Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 127 - pubb. 01/07/2007

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Tribunale Lucca, 03 Novembre 2004. Est. Terrusi.


Nuovo processo societario – Arbitrato – Applicazione limitata ai diritti disponibili.

Nuovo processo societario – Arbitrato – Materie compromettibili – Cognizione incidenter tantum delle materie non compromettibili – Decisione secondo diritto.

Società – Vizi della delibera assembleare – Abuso ed eccesso di potere – Distinzione.

Società a responsabilità limitata – Recesso del socio – Determinazione del valore della quota – Valore di mercato al momento del recesso.

Società a responsabilità limitata – Esclusione del socio – Rimborso della quota – Valore contabile del patrimonio sociale – Illegittimità.



Al fine di individuare le materie che possono formare oggetto di compromesso nell’ambito dei rapporti societari, occorre fare riferimento all’art. 34 del d. lgs. 5/03, il quale pone il limite delle controversie che abbiano per oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale.

Il nuovo sistema normativo dell’arbitrato in materia societaria può quindi essere così schematicamente riassunto: (a) l’oggetto del giudizio arbitrale rimane limitato, ex art. 34, alle sole materie compromettibili secondo i tradizionali criteri; (b) in queste materie, ex art. 36, l’arbitro può 'conoscere' di questioni non compromettibili incidenter tantum, in tal caso dovendo decidere inderogabilmente secondo diritto; (c) in ogni caso l’arbitro deve decidere secondo diritto, finanche ove non sussista la necessità di conoscere di questioni non compromettibili, se l’oggetto del giudizio è costituito dalla validità di delibere assembleari.

E’ condivisibile l’orientamento che affronta il problema dell’abuso e dell’eccesso di potere come vizio di legittimità della delibera assembleare alla luce del criterio della buona fede oggettiva e della correttezza stabilito dall’art. 1375 c.c.; si ritiene tuttavia preferibile quella dottrina che differenzia l’abuso dall’eccesso di potere, individuando il primo come limite negativo alle prerogative assembleari (quello cioè di non perseguire pure finalità extrasociali, id est contrarie all’interesse sociale) ed il secondo, l’eccesso di potere, come limite positivo (quale quello della proiezione della delibera nell’ambito del perseguimento dell’interesse sociale, ma con violazione di diritti di singoli soci non disponibili da parte della maggioranza).

Al fine di individuare il criterio dettato dall’art. 2473, co. 3° c.c., per la determinazione del valore della quota del socio receduto, è possibile ricercare l’intenzione del legislatore quale emerge dalla relazione ministeriale ove è chiarito che 'la disciplina dettata dal comma 3 dell’art. 2473 (..) tende ad assicurare che la misura della liquidazione della partecipazione avvenga nel modo più aderente possibile al suo valore di mercato; ed introduce un procedimento volto a superare le soluzioni penalizzanti tuttora adottate dal diritto vigente'. L’art. 2473 co. 3 c.c. va, pertanto, inteso nel senso che al socio è riconosciuto il diritto di ottenere il valore di mercato della sua partecipazione, determinato con riferimento al momento in cui è stato esercitato il recesso.

E’ illegittima per difformità dal modello legale previsto dall’art. 2473 c.c. la clausola statutaria che nell’ipotesi di esclusione del socio prevede il rimborso della quota in base al valore contabile del patrimonio sociale secondo l’ultimo bilancio approvato, con esclusione di plusvalenze consolidate dalle società.


 


Svolgimento del processo

Con atto notificato il 16 giugno 2004 P. M. e S. S., soci della Alfa s.r.l. con partecipazione pari al 12,50 % ciascuno del capitale, impugnavano la delibera della predetta società, adottata in assemblea straordinaria il 30 gennaio 2004, a mezzo della quale era stato approvato il nuovo statuto sociale in conseguenza dell’entrata in vigore del d. lgs. 17.1.03 n. 6.

