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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 08/07/2018 Scarica PDF

Sulla meritevolezza dell'interesse imprenditoriale all'oscuramento di documenti "sensibili" pubblicati con l'accordo di ristrutturazione dei debiti

Giorgio Barbieri e Alessandro Nironi Ferraroni, Avvocati in Reggio Emilia


Sommario: 1. L’impatto dell’obbligo di “pubblicazione” nel registro delle imprese dell’accordo di ristrutturazione dei debiti sulle posizioni dei soggetti coinvolti. - 2. Singolarità del caso di specie, tappe dell’iter analitico e obiettivo. - 3. Alcune coordinate di riferimento sul sistema della pubblicità commerciale. - 4. La “pubblicazione” dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. - 5. Opposizione e reclamo camerale: rapporti. - 6. Segue: il perimetro del sindacato del tribunale in sede di omologa e i vizi reclamabili. - 7. Verso il miglior contemperamento degli interessi dei terzi e dell’imprenditore.


     

1. Due opposti interessi gravitano attorno all’obbligo di “pubblicazione” ([1]) degli accordi di ristrutturazione dei debiti nel registro delle imprese ([2]).

Da un lato, l’interesse giuridico (qualificato e non meramente fattuale) dei terzi ad essere bene informati circa l’esatta situazione debitoria della società con la quale intrattengono, o potrebbero intrattenere, rapporti commerciali. Qualunque interessato – purché portatore di posizioni giuridiche qualificate sulle quali potrebbero ripercuotersi gli effetti conseguenti agli accordi, ove omologati – deve ritenersi infatti titolare del diritto sia ad essere informato sulla presentazione del ricorso di cui al primo comma dell’art. 182-bis l. fall., sia ad accedere ad un patrimonio informativo il più possibile completo e, comunque, tale da consentirgli di valutare l’eventuale proposizione, laddove ne sia legittimato, dell’opposizione prevista dal quarto comma della norma ultima citata.

Dall’altro lato, l’interesse imprenditoriale ([3]) alla riservatezza, quantomeno rispetto a quei dati che siano determinanti per il buon esito della (futura) ristrutturazione: dati che per riguardare spesso ([4]) i valori – stimati nel piano industriale – degli assets sociali destinati ad essere dismessi in funzione della ristrutturazione dei debiti (onde cioè generare quelle risorse finanziarie da porsi, in tutto o in parte, a disposizione dei creditori), ove oltremisura esposti al pubblico per il tramite della pubblicità camerale, rischierebbero di condizionare la vendita dei beni cui si riferiscono, incidendo sensibilmente sul contenuto delle trattative volte a questo fine ([5]).

Esigenza, quella appena indicata, che pare tanto più effettiva quando gli accordi perfezionati con i creditori non si innestino su un piano a contenuto meramente liquidatorio, ma piuttosto diretto, attraverso programmate operazioni d’investimento o disinvestimento, ad assicurare la continuità aziendale della impresa ricorrente in mercati oligopolistici, o comunque settorialmente e/o territorialmente ristretti, caratterizzati da una limitata competitività, nei quali gli altri operatori concorrenti potrebbero godere dell’ulteriore (indebito) vantaggio competitivo rappresentato dalla conoscenza delle strategie imprenditoriali dell’impresa in crisi, come (necessariamente) rappresentate appunto da quel piano industriale di risanamento, a sua volta destinato alla pubblicazione nel registro delle imprese. Cosicché la tutela dell’interesse di cui si discute, ove si voglia passare da una prospettiva individuale ad una più generale, finisce con il trovare giustificazione anche nella necessità di evitare situazioni capaci di alterare il libero giuoco della concorrenza nel mercato di riferimento.

D’altronde, l’importanza di accordare protezione a questa seconda esigenza dell’imprenditore in crisi tanto più emerge laddove si consideri che la sua compromissione appare idonea a ripercuotersi negativamente, sia pure in via mediata, proprio sulla posizione economica di quei creditori alla cui miglior soddisfazione gli accordi di ristrutturazione sono viceversa oggettivamente preordinati. Di modo che, per quanto differenti, è possibile rintracciare aspetti di reciproca interferenza, sia pure indiretta, tra la posizione giuridica del singolo imprenditore in crisi e quella dei terzi suoi creditori, aderenti e non al piano di ristrutturazione (art. 182-bis, primo comma, l. fall.).

Ciò detto, deve poi subito aggiungersi che non sembra che la disciplina di settore dettata per il registro delle imprese ([6]), con la quale s’intrecciano le prescrizioni in materia fallimentare, abbia operato un prudente bilanciamento fra questi distinti interessi. Invero, già da una prima lettura degli articoli iniziali della legge del 29 dicembre 1993, n. 580 ([7]) s’intravede la netta propensione del Legislatore verso la tutela dell’interesse all’informazione economica e alla trasparenza del mercato, indipendentemente dalla tutela dell’interesse dell’impresa cui si faceva poco sopra cenno ([8]). Conclusione questa che trova conferma nel secondo e nel sesto comma dell’art. 8 della legge n. 580, ai sensi dei quali, rispettivamente, le direttive ministeriali sulla tenuta del registro sono emanate «al fine di garantire condizioni di uniformità informativa su tutto il territorio nazionale», mentre la digitalizzazione del registro e il funzionamento del relativo ufficio sono realizzati «in modo da assicurare completezza e organicità, pubblicità per tutte le imprese soggette ad iscrizione attraverso un unico sistema informativo nazionale garantendo la tempestività dell’informazione su tutto il territorio nazionale».

Se dunque l’impronta delle norme settoriali dedicate alla pubblicità commerciale pare essere garantista, soprattutto, dei principi di pubblicità e trasparenza, una conciliazione dei diversi interessi sopra descritti finisce con il restare inevitabilmente affidata alla sensibilità dell’interprete applicatore (il giudice).

 

2. Ebbene, a svolgere quest’ultimo compito di prudente contemperamento è stato di recente chiamato il Tribunale di Parma ([9]), al momento di adottare la decisione (progressivamente) confluita nel decreto del 30 marzo 2018, con cui il Collegio parmigiano – ma solo dopo il decorso del termine di quindici giorni concesso ai legittimati dall’art. 182-bis, quinto comma, l. fall. – ha accolto l’istanza (rivoltagli da una società edile) volta ad ottenere l’oscuramento di taluni documenti “pubblicati”, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, presso il registro delle imprese, quali allegati all’accordo del quale era stata domandata l’omologazione.

