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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/02/2023 Scarica PDF

Gestione antieconomica dell'impresa: accertamento con metodo analitico - induttivo

Giorgio Seminara, Avvocato in Siracusa


Con ordinanza n. 501/2023, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’accertamento con metodo analitico – induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, è consentito, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, pur in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata.

È questo il senso dell’ordinanza emessa dalla Corte Suprema di Cassazione – sezione tributaria, la quale ha accolto il ricorso proposto dall’Ufficio avverso la sentenza della Ctr della Sicilia.

   

1. Fatti e giudizio di merito

Al centro della vicenda vi erano due avvisi di accertamento Irpef, Iva, Irap, Addizionale Regionale ed Addizionale Comunale, con cui l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate rettificava, con metodo induttivo, il reddito dichiarato di una società di ristorazione, in ragione dell’apparente antieconomicità della sua conduzione, concretizzatasi in una illogica gestione aziendale dell’attività per gli anni d'imposta 2006 e 2007.

In particolare, l’Ufficio aveva proceduto alla ricostruzione induttiva dei redditi ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. n. 600/1973, applicando una percentuale di ricarico sul costo del venduto pari al 250%.

La Ctp di Siracusa aveva accolto in parte il ricorso proposto dal contribuente avverso gli avvisi di accertamento, dichiarando dovuta la riduzione del reddito accertato per gli anni 2006 e 2007 in relazione alle merci distrutte.

La Ctr Sicilia, adita sia con appello principale del contribuente, che con appello incidentale dell’Agenzia delle Entrate, annullava l'accertamento impugnato, oltre che per l’errore nei calcoli derivanti dall’applicazione di una percentuale di ricarico del 350%, abnorme e inesistente sul mercato, anche per l’assoluto difetto motivazionale degli atti impugnati, poiché l’Ufficio aveva sostenuto che tale incidenza era stata rilevata da imprese che operavano nel settore in condizione di una normale gestione economica, ma non aveva specificato quali fossero tali imprese, né quali verifiche avesse effettivamente eseguito e in quale periodo avesse accertato quanto affermato, né aveva riportato i dati desunti per dimostrare la loro compatibilità alla realtà aziendale del ricorrente.

Secondo la Ctr, l’Ufficio aveva asserito che si era verificata una <<gestione antieconomica>> della azienda sulla base dei risultati di esercizio dichiarati per gli anni 2006 e 2007, senza avere esperito le indagini necessarie sulle scritture contabili e bancarie e senza aver potuto dimostrare con certezza se si fosse verificato un occultamento di ricavi o se si fosse in presenza di risorse finanziarie non dichiarate; l’Ufficio, inoltre, aveva ricostruito i ricavi accertati per due anni 2006 e 2007 applicando una percentuale di ricarico sul costo della merce venduta pari al 350%, sostenendo di applicare invece una percentuale di ricarico del 250%. 

 

2. Il ricorso e l’ordinanza della Corte

L'ufficio, quindi, proponeva ricorso in cassazione, affidato a due motivi di diritto; il primo fondato sul fatto che il contribuente non aveva fornito alcuna giustificazione delle ragioni che avevano inciso negativamente sulla propria attività, nonostante la prova dell'apparente antieconomicità della gestione della società accertata, che aveva registrato perdite di rilievo per due periodi di imposta consecutivi; il secondo deduce, sostanzialmente, il mal governo dei principi che disciplinano la valutazione della prova.

I giudici di legittimità accolgono il primo motivo di ricorso dell'ufficio, con assorbimento del secondo motivo, facendo riferimento alla propria precedente giurisprudenza, secondo cui, la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non è di ostacolo alla rettifica delle dichiarazioni fiscali e, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie.

La Suprema Corte ha altresì evidenziato che anche in materia di IVA, l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 54, commi 2 e 3, d.P.R. n. 633/1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra ricavi, compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni.

