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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/02/2019 Scarica PDF

Il nuovo concordato preventivo: "finalità", "presupposti" e controllo sulla fattibilità del piano (con qualche considerazione di carattere generale)

Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale


Sommario: 1. Finalità e tipologie del concordato. – 2. Presupposti per l’accesso alla procedura. – 3. L’obbligatoria attestazione della fattibilità del piano. – 4. Lo scrutinio giudiziale in ordine alla fattibilità del piano. – 5. Considerazioni generali su alcune criticità e lacune della nuova disciplina.

     


1. Finalità e tipologie del concordato

La disciplina del Capo III (“Concordato preventivo”) del titolo IV (“Strumenti di regolazione della crisi”) del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza esordisce con una norma – l’art. 84 – rubricata “Finalità del concordato preventivo”, il cui primo comma stabilisce che con il concordato preventivo il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio.

Il tenore della previsione chiarisce, anzitutto, che anche nella nuova legge l’interesse dei creditori continua a rappresentare la “stella polare” cui il legislatore guarda nel disciplinare la soluzione concordata della crisi.

La norma prevede infatti la “funzionalizzazione” dello strumento concordatario al soddisfacimento dei creditori, con ciò denotando che quello del ceto creditorio è l’interesse perseguito in via prioritaria (anche se – come si vedrà subito in appresso – non esclusiva) e che pertanto altri interessi possono bensì essere realizzati, ma solo se ed in quanto risultino compatibili con quello dei creditori e non già ove si pongano in contrasto con esso.

Che non si tratti, tuttavia, di un interesse esclusivo lo si evince chiaramente dal secondo comma dello stesso articolo, il quale, a proposito del concordato in continuità diretta, parla di “interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci”; disposizione, questa, richiamata immediatamente dopo, in quanto compatibile, con riferimento alla continuità indiretta. D’altronde, già nell’ambito della Sezione I del Capo II, dedicata agli obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza, l’art. 4, 1° c., lett. c), impone al debitore di gestire l’impresa durante la procedura nell’interesse prioritario dei creditori.

Queste prime considerazioni suscitano un’impressione di non piena rispondenza fra rubrica e contenuto della norma, evocando la figura retorica della sineddoche (la parte per il tutto): la rubrica menziona invero solo le “finalità” del concordato, laddove la norma, fin dal primo comma (con la dicotomia continuità/liquidazione), tratta anche – e in realtà soprattutto, dato il tenore dei commi successivi – delle modalità attraverso le quali si realizza il soddisfacimento dei creditori. E proprio dal disposto dell’art. 84 si ricavano le tipologie di concordato quali declinate dalla nuova disciplina, a cominciare appunto dalla summa divisio fra continuità aziendale e liquidazione del patrimonio, per proseguire con i “sottotipi” di concordato in continuità a seconda che l’attività d’impresa venga proseguita direttamente dal debitore, oppure da un soggetto diverso.

Il secondo comma dell’art. 84 stabilisce infatti che la continuità può essere diretta, ove sia condotta dallo stesso imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, ovvero indiretta, nel caso sia prevista la gestione dell’azienda in esercizio, o la ripresa dell’attività (e qui riecheggia il concetto di “riattivazione” di cui alla legge sull’amministrazione straordinaria), da parte di soggetto diverso dal debitore; e a tale riguardo la norma chiarisce che ciò può avvenire in forza di cessione, usufrutto, affitto, stipulato anche anteriormente al deposito della domanda di concordato, conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo.

La precisazione che la stipulazione del contratto di affitto deve avvenire “in funzione della presentazione del ricorso”, peraltro, suona di dubbia utilità e opportunità[1], oltre a risultare “eccentrica” (quando non addirittura incoerente) rispetto al dettato della delega, che non lasciava trasparire alcuna intenzione del legislatore delegante in tale limitativo senso.

All’atto pratico, il precetto sembra destinato a comportare la necessità che i contraenti l’affitto di azienda esplicitino il fatto che il negozio viene concluso (anche) in vista dell’eventuale presentazione della domanda di concordato (se del caso posto espressamente in alternativa ad altri rimedi), ben potendo non esservi ancora, all’epoca della stipulazione, certezza assoluta circa lo strumento giuridico da utilizzare. Del resto, non è richiesto che fra detto momento e il deposito del ricorso intercorra un lasso di tempo particolarmente breve, atteso che dottrina e giurisprudenza hanno da tempo chiarito (basti pensare all’interpretazione dell’odierno art. 111, 2° c.) che il nesso di strumentalità postula un criterio di tipo logico-funzionale e non già rigidamente cronologico.

La previsione in esame subordina altresì la legittimità della soluzione della continuità indiretta alla circostanza che nel contratto (o nel diverso titolo) sia previsto il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall’omologazione.