Va chiarito che tali documenti, nel caso di specie, illustravano la futura attività liquidatoria che la ricorrente sarebbe stata chiamata a porre in essere intervenuta l’omologazione e, come tali, per taluni aspetti, erano caratterizzati da alta sensibilità ([10]).

Merita soprattutto precisare, per meglio contestualizzare ciò che si dirà in seguito a commento del citato provvedimento, che, da quanto risulta dallo stesso, analoga istanza era stata poco prima già sottoposta al vaglio del Giudice per ottenere il medesimo oscuramento al decorrere del (solo) termine – previsto dal quarto comma dell’art. 182-bis l. fall – di trenta giorni dall’intervenuta pubblicazione dell’accordo presso il registro imprese.

Tuttavia, in quella circostanza (temporale), tale richiesta era stata rigettata dallo stesso Tribunale di Parma con decreto del 1°-5 febbraio 2018, nel quale si precisava che, «nell’ipotesi più favorevole di omologazione dell’accordo in assenza di opposizioni, il decreto di omologa ex art. 182 bis 5° comma LF è reclamabile alla Corte di appello ai sensi dell’art. 183», rendendosi pertanto necessario, sempre ad avviso del medesimo Tribunale, «mantenere disponibile in forma visibile l’intero fascicolo già pubblicato affinché i soggetti legittimati a presentare opposizione prima, e reclamo poi, abbiano accesso al fascicolo completo per svolgere, tempo per tempo, le proprie valutazioni» ([11]).

Ciò che occorre domandarsi allora – ed è questo il tema su cui vertono le considerazioni che seguono – è se la tutela dapprima negata e poi successivamente concessa, evidentemente nella sostanza ritenuta meritevole, non potesse essere legittimamente accordata anche prima dello spirare del termine di cui al quinto comma dell’art. 182-bis l. fall.

Per fornire una risposta al quesito appena delineato, appare utile prendere le mosse da una breve ricognizione sinottica delle linee essenziali del sistema pubblicitario imperniato sul registro delle imprese, con particolare riguardo ai diversi effetti giuridici che lo stesso ricollega, di volta in volta, ai singoli adempimenti pubblicitari.

 

3. Le previsioni normative che disciplinano il registro delle imprese attribuiscono espressamente natura pubblica allo stesso, nonché agli altri due strumenti informatici – il protocollo e l’archivio – che consentono all’utenza la fruibilità delle informazioni ivi riportate ([12]). Da tale qualificazione discendono: (i) l’assoggettamento del registro alla libera consultazione di chiunque vi abbia interesse, mediante connessione al sistema informativo camerale sui terminali degli elaboratori elettronici installati presso ciascun ufficio, ovvero sui terminali remoti degli utenti connessi (art. 23, secondo comma, del regolamento attuativo di cui al D.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581); (ii) la consultabilità di qualunque dato e l’estraibilità, in forma elettronica, di qualunque documento presente nel fascicolo informatico ricercato.

Per contro, non ogni “atto” o “fatto” relativo al soggetto titolare d’impresa è ricompreso nell’obbligo legale di pubblicità, giacché il registro delle imprese è istituito «per le [sole] iscrizioni previste dalla legge» (art. 2188 c.c.), in funzione di tutela del legittimo affidamento dei terzi «che rischierebbero di veder pubblicizzati atti dei quali si ignorava colpevolmente la soggezione a pubblicità» ([13]).

Oggetto di pubblicità potranno così essere, a seconda dei casi, un mero fatto o comportamento imprenditoriale (relativo, vale a dire, al fattuale svolgimento dell’attività d’impresa e dunque, ad esempio, all’inizio o alla cessazione della stessa), oppure un vero e proprio atto negoziale (contratti, patti parasociali od operazioni straordinarie), ovvero ancora un provvedimento giudiziario (di regola emanato nell’ambito di procedure concorsuali).

Si ritiene poi concordemente che il legislatore codicistico, nell’art. 2188 c.c., abbia fatto un uso del sostantivo «iscrizioni» del tutto a-tecnico, alludendo anche all’altro procedimento di attuazione della pubblicità commerciale richiamato, ad esempio, dall’art. 2448 c.c., ossia il (semplice) deposito, non finalizzato all’iscrizione; mentre la ragione dell’ormai frequente impiego, nella prassi, del terzo termine “pubblicizzazione” per identificare l’adempimento di un obbligo pubblicitario presso il registro delle imprese deve rinvenirsi, per buona parte, nella crescente imprecisione della scrittura normativa ([14]).

Tuttavia, la differenza tra iscrizioni e depositi – oltre ad essere, per così dire, “operativa”, poiché, nel primo caso occorrerebbe esibire l’atto in originale, mentre nel secondo caso sarebbe sufficiente la presentazione di una copia autentica ([15]) – riemerge a fronte della necessità di qualificare la natura dei rispettivi effetti (cfr. art. 2448 c.c.).

Ed invero – servendosi, qui, della canonica tassonomia di derivazione privatistica – il deposito assolve esclusivamente funzione di pubblicità-notizia nei confronti della generalità dei terzi, assume autonomo rilievo e dev’essere semplicemente annotato ([16]), sicché la sua omissione non importa inefficacia del relativo fatto o atto. Tra le iscrizioni, detta funzione è associata a quelle presenti nelle “sezioni speciali” del registro delle imprese, ex art. 8, quinto comma, della legge n. 580 ([17]).

Almeno di regola, invece, l’iscrizione risponde ad esigenze di pubblicità dichiarativa, in omaggio al principio generale ([18]) espresso dal secondo comma dell’art. 2193 c.c., a mente del quale i terzi, dal momento dell’iscrizione, non possono eccepire di non avere avuto conoscenza dei fatti iscritti: sicché può dirsi che la stessa iscrizione determini la c.d. conoscenza legale del fatto o dell’atto iscritto (secondo comma). I soggetti all’opposto inadempienti ad un obbligo d’iscrizione non possono opporre ai terzi i fatti non iscritti, a meno che non provino che questi ultimi ne abbiano avuto conoscenza aliunde (primo comma).

È dunque proprio alla luce degli effetti appena esaminati che la predeterminazione tassativa degli atti e dei fatti da annotare, di cui si è poc’anzi detto, si pone come ineludibile ed a fronte della stessa i terzi non possono opporre l’ingiustificata ignoranza della formalità. Laddove, al contempo, la tipicità delle iscrizioni si pone a garanzia dei diritti dei terzi, qualora essi intendano rapportarsi ad uno o più degli imprenditori destinatari degli obblighi pubblicitari presso il registro delle imprese, poiché li esonera dalla consultazione di quest’ultimo nel caso in cui la fattispecie esorbiti dal novero di quelle per le quali la legge prescrive la pubblicità ([19]).