Nella prospettazione erariale, in linea con i principi che precedono, sottesa all’atto impositivo l’accertamento era fondato su dati di bilancio esposti nel <<Quadro RG>>, che avevano individuato una gestione antieconomica dell’attività e una illogica gestione aziendale dell’attività per ben due periodi d’imposta consecutivi; tali dati avevano dimostrato che, a fronte di costi di diretta imputazione di una certa rilevanza, corrispondevano redditi irrisori e, quindi, una gestione antieconomica difficilmente giustificabile nel settore in cui operava l’impresa, avvalorata ancor più dal perdurare di tale situazione per ben due periodi d’imposta consecutivi; inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di seconda istanza, l’Agenzia delle Entrate nella rideterminazione dei ricavi non aveva commesso alcuno errore grossolano di calcolo, ma aveva applicato correttamente la formula matematica prevista in questi casi, con la conseguenza che la percentuale di ricarico applicata non era quella, errata del 350%, ma quella del 250% come riportato sugli avvisi di accertamento.

In tale situazione, ad avviso della Corte, la decisione del giudice d’appello risulta contraddetta dalle risultanze di causa; i giudici di secondo grado, infatti, pur avendo rilevato che l’Ufficio aveva asserito che si era verificata una <<gestione antieconomica>> della azienda sulla base dei risultati di esercizio dichiarati per gli anni 2006 e 2007, hanno erroneamente ritenuto il difetto di motivazione degli atti impositivi.

In altri termini, la Ctr siciliana ha illegittimamente ritenuto che fosse l'ufficio a dover fornire ulteriori elementi di prova, oltre all'antieconomicità della gestione, idonei a sostenere l'accertamento induttivo: diversamente, era a carico della società la prova contraria, ossia la spiegazione del comportamento antieconomico rilevato in sede di accertamento, indicando i fattori causali che l'avevano determinato.

 

3. Osservazioni conclusive

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 501/2023 offre lo spunto per soffermarsi brevemente sul concetto di “antieconomicità” delle scelte imprenditoriali; tale tipo di contestazione permette all’Agenzia delle Entrate di  negare la deducibilità fiscale di quelle spese giudicate contrarie alla logica imprenditoriale (perché ritenute “non inerenti”), oppure di ricostruire il reddito imponibile sulla base di presunzioni, quando l’incongruità afferisca lo svolgimento dell’intera attività di impresa.

In termini generali, un comportamento antieconomico si caratterizza per essere irragionevole e non congruo rispetto all’attività di impresa, all’entità del costo sostenuto, alla tipologia di spesa, etc.; questa discordanza lascia presumere che dietro tale condotta, sebbene formalmente inappuntabile (es., perché le fatture passive si trovano registrate puntualmente ed i pagamenti sono dimostrati dalle contabili bancarie), possano celarsi fenomeni di elusione o di evasione.

Come abbiamo visto nel caso in esame, anche un utile molto esiguo può sostenere il rilievo di antieconomicità della gestione e, quindi, l'attività impositiva dell'ufficio. In proposito, la Suprema Corte di Cassazione aveva già avuto occasione di chiarire che “l'antieconomicità della gestione di un'impresa non può verificarsi solo quando essa concluda il proprio esercizio annuale con una perdita, ma anche quando chiuda il bilancio con un utile talmente esiguo, a fronte di ingenti investimenti sostenuti, da far ritenere senz'altro sconveniente il rischio d'impresa sopportato in rapporto al risultato conseguito (cfr. Cassazione n. 31814/2019).

In effetti, l’attività produttiva è condotta con metodo economico quando è diretta al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi utilizzati mediante lo svolgimento con modalità tali da consentire, nel lungo periodo, la copertura dei costi con i ricavi, assicurando così l’autosufficienza economica.

Se l’Ufficio qualifica una condotta come “antieconomica” può procedere a rideterminare il reddito imponibile del contribuente attraverso un accertamento induttivo, ossia basato su presunzioni e senza necessità di fornire prove “certe” di una effettiva e conclamata evasione d’imposta. In tal caso, è onere del contribuente provare che il comportamento antieconomico sia giustificato da ragioni diverse dall’elusione o evasione di imposta.

In un sistema tributario che agevola l’Ufficio nella formazione della prova e nella emissione di avvisi di accertamento fondati su presunzioni, è assolutamente opportuno che il contribuente tenga traccia delle ragioni che lo hanno spinto a compiere scelte, che appaiono non sorrette da una ferrea logica economica.

In definitiva, è possibile che, per ragioni contingenti, la gestione sia in perdita o consegua utili minimi: ma è il contribuente, secondo l'orientamento univoco della giurisprudenza di legittimità, che ha l'onere di provarlo.


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