Di là dalla discutibile “contaminazione” della disciplina concorsuale con i predetti profili lavoristici (oggettivamente più acconci al contesto proprio dell’amministrazione straordinaria), occorre interrogarsi sul grado di effettiva precettività della norma, anche alla luce della tesi in base alla quale il precetto sarebbe “privo di reale efficacia dato che il suo mancato rispetto non potrebbe da solo determinare la risoluzione del concordato”[2].

Ora, pare in realtà potersi sostenere che la violazione dell’obbligo in questione non sia esattamente ininfluente, giacché essa sembra comportare, a ben vedere, la riqualificazione del concordato in liquidatorio, con la conseguenza che, ove il livello di soddisfacimento dei creditori chirografari si collochi al di sotto delle soglie di cui all’ultimo comma dell’art. 84, il concordato appare destinato a inammissibilità sopravvenuta o a risoluzione a seconda che la violazione si verifichi in data anteriore o posteriore all’omologazione.

Il terzo comma dell’art. 84 introduce il – purtroppo necessitato (in quanto imposto dalla legge delega) – criterio della prevalenza quale spartiacque fra continuità e liquidazione: “Nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino”.

La norma precisa poi che la prevalenza si considera “sempre sussistente” quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso. Tale disposizione, che sembra contenere una presunzione di tipo assoluto (come tale non superabile da prova contraria), vale a ben vedere ad ampliare il perimetro applicativo del concordato in continuità, in quanto prescinde dichiaratamente dal calcolo meramente quantitativo dei ricavi generati dalla continuità di cui si è detto poc’anzi. E in questo fatto – di per sé, ad avviso di chi scrive, positivo – qualcuno ha ravvisato, forse non a torto, un profilo di contrasto con la legge delega[3].

Sarebbe stato opportuno, peraltro, integrare la norma con l’ulteriore precisazione che dal calcolo della prevalenza vanno scomputate quelle risorse che, sebbene ricavate dalla vendita di beni, vengono reimmesse, in base a piano e proposta di concordato, nel ciclo produttivo, andando così a supportare la continuità aziendale. Il che avrebbe consentito, al contempo, di chiarire che detti proventi non vanno necessariamente destinati a beneficio immediato dei creditori, cosa che resta, invece, tuttora affidata all’interpretazione.

Da un punto di vista più generale, è lecito chiedersi se la rilevanza attribuita sia dal secondo che dal terzo comma dell’art. 84 alla tutela dei posti di lavoro, unitamente al fatto che la rubrica della stessa recita, come già si diceva, “Finalità del concordato preventivo”, non finisca per condurre, sul piano sistematico, ad annoverare fra gli interessi protetti dalla disciplina novellata, seppur in via non prioritaria, anche il mantenimento dei livelli occupazionali, che cessa in tal modo di costituire un corollario implicito del favor per la continuità aziendale; e ciò sebbene la norma, a rigore, menzioni solo, quali portatori di interessi ulteriori rispetto a quello dei creditori, l’imprenditore e i soci.

L’ultimo comma dell’art. 84, infine, è dedicato al concordato liquidatorio, il cui spazio applicativo esce sensibilmente (e fors’anche eccessivamente) ridimensionato dalla novella, essendosene subordinata l’ammissibilità non solo all’apporto di risorse esterne rispetto al patrimonio del debitore, ma anche al fatto che tale apporto sia idoneo a incrementare di almeno il dieci per cento il soddisfacimento dei creditori chirografari, che non può essere in ogni caso inferiore al venti per cento dell’ammontare complessivo del credito chirografario.

Riguardo al 10% la norma precisa – come suggerito anche da chi scrive[4] – quale debba essere il parametro di raffronto (“rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale”), con ciò chiarendo anche che questo e non altro (ad esempio, un ipotetico concordato in continuità, o la stessa liquidazione concordataria) è appunto lo scenario da considerare in chiave comparativa.

In tal modo le incertezze interpretative che dalla norma scaturiscono risultano significativamente limitate. Ed invero, la corretta lettura del precetto pare condurre ai seguenti corollari: (i) rispetto a quanto accadrebbe in caso di liquidazione giudiziale (scenario che va quindi attentamente descritto dal debitore e scrutinato dall’attestatore), il livello di soddisfacimento dei creditori chirografari dev’essere incrementato del 10%; (ii) in nessun caso il soddisfacimento dei chirografari può essere inferiore al 20%; (iii) la percentuale del loro soddisfacimento è giocoforza destinata a superare il 20% tutte le volte in cui essa sarebbe stata, nella liquidazione giudiziale, pari o superiore al 20%, di tal che in quest’ultima situazione il debitore non potrà – com’è invece possibile oggi – limitare il proprio impegno al “tetto legale” del 20%.