Ne viene a stretto rigore che, in tali casi, gli effetti prodotti di per sé dal fatto o dall’atto oggetto d’iscrizione restano insensibili rispetto alle sopravvenienze rappresentate dalle vicende della conoscenza, conoscibilità o ignoranza del fatto o dell’atto medesimi ([20]).

Ciò detto, occorre poi ancora aggiungere che la generale efficacia dichiarativa prescritta dall’art. 2193 c.c. conosce le seguenti eccezioni, aggiuntive rispetto alla sopra illustrata pubblicità-notizia: (i) pubblicità-costitutiva degli stessi effetti essenziali del fatto o dell’atto iscritto, come nel caso, ad esempio, dell’atto costitutivo di società lucrative di capitali (artt. 2331, primo comma, e 2465 c.c.) e di società cooperative (art. 2519 c.c.), la cui iscrizione si atteggia a condizione necessaria per la stessa esistenza della società; (ii) pubblicità-regolamentare dell’atto costitutivo di società in nome collettivo e di società in accomandita semplice (artt. 2296 ss. e 2317 c.c.), la cui iscrizione è condizione di applicazione alle stesse dei precetti dettati per il tipo societario, a pena, appunto, di irregolarità (ma non di nullità: c.d. società di fatto); infine, (iii) pubblicità-condizione prevista per le start-up innovative e gli incubatori certificati, al fine di poter godere delle agevolazioni contemplate dal decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221 ([21]).

 

4. I rilievi introduttivi appena svolti consentono ora di appuntare l’attenzione sulla “pubblicazione” dell’accordo di ristrutturazione dei debiti prescritta dall’art. 182-bis l. fall.

Si può così cominciare con il notare che se per un verso il termine utilizzato («pubblicazione», appunto) pare qui un chiaro esempio di quell’imprecisione nel linguaggio legislativo cui sopra si faceva cenno (come si è visto, infatti, l’art. 2448 c.c. distingue soltanto tra «iscrizione» e «deposito», al pari di quanto si evince dagli artt. 11 e 14 del regolamento attuativo di cui al D.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581 ([22]), per altro verso, con quello stesso termine la norma fallimentare si riferisce ad un’ipotesi di “pubblicazione” avente efficacia erga omnes, diversa e “rinforzata” rispetto a quella propria della semplice pubblicità-notizia ([23]).

Così, sotto il primo profilo, non sorprende che in dottrina si sia subito sviluppato un vivace dibattito nell’ambito del quale a coloro che sostengono che detta “pubblicazione” configuri un procedimento di vera e propria iscrizione ([24]), con conseguente applicabilità dell’art. 11 del Regolamento di attuazione ([25]), si contrappongono altri Autori che ritengono che nella fattispecie si tratti invece di semplice deposito ([26]). La lettera della legge si limita a prevedere che l’accordo divenga efficace a partire dal giorno della “pubblicazione” e che dalla stessa data decorra il termine perentorio ([27]) di trenta giorni (sul quale, più approfonditamente, infra) per l’eventuale proposizione di opposizioni da parte dei creditori e di «ogni altro interessato» ([28]); la pubblicità imposta all’accordo, pertanto, sarebbe strumentale ([29]) all’eventuale esercizio di quest’ultima facoltà ([30]).

Quanto al secondo profilo, su cui pure la dottrina è divisa, la “pubblicazione” dell’accordo avrebbe, secondo taluni, natura costitutiva degli effetti legali destinati a prodursi a fronte dell’adempimento pubblicitario ([31]), ovvero – secondo l’opinione di altri – si tratterebbe, piuttosto, di un mezzo di pubblicità dichiarativa ([32]).

Comunque la si voglia considerare, v’è però in merito alla “pubblicazione” in parola una conclusione che pare ormai condivisa dai più ([33]): ancorché non esplicitato dall’art. 182-bis l. fall., oggetto della stessa dovrebbero essere non solo gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ma pure il piano sotteso agli stessi e la relazione del professionista. Ciò perché il primo può considerarsi parte integrante degli accordi volti al superamento e, comunque, alla risoluzione dello stato di crisi dell’impresa, mentre la relazione del professionista rappresenta uno strumento essenziale per permettere ai creditori (specialmente se estranei) di valutare, non solo l’idoneità degli accordi ad assicurare il reale pagamento delle pretese creditorie ([34]), ma anche, sequitur, l’opportunità di proporre opposizione ([35]).

Ciò che, come del resto osservato anche in giurisprudenza ([36]), scongiura altresì la proposizione, da parte dei creditori non aderenti al piano, di opposizioni meramente esplorative, esperite «al solo fine di avere titolo per accedere al fascicolo del tribunale e prendere finalmente visione del documento che proprio ai creditori estranei è principalmente diretto» ([37]).

 

5. Calando queste coordinate ermeneutiche nella concretezza del caso di specie, dalla lettura del decreto annotato risulta – come si diceva più sopra – che la società ricorrente avesse allegato all’accordo di ristrutturazione ([38]) taluni documenti aventi contenuto “sensibile”, tra i quali è ragionevole ipotizzare che fossero ricompresi il piano industriale (in uno con i sottostanti documenti giustificativi) e la relazione attestante la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilità del piano stesso. In particolare è lo stesso decreto in commento che tratteggia la “sensibilità” delle informazioni contenute nei documenti in parola, dando atto che le stesse riguardavano gli ipotizzati prezzi di vendita dei cespiti immobiliari di proprietà della società ricorrente (e di altra società in liquidazione, da questa controllata), nonché – circostanza questa ancora più delicata – la prospettazione di ipotetici valori di realizzo di questi cespiti in scenari di pronta dismissione.

In un simile contesto, non v’è dubbio allora che il tempo di ostensione delle informazioni contenute nei documenti predetti alla generalità indistinta dei terzi, per via della loro pubblicazione nel registro delle imprese, potesse essere un fattore capace di influire sulla maggior o minore proficuità dell’attività esecutiva del programma di ristrutturazione, con possibili, pregiudizievoli ripercussioni anche sulle posizioni del ceto creditorio.

