del divieto delle azioni esecutive individuali, per l’applicazione del principio di economia nei giudizi, ritenendosi infatti più proficua la prosecuzione, nell’interesse della procedura, di una prdcedura già iniziata anziché l’azzeramento di questa. Il parallelismo con l’istituto appena citato appare tanto più significativo in quanto anche l’azione revocatoria ordinaria si colloca in un ambito, sia pure ampio e generale, di attuazione delle garanzie patrimoniali del debitore, di talché non è affatto confliggente col sistema ammettere che, in nome di ragioni di celerità e di economia, anche nel caso della revocatoria ordinaria la procedura possa fare propri gli effetti di un’azione già iniziata dal singolo creditore.

Ammesso quindi che il curatore possa sostituirsi al creditore nell’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, è inevitabile ritenere che, per effetto della sostituzione del secondo da parte del primo, gli elementi peculiari dell’azione ex art. 66 legge fallimentare si innestino sull’azione già introdotta davanti al giudice, assistendosi a una vera e propria “trasformazione della revocatoria, dovuta all’intervento e alla nuova sua proposizione nel medesimo giudizio da parte del curatore (Cassazione civile, sez. I, 25 settembre 1976 n. 3158, parte motiva).

Quanto alle modalità del subingresso del curatore, si è precisato che esso avviene a mezzo della riassunzione del processo “nel grado e nella fase in cui questo si trovava al momento dell’interruzione” (Cassazione civile, sez. I, 4 agosto 1977 n. 3485) e questo, naturalmente, quando interruzione vi sia stata. Com’è noto, la perdita della capacità processuale della parte costituita (che si verifica a cagione della dichiarazione di fallimento) determina l’interruzione del processo solamente dal momento in cui il procuratore dichiari il fatto interruttivo all’udienza o lo notifichi alle altre parti. Ove tale dichiarazione (o notificazione) difetti, il soggetto cui compete la legittimazione a proseguire il processo può senz’altro costituirsi mediante apposita comparsa che, ai fini della comunicazione alle altre parti, deve essere depositata in cancelleria ai sensi dell’art. 170 cod. proc. civ..

Così dunque ricostruito il tessuto normativo e giurisprudenziale relativo alla materia di cui trattasi, devono vagliarsi, in rapida sintesi, i motivi di gravame che più sopra si sono elencati.

Risulta in primo luogo evidente la insussistenza del vizio di ultrapetizione denunciato col primo motivo di gravame. Infatti, il curatore del Fallimento Alfa, nel momento in cui è subentrato al creditore Bianchi ha innestato nel processo originariamente iniziato da questi l’azione revocatoria ordinaria specificatamente prevista a tutela delle ragioni della massa dei creditori. Pertanto, nel momento in cui il curatore ha dichiarato, nel costituirsi, di fare proprie le conclusioni già versate in causa dal creditore, queste ultime non potevano che intendersi nella nuova accezione imposta dai tini propri dell’azione revocatoria esercitata nell’interesse del fallimento. Decidendo in ordine all’azione stessa, pertanto, il giudice di primo grado non avrebbe comunque potuto dichiarare inefficace l’atto nei soli confronti dell’originario attore, poiché, come si è detto, l’intervento del curatore necessariamente aveva trasformato l’azione rendendola funzionale alla ricostituzione del patrimonio del fallito a vantaggio di tuffi i creditori concorsuali.

Non era poi necessario, ai fini del legittimo esperimento dell’azione consentita dall’art. 66 della legge fallimentare, che il curatore indicasse specificatamente quali fossero i crediti in funzione dei quali intendeva subingredire al creditore originario attore. Premesso che il curatore agisce, indiscriminatamente, a tutela di tutti i crediti che erano confluiti o sarebbero confluiti nella massa passiva del fallimento, indipendentemente dalla circostanza che essi fossero anteriori o successivi all’atto che si intende revocare, va rilevato che l’esigenza dell’analitica indicazione, da parte del curatore, dei crediti in sede di revocatoria ordinaria è funzionale alla possibilità di verificare, alla stregua degli stessi, l’esistenza dei requisiti previsti dalla legge per il positivo esperimento dell’azione. La specifica indicazione dei crediti, da parte del curatore, non attiene quindi alla legittimità dell’agire del curatore medesimo, bensì al merito dell’azione, nel senso che la necessità di circostanziare detti crediti rileva, come si vedrà in appresso, ai finì di integrare la prova circa la fondatezza della domanda. Si aggiunge peraltro che, qualora il curatore subentri al creditore nella revocatoria da questi già iniziata senza nulla precisare, è evidente che egli intenda avvalersi, ai fini della prova del credito e dei conseguenti elementi della fattispecie legale, proprio del credito per la cui tutela aveva agito l’originario attore. Per queste complessive ragioni, il secondo motivo di gravame deve essere rigettato nella parte in cui sembra postulare la specifica enunciazione dei crediti quale condizione per il legittimo esperimento dell’azione da parte del curatore.