   

2. Presupposti per l’accesso alla procedura

Ai sensi del primo comma dell’art. 85, il presupposto soggettivo del concordato preventivo è il medesimo della liquidazione giudiziale, di tal che possono accedervi soltanto gli imprenditori commerciali non “sotto soglia”. Restano così fuori dall’ambito di applicazione del concordato (e, a monte, della liquidazione giudiziale) gli imprenditori agricoli, sebbene tale esenzione – che era stata invece opportunamente eliminata nell’elaborato della Commissione Rordorf – suoni anacronistica e sostanzialmente priva di una reale giustificazione, da leggersi piuttosto quale frutto di spinte corporative, come tali sprovviste di visione sistematica.

Non altrettanto sembra doversi affermare relativamente agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ai quali già oggi possono accedere anche gli imprenditori agricoli. Ed invero, il primo comma dell’art. 57 parla di imprenditore “anche non commerciale e diverso dall’imprenditore minore”, chiarendo in modo inequivoco l’esclusione degli imprenditori “sotto soglia” dal perimetro applicativo dell’istituto, ma denotando al tempo stesso l’intenzione del legislatore di farvi rientrare gli imprenditori agricoli.

La previsione dell’art. 57, come pure quella dell’art. 56 ove interpretata nel senso anzidetto, risultano tuttavia in contrasto con quanto stabilito dalla lettera c) del primo comma dell’art. 2, che collega alla definizione di sovraindebitamento, accanto a consumatore, professionista, imprenditore minore, start-up innovative e ogni altro debitore non assoggettabile a procedure liquidatorie previste dal Codice o da leggi speciali, per l’appunto l’imprenditore agricolo. Senonché, non pare che tale disposizione, per di più di natura definitoria, sia idonea a prevalere sulle norme testé esaminate, che oltre tutto sembrano rivestire carattere di specialità rispetto all’art. 2; senza dire che non vi sono, nella legge, previsioni chiaramente impeditive l’accesso degli imprenditori agricoli agli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento e agli accordi di ristrutturazione dei debiti, né vi è traccia di una siffatta volontà nella Relazione illustrativa.

A tale stregua, sembra potersi concludere nel senso permissivo anzidetto, tenuto anche conto del tenore letterale volutamente ampio degli artt. 56 e 57, destinato a far premio sulla norma di carattere generale e definitorio dell’art. 2.

Quanto al presupposto oggettivo, detta disposizione statuisce che per proporre il concordato l’imprenditore deve trovarsi in stato di crisi o di insolvenza. E in proposito sia consentito rinviare al contenuto del saggio “Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche”[5]. Basti qui segnalare come una situazione di insolvenza irreversibile non appaia compatibile con l’essenza stessa del concordato in continuità, laddove tale requisito della reversibilità non sembra sussistere nel caso di concordato liquidatorio.

La proposta di concordato – recita il secondo comma della norma – deve fondarsi su un piano fattibile e presentare i requisiti previsti dall’articolo 87.

In base al disposto di quest’ultimo, il piano di concordato, sia esso in continuità o liquidatorio, deve indicare: le cause della crisi; la definizione delle strategie d’intervento, gli apporti di finanza nuova, se previsti; le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, con indicazione di quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e delle prospettive di recupero[6]; i tempi delle attività da compiersi, nonché le iniziative da adottare nel caso di scostamento tra gli obiettivi pianificati e quelli raggiunti.

Con specifico riguardo al concordato in continuità, poi, la norma prescrive che il piano menzioni i tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria, le ragioni per le quali la continuità è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori, nonché, ove sia prevista la prosecuzione dell’attività in forma diretta, un’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura.

Merita altresì ricordare – sempre in merito al concordato in continuità – che il precedente art. 86 consente, con previsione fortemente caldeggiata anche da chi scrive, una moratoria fino a due anni per il pagamento dei creditori privilegiati, salvo che il piano contempli la liquidazione di quei beni e diritti su cui sussiste la prelazione. Ciò comporta ad un tempo che, affinché proposta e piano possano contemplare una moratoria ultrabiennale, occorra stipulare un patto paraconcordatario con i privilegiati interessati da un riscadenziamento siffatto: il che rappresenta un necessario prius rispetto alla presentazione della domanda di concordato, a meno di voler considerare detta stipulazione alla stregua di una condizione di omologabilità (con l’ovvio inconveniente, in tal caso, di proseguire il percorso concordatario fino quasi alla meta con questa rilevante incognita a mo’ di “spada di Damocle sul capo”).

Quanto alla “misura” del diritto di voto del privilegiati riscadenziati, la norma precisa essere pari alla differenza fra il loro credito maggiorato degli interessi e il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano. L’alternativa sarebbe consistita nel prevedere il diritto di voto per l’intero ammontare del credito, anche se in tal modo il peso dei privilegiati soggetti a moratoria sarebbe risultato, verosimilmente, sovradimensionato.

Relativamente al contenuto del piano, in base al terzo comma del nuovo art. 85 il piano di concordato può prevedere le stesse modalità di cui all’odierno art. 160 l. fall., inclusa la possibilità di suddividere i creditori in classi, pur con la riaffermata (indefettibile) precisazione che in nessun caso il trattamento stabilito per ciascuna classe può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.

