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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 03/05/2017 Scarica PDF

La chiusura del fallimento in pendenza di giudizi

Leonardo Vecchione, Avvocato in Roma


Sommario: 1. Premessa. 2. La nuova disciplina della chiusura  anticipata del fallimento. 3. Questioni applicative. 4. Ulteriori criticità derivanti dalla chiusura anticipata. 5. Conclusioni.


     

1. L’art. 118 legge fallimentare, come modificato dal d.l., 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modifiche dalla l., 6 agosto 2015, n. 132, ha introdotto la possibilità della chiusura della procedura fallimentare anche in pendenza di giudizi[1].

La c.d. “chiusura provvisoria” o “chiusura anticipata” del fallimento, così come è stata denominata nel lessico corrente degli operatori, intende limitare i casi di procedure fallimentari che durino oltre i termini massimi previsti dalla l., 24 marzo 2001, n. 1989, c.d. “legge Pinto” e, quindi, il pericolo di eventuali esborsi a carico dello Stato derivanti dalle conseguenti azione risarcitorie[2].

La Suprema Corte di Cassazione, dopo aver inizialmente indugiato sull’applicabilità delle norme che riconoscono il diritto ad un’equa riparazione per la violazione della ragionevole durata del processo[3], ha successivamente stimato la durata ragionevole delle procedure fallimentari in cinque anni per quelle di media complessità ed in sette anni per i procedimenti che si presentano notevolmente complessi[4].


2. Il novellato art. 118, comma 2, legge fallimentare prevede che “La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43”.

In deroga all'articolo 35 legge fallimentare, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato, da tale previsione e dal contenuto dell’ultimo comma dell’art. 120 legge fallimentare si evince chiaramente che gli organi della procedura che sopravvivono alla chiusura del fallimento sono esclusivamente il giudice delegato ed il curatore con conseguente evidente cessazione delle funzioni svolte dal comitato dei creditori ove costituito.

La continuazione dei giudizi e la previsione di ulteriori attività da svolgere rende necessario l’accantonamento di somme ed infatti è espressamente previsto che “Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonché le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto dall'articolo 117, comma secondo.

Il curatore successivamente alla chiusura del fallimento mantiene la legittimazione processuale anche nei successivi stati e gradi dei giudizi, ai sensi dell’art. 43 legge fallimentare ma non potrà, invece, iniziare nuove controversie ed acquisire ulteriori beni sopravvenuti al fallito, potendo esclusivamente acquisire quei beni che sono frutto della positiva conclusione dei giudizi pendenti.

In dottrina[5] è stato affermato che la legittimazione processuale del curatore non è automatica, dal momento che sebbene essa trovi la sua fonte nella legge, deve essere attuata con una pronuncia espressa contenuta nel decreto di chiusura, rimanendo altresì preclusa tale legittimazione successivamente alla chiusura del fallimento fino all’integrazione, rectius correzione ex art. 287 c.p.c.[6], del decreto di chiusura di cui all’art. 119 legge fallimentare.

Successivamente alla definizione dei giudizi pendenti il curatore dovrà procedere ad un riparto supplementare delle somme che ha acquisito per effetto di provvedimenti definitivi e di quelle residue che eventualmente ha accantonato: tale riparto dovrà avvenire secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di chiusura di cui all’art. 119 legge fallimentare.

In ogni caso la norma dispone che “In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento”.

Qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all’esdebitazione di cui al comma secondo dell'articolo 142, il debitore può chiedere l’esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato.

In tal caso il termine decorrerà dal giorno dell’esecutività del riparto dovendosi ravvisare solo in tale momento sussistente il requisito della soddisfazione almeno in parte dei creditori concorsuali.

Il fallito successivamente alla “chiusura anticipata” della procedura fallimentare sembrerebbe tornare quindi in bonis e si discute in dottrina[7] sulla sua possibilità di intervento nei processi pendenti.

Relativamente agli effetti della chiusura del fallimento, l’art. 120, comma 5, legge fallimentare, individuando un’ipotesi di ultrattività del curatore e del giudice delegato, prevede che nell'ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto. In nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi.


3. Il richiamo espressamente operato dall’art. 118 legge fallimentare al caso di chiusura n. 3) fa chiaramente sì che sia possibile la “chiusura anticipata” del fallimento quando, nonostante sia stata compiuta la ripartizione finale dell’attivo, pendano ancora dei giudizi.

Il primo problema interpretativo che, però, pone la norma è quello dell’applicazione della disciplina della “chiusura anticipata” anche ai casi di chiusura per mancanza di attivo di cui al n. 4) della citata norma ovvero in quei casi in cui nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura.