Ritiene la Corte inesistente anche la violazione dell’art. 111 cod. proc. civ. denunciata col quarto mezzo. Il subingresso del curatore rispetto al creditore originario attore nella revocatoria ordinaria e infatti fenomeno che non si vuole ricondurre nell’ambito della successione nel diritto controverso ma a quello, del tutto diverso, della perdita di legittimazione del secondo in virtù dell’espressa attribuzione al primo, in via esclusiva e in forza di specifica disposizione di legge, del potere di esperire l’azione nei confronti del terzo acquirente.

Anche il quarto motivo di appello si rivela non fondato. La interruzione del processo invocata dall’appellante non era nella specie possibile poiché mancò la dichiarazione, proveniente dal procuratore della Alfa, dell’avvenuto fallimento di detta società. D’altra parte, il curatore del fallimento, soggetto legittimato a proseguire il processo, provvide a costituirsi in giudizio impedendo così l’emersione del fatto interruttivo. La legittimazione del curatore a proseguire l’esperimento giudiziale dell’azione in luogo dell’originario attore deve essere senzaltro ammessa (per le ragioni che si sono sopra espresse) e non contrasta poi, come lamentato dall’appellante, nè con l’art. 51 né con l’ari 43 della legge fallimentare. Al contrario, proprio il subingresso del curatore medesimo nel giudizio a tutela degli interessi di massa salvaguarda sia il principio che vieta, intervenuto il fallimento, le azioni esecutive individuali sia quello che attribuisce all’organo della procedura la rappresentanza processuale del fallito.

Non risulta violata la disposizione processuale contenuta nell’art. 268 cod. proc. civ., come sostenuto dalla Delta col quinto mezzo. L’articolo citato disciplina infatti le forme dell’intervento dei terzi nel processo, fattispecie alla quale non può essere in alcun modo ricondotto l’intervento del curatore nell’azione revocatoria ordinaria in corso autorizzato dall’art. 66 legge fallimentare. Rammentato infatti che il curatore interviene in luogo del creditore che, per effetto del fallimento, resta privo di qualsiasi legittimazione al prosieguo dell’azione e che lo stesso rappresenta anche il debitore, ormai privo della capacità processuale, l’intervento stesso risulta assimilabile ai casi di costituzione del soggetto cui competa di proseguire il giudizio. Detta costituzione è quindi possibile anche nella fase in cui il giudizio penda davanti al Collegio e può avvenire mediante il deposito della comparsa e del fascicolo in cancelleria senza la necessità di scambio della comparsa medesima con le altre parti costituite.

Non può infine essere condiviso neppure il sesto motivo di impugnazione col quale si denuncia violazione dell’art. 66 legge fallimentare assumendosi che l’azione sulla quale ha deciso il Tribunale di Mantova sarebbe stata sottratta alla competenza funzionale inderogabile del tribunale fallimentare prevista da quella norma. AI riguardo è agevole osservare che il tribunale fallimentare altro non è che il “tribunale che ha dichiarato il fallimento” e che nella fattispecie, il fallimento della Alfa S.r.1. fu dichiarato dal Tribunale di Mantova e cioè da quello stesso organo giudiziario che ha deciso sulla revocatoria promossa da Bianchi e poi proseguita dal curatore. Né potrebbe farsi leva su un’eventuale suddivisione in sezioni del predetto Tribunale e sull’affidamento a una delle stesse — in tesi diversa da quella che ha emesso la sentenza impugnata - della materia fallimentare. Al riguardo, infatti, costituisce principio consolidato che “il cosiddetto tribunale fallimentare, che si identifica con il tribunale che ha dichiarato il fallimento, non costituisce un organo speciale dell’ufficio giudiziario, sicché, anche quando questo sia un tribunale diviso in più sezioni, con apposita sezione per la materia fallimentare, la decisione resa in detta materia da una diversa sezione dello stesso tribunale non é invalida per ragioni d’incompetenza “ (Cassazione civile, sez 1, 17 Novembre 1982 n. 6153; Cassazione civile, sez. I, 9 maggion 1986 n. 3090; Cassazione civile, sez. 1, 15 marzo 1990 n. 2117). Deve pertanto concludersi che nella specie, contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante, sull’azione revocatoria ordinaria proposta cx art. 66 legge fallimentare dal curatore del Fallimento Alfa ha deciso il tribunale fallimentare, cosi come espressamente richiesto dalla norma suddetta.