Proprio per questa ragione – come si è accennato e secondo quanto si evince dal decreto in commento – la società aveva già richiesto al Tribunale di Parma l’oscuramento di tali documenti trascorsi, ai sensi dell’art. 182-bis, quarto comma, l. fall., i soli trenta giorni dall’intervenuta pubblicazione camerale, ma tale richiesta era stata respinta in nome dell’affermata necessità di mantenere in forma visibile, per ulteriori quindici giorni dall’ipotetica omologazione dell’accordo «in assenza di opposizioni», l’intero fascicolo già pubblicato. Con ciò, sotto il profilo finalistico, rafforzando la tutela dei creditori potenzialmente interessati, concedendo agli stessi di proporre «opposizione prima, e reclamo poi», ma, sul piano del metodo, dando in certo modo per scontato quanto non è certo che così sia, vale a dire che il reclamo avverso il decreto che omologhi gli accordi sia legittimamente proponibile anche da soggetti che non abbiano rivestito la qualità di parte in senso formale nel giudizio di omologazione.

Va da sé che ad una simile statuizione, sul piano sostanziale, può imputarsi di non aver adeguatamente valorizzato l’interesse imprenditoriale a non vedere esposti al pubblico i dati contenuti nei documenti qualificabili, in una prospettiva industriale, come “sensibili”, oltre il tempo necessario (e sufficiente) a porre – in particolare – i creditori nelle condizioni per acquisire adeguata contezza degli stessi. Valutazione, questa, che tanto più può apprezzarsi ove si consideri che i documenti, una volta pubblicati, sono evidentemente accessibili anche da parte di terzi non legittimati a proporre opposizione o non interessati a promuoverla, tra i quali è lecito e verosimile pensare che possano annoverarsi anche attuali o potenziali concorrenti dell’imprenditore in crisi.

Ma ciò che della stessa statuizione – a sommesso avviso di chi scrive – appare meno convincente è il suo fondarsi su una ricostruzione della legittimazione attiva nei rapporti tra opposizione e reclamo camerale, che merita – si ritiene – un ripensamento ([39]).

Lo spunto per fare questo è dato dalle considerazioni recentemente svolte dalle Sezioni Unite della Suprema Corte ([40]) in merito alla natura del giudizio di omologa ex art. 182-bis l. fall.; giudizio che, nel pensiero dei giudici di legittimità, è un «procedimento destinato a produrre il giudicato sull’omologazione (o non omologazione) dell’accordo e che ha perciò struttura contenziosa».

Muovendo da tale costatazione, si deve allora considerare come, avendo riguardo ad ipotesi in cui il reclamo si incardini in un procedimento di natura contenziosa, la dottrina maggioritaria sia propensa a ritenere applicabili a tale procedimento i principi generali che regolano le impugnazioni ([41]). Si afferma infatti autorevolmente che per il reclamo camerale, siccome appartenente al genus delle impugnazioni, debbano valere, «sebbene nei limiti della compatibilità», le «regole generali sulle impugnazioni (artt. 323-338 c.p.c.), ad iniziare dalla selezione dei soggetti legittimati al reclamo che debbono coincidere con coloro che sono stati parti del processo [di omologa; n.d.r.] davanti al tribunale» ([42]).

Laddove tuttavia si applichino tali regole – e a prescindere dalla discussa applicabilità, agli accordi di ristrutturazione, del disposto di cui all’art. 180, terzo comma, l. fall.; ciò che, probabilmente, implicherebbe la risoluzione ab initio della tutt’altro che sopita diatriba in ordine alla natura giuridica degli accordi ([43]) – la legittimazione ad impugnare il decreto che pronunci sulla domandata omologazione, accordandola ovvero negandola, per motivi di rito o di merito, dovrebbe discendere unicamente dall’aver assunto l’impugnante la qualità di parte in senso formale nel giudizio di omologazione ed essere ivi rimasto soccombente ([44]).

Legittimati dovrebbero essere di conseguenza, a seconda dei casi, oltre al debitore istante, in ipotesi di rigetto della domanda senza contestuale pronuncia della sentenza di fallimento ([45]), i creditori e i terzi interessati che si siano costituiti in giudizio manifestando una volontà contraria all’omologazione, se soccombenti ([46]). Secondo questa lettura restrittiva, il reclamo camerale non spetterebbe, invece, «a quei creditori dissenzienti e a quei terzi che pur dimostrando di avervi interesse, non abbiano partecipato alla prima fase» ([47]).

Circoscrivendo l’accertamento all’eventualità (più favorevole per la ricorrente: l’omologa) presa in considerazione dal primo decreto reiettivo – e poi effettivamente verificatasi – quanto osservato equivale ad affermare che non vi è spazio per (successivamente all’omologa) reclamare, ove non vi siano state preventive opposizioni ([48]). O che, se si preferisce, in senso speculare e contrario, il decreto di omologazione è reclamabile soltanto qualora siano state avanzate opposizioni, giacché, diversamente, difetterebbe un soggetto legittimato, non potendosi certo ammettere l’impugnativa del decreto di omologazione da parte del debitore ([49]).

Tutto ciò è tanto più vero tenendo a mente, in chiave sistemica, la non controversa interpretazione della regola generale posta dall’art. 100 c.p.c. (pacificamente applicabile anche ai giudizi di gravame), ovverosia che l’interesse all’impugnazione, manifestazione del più generale principio dell’interesse ad agire, va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla (sola) parte dall’accoglimento dell’impugnazione stessa, collegandosi esso giocoforza, così individuato, ad una precedente soccombenza (totale o parziale), mancando la quale l’impugnazione risulterebbe inammissibile. D’altronde, stante il pacifico orientamento dottrinale e giurisprudenziale sul punto, anche nel procedimento camerale, così come nel giudizio contenzioso ordinario, la qualità di soggetto legittimato all’impugnazione si determina, nei successivi gradi di giudizio, per relationem rispetto alla qualità di parte assunta formalmente nelle fasi antecedenti ([50]).

Non può poi non richiamarsi nuovamente la già citata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, questa volta nella parte in cui individua i soggetti legittimati passivi in ipotesi di impugnazione, da parte del debitore, del decreto con il quale la corte d’appello, provvedendo sul reclamo, neghi l’omologa: «la legittimazione passiva non spetta al pubblico ministero, essendo questo privo del potere d’impugnazione del provvedimento, bensì ai creditori per titolo e causa anteriore alla data di pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese, ai quali si riferiscono gli effetti dell’accordo stesso, nonché agli altri interessati che abbiano proposto opposizione» ([51]). Infatti, posto che il Supremo Collegio ha individuato in detti soggetti opponenti, per il caso di diniego di omologa, i legittimi contradditori del debitore, parrebbe incongruente, rovesciando la prospettiva, ritenere che i legittimati attivi ad impugnare il decreto di omologazione mediante reclamo siano soggetti diversi dagli opponenti, non potendosi ammettere un mutamento soggettivo della categoria dei legittimati a seconda del contenuto del provvedimento impugnato.