Secondo un primo orientamento che muove da un’interpretazione restrittiva ancorata al dato testuale dell’articolo in esame, sembrerebbe ammissibile la chiusura anticipata del fallimento nei soli casi in cui sia stata compiuta la ripartizione finale dell’attivo e non anche nei casi in cui manchi del tutto l’attivo in quanto trattasi di norma eccezionale che non può essere applicata analogicamente[8].

Un’interpretazione estensiva della norma consente l’applicazione del nuovo istituto della “chiusura anticipata” anche nel caso di cui al n. 4) dell’art. 118, legge fallimentare, e cioè di chiusura per mancanza di attivo con pendenza di giudizi volti a recuperare beni che possano consentire riparti in favore dei creditori.

Secondo tale orientamento potrebbero, quindi, essere chiusi anticipatamente, in pendenza di giudizi, non solo i fallimenti nei quali è stata compiuta una ripartizione finale dell’attivo ma anche quelle procedure fallimentari nelle quali, in una prospettiva futura, è possibile compiere una ripartizione in ragione della natura e delle probabilità di successo dei giudizi pendenti promossi dalla Curatela[9]. In dottrina[10] è stato inoltre rilevato che la liquidazione potrebbe reputarsi compiuta anche quando residui la possibilità di incamerare nuove risorse tassativamente legate al buon esito di azioni cognitive non ancora concluse.

Sostanzialmente tale orientamento tende ad equiparare, ai fini della chiusura del fallimento in pendenza di giudizi, quelle situazioni in cui si è già provveduto alla ripartizione finale dell’attivo a quelle situazioni dove in concreto non è stato ripartito alcun attivo ma in astratto, secondo un giudizio prognostico, sarà possibile effettuare tale ripartizione con le somme ricavate proprio dai giudizi pendenti.

Altra questione dibattuta e di non indifferente rilievo è quella relativa al significato da attribuire alla locuzione “giudizi” e quindi quella attinente all’individuazione di quali debbano intendersi i giudizi in pendenza dei quali è ora possibile la chiusura anticipata del fallimento.

Tali giudizi sono sia quelli che hanno ad oggetto situazioni soggettive del fallito, di cui all’art. 43 legge fallimentare preesistenti al fallimento, nelle quali quindi il curatore è subentrato, sia quelle azioni che derivano dal fallimento (azioni revocatorie, di inefficacia etc.).

Per quanto concerne le azioni della massa fallimentare non si può tuttavia non rilevare il fatto che l’art. 120, comma 2, legge fallimentare stabilisce che a seguito della chiusura del fallimento le azioni esperite dal curatore per l’esercizio di diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite con il conseguente concreto rischio da parte della curatela di vedersi dichiarare l’improcedibilità del giudizio pendente.

Nel caso di liti passive la possibilità di chiusura del fallimento in pendenza di opposizioni era già implicitamente prevista dall’art. 117 legge fallimentare.

Il curatore, in caso di impugnazione dello stato passivo ex art. 99 legge fallimentare dovrà accantonare le somme solo nel caso in cui, ai sensi dell’art. 113, legge fallimentare, sia stata accolta la domanda del creditore opponente ma la sentenza non sia passata in giudicato[11]. Successivamente alla pronuncia di primo grado il curatore potrà chiudere il fallimento senza dover effettuare alcun accantonamento nel caso in cui il fallimento sia risultato vittorioso in primo grado o altrimenti, se soccombente - contestualmente alla modifica dello stato passivo con inserimento del credito risultato dovuto - previo accantonamento di tutte quelle somme necessarie per far fronte ad oneri e spese (imposta di registrazione della sentenza, compenso avvocato del fallimento, spese di soccombenza) dei giudizi pendenti.

Con riferimento alle liti attive e cioè quei “giudizi” che sono promossi dal fallimento allo scopo di conseguire poste attive da ripartire tra i creditori la possibilità di chiusura anticipata della procedura fallimentare è, invece, ravvisabile la vera e propria innovazione conseguente alla riforma dell’art. 118 legge fallimentare.

Il principale problema è, quindi, quello di stabilire l’ambito dei giudizi attivi cui la norma può trovare applicazione.

Tale difficoltà sussiste non tanto relativamente a quei giudizi che hanno ad oggetto somme di denaro e che quindi richiederebbero una mera ripartizione supplementare e per la cui applicabilità della norma non sembrerebbero ostare particolari impedimenti bensì per quei giudizi che hanno la finalità di recuperare dei beni in natura (si pensi ad es. ad un’azione revocatoria avente ad oggetto un bene immobile)[12].