Deducevano, in sintesi, l’illegittimità della delibera in quanto tale, e ne chiedevano l’annullamento, in relazione al fatto di avere la società inteso <<mascherare con l’assemblea straordinaria di adeguamento un’assemblea di modifica dello statuto secondo le norme civilistiche a regime nel rispetto dei quorum ordinari>>, senza tenere in considerazione <<la necessità di valutare l’opportunità di tali modifiche ai fini interni dei rapporti tra soci>>.

In subordine, affermavano l’illegittimità di talune disposizioni statutarie, e segnatamente: dell’art. 11 lett. (b) del nuovo statuto, siccome previdente una causa di esclusione del socio non consistente in fatti o eventi specifici, ma in una categoria sintetica, oltre tutto limitativa di diritti già acquisiti; dell’art. 13 co. 2, per contrasto con l’art. 2473 c.c., stante l’omesso riferimento, quanto alla liquidazione della quota, del criterio di proporzione del patrimonio sociale; (d) dell’art. 14 co. 1, per contrasto con l’art. 2473 bis c.c., nella parte concernente la minore valutazione della partecipazione sociale ai fini della liquidazione della quota in caso di esclusione.

Chiedevano, cumulativamente alle enunciate domande, la condanna della società al risarcimento dei danni conseguiti all’adozione della deliberazione invalida.

Si costituiva la convenuta, resistendo nel merito con comparsa ex art. 4 d. lgs. n. 5 del 2003.

Gli attori notificavano memoria di replica.

A questa replicava, a sua volta, la società con ulteriore memoria ex art. 7 d. lgs. cit., nella quale eccepiva l’improponibilità delle domande in relazione alle clausole compromissorie inserite tanto nell’originario (art. 27), quanto nel nuovo (art. 42) statuto sociale.

Parte attrice, in terza memoria di replica (art. 7 co. 2 d. lgs. cit.), eccepiva la decadenza della convenuta dall’eccezione di compromesso, per il fatto di non essere stata sollevata, l’eccezione, con il primo atto difensivo.

Parte convenuta replicava ulteriormente.

In data 15 settembre 2004 parte attrice notificava istanza di fissazione di udienza.

All’esito dell’udienza di discussione, il Collegio riservava la decisione ex art. 16 co. 5 d. lgs. cit.

Motivi della decisione

1. - Risultano proposte distinte domande.

La prima rientra nel novero delle domande costitutive e si sostanzia nella pretesa di annullamento della delibera assembleare di approvazione del nuovo statuto di Alfa s.r.l.

Le altre rientrano nel novero delle domande dichiarative e hanno per oggetto, nell’ipotesi di ritenuta validità della ridetta delibera di approvazione, la declaratoria di nullità (in tal senso dovendosi intendere l’impiego della locuzione <<illegittimità>> di cui al petitum immediato) di singole disposizione statutarie.

2. - E’ necessario affrontare, pregiudizialmente, le questioni poste a mezzo dell’eccezione di compromesso.

Va rilevato che, contrariamente a quanto sostenuto da parte attrice, l’eccezione non è tardiva.

Parte attrice richiama l’autorevole opinione dottrinale, intesa a sostenere - sebbene in forma problematica - la sussistenza di un obbligo del convenuto di sollevare eccezioni in senso stretto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, siccome conseguente alla supposta ratio dell’intero d. lgs. n. 5 del 2003.

Nondimeno, detta opinione, già contrastata dal testo di legge nella sua versione originaria - posto che l’art. 10 co. 2, prima parte, del d. lgs. cit., esplicitamente prevede che la decadenza, rispetto alla facoltà di sollevare eccezioni, si verifica <<a seguito della notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza>> - è oggi superata dalle modifiche introdotte dal d. lgs. n. 37 del 2004.

Invero, la determinazione delle attività da compiersi, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta è direttamente contenuta nell’art. 4 co. 1 del d. lgs. n. 5 del 2003, come modificato dal d. lgs. n. 37 del 2004, a mezzo della previsione secondo la quale la decadenza riguarda le domande riconvenzionali e la chiamata in causa del terzo.