Respinti quindi tutti i motivi di appello relativi alla legittimità formale dell’ azione esperita dal curatore, rileva la Corte che col settimo motivo la Delta ha lamentato numerosi errori in cui il Tribunale sarebbe caduto nel ritenere fondata, nel merito, la domanda proposta dalla procedura. Secondo l’appellante, in particolare, il giudice di primo grado avrebbe errato nel ritenere, sulla scorta della testimonianza del teste BORTOLOTTI, che scopo della costituzione della stessa Delta sarebbe stato quello di consentire alla Alfredi, amministratrice della Alfa, di proseguire la sua attività imprenditoriale nonostante la situazione di dissesto della stessa Alfa nonché di salvaguardare il patrimonio di quest’ultima, gravata da debiti ingenti. Inoltre, sempre secondo l’appellante, non sarebbe risultato provato, nella fattispecie, il consilium fraudis poiché non risulterebbe essere certo il credito vantato da Bianchi e quindi non provata la consapevolezza, nel supposto debitore, di agire in modo da diminuire le garanzie patrimoniali proprie del credito stesso. Infine, difetterebbe nella specie qualsiasi intento frodatorio da parte del debitore perché la deliberazione di alienare il patrimonio della Alfa fu presa, al fine di saldare i pregressi debiti, molto tempo prima che fossero posti in essere i singoli atti di disposizione tra i quali quello impugnato da Bianchi.

Ritiene la Corte che il motivo di gravame, così in sintesi riassunto, sia fondato e meriti accoglimento.

In generale, si annota che, secondo l’art. 2901 cod. civ. il creditore “può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti dispositivi del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni”. Questo “pregiudizio”, come noto, ricorre non solo quando l’atto di disposizione determini la perdita della garanzia patrimoniale del debitore, ma anche quando comporti una maggiore difficoltà, o incertezza, o dispendio nella soddisfazione coattiva del credito. Pertanto il requisito predetto sicuramente ricorre nella ipotesi in cui l’atto di disposizione riduca la consistenza del patrimonio del debitore in misura tale da rendere la parte residua inidonea a coprire l’ammontare dei debiti. Al fine di accertare, nel concreto, l’esistenza del pregiudizio subito dal creditore, occorre allora che vengano messi a confronto due valori: il patrimonio del debitore subito dopo la modificazione subita a seguito del compimento dell’atto di disposizione e la entità complessiva dei debiti preesistenti al compimento dell’atto, poiché solamente attraverso una valutazione comparativa della intera situazione debitoria e della consistenza quantitativa e qualitativa del patrimonio del debitore può stabilirsi in concreto se l’eventuale esecuzione forzata del creditore revocante sul patrimonio del debitore sortirebbe esito negativo o anche insufficiente in conseguenza dell’atto compiuto da quest’ultimo.

Trasportando queste affermazioni nell’ipotesi in cui la revocatoria ordinaria sia esperita dal curatore, non richiedendo l’art. 66 legge fallimentare presupposti diversi da quelli previsti dall’art. 2901 cod. civ., deve ritenersi che, ancorché l’azione stessa giovi a tutti i creditori ammessi al passivo, anche se il loro credito sia sorto dopo il compimento dell’atto di disposizione e ciò in quanto il curatore agisce per ricostituire il patrimonio del fallito a vantaggio dell’intera massa dei creditori, “il curatore del fallimento è tenuto a provare, a meno che non venga ipotizzata una dolosa preordinazione dell’atto dispositivo al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito ... che il credito dei creditori ammessi o di alcuni dei creditori ammessi era già sorto al momento dell’atto che si assume pregiudizievole, quale era la consistenza dei loro crediti, quale era la consistenza quantitativa e qualitativa del patrimonio del debitore subito dopo il compimento dell’atto che si assume pregiudizievole, consentendo soltanto la acquisizione di tali dati di verificare in concreto, attraverso il loro raffronto, se l’atto in questione abbia causato al creditore o ai creditori il pregiudizio sopra specificato” (Cassazione civile sez. I, 12 settembre 1998, n. 9092).