Con riferimento a questi beni, infatti, sarebbe poi necessaria una successiva attività di liquidazione (e quindi anche un supplemento del programma di liquidazione), che lo stesso art. 118 legge fallimentare non prevede limitandosi esclusivamente a prevedere riparti successivi alla chiusura e non anche liquidazioni supplementari che necessitano tra l’altro dell’attuazione di procedure competitive e, quindi, l’esistenza ed il pieno funzionamento di tutti gli organi della procedura. Tale situazione lascerebbe aperta la problematica relativa ai poteri ed alle modalità per procedere alla vendita atteso che è proprio la medesima norma a vietare la riapertura della procedura fallimentare.

E’ opinione di chi scrive che tale ostacolo non potrebbe inoltre essere rimosso né con la redazione anticipata di un eventuale supplemento al programma di liquidazione da attuare in caso di esito positivo dell’azione recuperatoria né con la previsione nel decreto di chiusura della procedura fallimentare di modalità liquidative, perché resterebbe il problema dell’attività di liquidazione del bene e cioè della vendita per la quale alcuna norma individua un potere di rappresentanza sostanziale rectius di amministrazione in capo al curatore dovendosi limitare, in assenza di espressa previsione normativa, l’ultrattività del potere del curatore alla sola legittimazione processuale e eventuale di ripartizione delle somme acquisite, il tutto senza considerare che il fallito a seguito della chiusura del fallimento tornerebbe in bonis e, quindi, riacquisirebbe i poteri di amministrazione del proprio patrimonio.

Anche con riferimento alla possibilità di “chiusura anticipata” del fallimento in pendenza di procedure di esecuzione forzata immobiliare e mobiliare si sono registrati orientamenti contrastanti.

Secondo un primo orientamento[13] non sarebbe possibile la “chiusura anticipata” l’art. 118 legge fallimentare prevede che il curatore conservi la legittimazione processuale nei successivi stati e gradi del giudizio ed il legislatore avrebbe utilizzato l’espressione giudizi per intendere i processi cognitivi e non anche la fase esecutiva.

Relativamente alle esecuzioni pendenti sui beni del fallito (si pensi ad es. a quelle esecuzioni nelle quali il curatore sia intervenuto per far propri i risultati dell’esecuzione acquisendo il ricavato alla massa fallimentare) od ai giudizi di divisione, il fallimento non potrebbe chiudersi perché il bene oggetto dell’esecuzione deve già considerarsi essere entrato a far parte del fallimento e l’eventuale chiusura violerebbe il disposto dell’art. 116 legge fallimentare che prevede il deposito del rendiconto solo dopo che sia stata compiuta la liquidazione dell’attivo[14].

Riguardo, invece, alle esecuzioni pendenti sui beni di un terzo si è distinto il caso in cui il giudizio diretto all’accertamento delle ragioni creditorie si sia concluso o meno, potendosi soltanto nel secondo caso provvedere alla chiusura del fallimento. Ed invero è stato osservato in dottrina[15] che una volta accertato giudizialmente il credito per la cui realizzazione sarà necessaria un’espropriazione forzata contro il terzo quella posta deve ritenersi già acquisita al fallimento.


4. La disciplina della chiusura del fallimento in pendenza di giudizi lascia aperte ulteriori problematiche che interessano la procedura fallimentare e l’ultrattività del curatore fallimentare.

Una di queste attiene all’estinzione o meno del conto corrente bancario intestato alla procedura fallimentare.

La giurisprudenza[16] ha rilevato la necessità del fatto del conto corrente bancario rimanga aperto in vista del riparto supplementare, ed infatti nel caso in cui si debba procedere alla chiusura del fallimento in pendenza di cause attive il cui eventuale esito favorevole determinerebbe la diretta acquisizione di ulteriori risorse da destinare al soddisfacimento dei creditori, la chiusura del fallimento, in deroga ai principi generali, non determinerà l'estinzione del conto corrente della procedura sul quale pertanto continueranno a giacere le somme accantonate e confluiranno quelle eventuali derivanti dai giudizi in corso. Per gli stessi motivi, rileva la medesima giurisprudenza non si potrà effettuare la cancellazione del soggetto fallito dal registro delle imprese perché altrimenti il conto corrente rimarrebbe privo di titolare.

