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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/02/2019 Scarica PDF

Brevi note sul soddisfacimento minimo dei creditori nel concordato preventivo, fra "causa concreta" e giudizio di convenienza (considerazioni de jure condito et condendo)

Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale


La casistica giurisprudenziale degli ultimi lustri, insieme al dibattito dottrinale che ne è scaturito, hanno reso evidente come uno dei problemi più rilevanti dal punto di vista applicativo sia rappresentato dal livello minimo di soddisfacimento dei creditori chirografari, talora prospettato in termini di pochi punti percentuali, quando non intorno all’uno o due per cento.

Dal 2015 la questione ha cessato di interessare – com’è noto – il concordato liquidatorio per effetto dell’avvenuta introduzione della soglia del 20%, ma ha continuato a riguardare il concordato con continuità aziendale; e, per quanto si dirà in appresso, sembra destinata a non perdere importanza neppure nel nuovo assetto ordinamentale.

Nel recente passato, a fronte dell’opinione secondo la quale la previsione di una percentuale di soddisfacimento eccessivamente bassa non dovrebbe consentire l’ammissione al concordato (difettandone in tal caso la causa concreta)[1], si è sostenuto, da parte di alcuni autori (fra cui chi scrive), che tale aspetto deve in linea di principio ritenersi demandato alla valutazione dei creditori in ordine alla convenienza dell’opzione concordataria e che solo “una percentuale meramente simbolica non integri gli estremi indefettibili del piano di concordato (vale a dire non consenta alcuna “ristrutturazione dei debiti”, né “soddisfazione dei crediti” quali inderogabilmente prescritti dalla lett. a) del comma 1 dell’art. 160)”[2].

Cominciamo col ribadire come relativamente al ricorso al concetto di causa concreta del concordato la più autorevole dottrina giuscommercialistica sia da tempo schierata su posizioni estremamente critiche.

Si è infatti osservato, in proposito, che “la causa concreta, che rappresenta – è stato detto – un bisticcio linguistico o, come si è scritto, un concetto sfuggente, viene intesa come l’obiettivo specifico perseguito dal tipo di procedimento, finalizzato concretamente al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e a un soddisfacimento, pur modesto e parziale, dei creditori”[3].

Analogamente, si è rilevato come, “rispetto al concordato preventivo, non ci sia spazio per utilizzazioni operative della nozione di causa e che, eventualmente, ogni discorso in chiave finalistica debba essere svolto in termini di funzione: e la funzione del concordato è il soddisfacimento dei creditori nella maggior misura possibile”[4].

Inopportuno, quindi, “divagare per i sentieri – (…) impervi e con incerta meta – della ‘causa in concreto’. Categoria sterile (…) perché contrappone concreto ed astratto laddove sarebbe più proficuo ‘rileggere’ la dottrina della causa alla luce del più ampio riconoscimento, nell’ordinamento interno e comunitario, dell’autonomia privata, della meritevolezza dell’interesse e della sussumibilità dei motivi alla causa medesima”[5].

Invocare il concetto in parola, a ben vedere, “significa ricorrere ad una argomentazione di tipo finzionistico”[6]: l’interprete, come reazione a scelte legislative da lui non condivise, costruisce un modello ideale della fattispecie e, in mancanza di un elemento essenziale di detto modello, “egli disapplica la normativa (…). Un simile tipo di argomentazione costituisce una evidente forzatura delle scelte legislative. Non solo: in questo modo il parametro da cui dipende l’applicazione o non della normativa è molto labile, in quanto tutto è rimesso all’idea che il singolo interprete ha dei requisiti necessari perché (…) un piano sia idoneo ad assicurare il soddisfacimento della ‘causa concreta’ del procedimento di concordato”[7].

Le critiche, comprensibilmente severe, non sembrano tuttavia aver fatto breccia nella giurisprudenza, se è vero che anche nella più recente decisione di legittimità sul punto si ribadisce che “la causa concreta della procedura di concordato preventivo, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento” consiste “nel superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e nel riconoscimento in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti”[8].

Nondimeno, la Suprema Corte non attinge a tale concetto per risolvere la questione del livello minimale di soddisfacimento dei creditori chirografari. Proprio dal precedente testé citato, infatti, si ricava la puntuale conferma della tesi in base alla quale nel concordato in continuità è necessaria, ma sufficiente, l’assicurazione di un soddisfacimento in una qualche misura, ancorché assai modesta, del ceto chirografario (nel caso in esame la proposta di concordato contemplava il pagamento dei chirografari all’uno per cento).