Il quinto comma dell’art. 85 qui in esame codifica il principio dell’obbligatorietà della formazione di classi con specifico riferimento (i) ai creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l’integrale pagamento, (ii) ai creditori titolari di garanzie prestate da terzi, (iii) ai creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro e (iv) ai creditori proponenti il concordato e alle altre parti ad essi correlate. Questa previsione va accolta con favore, valendo oltre tutto a eliminare incertezze esegetiche foriere di non pochi problemi e a chiarire, attraverso un’elencazione di tipo tassativo, che quelli menzionati sono gli unici casi in cui si rende necessario far luogo alla creazione di classi: donde la verosimile impossibilità di ricavarne altri in via interpretativa.

   

3. L’obbligatoria attestazione della fattibilità del piano

Il secondo comma dell’art. 87, poi, stabilisce che il debitore deve depositare, con la domanda, la relazione di un professionista indipendente, il quale attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, e che analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano. Con esclusivo riferimento al concordato in continuità, poi, il terzo comma soggiunge che la relazione del professionista indipendente deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori (nel concordato liquidatorio detto requisito è implicito nella necessità che il quid pluris esterno incrementi il soddisfacimento dei chirografari di almeno il 10% rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale).

Ne deriva che anche nel nuovo regime l’attestazione del piano concordatario risulterà obbligatoria. E la scelta va salutata con indubbio favore, sol che si consideri che la diversa opzione adottata dalla Commissione di riforma era andata incontro alle severe critiche non solo delle categorie professionali interessate, ma anche dei primi commentatori. Chi scrive, ad esempio, aveva ritenuto di osservare che rendere facoltativa l’attestazione dell’esperto circa la veridicità dei dati e la fattibilità del piano, a meno che si trattasse di (i) modifiche sostanziali della proposta o del piano, ovvero (ii) dello scrutinio, nel concordato in continuità, del requisito del miglior soddisfacimento dei creditori, avrebbe comportato eccedere i limiti della legge delega, la quale, all’art. 6, 1° c., lett. c), richiede di “fissare le modalità di accertamento della veridicità dei dati aziendali e di verifica della fattibilità del piano”. Ed invero, rendere un’attività prevista dalla legge – quella dell’attestatore – da obbligatoria a (tendenzialmente) facoltativa non sembrava, obiettivamente, rientrare nel perimetro concettuale delle “modalità” di accertamento e di verifica. Per quel che può valere il profilo della ricostruzione normogenetica, inoltre, la proposta di eliminare o almeno rendere facoltativa l’attestazione non era stata fatta propria dalla sottocommissione “competente” in materia (di cui chi scrive ha fatto parte) e non era stata quindi sottoposta al plenum. Non a caso, non vi è alcuna menzione nella legge delega della volontà di rinunciare in tutto o in parte a tale istituto, né essa pareva evincibile in via interpretativa (fermo restando che una novità di tale rilievo sarebbe dovuta essere – e sarebbe stata – prevista in modo chiaro ed esplicito).

Nel medesimo senso, in ogni caso, deponevano due convergenti considerazioni di (in)opportunità.

In primo luogo, non era dato scorgere, se non nell’ottica del contenimento dei costi della ristrutturazione, la ragione per cui rinunciare a un supporto prezioso per il commissario giudiziale e per il tribunale (nonché, in ultima analisi, per i creditori) come l’attestazione[7], rendendola di regola facoltativa. Per di più, tale scelta si sarebbe posta in controtendenza rispetto all’accresciuto controllo giudiziale sulla fattibilità del piano, quale si evince chiaramente, a tacer d’altro, dal disposto degli artt. 51, 1° c., 52, 3° c. (in entrambi i quali si legge “anche con riferimento alla fattibilità del piano”), e dell’art. 90, 2° c. (che prescrive che il piano “abbia concrete possibilità di realizzazione”): il tribunale ai fini dell’espletamento di tale attività di verifica e il commissario ai fini della formulazione, già in sede di ammissione, dei propri rilievi  dovrebbero poter continuare a fruire dei controlli e delle analisi svolti, a monte, dall’attestatore.

In secondo luogo, altrettanto poco comprensibile appariva l’idea di rendere opzionale l’attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano, in certi casi assai complesso, per poi richiederla obbligatoriamente nel caso di modifiche del piano medesimo, o anche della sola proposta (sebbene l’attestazione riguardi esclusivamente, come la norma stessa dispone, la fattibilità del piano); modifiche che devono bensì essere sostanziali, ma che di regola risultano meno rilevanti delle “colonne portanti” del piano (specie se in continuità), che andrebbero dunque, a fortiori, attestate a prescindere da successive, eventuali, modifiche.

Ben venga dunque, per così dire, il ripristino dello status quo ante relativamente all’obbligo di attestazione, che nella nuova legge viene anzi ampliato.

