Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6430 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. II, 04 Dicembre 1995, n. 12487. Est. Marotta.


Società - Di persone fisiche - Società semplice - Scioglimento - Esclusione - In genere - Esclusione del socio per gravi inadempienze ex artt. 2286 e 2287 cod. civ. carattere speciale delle anzidette norme rispetto a quelle generali sulla risoluzione ex art. 1453 cod. civ. - Differenze - Conseguenze.



Nelle società di persone, le norme sull'esclusione del socio "per gravi inadempienze", di cui agli artt. 2286 e 2287 cod. civ., hanno carattere speciale e sostituiscono quelle generali sulla risoluzione per inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive, di cui agli artt. 1453 e segg. cod.civ., le quali ultime non sono applicabili al contratto di società sia per la mancanza di interessi contrapposti tra il socio e l'ente sociale, sia per le diverse finalità cui esse sono preposte. Infatti, la risoluzione mette nel nulla il rapporto contrattuale nei confronti della parte inadempiente, con gli effetti restitutori di cui all'art. 1458 cod.civ., e, nel caso le parti in contratto siano soltanto due, elimina del tutto il rapporto con i reciproci obblighi restitutori delle parti di cui alla citata disposizione di legge; l'esclusione del socio comporta, invece, soltanto lo scioglimento del vincolo sociale limitatamente al socio inadempiente, con il diritto di quest'ultimo esclusivamente ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota, ma non anche, di per sè, lo scioglimento della società, neppure nel caso in cui i soci siano soltanto due, perché, in tale ipotesi, la società si scioglie solo se, nel termine di sei mesi, non venga ripristinata la pluralità di soci. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Filippo VERDE Presidente
" Vittorio VOLPE Consigliere
" Raffaele MAROTTA Rel. "
" Gaetano GAROFALO "
" Mario SPADONE "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto
da
D'ANDREA FRANCESCO, elettivamente domiciliato in Roma, alla via Pierluigi da Palestrina n. 19, nello studio dell'avv.to Alberto Angeletti, che lo rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso.
Ricorrente
contro
PITTINI LUIGI
Intimato
per la cassazione
della sentenza resa inter partes dalla Corte di Appello di Lecce in data 25 febbraio 1993, nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 587 del Ruolo generale degli affari contenziosi dell'anno 1991.
Udita, nella pubblica udienza del 10 marzo 1995, la relazione della causa svolta dal Cons. dott. Raffaele Marotta;
Sentito il Pubblico Ministero, nella persona del dott. Alberto Cinque, Sost. Proc. Gen., il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 24 ed il 26 marzo 1979, Luigi Pittini - premesso che, con contratto consacrato in scrittura privata in data 1 gennaio 1967, egli si era associato con Francesco D'Andrea per la costruzione di due complessi edilizi, da erigersi su un solo di mq. 873, sito il Lecce alla via Oberdan, di proprietà del D'Andrea; che, con il suddetto contratto, si era, tra l'altro, convenuto che al D'Andrea sarebbero rimasti assegnati in proprietà, nel primo complesso, mq. 200 al piano terra e l'intero appartamento sovrastante e, nel secondo complesso, l'intero appartamento al primo piano, a ridosso di quello del primo complesso, nonché ogni diritto sul lastrico solare, mentre ad esso Pittini sarebbero rimasti assegnati, in proprietà esclusiva, i locali a piano terra realizzati fra la scala e la proprietà Guercia; che le parti residue sarebbero rimaste di proprietà comune, in parti mobili, ed i soci ne avrebbero curato d'accordo la vendita, dividendo gli utili; che il primo complesso edilizio, con prospetto sulla via Oberdan, era stato realizzato sin dal 1968, mentre il secondo non era stato edificato, non essendo stata ottenuta la relativa licenza di costruzione; che il contratto aveva avuto completa esecuzione quanto al primo complesso;
che, però, alcuni locali assegnati ad esso Pittini erano rimasti intestati al D'Andrea, proprietario del suolo, per non essersi mai proceduto al formale trasferimento di essi; che il D'Andrea, con atto per notaio Mancuso dell'8 marzo 1979, trascritto il giorno successivo, li aveva alineati ad Antonio Vergallo, il quale era pienamente a conoscenza che il locali erano di esclusiva proprietà di esso Pittini in forza del contratto stipulato col D'Andrea con la menzionata scrittura privata del 1 gennaio 1967 - tutto ciò premesso, conveniva i nominati D'Andrea e Vergallo davanti al Tribunale di Lecce, chiedendo, in via principale, che venisse dichiarata la nullità, per simulazione assoluta, del contratto di compravendita per notaio Mancuso dell'8 marzo 1979, e, comunque, la inefficacia dello stesso nei suoi confronti, con la conseguente declaratoria che i locali siti in Lecce alla via Oberdan nn. 107, 111 e 113 erano di sua esclusiva proprietà, e, in via subordinata, che il D'Andrea venisse condannato al risarcimento dei danni in suo favore.