Considerato il disposto dell’art. 118 legge fallimentare, laddove è prescritto che “nei casi in di chiusura di cui ai numeri 3) e 4), ove si tratti di fallimento di società il curatore ne chieda cancellazione dal registro delle imprese” sembrerebbe necessario che il decreto di chiusura esoneri espressamente il curatore dall’effettuare tale cancellazione fino alla conclusione dei giudizi pendente e, quindi, del definitivo riparto.

La società non potrebbe essere, infatti, cancellata ex art. 2495 c.c. in pendenza di liti che la riguardano dovendo avvenire la cancellazione esclusivamente all’esito dei giudizi pendenti e, comunque, dopo l’eventuale riparto finale[17].

Allo stesso modo non cancellandosi la società, non potranno essere cancellati codice fiscale e partita iva, potendo quest’ultima essere tra l’altro chiusa esclusivamente quando sono terminate le operazioni attive rilevanti ai fini iva che richiedono gli adempimenti previsti dalla normativa in materia (fatturazione, registrazione, liquidazione, dichiarazione e eventualmente compensazione dell’iva).

Anche la casella PEC del fallimento dovrebbe, infine, restare aperta fino alla definizione dei giudizi pendenti ed eventualmente nel caso di riparti supplementari fino al nuovo deposito del rendiconto ed alla definitiva chiusura del fallimento.

Da ultimo va rilevato che anche il compenso del curatore fallimentare, che viene determinato in base al D.M. 25 gennaio 2012, n. 30 in ragione dell’attivo realizzato e del passivo accertato, successivamente all’acquisizione di ulteriore attivo, dovrà essere rideterminato, potendo legittimamente il curatore richiedere un supplemento di compenso rapportato al maggiore attivo realizzato.

Infine, sulla discrezionalità o meno della chiusura del fallimento in pendenza di giudizi ed in presenza dei presupposti di legge sembrerebbe potersi affermare che la stessa non costituisca un atto dovuto ma discrezionale[18].

In tal senso muove il tenore letterale del testo dell’articolo 118, legge fallimentare, laddove è previsto che “la chiusura della procedura … non è impedita”.

Ad ogni modo, in attesa di un intervento legislativo chiarificatore, sembrerebbe ragionevole rimettere la decisione ad una scelta ragionata del curatore e del giudice delegato che, di volta in volta, dovranno valutare il numero dei giudizi pendenti, la presumibile durata degli stessi e la probabilità di esito favorevole della causa.


5. Concludendo, non si può non rilevare che la modifica dell’art. 118 legge fallimentare è figlia della legge Pinto, la quale però non è legata solo ad un aspetto formale e cioè alla durata del processo, che sembra essere soddisfatta dalle modifiche introdotte, ma anche e soprattutto da un ben più nobile scopo di carattere sostanziale che è rappresentato dalla definizione in tempi brevi dei rapporti controversi, quindi, dalla stabilizzazione, rectius certezza, dei rapporti giuridici, certezza e stabilizzazione che non sembrano affatto realizzarsi con la chiusura provvisoria del fallimento laddove permangano giudizi da portare a compimento e attività liquidatorie da compiere.



[1] La disciplina avendo natura processuale e non sostanziale è da ritenersi applicabile anche alle procedure aperte prima dell’entrata in vigore della legge di conversione.

[2] Nell’attuale orientamento della Cassazione il danno viene liquidato in euro 750 per i primi tre anni ed in euro 1.000 per gli anni successivi.

[3] Cfr. Cassazione civ. Sez. I (ord.), 4 novembre 2010, n. 22511 per la quale “nel procedimento di fallimento sono individuabili una pluralità di domande di ammissione al passivo, di ricorsi per insinuazione tardiva, di opposizioni allo stato passivo ed anche di azioni civili ordinarie, cosicché non è ammissibile estendere il termine ragionevole di durata stabilito per un processo di cognizione o di esecuzione individuale e la durata ragionevole può essere calcolata in tre anni solo nel caso di fallimento con unico creditore o, comunque, con ceto creditorio limitato, senza profili contenziosi, mentre quella di sei anni può essere congrua tenuto conto di tre gradi dei procedimenti incidentali e di un anno ulteriore per il riparto dell'attivo”.

[4] Cfr. Cassazione civ. Sez. VI, 19 maggio 2015, n. 10233 per la quale “la durata ragionevole delle procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni per quelle di media complessità, elevabile fino a sette anni allorquando il procedimento si presenti notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in presenza di un numero elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle procedure concorsuali interdipendenti”; conforme a Cassazione civ. Sez. I, (ord.), 13 giugno 2011, n. 12936.