Logico corollario di quanto sopra affermato avrebbe dovuto essere la sufficienza della pubblicazione camerale dei documenti “sensibili” per i soli trenta giorni previsti dall’art. 182-bis, quarto comma, l. fall., ai fini dell’esperibilità delle opposizioni: ed invero, se può avanzare reclamo solamente chi abbia proposto opposizione o abbia partecipato attivamente al giudizio omologatorio di fronte al tribunale, va da sé che – almeno avendo riguardo all’id quod plerumque accidit ed ove si faccia questione di motivi di doglianza non strettamente inerenti il decreto di omologa – egli avrà già preso (o, comunque, avrebbe dovuto prendere) cognizione della documentazione pubblicata dal debitore mediante accesso al registro delle imprese.

 

6. Ferma la portata delle considerazioni che precedono, non appare stravagante ritenere che la prima richiesta di oscuramento avanzata dalla società ricorrente fosse meritevole di accoglimento anche (i) riflettendo sulla sfera di cognizione valutativa del tribunale, durante il giudizio di omologazione, nonché, in stretta consequenzialità, (ii) indagando l’ambito dei motivi di doglianza che possono legittimamente essere fatti valere, per il tramite del reclamo, dal creditore/terzo interessato opponente (e soccombente).

Va premesso, sotto il primo profilo, che dottrina e giurisprudenza maggioritarie convengono sul fatto che la verifica demandata al tribunale in fase decisoria abbia ad oggetto i requisiti formali di accesso al procedimento giudiziale e l’attuabilità dell’accordo alla luce, in particolare, della sua «idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei» declinata dal primo comma dell’art. 182-bis l. fall. ([52]), rimanendo a tale verifica estranea la valutazione circa la convenienza economica e l’opportunità dell’operazione di risanamento; indagine quest’ultima che, ove espletata, provocherebbe infatti un indebito sconfinamento nello spazio del “merito”.

Ciò di cui tuttora si discute, invece, nel silenzio della legge, è il perimetro del sindacato così individuato, tenendo conto che per l’orientamento prevalente si ritiene che tanto più approfondito debba essere il vaglio giudiziale laddove vi siano state opposizioni. Si ritiene infatti che solo in presenza di legittime opposizioni il tribunale possa «esaminare nel merito le specifiche censure svolte dai creditori contrari all’omologa e verificarne ogni possibile ricaduta sulla concreta attuabilità dell’accordo e sulla sua capacità di assicurare il pieno soddisfacimento dei creditori estranei» ([53]). Laddove, in caso contrario, la verifica dovrà arrestarsi alla ricognizione dell’evidenza di risorse devolvibili ai creditori non aderenti ([54]), ossia ad un «giudizio di legalità sostanziale, nel senso che deve limitarsi a valutare che il giudizio dell’esperto sulla fattibilità dell’accordo sia completo, analitico, coerente e non contraddittorio» ([55]).

Ed allora, posto che risulta dal decreto in commento che, nella fattispecie da esso definita, non fossero state proposte opposizioni, restando quindi definitivamente cristallizzato l’oggetto del giudizio nei limiti sopra esposti, parrebbe incongruente ammettere poi che, in sede di gravame, l’ipotetico reclamante di quegli stessi limiti possa estendere la portata, perché si darebbe luogo ad un’impugnativa che implicherebbe un ambito d’indagine diverso e, soprattutto, tendenzialmente più ampio rispetto a quello di primo grado, che lo stesso reclamante avrebbe potuto introdurre se, diligentemente, avesse avanzato tempestiva opposizione all’omologa.

Inoltre, e venendo così al secondo profilo, non pare possano sollevarsi, in sede di reclamo, censure afferenti al merito del giudizio di omologazione, diverse da quelle fatte valere tempestivamente, o che (ove opposizioni non vi siano state) avrebbero potuto essere fatte valere tempestivamente, costituendosi dinnanzi al tribunale; non foss’altro per non determinare, in via di fatto, la surrettizia rinnovazione del termine per opporsi, così vanificandone la perentorietà ([56]).

Ciò a tacere del fatto che pare cogliere nel segno chi ([57]) afferma che ammettere l’ingresso di nuove censure in sede di reclamo, «mal si concilia sia con il principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) sia con il diritto delle parti ad una stabilità del thema decidendi quale portato all’esame del giudice del reclamo detto» ([58]).

Ma anche a voler ammettere che mediante reclamo il giudice di seconde cure possa validamente conoscere profili che non hanno costituito oggetto del giudizio di primo grado, non per questo le argomentazioni poste alla base di un’“anticipata” richiesta di oscuramento risulterebbero di minor pregio, perché: (i) se il reclamante deducesse vizi di legittimità, essi non si fonderebbero sul contenuto dei documenti “sensibili” oggetto di richiesta di oscuramento; (ii) viceversa, ove il reclamante deducesse anche o solo vizi di merito, essi atterrebbero alla verifica condotta intorno all’attuabilità dell’accordo; ma in tal caso dovrebbero inevitabilmente essere argomentati (anche e soprattutto) sulla base di informazioni che il reclamante (tale poiché già opponente) aveva l’onere di acquisire prima della scadenza del termine di trenta giorni fissato per l’opposizione.

Deve, infine, sotto diverso aspetto, prendersi in considerazione l’ipotesi in cui il Tribunale parmigiano avesse inteso, con il proprio primo provvedimento, non già (implicitamente) riconoscere la legittimazione attiva all’impugnazione del decreto di omologa anche al soggetto non opponente, ma, e molto più semplicemente, ritenere meritevole di tutela l’aspettativa dell’ipotetico reclamante a visionare il fascicolo camerale – pure – durante l’arco temporale di cui all’art. 182-bis, quinto comma, l. fall. Tuttavia, anche così ragionando, nella prospettiva di un equilibrato bilanciamento degli interessi in giuoco, parrebbero essere state non adeguatamente valorizzate le esigenze dell’imprenditore ricorrente e financo del suo ceto creditorio, a fronte di un irrilevante, se si considera il precedente termine di pubblicazione di trenta giorni, beneficio informativo ulteriore.

 

7. Congiungendo tutti gli elementi emersi nel corso della esposizione che precede è allora possibile formulare una breve considerazione conclusiva di sintesi.