I convenuti si costituivano entrambi: il Vergallo contestava la fondatezza delle domande proposte dal Pittini nei suoi confronti e, insieme con il rigetto di esse, chiedeva, in via riconvenzionale, la condanna del Pittini al rilascio, in suo favore, dei locali detenuti senza causa, nonché al risarcimento dei danni per il ritardo in tale rilascio;
il D'Andrea contestava, anch'egli, la fondatezza delle pretese dell'attore e deduceva che l'unico inadempiente era il Pittini, il quale:
- non aveva mai voluto concorrere nelle spese necessarie per la realizzazione del fabbricato in Lecce, alla via Oberdan;
- aveva incassato dai promittenti acquirenti dei vari appartamenti notevoli acconti, sempre rifiutandosi di renderne il conto;
- non aveva richiesto il rilascio della licenza edilizia per la costruzione del secondo complesso, pur essendosene assunto il relativo onere;
- non aveva adempiuto l'obbligo di lasciare il suolo, della larghezza di m. 2,50, per le rampe di accesso allo scantinato e quello, della larghezza non inferiore a m. 2,00, da adibire a vano portone per accedere al secondo complesso edilizio;
- aveva violato i patti consacrati nelle clausole nn. 10, 11, 12, 13, 14 e 15 della scrittura privata del 1 gennaio 1967.
Tanto dedotto, il D'Andrea chiedeva, in via riconvenzionale, la risoluzione del contratto stipulato con la menzionata scrittura privata, per inadempimento del Pittini, con la condanna dello stesso al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede. All'esito dell'istruzione della causa - nel corso della quale il Vergallo chiedeva, ottenendolo, il sequestro giudiziario delle unità immobiliari oggetto dell'atto Mancuso, venendone nominato custode -, il Tribunale, con sentenza del 28 settembre 1990, così provvedeva:
- rigettava la domanda di simulazione e quella revocatoria spiegata dal Pittini che condannava all'immediato rilascio, in favore del Vergallo, delle unità immobiliari da quest'ultimo acquistate con l'atto Mancuso dell'8 marzo 1979, da cui convalidava il sequestro giudiziario autorizzato in corso di causa, liquidando i danni subiti dal Vergallo per il mancato rilascio delle unità medesime nella misura pari ai canoni di locazione percepiti dallo stesso come custode;
- condannava il D'Andrea a pagare, in favore del Pittini, a titolo di risarcimento di danni, la somma di L. 73.603.000, oltre alla rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT dal maggio 1985 sino alla data della sentenza (dichiarata provvisoriamente esecutiva) ed agli interessi legali sulla somma rivalutata, dalla domanda sino al soddisfo;
- condannava, poi, il Pittini al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore del D'Andrea, per il mancato rendimento del conto annuale;
- condannava, infine, il Pittini a rimborsare al Vergallo le spese del giudizio ed il D'Andrea a rimborsare al Pittini la metà di tali spese, compensando tra queste ultime parti la restante metà. In particolare, il Tribunale in motivazione osservava che:
- la domanda riconvenzionale del D'Andrea nei confronti del Pittini di risoluzione del contrato consacrato nella scrittura privata dal 1 gennaio 1967 era infondata, giacché, ai sensi dell'art. 2287, comma 3, C.C., non si può parlare di risoluzione di un contratto societario, ma semmai si esclusione del socio, per le cause di cui all'art. 2286 C.C.;
- comunque, nella specie, una simile domanda (nei confronti del Pittini) sarebbe stata ormai priva di interesse, essendosi da tempo sciolta la società sia pure per il conseguimento dell'oggetto sociale in relazione al complesso edilizio realizzato sia per la impossibilità di conseguire l'ulteriore oggetto sociale relativo alla edificazione del secondo complesso.
Avverso tale sentenza proponeva appello il D'Andrea, lamentando essenzialmente il rigetto della sua domanda di risoluzione, del contratto di cui alla menzionata scrittura, ed al riguardo deduceva:
che erratamente il Tribunale aveva ritenuto non provati i vari e notevoli inadempimenti del Pittini, il quale aveva incassato gli acconti corrisposti dai promittenti acquirenti degli appartamenti, simulando poi il pagamento di spese comuni in realtà mai effettuate, ed aveva ricevuto da lui una serie notevole di assegni per un importo di L. 68.900.000, di cui non aveva dato conto alcuno;
che tali inadempienze erano così rilevanti da comportare la risoluzione del contratto tra loro intercorso e, comunque, del preliminare con cui esso D'Andrea si era obbligato al successivo trasferimento della proprietà di unità immobiliari. Deduceva, poi, l'appellante:
che, in ogni caso, tenuto conto della corrispettività delle reciproche prestazioni, al caso andava applicato l'art. 1460 C.C. e, quindi, ritenuto legittimo, a fronte del comportamento inadempiente del Pittini, il rifiuto di esso D'Andrea dell'adempimento dell'obbligazione a suo carico;
che, inoltre, le valutazioni del C.T.U. Caracciolo, condivise dal primo giudice, non erano esatte, alla luce dei rilievi della consulenza di parte.