Anche nella prospettiva ermeneutica fatta propria dalla Cassazione, “non è possibile individuare una percentuale fissa minima al di sotto della quale la proposta concordataria possa ritenersi (…) di per sé, inadatta a perseguire la causa concreta a cui la procedura è volta”[9]. Donde la dubbia correttezza di quell’orientamento della giurisprudenza che ha in passato ritenuto inammissibili domande in cui si offrivano ai chirografari percentuali inferiori, in certi casi al 5%[10], in altri al 3%[11], la cui fissazione appariva già in allora – come si è avuto modo di segnalare ripetutamente in sede convegnistica – piuttosto arbitraria, anche perché sprovvista di qualsiasi base testuale, risultando invece preferibili quelle decisioni che, ammettendo percentuali pari[12] o inferiori al 4%[13] (peraltro, di regola, ulteriormente ridimensionate nelle previsioni commissariali), hanno valorizzato la comparazione con lo scenario deteriore in caso di fallimento. Non a caso, in svariati provvedimenti adottati di recente da alcuni fra i maggiori tribunali italiani[14] si ammette espressamente la possibilità di offrire ai chirografari anche un paio di punti percentuali.

Né pare condurre a ritenere il contrario la formulazione dell’art. 161, secondo comma, lett. e), ove si richiede che nella proposta sia indicata “l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile”, senza che siano menzionati aspetti quantitativi di sorta.

Se così è, deve allora ribadirsi che l’unica ipotesi di reiezione in limine della domanda sotto il profilo di cui trattasi è data dalla palese inidoneità, prima facie, del piano concordatario a conseguire l’obiettivo del ritorno in bonis del debitore, senza che il tribunale possa sovrapporre alla valutazione dei creditori il proprio sindacato sul contenuto economico della proposta e sulla sua convenienza rispetto all’alternativa fallimentare. “Il Tribunale, dunque, deve avere riguardo – chiarisce la Suprema Corte – a rilevare dati da cui emerga, in maniera eclatante, la manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, ivi compresa la soddisfazione in una qualche misura dei crediti rappresentati. Una volta esclusa questa evenienza va lasciata al giudizio dei creditori, quali diretti interessati all’esito della procedura, la valutazione – sotto i diversi aspetti della plausibilità dell’esito e della convenienza della proposta – delle modalità di soddisfacimento dei crediti offerte dal debitore, ivi comprese la consistenza delle percentuali di pagamento previste”[15].

A tale stregua, la conclusione cui correttamente pervengono i giudici di legittimità è che “non rientra nell’ambito della verifica della fattibilità riservata al giudice un sindacato sull’aspetto pratico-economico della proposta e quindi sulla convenienza della stessa, anche sotto il profilo della misura minimale del previsto”. Fermo restando, ad avviso di chi scrive, che in situazioni nelle quali la percentuale risulti puramente simbolica, come nel noto caso del tre per diecimila esaminato anni fa dal Tribunale di Roma[16], non debbono ritenersi integrati i requisiti minimi della fattispecie legale, non potendosi parlare, in ipotesi siffatte, di soddisfacimento dei creditori (analogamente a quanto si afferma, mutatis mutandis, in tema di c.d. vendita nummo uno, dove la corresponsione di una somma puramente simbolica non può essere considerata alla stregua di un prezzo).

Così chiariti i termini della soluzione da ultimo accolta dalla Cassazione, merita domandarsi se essa appaia destinata a trovare conferma – sempre con esclusivo riferimento al concordato in continuità (stante il tenore del nuovo art. 84, u.c.) – anche dopo che sarà entrato in vigore il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza[17].

Una delle novità introdotte dalla riforma attiene precisamente al contenuto del controllo giudiziale, dal momento che, ai sensi del primo comma dell’art. 47, in sede di ammissione alla procedura, a seguito del deposito del piano e della proposta di concordato, il tribunale fa luogo all’apertura del concordato una volta “verificata l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano ed acquisito, se non disponga già di tutti gli elementi necessari, il parere del commissario giudiziale, se nominato ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera b)”.

Ai sensi del terzo comma della medesima norma, poi, il tribunale, “quando accerta la mancanza delle condizioni di ammissibilità e fattibilità di cui al comma 1, sentiti il debitore, i creditori che hanno proposto domanda di apertura della liquidazione giudiziale ed il pubblico ministero, con decreto motivato dichiara inammissibile la proposta e, su ricorso di uno dei soggetti legittimati, dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale.”

Ed ancora, in base al terzo comma del successivo art. 48, il tribunale, in sede di omologazione, “verifica la regolarità della procedura, l'esito della votazione, l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”.