La secretazione di documenti “sensibili”, del tipo di quelli scrutinati dal Tribunale di Parma, dopo che siano decorsi trenta giorni dalla data di “pubblicazione” camerale degli stessi, in uno con l’accordo di ristrutturazione, non comporta irreparabili ed ingiustificate lesioni dei diritti dei potenziali reclamanti avverso il decreto di omologa, laddove l’attesa, prima di oscurare, dell’ulteriore termine di quindici giorni dalla “pubblicazione” del decreto che pronunci sull’omologa, sembra viceversa esporre oltremodo ai terzi l’imprenditore che tenta di risolvere il suo stato di crisi, rischiando di pregiudicare l’attività esecutiva del piano di ristrutturazione e, pertanto, paradossalmente, di minacciare addirittura le stesse aspettative del ceto creditorio, in particolare di quello aderente.

Dunque, la valorizzazione dell’interesse imprenditoriale, la cui tutela ben giustifica simile conclusione, dovrebbe persuadere a non trascurare l’importanza di contestualizzare le informazioni “sensibili” rese pubbliche e di attribuirvi un “peso specifico” (anche) in relazione alle conseguenze legate al trascorrere del tempo, nella convinzione che solo così operando possa realizzarsi una soddisfacente composizione del medesimo interesse con le esigenze di informazione e trasparenza delle quali i creditori e i terzi interessati sono legittimi portatori.



([1]) Si rammenta come, da un lato, l’art. 182-bis del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (nel prosieguo, “l. fall.”) subordini alla “pubblicazione” in parola l’efficacia degli accordi di cui si occupa e, dall’altro, alla stessa siano riconnessi gli effetti più importanti dell’intera procedura negoziale di definizione dei rapporti con il ceto creditorio.

([2]) Anche in considerazione delle prassi in vigore presso numerose Camere di Commercio, gli accordi di ristrutturazione, in uno con l’ulteriore documentazione ad essi allegata, sono – di regola – depositati previamente presso il tribunale competente, non foss’altro per concorrere ad assicurare l’effettiva coincidenza tra i documenti “pubblicati”, destinati ad essere esaminati ai fini dell’eventuale esperimento dell’opposizione, e quelli depositati presso il tribunale, oggetto del successivo vaglio omologatorio.

([3]) Esplicazione della libertà d’iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost.

([4]) Come più diffusamente si dirà nel corso dell’intervento, con riferimento al caso di specie commentato.

([5]) Ciò è tanto più evidente in casi come quello da cui prendono le mosse le presenti riflessioni, ovverosia quello di un’impresa (costituita in forma societaria) operante nel settore dell’edilizia, con un importante stock di immobili da alienare.

([6]) Diversamente, in parte, da quella dettata dagli art. 2188 ss. c.c. In questo senso, si veda G. Marasà-C. Ibba, Il registro delle imprese, Torino, Utet, 1997, 3 ss.

([7]) Recante il riordino delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, ed istitutiva, fra l’altro, dell’ufficio del registro delle imprese presso ciascuna di esse, così come modificata, da ultimo, dal decreto legislativo del 25 novembre 2016, n. 219.

([8]) Ibidem, 4.

([9]) Ci si è interrogati, e ci si potrebbe ancora ulteriormente interrogare, sulla possibilità di affidare al Giudice del registro delle imprese, anziché al Tribunale, la valutazione sull’opportunità di secretare parti della documentazione oggetto di pubblicità camerale, aventi – come si dirà – contenuto “sensibile”. Tuttavia, una simile soluzione interpretativa non pare allo stato praticabile, alla luce della tipicità che sembra connotare, nella nomenclatura codicistica, i poteri del Giudice del registro (delegato dal Presidente del Tribunale) (cfr., più approfonditamente sul punto, G. Marasà-C. Ibba, Il registro delle imprese, cit.) e, in particolare, del contenuto generalmente attribuito all’obbligo di «vigilanza» contemplato dall’art. 2188, secondo comma, c.c., quale controllo di mera legittimità formale «sugli atti (commissivi od omissivi) nei quali si sostanzia la tenuta del registro»: P. Rescigno (a cura di), Codice civile. Tomo II (Artt. 1742-2969), X ed., Milano, Giuffrè, 2018, 4563. Nel medesimo senso, si veda anche Trib. Napoli, 19 novembre 2015, in DeJure, per il quale i poteri del Conservatore e del Giudice del registro delle imprese sono limitati alla verifica delle condizioni formali prescritte dalla legge per l’iscrizione camerale di un determinato atto o fatto. D’altra parte e infine, il Tribunale di Parma, pronunciandosi nella fattispecie sull’istanza della società ricorrente, ha implicitamente ravvisato la propria competenza funzionale.

([10]) V. infra, nel testo, paragrafo 5.

([11]) Questa parte del primo decreto (di rigetto) è stata ritrascritta nella motivazione del secondo provvedimento (di accoglimento) annotato.

([12]) «Il registro è pubblico» ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2188 c.c., e analogo è il tenore del primo comma dell’art. 23 del D.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581, recante il Regolamento di attuazione dell’art. 8 della legge n. 580 del 1993, in materia di istituzione del registro delle imprese di cui all’art. 2188 del codice civile, il quale recita: «il protocollo, il registro delle imprese e l’archivio degli atti e dei documenti sono pubblici».

([13]) Trib. Varese, 29 luglio 2011 (decreto), pubblicato il 23 gennaio 2012 su Il Caso.it. È concorde sul punto anche la prevalente dottrina, la quale ha osservato come la ratio del principio di tipicità, codificato dall’art. 2188 c.c., riposi, all’evidenza, sulla necessità di «non far gravare sui terzi l’onere di consultare il registro (e le conseguenze del suo mancato assolvimento) se non nei casi legislativamente previsti»: G. Marasà-C. Ibba, Il registro delle imprese, cit., 81. Soggiunge V. Donativi, L’iscrivibilità degli atti tra i principi di “tipicità” e di “completezza”, in C. Ibba-I. Demuro (a cura di), Il registro delle imprese a vent’anni dalla sua attuazione, Torino, Giappichelli, 2017, 45, che «la fictio iuris in cui si sostanzia la presunzione di conoscenza che normalmente consegue alle iscrizioni […] sarebbe evidentemente ingiustificata se non si accompagnasse alla tassatività delle fattispecie per le quali è destinata ad operare».