Tanto dedotto, il D'Andrea concludeva chiedendo in riforma della sentenza impugnata, la risoluzione, per inadempimento del Pittini, delle pattuizioni racchiuse nella scrittura privata del 1 gennaio 1967, con la condanna dello stesso al risarcimento dei danni, e, comunque, il rigetto di ogni risarcitoria avanzata dal Pittini nei suoi confronti, anche in applicazione dell'art. 1460 Cod. Civ. Al gravame resisteva il Pittini, il quale a sua volta, proponeva appello incidentale, censurando la statuizione del primo giudice della di lui condanna al risarcimento dei danni in favore del D'Andrea, per il mancato rendimento del conto annuale, sul rilievo che la domanda relativa era infondata nel merito e, comunque, colpita da prescrizione.
Dopo che il consigliere istruttore, con ordinanza del 3 giugno 1992, ebbe a rigettare la richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti del Vergallo sul rilievo che, relativamente alla posizione dello stesso, la sentenza del Tribunale era ormai passata in giudicato dal momento che le spiegate impugnazioni riguardavano unicamente il rapporto tra il D'Andrea ed il Pittini, ed a revocare nel contempo la provvisoria esecuzione della decisione di prime cure, al Corte di Appello di Lecce, con sentenza del 25 febbraio 1993, rigettava la impugnazione principale e quella incidentale, disponendo che la rivalutazione monetaria della somma di L. 73.603.000, dovuta dal D'Andrea al Pittini, venisse calcolata fino alla data della sentenza di secondo grado. Premessa una disamina delle pattuizioni di cui al contratto consacrato nella scrittura privata del 1 gennaio 1967, al Corte del merito, per quanto specificamente interessa nel presente giudizio di legittimità, osservava che:
- alla luce della predetta scrittura, l'unica "seria inadempienza" attribuibile al Pittini era quella, già riconosciuta dal Tribunale, della omissione del rendimento del conto annuale come previsto dalla clausola n. 14 del contratto, secondo cui, al compimento di ciascun anno solare, a partire dal 31 dicembre 1968, il Pittini avrebbe dovuto compilare il bilancio ed il conto dei profitti e delle perdite, che poi sarebbero stati passati al D'Andrea per l'approvazione, e gli eventuali utili, vincolati sul conto corrente sino al completamento dei due complessi, avrebbero dovuto essere divisi in parti uguali a quest'ultima data; il D'Andrea - precisava la Corte del merito in proposito - aveva provveduto a far notificare al Pittini ben due atti di diffida, uno nell'ottobre 1969 e l'altro il 31 luglio 1970, con cui il nominato Pittini veniva formalmente invitato, tra l'altro, a presentare il rendiconto delle spese, degli incassi e degli utili relativi alla costruzione del primo complesso;
il Pittini, però - che in sede di interrogatorio riconosceva di avere percepito degli acconti dalla vendita di vari appartamenti (elemento questo risultante anche dalla lettera di E. Casciaro, acquirente di una delle unità immobiliari) - nella stessa sede ammetteva di aver fatto soltanto "la contabilità finale", che, comunque, si era ben guardato dall'esibire; trattavasi, come era facile rilevare - continuava la Corte del merito - di una inadempienza documentale e non giustificata, sicché sul punto andava rigettato l'appello incidentale proposto dal Pittini, essendo infondata la eccezione di prescrizione sollevata relativamente alla domanda del D'Andrea diretta ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla predetta inadempienza;
- quanto alle altre inadempienze addebitate al Pittini, alcune - proseguiva la Corte del merito - rientravano nella più generale inadempienza, sopra indicata, riguardante il mancato rendimento del conto annuale; ciò valeva per quanto risultava dalla già menzionata lettera del cav. Casciaro e da quella dell'avv. Rango del 25 maggio 1971 e per i movimenti di assegni rilasciati dal D'Andrea al Pittini per un totale di L. 68.900.000: trattandosi per l'appunto di spese e di incassi dei quali il Pittini non aveva reso il conto e di ciò lo stesso avrebbe dovuto eventualmente rispondere nella separata sede risarcitoria (violazione questa ricompresa in quella già riconosciuta dal Tribunale); altre inadempienze o erano indimostrate ovvero insussistenti; e così l'addebito concernente la mancata richiesta della licenza di costruzione del secondo fabbricato: non vi erano elementi dai quali si fosse potuto desumere che un obbligo in tal senso incombesse al Pittini; e, quanto al mancato versamento degli acconti sul conto corrente bancario che si sarebbe dovuto aprire a nome del D'Andrea, era onere di quest'ultimo curare l'apertura del conto predetto;