Con riferimento al caso di specie, occorre anzitutto precisare che, pur dopo la costituzione in giudizio del Fallimento, l’azione revocatoria ha avuto quale referente esclusivo il credito in forza del quale aveva agito ab origine Bianchi. La stessa curatela, nel rispondere al rilievo di controparte secondo il quale sarebbe stato omesso il riferimento esplicito ai crediti in riferimento ai quali si intendeva agire ex art. 66 legge fallimentare, ha precisato che proprio attraverso la produzione del decreto con cui Bianchi era stato ammesso al passivo, si è proceduto alla indicazione specifica del credito concorrente nel passivo fallimentare “relativamente al quale si riscontrano i presupposti soggettivo e oggettivo della revocatoria esperita” (comparsa di costituzione di secondo grado).

Per altro verso, va precisato che la decisione del Tribunale ha espressamente collocato la declaratoria dell’inefficacia dell’atto nell’ambito caratterizzato dalla mera consapevolezza, nel debitore, di ledere le ragioni del creditore, non essendosi difatti affermata l’esistenza di una dolosa preordinazione dell’atto al fine di pregiudicare il soddisfacimento di futuri crediti. Pertanto, assumendo come riferimento proprio il credito in forza del quale era stata iniziata l’azione revocatoria, è innanzitutto necessario verificare l’esistenza del credito medesimo, ricordando quanto sopra si è detto circa l’onere del curatore di fornire la prova che il credito era esistente e reale al momento del compimento dell’atto revocando.

Il Fallimento Alfa, come si è detto, ha inteso fornire della prova attraverso la produzione di copia dei verbali delle udienze per la verifica dei crediti dai quali, in effetti, il credito di Bianchi risulta ammesso al passivo per L.81.801.025 con interessi legali dall’11 dicembre 1990. Si aggiunge che, in relazione a tale credito, sarebbe possibile prospettare anche una collocazione cronologica, atteso che, nel verbale prodotto, si legge che il credito stesso è ammesso in via privilegiata per le annate 1989— 1990.

Va però rilevato che, rispetto all’unico credito evidenziato dal curatore nel suo agire in revocatoria ordinaria, sia la Alfa ancora in bonis, sia la Delta hanno formulato precise e serie contestazioni in ordine all’esistenza dello stesso. Sul punto, si osserva che il credito vantato da Bianchi venne anche giudizialmente contestato attraverso l’opposizione proposta contro il decreto ingiuntivo concesso in favore del creditore, opposizione che si chiuse, dopo la dichiarazione di fallimento, con una pronuncia di valenza esclusivamente processuale che revocò il decreto ingiuntivo e dichiarò improcedibile il giudizio appunto per il dichiarato fallimento. Tuttavia, è rilevante annotare che nel corso della procedura, il giudice istruttore ritenne di sospendere la provvisoria esecuzione del decreto concessa in sede di sua emissione rilevando che la domanda di pagamento di cui al ricorso monitorio era in contrasto con la documentazione prodotta dalla ingiunta che attestava, da un lato, di come fino al 1985 Bianchi avesse ricevuto compensi dalla Alfa in qualità di dipendente e, dall’altro, di come per le medesime prestazioni successive di cui si chiedeva il pagamento, la stessa Alfa avesse incaricato altri professionisti che erano stati regolarmente pagati.

In questa complessa e contraddittoria situazione, il Fallimento Alfa ha affidato la prova del credito di Bianchi alla mera produzione documentale di cui si è detto. L’elemento in tal modo offerto, a giudizio della Corte, non può però ritenersi probante poiché al provvedimento del giudice delegato di accertamento dei diritti dei creditori alla distribuzione proporzionale non può riconoscersi valore di accertamento definitivo e incontestabile al di fuori del fallimento, in quanto detto provvedimento ha effetto preclusivo soltanto durante la procedura fallimentare (Cassazione civile sez. I, 22 gennaio 1997, n. 664). Pertanto se l’accertamento suddetto implica che, in corso di fallimento e finché sia aperta la relativa procedura, non possono essere proposte dal creditore e dal debitore, ad un giudice diverso da quello fallimentare, le questioni riconducibili al credito ammesso al passivo, l’accertamento medesimo non esclude invece che, al di fuori del fallimento ed in pendenza della relativa procedura sia possibile contestare la validità o l’efficacia degli stessi titoli posti a fondamento delle domande di ammissione al passivo e, quindi necessariamente oggetto di esame e di valutazione ai fini della formazione dello stato passivo (ibid.).