L’Autore da ultimo citato, peraltro, dà opportunamente atto, anche nel contributo Concordato e registro delle imprese edito in Quaderni di giurisprudenza commerciale (collana), Milano, Giuffrè, 2018, delle “tensioni” che interessano il principio del numerus clausus delle iscrizioni nel registro delle imprese, ricavabile dagli artt. 2188 c.c., 7, secondo comma, e 11, sesto comma, lett. c), del Regolamento di attuazione. Sono infatti ormai numerose le pronunce di Tribunali di merito che, conciliando la tipicità con le esigenze di completezza ed organicità del sistema pubblicitario, ritengono iscrivibili, pur in difetto di un’espressa previsione normativa, tutti gli atti che potrebbero incidere sulle situazioni soggette ad iscrizione, quali, ad esempio, le domande giudiziali aventi ad oggetto partecipazioni societarie (cfr. Trib. Napoli, 15 ottobre 2013, pubblicato il 19 aprile 2014 su Il Caso.it; Trib. Milano, 22 dicembre 2010, pubblicato il 2 maggio 2011 su Il Caso.it; Trib. Ferrara, 9 maggio 2005, in Le Società, 4/2006, 488 ss.; Trib. Milano, 28 marzo 2000, reperibile nella banca-dati Giuffrè DeJure. In senso contrario, oltre alla costante giurisprudenza del Giudice del Registro delle Imprese di Roma: Trib. Roma, 6 luglio 2017, pubblicato il 17 febbraio 2018 su Il Caso.it; Trib. Varese, 17 maggio 2010, pubblicato il 2 maggio 2011 su Il Caso.it). Militano in pari direzione alcuni recenti orientamenti elaborati in modo congiunto da Unioncamere e dal Consiglio Nazionale del Notariato sul fronte della semplificazione documentale presso gli uffici del registro delle imprese, volti a ritenere iscrivibili, a titolo esemplificativo, i verbali di assemblea di società di capitali portanti delibere non immediatamente efficaci in quanto sospensivamente condizionate, per volontà dell’assemblea, al verificarsi di un determinato evento, atti di cessione di quote di s.r.l. sottoposti a condizione sospensiva o risolutiva, ovvero ancora atti di cessione d’azienda con effetti sospensivamente o risolutivamente condizionati, o con riserva di proprietà (Orientamenti della Commissione tecnico-giuridica, 6 maggio 2015, pubblicato in www.unioncamere.gov.it).

([14]) Cfr. N. Abriani (a cura di), Diritto commerciale, nella collana di N. Irti (promossa da), Dizionari di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2011, 701 ss.

([15]) C. Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti. Le soluzioni della crisi alternative al concordato preventivo, Milano, Wolters Kluwer, 2016, 354.

([16]) Trib. Milano, 18 febbraio 1994 (decreto), reperibile nella banca-dati Giuffrè DeJure.

([17]) Non più, peraltro, per quanto concerne i fatti o gli atti relativi agli imprenditori agricoli, anche piccoli, e alle società semplici esercenti attività agricola, cui l’art. 2 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228 ha ricollegato l’ordinaria efficacia dichiarativa prevista dall’art. 2193 c.c.

([18]) A sua volta fondato sul canone dell’apparenza del diritto e dell’affidamento, il quale, come precisato anche di recente, sia pure a diversi fini, dalla Corte di Cassazione, trae origine dalla «legittima e quindi incolpevole aspettativa del terzo di fronte ad una situazione ragionevolmente attendibile, ancorché non conforme alla realtà, non altrimenti accertabile se non attraverso le sue esteriori manifestazioni» (Cass. civ., Sez. I, 14 giugno 2016, n. 12273, in DeJure).

([19]) In questi termini, Trib. Napoli, 22 ottobre 2013, n. 3860, in DeJure.

([20]) Così, G.A. Rescio, Gli effetti dell’iscrizione, in C. Ibba-I. Demuro (a cura di), Il registro delle imprese a vent’anni dalla sua attuazione, cit., 160 ss.

([21]) Per questa ricostruzione, si veda A. Torrente-P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, a cura di F. Anelli-C. Granelli, Milano, Giuffrè, 2015, 995 ss.

([22]) Relativi, rispettivamente, ai procedimenti d’iscrizione (su domanda) e di deposito.

([23]) Si osservi, fra l’altro, che la pubblicità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti non è presa in considerazione dall’art. 2 della Prima direttiva 68/151/CEE del Consiglio, del 9 marzo 1968, come modificata dalla direttiva 2003/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 luglio 2003. Anche alla luce di ciò merita di essere adeguatamente soppesata la recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza 9 marzo 2017, causa C-398/15). Peraltro, in tale sentenza, ad avviso della Corte di Giustizia la pubblicità dei dati delle società e dei loro amministratori, imposta dalla normativa (anche comunitaria) e realizzata attraverso il registro delle imprese, ha la funzione di garantire la certezza dei diritti nelle relazioni tra società di capitali e terzi, nonché di tutelare i diritti di questi ultimi. Se è vero quindi, sempre ad avviso della Corte, che non è possibile identificare a priori un unico termine a decorrere dal quale prevarrebbe l’interesse del singolo alla tutela della propria privacy, è altrettanto vero che nulla vieta ai singoli Stati membri di prevedere che, trascorso un determinato lasso di tempo (nel caso di specie, dalla cancellazione della società), l’accesso alle informazioni possa avvenire solo da parte di chi dimostri di essere titolare di un interesse specifico e qualificatonon si può tuttavia escludere che possano sussistere situazioni particolari in cui ragioni preminenti e legittime connesse al caso concreto della persona interessata giustifichino, in via eccezionale, che l’accesso ai dati personali ad essa relativi iscritti nel registro sia limitato, decorso un periodo di tempo sufficientemente lungo dopo lo scioglimento della società di cui trattasi, ai terzi che dimostrino un interesse specifico alla loro consultazione»).

([24]) Tesi, questa, preferibile: P. Valensise, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare, in M. Sandulli-V. Santoro (collana diretta da), Le nuove leggi del diritto dell’economia, Torino, Giappichelli, 2012, 423; G. La Croce, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Giur. it., 2010, 2465; M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ., Padova, Cedam, 2009, 342 ss.; V. Sanna, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: profili pubblicitari, in C. Ibba (a cura di), Profili della nuova legge fallimentare, Torino, Giappichelli, 2009, 129-131; L. Gemino, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Impresa c.i., 2006, 990; P. Marano, Sub art. 182-bis, in F. Santangeli (a cura di), Il nuovo fallimento, Milano, Giuffrè, 2006, 784.