Simile previsione chiarisce in modo netto quali sono le attività difensive da ritenersi correlate alla comparsa di risposta a pena di decadenza.

Dalla lettura combinata degli art. 4 e 10 co. 2 del d. lgs. n. 5 cit., rimane, quindi, definitivamente acclarato che la decadenza non riguarda le eccezioni; e, specularmente, rimane contraddetta la tesi che individua l’onere della parte di svolgere ulteriori attività difensive, a pena di decadenza, entro il termine di notificazione all’avversario dell’atto difensivo tipico indicato dalla legge come deputato a contenere tutte le proprie difese.

3. - Sennonché, a giudizio del Collegio la controversia ha per oggetto materie non compromettibili in arbitri, cosicché all’eccezione di compromesso, sollevata da parte convenuta, non va dato seguito.

E’ all’uopo necessario rammentare come, nel panorama giurisprudenziale formatosi in epoca anteriore all’entrata in vigore del processo societario, fosse sostanzialmente consolidato l’orientamento intermedio, tra quelli formatisi sul tema del rapporto corrente tra giudizio arbitrale e impugnazione di delibere assembleari; orientamento inteso a distinguere, ai fini che ne occupano, fra controversie aventi ad oggetto interessi individuali dei soci - di per sé disponibili e quindi compromettibili in arbitri - e controversie concernenti, invece, interessi della società o diritti di terzi, ovvero ancora controversie intese a ripristinare la conformità di funzionamento dell’attività sociale alle norme di legge o di statuto - come tali non suscettibili di transazione e, conseguentemente, non compromettibili.

In forza di simile orientamento, fatto proprio finanche da questo Tribunale (cfr., tra le più recenti, Trib. Lucca, 12.7.01 n. 830), restava non compromettibile la controversia involgente, in base all’oggetto della delibera impugnata, interessi della società ovvero violazioni di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o di terzi (ex plurimis, Cass. 30.3.98 n. 3322; Trib. Milano 29.1.98, edita; Trib. Como 4.8.98, edita; Trib. Milano 3.10.96, edita; Trib. Napoli 6.3.93, edita).

Codesti enunciati mantengono la loro validità anche nell’attuale assetto normativo, conseguente alla riforma dell’arbitrato nel processo societario.

E’ considerazione comune che, rispetto alle facoltà conferite dalla legge delega - la quale, invero, contiene la seguente previsione: <<Il Governo può altresì prevedere la possibilità che gli statuti delle società commerciali contengano clausole compromissorie, anche in deroga agli articoli 806 e 808 del codice di procedura civile, per tutte o alcune tra le controversie societarie di cui al comma 1. Nel caso che la controversia concerna questioni che non possono formare oggetto di transazione, la clausola compromissoria dovrà riferirsi ad un arbitrato secondo diritto, restando escluso il giudizio di equità, ed il lodo sarà impugnabile anche per violazione di legge>> -, il legislatore delegato ha ritenuto di attestarsi sulla linea degli orientamenti tradizionali, sicché la conformazione dell’oggetto dell’arbitrato in materia societaria è rimasta correlata alle materie dei <<diritti disponibili relativi al rapporto sociale>> (art. 34 d. lgs. n. 5 del 2003).

Da qui si desume che debbono ritenersi perpetuati, in materia, i principi tratti dagli antecedenti arresti giurisprudenziali.

Nella specie, ciò rileva sia per quanto concerne la sorte domanda principale di annullamento della delibera assembleare, avendo questa ad oggetto l’approvazione del nuovo statuto, sia per quanto concerne la sorte delle domande subordinate, che attengono alla ritenuta invalidità di clausole statutarie.

In particolare, e con specifico riferimento alla domanda principale, non reputa il collegio di dover seguire il pur autorevole indirizzo dottrinale che ha opinato per l’irrilevanza, in subiecta materia, dei vari distinguo fino ad ora operati in dottrina e giurisprudenza.