E tornando appunto al testo in esame, merita ancora osservare che dal combinato disposto degli artt. 44 e 87 si evince che l’attestatore, correttamente (e coerentemente al proprio profilo professionale), non è chiamato a farsi carico dell’ammissibilità della proposta (l’aggettivo “giuridica” è una chiara ridondanza, non essendo dato conoscere casi di “ammissibilità economica”…), trattandosi di prerogativa del tribunale. Ma se così giustamente è, non sembra allora opportuno, allargando lo sguardo alle altre procedure di regolazione della crisi, che l’art. 56, e a maggior ragione l’art. 57 (essendovi qui la necessità dell’omologazione giudiziale), accollino all’attestatore l’onere – a ben vedere, oltre tutto, “sovraresponsabilizzante” – di verificare anche la “fattibilità giuridica” del piano: tale controllo, stanti le competenze tecniche dell’attestatore, ben si sarebbe potuto e dovuto limitare al profilo della fattibilità economica.

   

4. Lo scrutinio giudiziale in ordine alla fattibilità del piano

Oltre al vaglio dell’attestatore, il piano deve superare lo scrutinio condotto dal tribunale in sede di apertura del concordato. Il primo comma dell’art. 47, infatti, attribuisce al tribunale il compito di verificare “l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano”, nonché di acquisire, “se non disponga già di tutti gli elementi necessari, il parere del commissario giudiziale, se nominato ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett.b)”.

Quest’ultimo inciso sembra da riferirsi al caso in cui il debitore proceda omisso medio al deposito della proposta e del piano attestato (e quindi non possa esservi stata alcuna nomina in precedenza); anche perché, relativamente agli altri casi, l’utilizzo del verbo all’indicativo (“nomina”) denota chiaramente la necessità di tale designazione, che da facoltativa qual è oggi diventerà, in futuro, obbligatoria.

Quanto all’espressione “nomina ovvero conferma il commissario giudiziale” di cui alla lettera b) dell’art. 47, il primo verbo parrebbe riferirsi alla predetta nomina ex novo, mentre il secondo induce a domandarsi se il tribunale sia tenuto a confermare il commissario già officiato dell’incarico al momento della fissazione del termine ex art. 44 (laddove l’odierno art. 163 parla di “nomina”, proprio perché il tribunale non è obbligato a procedervi nella fase preconcordataria). Di là dall’infelice formulazione della nuova norma, deve ritenersi che il tribunale (titolare, oltre tutto, del potere di revoca a seguito del semplice venir meno del rapporto fiduciario) sarà pienamente libero anche in futuro di scegliere un soggetto diverso da quello inizialmente individuato per la fase antecedente al deposito del piano.

L’ipotesi in cui il tribunale disponga prima facie di tutti gli elementi necessari – e ritenga quindi superfluo il parere del commissario – va collegata a quelle (invero non frequenti) situazioni in cui, come già oggi recita la giurisprudenza, risulti manifesta l’assoluta inattitudine del piano a perseguire l’obiettivo del superamento della crisi. Negli altri casi è lecito pronosticare che il tribunale continuerà ad avvalersi del supporto (in particolare, ma non soltanto, di tipo aziendalistico-contabile) del commissario, confermando con ciò la prassi da tempo vigente di richiedere al medesimo un parere (c.d. “pre-opinion”) su domanda, piano e attestazione.

L’espressione “fattibilità economica” induce a ritenere che il relativo sindacato giudiziale sia destinato a incentrarsi sulla effettiva (e dunque non meramente ipotetica) realizzabilità[8] del piano, da valutarsi, con tutta verosimiglianza, alla stregua del criterio del “più probabile che non”, senza ovviamente richiedere la certezza del relativo risultato, per sua natura incompatibile con le valutazioni prognostiche di cui trattasi. Il che porterà a considerare centrale, come già oggi del resto accade, l’aspetto dell’esaustività e della correttezza metodologica dell’attestazione.

Quanto testé osservato induce a domandarsi se il disallineamento, riscontrato dal tribunale, rispetto alle previsioni di soddisfacimento dei creditori chirografari effettuate dal debitore possa di per sé integrare una causa di inammissibilità della domanda. All’interrogativo sembra doversi fornire risposta tendenzialmente negativa, almeno tutte le volte in cui l’anzidetta discrasia non risulti tale da rendere altamente verosimile l’impossibilità di attribuire alcunché ai chirografari[9]. E in proposito può soggiungersi che il ridetto art. 47, pur introducendo lo scrutinio giudiziale sulla fattibilità economica del piano, non comporta, a ben vedere, la possibilità per il tribunale di negare l’ammissione al concordato ogniqualvolta la percentuale offerta ai creditori chirografari venga giudicata troppo bassa: la verifica in questione, infatti, attiene al potere/dovere del giudice di valutare, di regola sulla scorta dei rilievi commissariali, le concrete prospettive di soddisfacimento dei creditori, indipendentemente dall’entità dello stesso. D’altronde, nulla avrebbe impedito al legislatore di stabilire una soglia percentuale minima anche per il concordato in continuità, sicché occorre prendere atto dell’assenza, nella disciplina riformata, di manifestazioni di volontà in tal senso.