E’ certamente possibile, per il giudice di un diverso giudizio nel quale siano parti altri soggetti, utilizzare l’accertamento formatosi in sede fallimentare come mero dato obiettivo su cui fondare il proprio convincimento (Cassazione civile, sez. I, 28 marzo 1990 n. 2545), ma è nondimeno necessario, in ossequio alle ordinarie regole sulla formazione di tale convincimento, che quel dato si inserisca in un contesto convincente e non contraddittorio coniugandosi con gli altri elementi a disposizione del giudice stesso. Nel caso di specie, però, si è detto che i dati presenti nel giudizio sono del tutto discordanti, andando alcuni in senso diametralmente opposto rispetto all’affermazione dell’esistenza del credito. Nè risulta prodotta in atti documentazione che consenta al Collegio di direttamente valutare sia le ragioni creditorie avanzate da Bianchi sia le ragioni di opposizione alle prime che, invece, furono già apprezzate dal giudice istruttore nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo e che lo indussero a sospendere la già concessa esecuzione provvisoria del decreto medesimo.

In questo contesto, deve quindi riconoscere la Corte come non vi sia in atti la prova dell’esistenza del credito vantato da Bianchi nei confronti della Alfa, ovvero dell’unico credito che il curatore ha allegato e indicato a fondamento della propria legittimazione a esperire l’azione revocatoria ordinaria. Non appare peraltro possibile indagare, ex officio, se all’epoca dell’atto impugnato vi fossero o meno altri crediti perché questa indagine attiene all’ambito della prova relativa all’eventus damni che, come si è visto, è regolata dalle consuete regole circa l’onere di allegazione e di dimostrazione.

Non essendo provato il credito a tutela del quale è iniziata l’azione revocatoria ordinaria, è evidente che, come ha rilevato l’appellante, nulla si possa dire circa l’esistenza della scientia damni da parte del debitore e del consilium fraudis da parte del terzo. Irrilevanti, al riguardo, risultano le prove assunte nel primo grado dalle quali è emerso che la Delta sarebbe stata costituita onde consentire la protrazione dell’attività imprenditoriale della Alfredi, amministratrice della Alfa, nonostante la situazione di grave difficoltà economica in cui versava detta società. Infatti, non essendo stata provata, nel presente processo, nè l’esistenza nè l’ammontare dei debiti della Alfa al momento del compimento dell’atto in tesi pregiudizievole, nè le consistenze patrimoniali della stessa non può affermarsi che la società disponente abbia agito alienando il proprio immobile nella consapevolezza di arrecare danno alle ragioni dei creditori e neppure che il terzo (nonostante il ruolo che l’amministratrice della Alfa pare avere avuto nella costituzione della Delta) sia stato consapevole degli effetti pregiudizievoli dell’atto per le ragioni dei creditori del proprio dante causa.

Pertanto, non avendo assolto il curatore del Fallimento l’onere probatorio che allo stesso incombeva la domanda a suo tempo proposta da Bianchi e quindi fatta propria dal Fallimento di dichiarare l’inefficacia dell’atto non poteva essere accolta. La sentenza di primo grado che invece ha condiviso la prospettazione di parte attrice deve essere quindi riformata, in accoglimento del gravame proposto dall’appellante.

La soccombenza del Fallimento comporta che lo stesso debba essere condannato a rifondere all’appellante le spese di entrambi i gradi del giudizio. Esse, in considerazione dell’attività defensionale effettivamente svolta quale risulta dal fascicolo di parte e dai verbali di causa, si liquidano in complessive L.5.800.000 (di cui L.1.800.000 per diritti e L.3.200.000 per onorari) e L. 6.270.000 (di cui L.1.200.000 per diritti e L.3.500.000 per onorari), rispettivamente per il primo e per il secondo grado.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente decidendo,

accoglie l’appello proposto dalla società DELTA S.R.L. contro la sentenza n. 46/99 del Tribunale di Mantova in data 15 dicembre 1998 —21 gennaio 1999 e, in riforma della stessa,

rigetta la domanda proposta da Andrea BIANCHI e quindi dal FALLIMENTO ALFA S.R.L. di revoca, ai sensi dell’art. 2901 cod. civ., dell’atto 16 ottobre 1990 n. 38364/10842 rep. notaio Cavandoli stipulato tra la Alfa S.r.l. e la Delta S.r.l.;

condanna il Fallimento Alfa S.r.l. a rifondere alla Delta S.r.l. le spese di entrambi i gradi liquidate in L. 5.800.000 e L. 6.270.000, rispettivamente per il primo e per il secondo grado.