La tesi si è sviluppata sulla duplice considerazione, da un lato, che il legislatore richiama ripetutamente e in via generale l’impugnazione delle delibere come possibile oggetto di arbitrato, senza mai fare riserve; dall’altro lato, che in base all’art. 36, primo comma, è sempre possibile l’impugnazione di merito ex art. 829, secondo comma, c.p.c., del lodo che abbia deciso dell’impugnazione di una delibera.

Se ne è dedotto che trattasi, se non di argomenti insuperabili, quanto meno di non trascurabili indizi di una volontà legislativa di <<tagliar corto>> per quanto riguarda l’arbitrabilità dell’impugnazione delle delibere.

In realtà, la tesi non persuade per la fondamentale ragione che essa si basa, essenzialmente, sul testo dell’art. 36 del d. lgs. cit., disposizione che tuttavia - come emerge dalla rubrica - non è dedicata all’oggetto dell’arbitrato, sebbene al potere decisionale degli arbitri.

La disposizione che, nel testo di legge, rileva ai fini dell’individuazione delle materie compromettibili è solo l’art. 34, a tenore del quale, mediante clausole compromissorie, è possibile prevedere negli atti costitutivi delle società la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci, ovvero tra i soci e la società, <<che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale>>.

Discende, a giudizio del Tribunale, che l’attuale sistema normativo deve ritenersi attestato sulle seguenti coordinate: (a) l’oggetto del giudizio arbitrale rimane limitato, ex art. 34, alle sole materie compromettibili secondo i tradizionali criteri; (b) in queste materie, ex art. 36, l’arbitro può <<conoscere>> di questioni non compromettibili incidenter tantum, in tal caso dovendo decidere inderogabilmente secondo diritto; (c) in ogni caso l’arbitro deve decidere secondo diritto, finanche ove non sussista la necessità di conoscere di questioni non compromettibili, se l’oggetto del giudizio è costituito dalla validità di delibere assembleari.

Da tanto consegue che, nella specie, l’eccezione di compromesso è immeritevole di accoglimento, dal momento che (i) oggetto della deliberazione impugnata è una materia (l’approvazione di un nuovo statuto) per definizione sottratta alla disponibilità dei singoli soci, siccome riflettente interessi della società; (ii) oggetto delle subordinate domande dichiarative sono, ancora una volta, singole disposizioni statutarie, la cui sorte riflette eguale interesse collettivo.

Va quindi esaminato il merito delle domande.

4. - In via principale gli attori chiedono che la delibera assembleare de quasia annullata in relazione all’intero suo oggetto.

Assumono (punto (a) della citazione) che, a mezzo di un affrettato <<adeguamento statutario>> alle disposizioni del d. lgs. n. 6 del 2003, si sia inteso in realtà introdurre, nel rispetto di quorum ordinari, clausole oppressive dei diritti di essi soci di minoranza.

Invero - si sostiene - ove lo scopo fosse stato quello di un mero adeguamento, si sarebbe rivelata più aderente alla realtà della compagine, nata come cooperativa, una trasformazione in s.p.a., senza imposizione di limiti ai già esistenti diritti dei soci, la cui compressione discenderebbe, invece, (punto (b) della citazione) dall’introduzione di una causa di esclusione per l’innanzi non prevista.

Il motivo non è fondato.

Osserva il Collegio che il senso globale del motivo è quello di sostenere l’invalidità della deliberazione per abuso di potere in danno della minoranza; si sostiene, infatti, che, sebbene adottata nel rispetto delquorum ridotto di cui all’art. 223 bis att. c.c., la delibera in questione avrebbe travalicato l’asserita necessità di adeguamento statutario e si sarebbe distinta per un motivo fraudolento in danno della minoranza.

Nondimeno, nessun concreto elemento supporta la tesi sostenuta.