Quanto poi all’ipotesi in cui il tribunale, all’esito del proprio scrutinio, pronostichi una percentuale di soddisfacimento così sensibilmente inferiore da reputare non fattibile quel determinato piano, non sembra per ciò solo preclusa la possibilità di consentire al debitore, attraverso la fissazione di un congruo termine, di allineare il contenuto della proposta e del piano ai rilievi formulati dal tribunale (ove insuscettibili di confutazione), scongiurando in tal modo una declaratoria di inammissibilità tout court.

Al riguardo, deve criticarsi la scelta del legislatore di non riprodurre, all’interno dell’art. 47, il disposto dell’odierno art. 162, 1° c., risultato invece assai utile nella pratica, anche grazie a una lettura schiettamente estensiva rispetto al dato testuale. Un pertugio nel senso della persistente possibilità per il tribunale di accordare un termine si rinviene peraltro nell’espressione, contenuta nel terzo comma dell’art. 47, “sentiti il debitore, i creditori che hanno proposto domanda di apertura della liquidazione giudiziale e il pubblico ministero”, ovviamente con riguardo alla figura del debitore. In linea generale, ad ogni buon conto, sembra difficile negare un potere siffatto in capo al tribunale a prescindere da previsioni che lo sanciscano espressamente, dovendosi anzi osservare che esso potrà in futuro esercitarsi al di là dei limiti (peraltro, come si diceva, in via di prassi sistematicamente valicati) dell’attuale art. 162 relativamente al “termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti”.

Merita infine osservare, riguardo al controllo sulla fattibilità economica del piano, che il tema riemerge in sede di omologazione, dal momento che, ai sensi del terzo comma dell’art. 48, il tribunale “verifica la regolarità della procedura, l'esito della votazione, l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”. Dal che si evince la conferma che anche nella riforma il diverso profilo della convenienza della soluzione concordataria resta affidato al giudizio dei creditori.

   

5. Considerazioni generali su alcune criticità e lacune della nuova disciplina

Allargando lo sguardo ad altre parti della novellata disciplina in tema di concordato preventivo, il difetto più eclatante che balza all’occhio scorrendo le nuove norme – come già altrove rilevato[10] – attiene al disposto dell’art. 54, 1° c., relativo ai provvedimenti cautelari adottabili nel corso del procedimento di accesso al concordato (norma, in verità, contenuta nel Capo IV e comune al giudizio di omologazione degli accordi di ristrutturazione). In base a tale previsione, infatti, il tribunale può, “su istanza di parte”, porre sotto sequestro l’azienda o il patrimonio del debitore ove ciò venga ritenuto idoneo ad assicurare in via provvisoria l’attuazione della sentenza che omologa il concordato.

Come si è già avuto modo (purtroppo invano) di rilevare, la norma risulta francamente aberrante[11]: quale imprenditore – viene da chiedersi – deciderà di accedere allo strumento del concordato (e a fortiori dell’accordo di ristrutturazione) se dovrà mettere in conto che la sua azienda e il suo patrimonio possono venire sequestrati prima ancora di una decisione del tribunale sull’accesso alla procedura? L’interrogativo è ovviamente retorico.

L’ansia di armonia sistematica deve evidentemente aver “preso la mano” ai redattori della parte di decreto relativa al procedimento unitario: solo così, infatti, si giustifica una norma di oggettiva pericolosità per i pervasivi effetti di cui è foriera (oltre che di discutibile utilità), che si pone fra l’altro in flagrante controtendenza rispetto all’obiettivo della tempestiva emersione della crisi e al ribadito favor per le soluzioni negoziate della stessa. Senza dire dei possibili dubbi di incostituzionalità (i) per eccesso di delega (di un precetto così invasivo non vi è la minima traccia nella legge delega); (ii) per lesione della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), non risultando l’ipotesi normativa in questione strumentale al perseguimento dell’utilità sociale; (iii) per irragionevolezza (art. 3 Cost.), stante la sproporzione del mezzo rispetto all’obiettivo perseguito, nonché per incongrua equiparazione nel trattamento, giacché la norma considera sullo stesso piano istituti – accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e liquidazione giudiziale – che occorre invece disciplinare in modo differenziato.

Sarebbe stato dunque lecito confidare nella recisa espunzione della norma nella parte in cui si riferisce al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione, potendo essa mantenersi con riguardo alla liquidazione giudiziale (non diversamente da quanto già oggi previsto dal vigente art. 15). Ma tant’é.