- ciò precisato e premesso - affermava la Corte, avviandosi verso la conclusione sul punto -, al caso in esame non era applicabile la disciplina di cui agli artt. 1453 e seguenti Cod. Civ., bensì, come esattamente ritenuto del Tribunale, quella speciale di cui all'art. 2286 Cod. Civ.; infatti, era indubbio che, tra il D'Andrea ed il Pittini, con la scrittura del 1 gennaio 1967, venne posto in essere un vero e proprio contratto societario, sicché il D'Andrea, nel denunciare le "gravi inadempienze" del Pittini, avrebbe dovuto chiedere la esclusione dello stesso dalla società e, quindi, in sostanza, lo scioglimento della società, e ciò in conformità a principi enunciati e ribaditi dalla giurisprudenza, che da tempo aveva puntualizzato la differenza tra la risoluzione dei contratti con prestazioni corrispettive e la esclusione, da una società di due persone, di uno dei due soci, da considerarsi come un caso di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio e non già come risoluzione del contratto societario, e questa conclusione comportava che, nel caso di specie, non si potesse invocare, ex art. 1460 Cod. Civ., l'inadempimento altrui a giustificazione del rifiuto del proprio adempimento, ne' pretendere, conseguentemente, una valutazione comparativa della condotta dei due contraenti, al fine di stabilire l'equivalenza ovvero la prevalenza di una inadempimento rispetto all'altro, a scopi risolutori o anche solo risarcitori;
- andava, infine, rilevato che le indagini e le valutazioni del C.T.U. ing. Caracciolo si sottraevano a qualsiasi censura sia sul piano tecnico scientifico che su quello logico e che, pertanto, le conclusioni dello stesso erano da condividere pienamente; invero - precisava la Corte del merito - l'ing. Caracciolo aveva proceduto ad una valutazione rigorosa degli immobili interessati dalla controversia, siti in zona centralissima della città di Lecce, determinandone il valore in L. 46.500.000 al 1979; e, con una relazione suppletiva, aveva risposto analiticamente alle critiche del consulente di parte del D'Andrea, geom. Rollo, osservando in particolare che quest'ultimo aveva basato la sua stima dei tre locali su presupposti non veri ed erronei (analiticamente contestati); per contro, la stima del C.T.U., peraltro ricavata con due distinti metodi analitici, era rispondente ai prezzi di mercato, mentre del SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
tutto irrilevante, ai fini della soluzione della controversia, era il valore a suo tempo concordato (L. 15.000.000), a fini fiscali, con l'Ufficio del Registro di Lecce.
Per la cassazione di tale sentenza, ricorre il D'Andrea sulla base di tre motivi.
L'intimato Pittini non ha svolto alcuna attività difensiva. Il ricorrente ha presentato anche memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo del ricorso, il D'Andrea - denunciando violazione ovvero errata o falsa applicazione degli artt. 1453 e 1459 cod. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. - censura la impugnata sentenza, per avere la Corte del merito, come già il primo giudice, ritenuto non applicabile ai contratti cosiddetti "con comunione di scopo", tra i quali va annoverato quello di società, il rimedio generale della risoluzione del rapporto in caso di inadempimento contrattuale, ma soltanto quello specifico della esclusione del socio, che si sia reso responsabile di "gravi inadempienze", ai sensi degli artt. 2286 e 2287 Cod. Civ. Il rimedio della esclusione del socio (dell'associato o di qualsiasi altro membro di un consesso avente comunione di scopo) non è l'unico consentito per il caso di constatata inadempienza del socio medesimo, ben potendo essere praticata, in alternativa - sostiene il ricorrente, che a sostegno della sua tesi richiama la sentenza della Corte Suprema n. 579 del 2 marzo 1973, in materia di associazione, ex artt. 14 - 24, Cod. Civ. - la risoluzione giudiziale del rapporto, secondo le disposizioni degli artt. 1453 e segg. C.C., come è dato desumere dal dettato dell'art. 1459 C.C., il quale lascia intendere che il rimedio della risoluzione per inadempimento sia comunque applicabile anche ai rapporti associativi, come sostenuto anche in dottrina da alcuni Autori.
Il motivo va disatteso.
Ritiene invero il Collegio - in linea, peraltro, con quanto questa Corte Suprema ha già avuto modo di affermare - che il principio enunciato ed applicato dalla Corte del merito nel caso in esame sia esatto.