Anche prescindendo dalla considerazione che, dal verbale di assemblea prodotto in giudizio, emerge che la deliberazione venne adottata a maggioranza qualificata (sì da rivelarsi formalmente rispettosa finanche delle previsioni dello statuto per l’innanzi vigente: cfr. doc. 3 M./S.), senza utilizzo, quindi, del diverso quorum della maggioranza semplice di cui all’art. 223 bis att. c.c., resta inteso che era onere di parte attrice fornire la prova dell’asserito motivo sostanziale della deliberazione, siccome lesivo del principio di correttezza.

Sulla possibilità di addurre l’abuso (ovvero, secondo alcuni, l’eccesso) di potere della maggioranza come vizio di legittimità di una deliberazione assembleare altrimenti valida sul piano formale, si è formato un consolidato orientamento giurisprudenziale (tra le tante, nella giurisprudenza del Supremo collegio, Cass. 4.5.94 n. 4323; Cass. 5.5.95 n. 4923; Cass. 26.10.95 n. 11151; in quella di merito, Trib. Roma 22.10.02; Trib. Palermo 18.5.01; Trib. Como 1.6.00; Trib. Milano 18.5.00; Trib. Milano 2.6.00, tutte edite).

Finanche con varietà di sfumature lessicali, è costante il riferimento alla violazione del criterio di buona fede oggettiva o di correttezza, criterio stabilito dall’art. 1375 c.c. in tema di contratti in generale, e tuttavia ritenuto applicabile (sebbene, in dottrina, con alcune distinzioni concettuali) anche tra i soci per l’intera durata del rapporto associativo.

Reputa il Tribunale di dover dare continuità all’indirizzo, pur mantenendo riserve circa l’impiego promiscuo dei due concetti sopra rappresentati - abuso ed eccesso di potere - che è proprio della maggior parte degli arresti giurisprudenziali; sembra, invece, più corretto procedere, nel solco di una condivisibile dottrina, a una differenziazione che tenga conto del fatto di essere l’abuso di voto rapportabile a un limite negativo delle prerogative assembleari (quello cioè di non perseguire pure finalità extrasociali, id estcontrarie all’interesse sociale) e l’eccesso di potere rapportabile a un limite positivo (quale quello della proiezione della delibera nell’ambito del perseguimento dell’interesse sociale, ma con violazione di diritti di singoli soci non disponibili da parte della maggioranza).

Nel caso di specie, sembra dedotta un’ipotesi di abuso di voto, giacché si sostiene essere stata la delibera occasionata da mere finalità extrasociali: tant’è che - secondo gli attori - ove si fosse davvero inteso attuare un coerente adeguamento dell’assetto societario alle nuove disposizioni, si sarebbe dovuto procedere a una trasformazione in società azionaria.

E tuttavia, è risolutiva la considerazione che è apodittica la tesi che intende annettere alla deliberazione de qua l’unica finalità di danneggiare i soci di minoranza, giacché una simile esclusiva finalità non si può desumere - ad avviso del Tribunale - dal mero fatto di essere stata introdotta, nel nuovo statuto, una causa di esclusione prima non esistente.

Cosicché la deliberazione non può essere annullata, sembrando possedere, sul piano oggettivo, una propria e autonoma ragione giustificativa, corrispondente all’interesse sociale di dotarsi per tempo (entro il mese di novembre del c.a.) di un assetto statutario conforme alle nuove disposizione di legge.

Fermo, invero, che non è consentito al Tribunale sconfinare in valutazioni riguardanti il merito imprenditoriale (a proposito della scelta dei soci di mantenere la conformazione di s.r.l.), non è annullabile, per contrarietà al canone di correttezza, una delibera assembleare avente una propria e autonoma giustificazione sulla base di una legittima valutazione dei soci secondo il principio maggioritario (cfr. in termini Trib. Milano 2.6.00 cit.).

5. - In linea subordinata, gli attori chiedono che sia accertata l’illegittimità delle clausole statutarie di Alfa s.r.l., conseguenti all’approvazione del nuovo statuto, di cui agli 11 lett. (b), 13 co. 2 e 14 co. 1.

Su codesti punti si impone una separata disamina.