Orbene, il nuovo art. 47, pur introducendo lo scrutinio giudiziale sulla fattibilità economica del piano, non comporta, a ben vedere, la possibilità per il tribunale di negare l’ammissione al concordato ogniqualvolta la percentuale offerta ai creditori chirografari venga giudicata troppo bassa. La verifica in questione, infatti, attiene al potere/dovere del giudice di valutare, di regola sulla scorta dei rilievi commissariali, l’effettiva realizzabilità del piano e, di conseguenza, le concrete prospettive di soddisfacimento dei creditori, indipendentemente dall’entità dello stesso[18].

Potrà quindi accadere anche in futuro, ovviamente, che venga ritenuto non fattibile un piano che preveda una recovery – poniamo – del 15% per i chirografari e, viceversa, fattibile uno che contempli una percentuale compresa, ad esempio, fra il 2 e il 3%. Ciò che conta, ai fini della valutazione prognostica di cui trattasi, non è il livello della percentuale, ma la possibilità che il piano di concordato, per com’è in concreto strutturato, supportato dal punto di vista finanziario e attestato, assicuri realmente il risultato previsto a beneficio dei creditori.

Ne deriva che, nella prospettiva de jure condendo non diversamente da quanto accade oggi, il giudizio sulla convenienza della soluzione concordataria resta riservato ai creditori anche nell’ipotesi in cui il loro soddisfacimento sia previsto in misura minimale[19], esulando ciò dallo scrutinio circa la fattibilità economica del piano di cui ai nuovi artt. 47 e 48 del Codice.



[1] Per i termini del dibattito e i relativi riferimenti cfr. Arato, Il piano di concordato e la soddisfazione dei creditori concorsuali, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da Cagnasso-Panzani, III, Milano, 2016, pp. 3454-3455.

[2] Ambrosini,Il concordato preventivo, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, IV, Torino, 2014, p. 242.

[3] Gambino, in AA.VV., Seminario a commento di Cass., S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521, in Giur. comm., 2014, I, p. 240.

[4] Nigro, ivi, p. 236.

[5] Montalenti, ivi, p. 232.

[6] Sacchi, ivi, p. 226.

[7] Sacchi, ivi, p. 227.

[8] Cass. Civ., Sez. I, 8 febbraio 2019, n. 3863, inedita.

[9] Ibidem.

[10] Trib. Modena, 3 settembre 2014, in Ilcaso.it.

[11] Trib. Bergamo, 4 dicembre 2014, in Giur. comm., 2015, II, p. 832, con nota di Milano; Trib. Sant’Angelo dei Lombardi, 7 maggio 2013, in Expartecreditoris.it.

[12] Trib. Lecco, 10 luglio 2015, in Ilfallimentarista.it, con nota di Paganini.

[13] Trib. Palermo, 4 giugno 2014, in Giur. comm., 2015, II, p. 832; App. Genova, 3 luglio 2014, in Ilcaso.it.

[14] Cfr. ad esempio, da ultimo, Trib. Milano, 15 novembre 2018, in Pluris-cedam.utetgiuridica.it.

[15] Cass. Civ., Sez. I, ordinanza dell’8 febbraio 2019, n. 3863, inedita.

[16] Trib. Roma, 16 ottobre 2008, in Dir. fall., II, p. 551. Sul tema v., in luogo di altri, Macario, Nuovo concordato preventivo e (antiche) tecniche di controllo degli atti di autonomia: l’inammissibilità della proposta per mancanza di causa, in Banca, borsa, tit., II, pp. 736 e ss., cui sia consentito aggiungere Ambrosini, La domanda di concordato, in Ambrosini-Demarchi-Vitiello, Il concordato preventivo e la transazione fiscale, Bologna, 2009, pp. 60-62.

[17] Per un primo, breve, commento alla disciplina delle finalità e dei presupposti del nuovo concordato preventivo cfr. Ambrosini, Concordato preventivo: finalità e presupposti, in Abriani-Ambrosini e altri, La riforma del fallimento. Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, (supplemento a ItaliaOggi del 23 gennaio 2019), Milano, 2019, pp. 188 e ss.

[18] Problema che meriterà approfondire è quello dell’eventualità in cui il tribunale accerti la fattibilità del piano a condizioni diverse da quelle prospettate dal debitore. Può in proposito osservarsi, a tutta prima, come non sembri che ciò debba necessariamente condurre a una declaratoria di inammissibilità della domanda, avendo oltre tutto il debitore la possibilità di modificare il contenuto adeguandosi alle previsioni del tribunale (ma anche, in ipotesi, di confutare la correttezza di queste ultime).

[19] D’altronde, nulla avrebbe impedito al legislatore di stabilire una soglia percentuale minima anche per il concordato in continuità, sicché occorre prendere atto dell’assenza, nella disciplina riformata, di manifestazioni di volontà in tal senso.


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