Nelle società di persone, le norme sulla esclusione del socio "per gravi inadempienze", di cui agli artt. 2286 e 2287 Cod. civ., hanno, infatti, carattere speciale e sostituiscono quelle generali sulla risoluzione per inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive, di cui agli artt. 1453 e segg. Cod. Civ., le quali, pertanto, come esattamente ritenuto dalla Corte del merito, non sono applicabili al contratto di società, in cui vi sono interessi contrapposti tra il socio e l'ente sociale (ex Cass. 4 maggio 1993, n. 5180; ex Cass. 8 luglio 1986, n. 4457; Cass. 15 giugno 1955, n. 1824).
Non si può fondatamente sostenere che, nel caso di "gravi inadempienze" da parte di un socio delle obbligazioni derivanti dalla legge o dal contratto sociale, la esclusione del socio medesimo dalla società, ex artt. 2286 e 2287 Cod. Civ., e la risoluzione giudiziale del rapporto siano alternativi, ugualmente praticabili: la risoluzione, di cui agli artt. 1453 e segg. C.C., invero, mette nel nulla il rapporto contrattuale nei confronti della parte inadempiente, con gli effetti restitutori di cui all'art. 1458 Cod. Civ., e, nel caso in cui le parti del contratto siano soltanto due, elimina in toto il rapporto con i reciproci obblighi restitutori delle parti di cui alla citata disposizione di legge; la esclusione del socio, ex artt. 2286 e 2287 C.C., comporta soltanto lo scioglimento del vincolo sociale limitatamente al socio inadempiente, con il diritto di quest'ultimo solo ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota, ex art. 2289 Cod. Civ., ma non anche, di per sè, lo scioglimento della società, neppure nel caso in cui i soci siano soltanto due, perché, in tale ipotesi (ricorrente nel caso di specie), la società si scioglie solo se, nel termine di sei mesi, non venga ripristinata la pluralità dei soci, ex art. 2272, n. 4, Cod. Civ.
Ed anche per la rilevata diversità, non si sarebbe potuto fondatamente ritenere che - poiché le "gravi inadempienze", che, ex art. 2286 c.c., legittimano la esclusione di un socio dalla società, sostanzialmente si identificano con l'inadempimento di non scarsa importanza, che, ex artt. 1453 e 1455 C.C., giustifica la risoluzione del contrato con prestazioni corrispettive, e poiché, essendo nella specie la società composta di due soli soci, la esclusione dalla società di uno di essi, non potendo essere deliberata da una maggioranza di soci ai sensi dell'art. 2287, comma 1, C.C., doveva necessariamente essere pronunciata dal Tribunale su domanda dell'altro, a norma dell'art. 2287, comma 3, C.C. - la domanda proposta in via riconvenzionale dal D'Andrea formalmente come domanda di risoluzione del contratto societario fosse in sostanza da qualificare come domanda di esclusione dalla società del socio Pittini, ex artt. 2287, ultimo comma, Cod. Civ. (v., in tal senso, con riferimento al contratto di associazione in partecipazione rispetto al contratto di società, la già citata sentenza di questa Corte n. 4457 dell'8 luglio 1986).
Peraltro, in proposito il primo giudice ha affermato - ed il punto è incontrovertibile, non avendo la relativa affermazione formato oggetto di alcuna impugnazione - che una simile domanda (nei confronti del Pittini) sarebbe stata priva di interesse, perché, a quel punto, la società si era ormai sciolta da tempo, per il conseguimento dell'oggetto sociale in relazione al complesso edilizio realizzato e per l'accertata impossibilità di conseguire l'oggetto ulteriore relativo alla edificazione del secondo complesso. Con il secondo motivo, il ricorrente - denunciando violazione ovvero errata o falsa applicazione degli artt. 1453, 1455 e 1460 c.c., in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. (insufficiente, omessa o contraddittoria motivazione) - censura ulteriormente la impugnata sentenza, deducendo che:
a) - se la Corte del merito avesse applicato al rapporto intercorso tra le parti le norme invocate, non avrebbe potuto sbrigativamente superare l'esame della gravità dell'inadempimento del Pittini e quello della eccezione ex art. 1460 c.c., apposta da esso ricorrente; invero, sotto il primo profilo, i giudici di merito avevano omesso di porre nell'esatto e giusto rilievo quanto dallo stesso Pittini era stato confessato nel corso del suo interrogatorio in ordine alla mancata richiesta della licenza per la costruzione del secondo complesso edilizio ed al mancato versamento, da parte dello stesso, delle somme incassate dai promittenti acquirenti, sul conto corrente intestato al ricorrente, avendo, quanto alla prima circostanza, confuso la necessità "formale" della firma della richiesta da parte del proprietario del suolo con la necessità "sostanziale" della preparazione, da parte del "tecnico" Pittini, degli elaborati tecnici da produrre a sostegno della richiesta, e non avendo, quanto alla seconda circostanza, detto alcunché, se si eccettuava un generico riferimento al mancato rendimento del conto annuale; e, nelle sentenze dei giudici di merito, peraltro, non si era dato affatto conto della circostanza, di fondamentale importanza, dell'avvenuta reiterata messa in mora del Pittini da parte di esso ricorrente;