5.1. - E’ dedotta, innanzi tutto, l’illegittimità dell’art. 11 lett. (b) del nuovo statuto per l’asserita previsione di una causa di esclusione da socio non consistente in fatti specifici, sebbene in una categoria sintetica, oltre tutto limitativa - come dianzi detto - di diritti già acquisiti dai soci stessi.

La norma statutaria è così formulata: <<Il socio può essere escluso dalla società al verificarsi delle seguenti circostanze, da intendersi quali fattispecie di giusta causa, in quanto configurano grave violazione di doveri posti a suo carico: (a) omissis; (b) l’esercizio di un’attività concorrente, svolta direttamente o partecipando in qualsiasi forma ad una società o anche per interposta persona o ente, esplicata nei confronti di clienti nel portafoglio della società>>.

L’illegittimità dedotta da parte attrice non si apprezza.

E’ infatti di tutta evidenza la forzatura concettuale posta a fondamento della pretesa, dal momento che - contrariamente all’asserto - nella clausola è contenuta la previsione di una specifica fattispecie di esclusione, tale essendo l’esercizio, da parte del socio, di un’attività concorrente esplicata nei confronti di clienti nel portafoglio della società.

Si osserva che le ritenute ipotesi di esclusione per categoria sintetica sono affatto diverse da quello in esame, essendo correlabili all’impiego di formule vaghe del tipo di quelle che rilevano nei casi di prevista esclusione del socio che <<in qualunque modo danneggi moralmente o materialmente la società>>, oppure <<fomenti dissidi e disordini nella società>> (cfr. Cass. 8.3.95 n. 2697; Cass. 22.4.89 n. 1936); vale a dire allorché non risulti appunto stabilito alcun fatto cui connettere la violazione dei doveri previsti dall’atto costitutivo o dallo statuto.

Nel caso di specie, il fatto è invece previsto, tale essendo l’esercizio di un’attività concorrente verso clienti della società.

Non senza aggiungere che, a ogni modo, ove mai si fosse al cospetto di una causa di esclusione stabilita per categoria sintetica, l’effetto non sarebbe quello della illegittimità della clausola statutaria, sebbene della sussistenza di più stringenti oneri di accertamento in merito alla rilevanza del comportamento del socio escluso, nell’ambito del diverso giudizio di opposizione alla delibera di esclusione (cfr. ancora Cass. 8.3.95 n. 2697).

5.2. - E’ ulteriormente dedotta l’illegittimità dell’art. 13 co. 2 dello statuto, per l’asserito contrasto con la disciplina dettata dall’art. 2473 c.c. in tema di liquidazione della quota nelle ipotesi di morte o di recesso del socio.

Anche questa domanda è infondata.

Osserva il Collegio che la formulazione letterale dell’art. 2473 co. 3 c.c. appare poco lineare, giacché è previsto che i soci della s.r.l. hanno diritto al rimborso della propria partecipazione in proporzione al patrimonio sociale, tendo conto del suo valore di mercato.

Non emerge con chiarezza, dal testo, se il legislatore abbia inteso riferire l’aggettivo << suo >> al valore di mercato della quota o del patrimonio sociale.

Soccorre tuttavia l’intenzione del legislatore quale emergente dalla relazione ministeriale (art. 12 prel.), giacché in questa è chiarito che <<la disciplina dettata dal comma 3 dell’art. 2473 (..) tende ad assicurare che la misura della liquidazione della partecipazione avvenga nel modo più aderente possibile al suo valore di mercato; ed introduce un procedimento volto a superare le soluzioni penalizzanti tuttora adottate dal diritto vigente>>.

Consegue che l’art. 2473 co. 3 c.c. va inteso nel senso che al socio è riconosciuto il diritto di ottenere il valore di mercato della sua partecipazione, determinato con riferimento al momento in cui è stato esercitato il recesso.

Contrariamente a quanto sostenuto da parte attrice, il testo della mentovata disposizione statutaria è esattamente sovrapponibile a quello dell’art. 2473 c.c., dal momento che, nell’art. 13, il comma 1 stabilisce, in generale, il rimborso della partecipazione <<in proporzione del patrimonio sociale>> e il comma 2 aggiunge la necessità di tener conto <<del valore di mercato della partecipazione riferito al giorno della morte del socio, ovvero al momento di efficacia del recesso>>.