Come si è ricordato in precedenza, l’art. 87, 1° c., lett. d), richiede che il piano indichi “le azioni risarcitorie, revocatorie e recuperatorie esperibili”. Il precetto tuttavia si colloca, a ben vedere, ai confini con l’inesigibilità della prestazione, specie considerando il poco tempo concesso nel nuovo sistema al debitore per costruire il piano di concordato; senza dire dalla dubbia compatibilità di una disposizione siffatta, nella parte in cui ricomprende (implicitamente ma chiaramente) le azioni di responsabilità contro gli amministratori in carica, con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di nemo tenetur se detegere, andando tale norma ben oltre la disclosure, necessaria secondo la giurisprudenza ormai consolidata, circa gli eventuali atti di frode commessi anteriormente alla presentazione della domanda. Sarebbe stato preferibile, quindi, mantenere la soluzione adottata dalla legge vigente (cfr. l’art. 172 come novellato nel 2015), continuando a demandare tali approfondimenti alla relazione del commissario giudiziale.

Per quanto concerne due fattispecie oggetto, anche nel recente passato, di serrato dibattito come quelle di ordinaria amministrazione e di atti di frode, sarebbe stato d’uopo dettarne una definizione più esplicitamente coerente con gli approdi giurisprudenziali in materia, dal punto di vista sia del pregiudizio per il ceto creditorio, sia dell’elemento soggettivo in capo al debitore. Ciò avrebbe consentito, verosimilmente, di eliminare – o quanto meno di ridurre in modo significativo – le eterogeneità applicative tuttora non infrequenti.

In tema di voto dei creditori, poi, stante la lettura “elastica” che è stata data dalla Commissione al testo della legge delega, sarebbe stato importante rendere la disciplina concorsuale finalmente armonica con il resto dell’ordinamento civilistico, notoriamente retto dal principio della non significatività del silenzio (qui tacet neque dicit, neque negat, neque utique fatetur). Pertanto, si sarebbero dovuti scomputare i creditori non votanti dal quorum deliberativo, giacché il loro atteggiamento astensionistico non è, obiettivamente, riconducibile né a un assenso, né a un dissenso[12].

Quanto infine alla risoluzione (ma altri aspetti potrebbero essere menzionati), si sarebbe dovuta cogliere l’occasione per alcuni chiarimenti importanti, relativi a problemi che emergono con frequenza nella pratica[13]: a cominciare dalla risoluzione ante tempus, ove risulti manifesta l’impossibilità prospettica di pagare per intero i crediti privilegiati; per arrivare – aspetto ancor più rilevante – alla declaratoria di fallimento omisso medio, vale a dire senza la necessità della previa risoluzione, una volta decorso il termine dell’anno dalla scadenza fissata per l’ultimo adempimento del debitore[14].

E sarebbe stato bene chiarire altresì il concetto di inadempimento nelle due tipologie concordatarie (con particolare riguardo al raggiungimento, nella fase esecutiva, della percentuale di soddisfacimento dei creditori chirografari stabilita nella proposta), giacché è precisamente su questo terreno che si sono registrate, non da oggi, le maggiori divergenze in dottrina e in giurisprudenza.

In ultima analisi, non mancano dunque, all’interno del nuovo impianto normativo, disposizioni suscettibili di critica, né lacune che si sarebbero potute colmare. Ma il giudizio risulterebbe ingeneroso se non si riconoscesse che la novella contribuisce pur sempre a superare alcuni degli snodi più rilevanti e controversi della disciplina tuttora vigente, anche se va detto, nel contempo, che lo spazio per la soluzione concordataria della crisi viene, da questa riforma, ulteriormente ridotto: il che può destare nel commentatore qualche legittima perplessità in ordine alla scelta di fondo del legislatore, che appare in definitiva, per vero fin dalla legge delega, eccessivamente condizionata dai numerosi casi – in realtà per lo più antecedenti agli interventi “correttivi” del 2013 e del 2015 – di utilizzo abusivo (e come tale decisamente censurabile) dello strumento concordatario[15].

A livello più generale, deve constatarsi come la riforma, non soltanto nella parte dedicata al concordato preventivo, si sia discostata non marginalmente dall’originario disegno tracciato dalla Commissione Rordorf nel redigere la bozza dei princìpi di delega, finendo per risultare connotata assai più – e forse eccessivamente – nel senso dell’eterotutela giudiziale piuttosto che in quello dell’autotutela informata dei creditori e della valorizzazione dell’autonomia del debitore.

Solo il tempo potrà dire se, dal punto di vista delle ricadute sul nostro sistema economico, si è trattato di una scelta davvero felice.



*Le considerazioni svolte nel presente scritto anticipano, in parte, il contenuto delle relazioni sul concordato preventivo che saranno tenute in occasione del convegno “Prospettive e innovazioni del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza CCI” presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca il 13 marzo 2019, nonché del Corso di Alta Formazione in Diritto della crisi d’impresa presso l’Università degli Studi di Siena il 29 marzo 2019.