b) - quand'anche, poi, si fosse dovuto ritenere, come sottolineato nella sentenza di primo grado, che la fattispecie in esame esulava dalla materia societaria, trattandosi esclusivamente di valutare ed apprezzare comportamenti ed atti successivi allo affermato scioglimento della società, a maggior ragione, e senza remora alcuna, si sarebbe dovuto concludere, come già segnalato al giudice d'appello, per la piena applicabilità dei principi consacrati nelle norme dal ricorrente ritenute violate nella sentenza impugnata:
infatti, la affermata obbligazione di esso ricorrente (di trasferire al Pittini i noti locali) e quella, del pari affermata, del Pittini (di rendere il conto nel senso ampio sostenuto dalla Corte del merito, con tutti gli addendi, tra cui le somme incassate dai promittenti acquirenti di unità immobiliari e gli assegni ricevuti dal ricorrente per un importo complessivo di L. 68.900.000) trovavano la loro "fonte" pur sempre nel contratto del 1 gennaio 1967, per così dire, "sopravvissuto" allo scioglimento della società (verificatosi per conseguimento in parte dell'oggetto sociale e per la impossibilità di conseguire quello ulteriore) e le due obbligazioni, aventi una indubbia fonte negoziale comune, venuto meno lo scopo tipico del negozio in occasione del quale furono pattuite, avevano assunto il connotato caratteristico della corrispettività, e, quindi, l'inadempimento da parte del Pittini della propria obbligazione ben poteva essere opposto, ex art. 1460 c.c., alla pretesa di adempimento dello stesso, per paralizzarne gli effetti, tanto più se si considerava che il Pittini, nel momento in cui ebbe a proporre la sua domanda di adempimento (il che avvenne con la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio in data 26 marzo 1979), era già stato ripetutamente invitato e diffidato da esso ricorrente ad adempiere le sue obbligazioni con atto stragiudiziale di diffida e messa in mora notificato il 31 luglio 1970 e con racc. con A.R. del 18 novembre 1977.
Il motivo è fondato nel senso e nei limiti delle considerazioni che seguono.
Preliminarmente, va osservato che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la negata applicabilità al contratto di società delle norme che disciplinano la risoluzione per inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive (artt. 1453 e segg. c.c.) non ha affatto impedito alla Corte del merito di esaminare le vicende del rapporto svoltosi tra le parti, al fine di stabilire, con riguardo alle pattuizioni consacrate nella scrittura privata del 1 gennaio 1967, se e quale inadempienze, di quelle dall'odierno ricorrente attribuite al PIttini, fossero state dallo stesso poste in essere.
In questa disamina, la Corte del merito, come si è avuto modo di evidenziare nella narrativa che precede, ha, quanto alla mancata richiesta della licenza di costruzione del secondo fabbricato, affermato che non vi erano elementi dai quali si potesse desumere che un obbligo contrattuale in tal senso incombesse al Pittini, osservando in particolare che, nella menzionata scrittura, si diceva soltanto che il Pittini si impegnava nella conduzione e nella direzione dei lavori dei due complessi edilizi, ma che da ciò non si poteva desumere alcunché nel senso suddetto, perché la conduzione e la direzione dei lavori, opere chiaramente di carattere tecnico, erano successive all'ottenimento della licenza di costruzione, e questa argomentazione si sottrae alle censure sollevate, basate tutte su apodittiche affermazioni e su opinabili deduzioni, e ciò senza considerare che dal ricorrente non è stato detto alcunché in ordine al fatto, riferito in sentenza, che il Pittini, in sede di interrogatorio, ebbe a fare presente che la licenza non poteva essere rilasciata per ragioni tecniche.
Quanto, poi, al mancato versamento, a parte del Pittini, sul conto corrente bancario che si sarebbe dovuto aprire a nome del D'Andrea, degli acconti ricevuti dai promittenti compratori di unità immobiliari del complesso realizzato, la Corte del merito non ha negato quest'obbligo del Pittini, ma ha solo osservato che l'apertura del conto doveva essere curata dal D'Andrea, il quale, con la censura in esame, nulla ha specificamente osservato sul punto. Ciò precisato, la Corte del merito ha, poi, osservato che degli incassi suddetti, nonché degli assegni ricevuti dal D'Andrea per complessive L. 68.900.000, come dell'incasso di ogni altro utile, il Pittini avrebbe dovuto rendere al D'Andrea il conto annuale, che invece non aveva reso, nonostante reiterati atti di diffida, e di qui la conferma della statuizione di condanna del Pittini al risarcimento dei danni in favore del D'Andrea.