La determinazione di tale momento è stabilita nell’antecedente art. 10 dello statuto, norma non sindacata dagli attori.

5.3. - In ultimo, è dedotta l’illegittimità dell’art. 14 co. 1 dello statuto, per contrasto con l’art. 2473 bis c.c..

Questa doglianza è fondata.

E’ indubbio che la disposizione statutaria de qua contraddice il testo di legge.

Ove l’atto costitutivo della s.r.l. preveda specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del socio, l’art. 2473 bis c.c. stabilisce che si applichino le disposizione del precedente art. 2473: e dunque che la quota venga liquidata mediante rimborso della partecipazione in proporzione del patrimonio sociale, a tal fine dovendosi determinare il rimborso tenendo conto del valore di mercato della partecipazione stessa.

Poiché l’art. 2473 c.c. collega detto valore <<al momento della dichiarazione di recesso>>, è di tutta evidenza che, trasposto nell’ambito dell’esclusione, il valore va qui determinato in relazione al momento nel quale l’esclusione viene deliberata.

Di contro, l’impugnata disposizione statutaria della Alfa s.r.l. stabilisce che, nelle ipotesi di esclusione previste dall’art. 11 lett. (a) (b) e (c), <<le partecipazioni verranno rimborsate al socio in base al valore contabile del patrimonio sociale secondo l’ultimo bilancio regolarmente approvato, con esclusione di qualsiasi plusvalenza consolidata dalla società>>.

Cosicché, da un lato il riferimento al valore contabile del patrimonio risultante dall’ultimo bilancio regolarmente approvato, dall’altro la mancata corresponsione di plusvalenze, suppongono, nella Alfa, l’attivazione di un criterio di liquidazione della quota del socio escluso del tutto difforme rispetto al modello legale.

Non giova quanto sostenuto dalla società a giustificazione della ridetta previsione statutaria.

Sostenere la legittimità della deroga statutaria al disposto normativo, sul presupposto che altrimenti si perverrebbe al risultato di gratificare il socio inadempiente penalizzandosi la società (questo essendo il senso complessivo della difesa di parte convenuta: pag. 17 e ss. della conclusionale), postula di confondere due ambiti tra loro distinti: quello dell’autonomia statutaria e quello della tutela patrimoniale della società dinanzi a comportamenti dei soci in violazione degli obblighi loro posti dallo statuto.

In contrario occorre considerare che l’autonomia statutaria non può travalicare il confine del modello legale, senza consenso del socio, laddove un simile modello risulti imposto a tutela di un diritto all’integrità patrimoniale del socio stesso.

Ciò sembra inconfutabile, sol che si tenga presente che, a norma dell’art. 2473 co. 3 c.c., richiamato in materia di liquidazione della quota del socio escluso, i soci <<hanno diritto>> di ottenere il rimborso della propria quota in proporzione del patrimonio sociale, secondo le modalità ivi ulteriormente stabilite; tant’è che, finanche la dottrina cui parte convenuta attinge nelle proprie difese, consente che per disposizione statutaria si possa prevedere un minor valore della quota da rimborsare al socio escluso, rispetto al valore di mercato, sempre che, però, lo statuto sia approvato, sullo specifico punto, con voto unanime di tutti i soci, trattandosi, qui come nel caso del rimborso della quota al socio receduto, <<di clausola nociva dell’interesse privato, liberamente accettata dai soggetti interessati>>.

Consegue che è da ricusare che lo statuto possa determinare la quota suddetta, derogando al criterio legale, ove in questo senso non risulti consenziente l’intera compagine. Invero, la tutela della società, dinanzi a comportamenti dei soci esclusi determinativi di pregiudizio, si sposta sul versante del risarcimento del danno; cosicché in nessun modo sembra possibile affermare che, per effetto del modello legale, la società medesima viene penalizzata al cospetto di una gratificazione del socio escluso.

