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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 28/04/2020 Scarica PDF

Cancellazione della società dal registro imprese e accesso alla procedura di concordato preventivo: brevi note su Cass. 2020/4329

Astorre Mancini, Avvocato del Foro di Rimini, Cultore della materia presso la Cattedra di Diritto Fallimentare all'Università degli Studi di Milano - Bicocca


Una recente decisione della Suprema Corte[1] riporta all’attenzione degli operatori il tema del delicato rapporto tra gli effetti della cancellazione della società ex art. 2495 c.c. ed il perentorio termine annuale fissato dall’art. 10 l. fall. ai fini della dichiarazione di fallimento, alla luce dell’indubbio favore accordato dal legislatore agli strumenti di regolazione della crisi alternativi alla procedura maggiore, ed in particolare all’accesso alla procedura di concordato preventivo anticipato nelle forme del concordato c.d. in bianco.

Riprendendo un unico precedente giurisprudenziale di legittimità, Cass. 2015/21286, la Suprema Corte ha confermato il decisum per cui il combinato disposto degli artt. 2495 cod. civ. e 10 l. fall. impedisce al liquidatore della società cancellata dal registro delle imprese, di cui, entro l'anno dalla cancellazione, sia domandato il fallimento, di richiedere il concordato preventivo.

La soluzione adottata è in apparenza stridente, nella misura in cui viene di fatto impedito al debitore di ricercare e proporre una soluzione alternativa al fallimento, una volta che un creditore ne chieda l’apertura, quasi a voler sanzionare evidentemente la cancellazione volontaria dal registro delle imprese in presenza di rilevanti posizioni debitorie non definite; a maggior ragione ove si consideri che nel diritto concorsuale vigente il fallimento è orami considerato una procedura da adottare quale extrema ratio, essendo privilegiati gli altri strumenti di regolazione della crisi.

A ben vedere la ratio della decisione non sembra tuttavia risiedere nell’intento sanzionatorio quanto nel venir meno, conseguente alla cancellazione della società dal registro delle imprese, della finalità principale cui tendono tutte le procedure alternative al fallimento, ovvero il risanamento strutturale dell’impresa, nella convinzione che essa debba definire il proprio stato di crisi cercando di mantenere l’azienda sul mercato od in alternativa definendo con i propri creditori un assetto negoziale degli interessi economici il più condiviso possibile : la scelta volontaria di cancellare la società dal registro delle imprese, con gli effetti estintivi conseguenti al novellato art. 2495 c.c., e dunque il venir meno di un’impresa propriamente detta, viene quindi ritenuta incompatibile con la successiva determinazione di accedere a strumenti normativi chiaramente definiti per risolverne la crisi.

E’ chiaro che tale orientamento è strettamente collegato agli effetti estintivi derivanti dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, conseguenti al nuovo dettato normativo dell’art. 2495 c.c.  Come noto, nel sistema previgente detta cancellazione non provocava l’estinzione del soggetto giuridico, che si determinava solo in conseguenza dell’effettiva liquidazione dei rapporti giuridici pendenti in capo alla società e dunque alla definizione di tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi; pertanto, una società costituita in giudizio non perdeva la legittimazione processuale in conseguenza della sua sopravvenuta cancellazione; la rappresentanza sostanziale e processuale della stessa si manteneva in capo agli organi che la rappresentavano prima della formale cancellazione. A seguito della nuova formulazione dell’art. 2495 c.c. alla cancellazione della società consegue invece l’estinzione del soggetto giuridico, con il relativo venir meno della capacità e della legittimazione della società, per cui ai singoli soci è altresì precluso l’esercizio di azioni giudiziarie la cui titolarità sarebbe spettata alla società poi cancellata, dovendosi desumere che la stessa, avendo optato per la propria estinzione, vi abbia volutamente rinunciato; di qui la considerazione della carenza di legittimazione anche solo alla proposizione della domanda di concordato.

Peraltro, nel precludere l’accesso al concordato Cass. 2020/4329 appare in linea con l’espressa opzione normativa introdotta dal legislatore del Codice della Crisi, che all’art. 33 ultimo comma d. lgs. 2019/14 ha statuito l’inammissibilità della domanda di concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti presentata dall'imprenditore cancellato dal registro delle imprese.

Tuttavia resta problematica agli occhi dell’operatore l’impossibilità, per l’imprenditore collettivo cancellatosi dal registro delle imprese, di definire con i propri creditori un assetto negoziale concordatario, almeno nel caso in cui o più creditori abbia presentato istanza di fallimento.

Indubbiamente sussistono profili critici nell’ammettere la possibilità di presentare una domanda di concordato da parte di società estinta, si pensi solo alla redazione del verbale relativo alla decisione dei soci ex art. 152 l. fall. (per le società di persone) od anche alla documentazione obbligatoria di legge prevista dall’art. 161 l. fall., tra cui viene in evidenza la “relazione aggiornata” sulla situazione patrimoniale della società, ovvero di un soggetto giuridico ormai estinto.

Analoghe difficoltà sistematiche si rinvengono ove si ritenga inammissibile la presentazione della domanda di concordato, quantomeno con riferimento a) al diverso trattamento previsto per gli imprenditori individuali, verso cui è sempre possibile dimostrare la prosecuzione dell’attività di impresa malgrado l’intervenuta cancellazione della ditta dal registro delle imprese, ciò che dovrebbe consentire all’imprenditore individuale sopra soglia di proporre istanza di concordato; b) in relazione alla possibilità per l’impresa collettiva cancellata di proporre istanza di fallimento in proprio nell’anno successivo alla cancellazione, ammessa da parte della giurisprudenza, ancorchè appunto il soggetto giuridico sia estinto; c) alla circostanza per cui il sistema fallimentare, con riferimento al rapporto tra istanza di fallimento e domanda di concordato preventivo, sancisce in termine generali il c.d. criterio della prevenzione in favore del concordato.

Alla stregua di detto criterio, infatti, la declaratoria di fallimento non può intervenire fino a che non si verifichi uno degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., e dunque la  dichiarazione di inammissibilità, revoca dell’ammissione, mancata approvazione o diniego di omologazione del concordato, per cui appare di segno opposto il fatto che - nel caso di società estinta convocata in camera di consiglio - non si possa accedere al concordato e debba invece procedere la procedura prefallimentare; in ogni caso è indubbio che tutto il sistema fallimentare attuale ed il futuro Codice della Crisi siano permeati dall’espressa opzione del legislatore in favore delle procedure alternative al fallimento.

Attesa dunque l’inammissibilità sancita dalla Suprema Corte, residua al liquidatore della società cancellata solo il potere opporsi ad un eventuale ricorso per la dichiarazione di fallimento e di presentare reclamo contro l’eventuale declaratoria di fallimento, ex art. 18 l. fall., ma non anche di accedere a diversi strumenti di regolazione della crisi d’impresa.



[1] Cass. I sez. 20 febbraio 2020 n. 4329, pres. Didone rel. De Marzo, in questa Rivista.


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