E, così, sono stati sanzionati, con le rispettive e vicendevoli condanne al risarcimento dei danni, l'inadempimento, da parte del Pittini, della obbligazione di rendere al D'Andrea annualmente il conto in ordine a tutte le somme di denaro come sopra specificate, e l'inadempimento, da parte del D'Andrea, dell'obbligazione di trasferire al Pittini la proprietà dei noti locali.
Ora, è proprio nell'aver ritenuto non proponibile la eccezione di inadempimento opposta, ex art. 1460 cod. civ., dal D'Andrea per giustificare il proprio inadempimento, in relazione all'inadempimento del Pittini, e nell'avere, conseguentemente, omesso l'esame e la valutazione comparativa dei reciproci inadempimenti delle parti, come innanzi specificati, che la sentenza impugnata merita le censure ad essa rivolte con la seconda parte del motivo in esame, quelle cioè espresse e formulate sotto la lettera b).
Invero, al riguardo va osservato, come peraltro si è già accennato sopra, che l'affermazione del primo giudice - secondo cui, al momento della instaurazione del giudizio, la società posta in essere dal Pittini e dal D'Andrea, con il contratto consacrato nella scrittura privata del 1 gennaio 1967, si era ormai sciolta da tempo per il conseguimento dell'oggetto sociale in relazione al complesso edilizio realizzato e per la impossibilità di conseguire l'oggetto ulteriore relativo alla edificazione del secondo complesso - è incontestabilmente incontrovertibile per giudicato, non avendo formato oggetto di impugnazione (e non essendo stata, peraltro, disattesa dalla Corte del merito).
Così stando le cose, dovendosi, cioè, ritenere che, al momento della instaurazione del giudizio, la società in discorso si era da tempo sciolta, ne consegue che alla proponibilità della eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., sollevata dal D'Andrea, quanto alle due obbligazioni innanzi specificate ed ai relativi inadempimenti, non poteva essere di ostacolo il rapporto societario che ormai si era da tempo sciolto: invero, le suddette due obbligazioni, del cui inadempimento si era discusso, non andavano considerate e valutate nell'ambito di un rapporto societario o della vita di una società ormai sciolta e sulla quale non potevano più incidere in alcun modo;
esse, pur trovando la loro fonte nel contratto con il quale si era dato vita alla società, vivevano ed operavano al di fuori di questa, che ormai si era da tempo sciolta.
E non vi è, poi, dubbio sulla natura corrispettiva che le suddette due obbligazioni avevano assunto.
Era, pertanto, pienamente proponibile, da parte del D'Andrea, la eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., ed, essendo questa stata proposta, la Corte del merito, con riguardo beninteso alle due obbligazioni innanzi specificate ed ai relativi inadempimenti, avrebbe dovuto - come di norma deve fare il giudice del merito nei casi in cui, nei contratti con prestazioni corrispettive, le parti si addebitano inadempimenti reciproci proponendo l'una contro l'altra vicendevolmente domande contrapposte, ed anche nel caso in cui il convenuto si limiti a contrastare la domanda di risoluzione o di adempimento, giustificando la propria inadempienza con la inadempienza dell'altro contraente - procedere ad una valutazione comparativa degli inadempimenti e comportamenti delle parti, che, al di là del pur necessario riferimento all'elemento cronologico degli stessi, li investisse nel loro rapporto di dipendenza (sul piano della derivazione causale) e proporzionalità, al fine di stabilire se e su quale delle due parti dovesse ricadere l'inadempimento colpevole che potesse giustificare l'inadempimento dell'altra, in forza appunto del principio inadimplenti non est adimplendum, tenendo presente pure l'altro principio, secondo cui, quando l'inadempimento di una parte non sia grave, il rifiuto dell'altra non è di buona fede e, quindi, non è giustificato (cfr., sul punto, tra le tante, Cass. 30 gennaio 1995, n. 1077; Cass. 16 luglio 1991, n. 9619; Cass. 10 giugno 1991, n. 6576; Cass. 26 aprile 1990, n. 3508), e ciò senza considerare che questa Corte Suprema, con una recente sentenza, la n. 10723 del 28 ottobre 1993, rifacendosi ad un precedente risalente nel tempo (decisione n. 2342 del 12 luglio 1972), ha affermato che l'art. 1460 c.c., ritenuto applicabile anche ai rapporti tra condominio e condomini, costituisce "espressione di un principio generale". Con il terzo e ultimo motivo, il ricorrente - denunciando omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5, c.p.c., in relazione agli artt. MOTIVI DELLA DECISIONE
61 e segg. stesso codice) - censura, infine, la impugnata sentenza, per avere la Corte del merito disatteso la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica, richiesta avanzata stante la enorme differenza tra il valore attribuito ai locali, oggetto della controversia, dal C.T.U. ing. Caracciolo e quello attribuito alle unità immobiliari dal consulente dell'odierno ricorrente e, soprattutto, quello accertato dall'ufficio del Registro di Lecce in sede di liquidazione dalla imposta relativa al contratto di vendita dei locali dall'odierno ricorrente al Vergallo (L. 15.000.000 contro i 46.000.000 del C.T.U.).