Di nessuna utilità, agli specifici fini, una volta preso atto del regime di cui all’art. 2473 bis c.c., si rivela essere l’ulteriore argomento di parte convenuta tratto dalla diversa regola di cui all’art. 2466 c.c. a proposito della mancata esecuzione di conferimenti.

L’argomento è fallace, per il fatto che l’art. 2466 co. 3 c.c. prevede un caso di esclusione legale, rapportato alla situazione del socio moroso quando sono falliti i tentativi di vendita della quota.

In sostanza, la norma riflette la peculiarità dell’articolata disciplina dettata per i conferimenti, e segnatamente per l’eventualità in cui il socio non esegua il conferimento nel termine prescritto.

In simile ipotesi, partendo dalla meno grave diffida ad adempiere, sono previste, nell’ordine, due possibilità: (a) quella, rimessa alla discrezionalità degli amministratori, di promuovere un’azione esecutiva; (b) quella, alternativa, di vendere la partecipazione agli altri soci in proporzione alla partecipazione di ciascuno, ovvero, in difetto di offerte, di far luogo a vendita all’incanto.

Trattandosi di una sorta di vendita forzosa, è logico, nel comma 2 della disposizione, il riferimento al valore risultante dall’ultimo bilancio approvato.

Diversa è la disciplina dell’esclusione di cui al comma 3.

La previsione di esclusione legale (art. 2466 co. 3 c.c.), essendo specificamente correlata al caso in cui la suddetta vendita non possa aver luogo per mancanza di compratori, è dettata da una propria specifica ratioincentrata sulla deterrenza della mora, in virtù della prevista possibilità di trattenere il valore del conferimento già versato (art. 2464 c.c.) con contestuale riduzione del capitale; ratio - dunque - non suscettibile di trasposizione in un settore diverso da quello dell’inadempimento degli obblighi di conferimento.

Questo sembra al Tribunale evidente nella considerazione che l’art. 2473 bis c.c., espressamente escludendo l’utilizzabilità della stessa tecnica di rimborso basata sulla riduzione del capitale sociale (cfr., in comparazione, l’art. 2466 co. 3 cit.), richiama, invece, la sola disciplina della liquidazione della quota nel caso di recesso; in siffatto modo eliminando qualsiasi dubbio a proposito della ventilata estensibilità, ai casi di esclusione previsti dallo statuto, della disciplina modellata sulla fattispecie di esclusione ex lege.

Va evidenziato, tra l’altro, che, secondo un autorevole indirizzo dottrinale, finanche nel solco dell’esclusione legale di cui all’art. 2466 co. 3 c.c., fermo il deterrente del trattenimento delle somme di cui al conferimento già versato, la società dovrebbe comunque liquidare al socio moroso la quota del patrimonio <<al suo valore di mercato>> al momento della decisione di esclusione, in applicazione, quindi, sullo specifico profilo, dell’art. 2473 bis cit..

Per le esposte considerazioni, la clausola statutaria di cui si discute è nulla per contrarietà alla norma di legge.

6. - La domanda di danni, proposta in relazione alla sostenuta invalidità della deliberazione assembleare, è assorbita dal rigetto della domanda di annullamento.

7. - Le spese di lite meritano di essere compensate in ragione di ½, per giusti motivi; il residuo segue la soccombenza, con liquidazione d’ufficio stante il mancato rinvenimento della notula difensiva.

p.q.m.

Il Tribunale di Lucca,

definitivamente pronunciando, così decide:

- dichiara la nullità della clausola di cui all’art. 14 co. 1 dello statuto sociale di Alfa s.r.l.;

- rigetta le restanti domande;

- compensa le spese in ragione di ½ e condanna la società al pagamento della quota residua, che liquida in complessivi euro 800,00 per diritti ed euro 2.000,00 per onorari.

Deciso in Lucca, nella camera di consiglio del 3 novembre 2004.