[5] Un tal senso cfr. G. Limitone, La doverosa chiusura del fallimento in pendenza di giudizi, in http://www.ilcaso.it/articoli/cri.php?id_cont=888.php, 11 e ss., per il quale il tribunale, nel decreto di chiusura, deve espressamente conferire i poteri prorogati al curatore ed al giudice delegato.

[6] Sulla possibilità di correzione dei decreti e sulla ammissibilità della stessa procedura in sede fallimentare si veda Cassazione, 17 maggio1974, n. 1440, in Rep. 1974, voce Sentenza civile, n. 155.

[7]Rileva M. Montanari, Ancora sulla chiusura anticipata del fallimento in pendenza dei giudizi, in http://www.ilcaso.it/articoli/cri.php?id_cont=876.php, 14, il necessario coinvolgimento processuale del fallito tornato in bonis, fermo restando che il suo coinvolgimento non avverrebbe nelle forme della riassunzione nei suoi confronti del giudizio interrotto bensì dell’integrazione del contraddittorio. Diversamente G. Limitone, op. cit., 10, rileva che l’ex-fallito non è titolare di alcuna posizione di diritto tutelata autonomamente nel processo e che, pertanto, è da escludere la possibilità di un suo intervento autonomo (al massimo adesivo dipendente a favore della massa) così come non è ipotizzabile che il giudice disponga, dopo la chiusura del fallimento, l’integrazione del contraddittorio nei confronti del fallito non essendo per l’appunto titolare di alcun diritto controverso.

[8] In tal senso cfr. M. Vitiello, La chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi, in www.ilfallimentarista.it, 1.2.2016.

[9] Cfr. Tribunale Forlì, 3 febbraio 2016, in Fall., 2016, 11, 1250.

[10] Così M. Montanari, Chiusura “anticipata” del fallimento ai sensi dell’art. 118, comma 1, n. 4, l. fall.?, in Fall., 2016, 11, 1250.

[11] A seguito della nuova formulazione dell’art. 99 legge fallimentare ad opera del d. lgs., 12 settembre 2007, il tribunale decide con decreto, che può essere impugnato in cassazione entro trenta giorni dalla comunicazione con la conseguenza, il decreto non è definitivo fino a quando non sia decorso il termine di 30giorni per l’impugnazione in Cassazione, a meno che, ai sensi dell'art. 741 c.p.c., il decreto non sia provvisoriamente dichiarato tale dal tribunale.

[12] In dottrina v. D. Galletti, La chiusura del fallimento con prosecuzione dei giudizi in corso: uno strumento da incentivare o da osteggiare? in www.ilfallimentarista.it, 1.12.2015, 2  e M. Vitiello, op. cit., 2, nel senso della non proseguibilità dei giudizi che mirino a recuperare beni o diritti che debbano essere ulteriormente liquidati in quanto la norma consente di effettuare un riparto e non una liquidazione supplementare; diversamente M. Montanari, op. cit., 11, rileva che la limitazione della possibilità della chiusura anticipata del fallimento nei soli casi di giudizi finalizzati all’apprensione di una somma di denaro , con esclusione, quindi, di quei giudizi che comportano una successiva attività di liquidazione, sconfesserebbe “l’omnicomprensiva previsione dell’art. 118, 2° comma, terzo periodo, che parla di giudizi pendenti senza distinzioni di sorta sub specie objecti”. L’autore rileva inoltre che dovendosi ammettere, anche in assenza di espressa previsione legislativa, la possibilità da parte del curatore di intraprendere un’azione esecutiva successivamente alla chiusura anticipata del fallimento, allo stesso modo non dovrebbe essergli negata la possibilità di trasformare in denaro i beni recuperati all’attivo fallimentare.

[13] Cfr. S. Ambrosini, Il diritto della crisi d’impresa nella legge n. 132 del 2015 e nelle prospettive di riforma, in http://www.ilcaso.it/articoli/cri.php?id_cont=847.php, 54 e ss.

[14] A favore della chiusura del fallimento v. G. Limitone, op. cit., 8.

[15] Cfr. M. Montanari, op. cit., 10.

[16] Cfr. Tribunale Bergamo, 14 gennaio 2016, in www.ilcaso.it.

[17] Cfr. G. Limitone, op. cit., 15; S. Mancinelli, Brevi note sulla chiusura della procedura fallimentare in pendenza di giudizi, in http://www.ilcaso.it/articoli/fal.php?id_cont=831.php, 9.

[18] In dottrina v. M Vitiello, op. cit., 1, per la discrezionalità della chiusura della procedura; contra sembrerebbe M. Montanari, op. cit., 16, che ad ogni modo auspica un intervento legislativo in merito.


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