[1] Come già osservato nel contributo Concordato preventivo: finalità e presupposti, in Abriani, Ambrosini e altri, La riforma del fallimento. Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (Supplemento a ItaliaOggi del 23 gennaio 2019), Milano, 2019, p. 188.

[2] Nardecchia, Concordato preventivo e mantenimento dei posti di lavoro, in Abriani, Ambrosini e altri, La riforma del fallimento, cit., p. 187.

[3] Nardecchia, Concordato preventivo e mantenimento dei posti di lavoro, cit., p. 187, secondo il quale la norma “appare poco in linea rispetto alla legge delega che era di chiara ed immediata interpretazione in relazione al criterio determinante per valutare se il concordato potesse o meno ritenersi in continuità aziendale”.

[4] Osservazioni e proposte sullo schema di decreto delegato: allerta, procedimento unitario e concordato preventivo, in Osservatorio-oci.org, p. 5.

[5] In Ilcaso.it del 14 gennaio 2019.

[6] Per quanto concerne le azioni di responsabilità, il problema risulta invero stemperato, nel concordato liquidatorio, per effetto della norma – attributiva della legittimazione al liquidatore giudiziale – di cui all’art. 115.

[7] Come si è ritenuto di osservare durante il periodo dei lavori della Commissione (Riforma fallimentare al nodo attestatore, in Sole 24 Ore del 21 novembre 2017, p. 38), l’istituto dell’attestazione del piano concordatario è pur sempre “uno degli architravi della riforma del 2005 (riforma che la legge delega non ha affatto inteso sovvertire). I princìpi e le prassi elaborati negli anni in tema di indipendenza dell’attestatore, insieme alla sua responsabilizzazione anche sul piano penale, costituiscono oggi un presidio sostanzialmente adeguato, anche se probabilmente migliorabile”.

[8] Locuzione, questa, che era stata introdotta dal Governo nel presentare alle Camere il disegno di legge delega, poi modificato sul punto – anche su suggerimento di chi scrive – dopo il passaggio nelle competenti Commissioni, al fine di evitare l’introduzione di un termine diverso da quello, ampiamente “collaudato”, di fattibilità.

[9] Da ultimo, la Cassazione ha sancito l’ammissibilità di una domanda di concordato che contemplava il soddisfacimento dei chirografari nella misura dell’1% (Cass., 8 febbraio 2919, n. 3863, in Ilcaso.it). E in proposito sia consentito rinviare al contributo Brevi note sul soddisfacimento minimo dei creditori nel concordato preventivo, fra “causa concreta” e giudizio di convenienza, il Ilcaso.it del 14 febbraio 2019.

[10] Osservazioni e proposte sullo schema di decreto delegato: allerta, procedimento unitario e concordato preventivo, cit., pp. 12 ss.

[11] Non a caso, attenta dottrina ha osservato che il recupero di sovranità giudiziaria sancito dalla riforma raggiunge, in questa previsione, “effetti sconcertanti”: così Bozza, L’enigma del concordato con riserva nella bozza del codice della crisi e dell’insolvenza, in Ilcaso.it, p. 16, il quale giustamente aggiunge: “Un intervento così invasivo è concepibile nel caso delle proposte alternative per fronteggiare l’inerzia o addirittura l’ostruzionismo del debitore alla attuazione della proposta altrui (attuale art. 185 e futuro art. 123), ma non può essere permesso per realizzare la proposta dello stesso debitore dal momento che la sua inadempienza è già sanzionata con la risoluzione e senza peraltro collegarlo a precise circostanze” (ivi, p. 17).

[12] La proposta era stata avanzata da chi scrive nel contributo Problemi in tema di voto nel concordato preventivo, in Fallimenti & Società, 12 dicembre 2017.

[13] Relativamente ai quali si rinvia, fra i contributi più recenti, ad Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in www.ilcaso.it, 6 settembre 2017, e a Ratti-Pezzano, L’irrealizzabile esecuzione del concordato preventivo: il fallimento senza risoluzione, in Fallimento, 2018, pp. 744 ss..

[14] E in proposito merita ricordare che, mentre con le due ordinanze del 2017 (nn. 17703 e 29632) la Cassazione ha affermato la possibilità del fallimento omisso medio, le Sezioni Unite, nelle note sentenze nn. 9935 e 9936 del 15 maggio 2015, hanno di contro sancito, correttamente, il principio in base al quale “l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”.

[15] In argomento si vedano, ex aliis, le stimolanti riflessioni di Fabiani, Per un superamento delle reciproche diffidenze fra giudice e parti nel concordato preventivo, in Ilcaso.it del 24 luglio 2014, cui adde, da ultimo, R. Santagata, Concordato preventivo “meramente dilatorio” e nuovo “codice della crisi e dell’insolvenza”: verso il tramonto dell’abuso di diritto (o del processo)?, in corso di pubblicazione in Dir. fall.


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