Il valore c.d. "fiscale" - precisa il ricorrente - fu concordato e non già semplicemente dichiarato dalla parte ed accettato dall'ufficio finanziario, e la Corte del merito, facendo riferimento alla "notoria differenza esistente tra valori effettivi e valori dichiarati a fini fiscali", non solo mostrava di ignorare la circostanza che il valore "fiscale" era stato concordato e non semplicemente dichiarato dalla parte ed accettato dall'ufficio, quanto adduceva sul punto una motivazione certamente non sufficiente e chiara.
Il motivo va disatteso.
Rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito la valutazione della opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il C.T.U. ovvero di disporre addirittura la rinnovazione della indagine stessa, con la nomina di un nuovo consulente, e l'esercizio di un tale potere (così come il mancato esercizio, anche se non espressamente motivato) non è censurabile in sede di legittimità, quando le valutazioni delle circostanze da accertare con tale mezzo di indagine siano già state effettuate nella consulenza espletata, dalle cui conclusione il giudice reputi di non dissentire (cfr., tra altre, Cass. 20 dicembre 1994, n. 10792; Cass. 11 maggio 1990, n. 4057; e, segnatamente in tema di rinnovazione di indagini, Cass. 27 luglio 1987, n. 6483; Cass. 9 aprile 1984, n. 2293; Cass. 21 febbraio 1983, n. 1310).
Nel caso in esame, la Corte del merito ha ritenuto di condividere e fare proprie le conclusioni del C.T.U. ing. Caracciolo, sostanzialmente osservando:
che le dette conclusioni si sottraevano ad ogni censura, e sul piano tecnico scientifico e sul piano logico;
che, peraltro, il C.T.U., in una relazione suppletiva, aveva risposto a tutte le osservazioni del consulente di parte del D'Andrea, dimostrandone la erroneità;
che la stima del C.T.U., riguardante locali siti in una zona centralissima della città di Lecce, era la risultante di due distinti metodi analitici;
che il valore degli immobili a suo tempo concordato con l'Ufficio del Registro di Lecce operava su un piano diverso.
Ora, alle conclusioni del C.T.U., condivise e fatte proprie dalla Corte del merito, il ricorrente non oppone precisi e puntuali elementi di fatto da valutare o specifici rilievi critici al metodo di stima seguito dal C.T.U., ma, puramente e semplicemente, una difforme valutazione, e ciò evidenzia addirittura profili di inammissibilità della censura in esame, specie ove si consideri che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte Suprema, cui non vi è motivo per non dare continuità, il giudice del merito, che riconosca convincenti le conclusioni del C.T.U., può aderire ad esse, senza essere tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, perché l'obbligo della motivazione è assolto già con la indicazione delle fonti dell'apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti, che non si siano (come nella specie) concretate in precisi e puntuali elementi di fatto o in specifiche critiche ai metodi di indagini e di stima del C.T.U., siano state implicitamente disattese (cfr. tra altre, Cass. 16 agosto 1989, n. 3711; Cass. 30 maggio 1987, n. 4817; Cass. 6 febbraio 1987, n. 1191; Cass. 14 novembre 1986, n. 6698; Cass. 9 maggio 1986, n. 3085; Cass. 15 febbraio 1986, n. 919).
Per tutte le ragioni innanzi esposte, mentre vanno rigettati il primo ed il terzo motivo del ricorso, va invece accolto, nel senso e nei limiti delle considerazioni di cui sopra (e, quindi, per quanto di ragione), il secondo motivo dello stesso.
Di conseguenza, la impugnata sentenza va cassata in relazione alla censura accolta e la causa va rinviata ad altro giudice, di pari grado, che si designa in una diversa Sezione della stessa Corte di Appello di Lecce, che, nel riesaminare il punto e la questione relativi alla censura accolta, si atterrà ai principi ed ai rilievi come innanzi enunciati ed esposti.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
la Corte così provvede:
rigetta i primo ed il terzo motivo del ricorso; accoglie per quanto di ragione, il secondo motivo dello stesso; cassa la impugnata sentenza in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese del presente procedimento di cassazione, ad altra Sezione della Corte di Appello di Lecce.
Così deciso in Roma, il giorno 10 marzo 1995.