([25]) La giurisprudenza pare attestata sulla questa posizione. Esplicitamente, Trib. Enna, 27 settembre 2006, in Il Fall., 2/2007, 195 ss. Presuppongono che la “pubblicazione” dell’accordo stragiudiziale sia una forma di “iscrizione”, e non di mero “deposito”, Trib. Roma, 20 maggio 2010 (decreto) e Trib. Milano, 25 marzo 2010 (decreto), entrambi in Dir. fall. e delle soc. comm., 5/2011, 479 ss.

([26]) G. Disegni, Gli accordi di ristrutturazione, in Idem (a cura di), L’impresa in crisi. Soluzioni offerte dal nuovo diritto fallimentare, Torino, Giappichelli, 2014, 265; A. Di Majo, Accordi di ristrutturazione, in L. Ghia-C. Piccinini-F. Severini (diretto da), Trattato delle procedure concorsuali. Il superamento della crisi e la conclusione delle procedure, Vol. IV, Milano, Utet, 2011, 689-690, che, precisamente, discorre di pubblicità “atipica” non formalizzata secondo il metodo dell’iscrizione; L. Boggio, Firma autentica, «pubblicazione» nel registro delle imprese e sindacato del giudice dell’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, in Dir. fall. e delle soc. comm., 5/2011, 499 ss.; S. Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella nuova legge fallimentare: prime riflessioni, in Il Fall., 8/2005, 951.

([27]) M. Fabiani, «Competizione» fra processo per fallimento e accordi di ristrutturazione e altre questioni processuali, in Il Fall., 2/2010, 211; C. D’Ambrosio, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in G. Fauceglia-L. Panzani (diretto da), Fallimento e altre procedure concorsuali, Torino, Utet, 2009, 1819; S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in G. Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, Vol. XI, Tomo I, Padova, Cedam, 2008, 175; G.B. Nardecchia, Crisi d’impresa, autonomia privata e controllo giurisdizionale, Milano, IPSOA, 2007, 6; G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, Cedam, 2006, 581.

([28]) Si badi che l’espressione «ogni altro interessato» è sì «suscettibile di interpretazione estensiva, ma non sino al punto di consentire l’ingresso di soggetti portatori di interessi di mero fatto, non attuali, che si risolvono nell’auspicio a che l’obiettivo perseguito dall’accordo di ristrutturazione si realizzi, anche se attraverso diverse modalità esecutive»: Trib. Ravenna, 10 ottobre 2013, reperibile nella banca-dati Giuffrè DeJure. In senso conforme, Trib. Bologna, 17 novembre 2011, sempre in DeJure.

([29]) Cfr. M.R. Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano, Giuffrè, 2006, 2269.

([30]) Ai sensi del terzo comma dell’art. 182-bis, poi, dal giorno della “pubblicazione” decorre altresì il termine di sessanta giorni per la nota protezione del patrimonio del debitore dai creditori per titolo e causa anteriori a tale data, i quali non possono dunque iniziare o proseguire, sul patrimonio medesimo, azioni esecutive o cautelari.

([31]) G. Fauceglia, Prime osservazioni sugli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Dir. fall. e delle soc. comm., 5/2005, 842 ss.

([32]) Così, ad esempio, G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione, in S. Bonfatti-L. Panzani (a cura di), La riforma organica delle procedure concorsuali, Milano, IPSOA, 2008, 784.

([33]) Si vedano, fra tutte, le riflessioni di M. Fabiani, Gli accordi di ristrutturazione nella cornice della tutela dei diritti e la rilevanza della fattispecie speciale di cui all’art. 182-septies l. fall., in chiave di collettivizzazione della crisi, in Il Fall., 8-9/2016, 911 ss., a commento di Cass. civ., Sez. I, 20 aprile 2016, n. 7958, Trib. Udine, Sez. II, 19 maggio 2016 (sentenza) e Trib. Milano, Sez. II, 11 febbraio 2016 (decreto). La tesi, ciò nondimeno, è tutt’altro che pacifica, non foss’altro per l’inequivoco tenore testuale dell’art. 182-bis, terzo comma, l. fall. (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) e per il principio di tipicità degli atti oggetto di iscrizione e di deposito al registro delle imprese. In questo minoritario senso, tra gli altri, G. Racugno, I presupposti. La dichiarazione di fallimento. Le soluzioni concordatarie, in V. Buonocore-A. Bassi, Trattato di diritto fallimentare, I, Padova, Cedam, 2010, 552; G. Fauceglia, Prime osservazioni sugli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 845. Alcune voci, poi, ritengono che dovrebbe considerarsi ragionevole e conveniente, al fine di limitare le spese della pubblicazione, il rilascio, da parte del tribunale, di un «estratto contenente gli elementi essenziali del contratto» [G. Verna, I nuovi accordi di ristrutturazione (art. 182-bis, legge fallim.), in Dir. fall., 2007, I, 954], mentre stando ad altro orientamento si dovrebbe pubblicare la mera notizia dell’intervenuto accordo e del deposito dello stesso in tribunale [C. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Il Fall., 2/2006, 136].

([34]) G.B. Nardecchia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, a commento di Trib. Brescia, 22 febbraio 2006 (decreto) e Trib. Milano, 21 dicembre 2005 (decreto), in Il Fall., 6/2006, 670 ss.

Contra, I.L. Nocera, Obblighi informativi del debitore negli accordi di ristrutturazione prima e dopo la legge delega di riforma, in Il Fall., 3/2018, 348 ss., a commento di Cort. App. Napoli, Sez. I, 26 luglio 2017, per la quale, «ai fini dell’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, non è necessaria la pubblicazione nel registro delle imprese anche del piano e della relazione del professionista, oltre che dell’accordo sottoscritto, essendo comunque possibile per i creditori interessati accedere alle informazioni di dettaglio mediante richiesta di esame del fascicolo processuale ed avendo, comunque, il giudizio di reclamo all’omologazione natura ampiamente devolutiva».

([35]) L’illustrata interpretazione estensiva è sposata ex multis, in dottrina, da: M. Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, Zanichelli, 2017, 450; F. Di Marzio (diretto da), Codice della crisi d’impresa, Torino, Giuffrè, 2017, 1190; F. Rolfi, in F. Rolfi-E. Staunovo Polacco, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2016, 82; A. Munari, Crisi di impresa e autonomia contrattuale nei piani attestati e negli accordi di ristrutturazione, in Quaderni di giurisprudenza commerciale (collana), Milano, Giuffrè, 2014, 183; V. Sanna, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: profili pubblicitari, cit., 127; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca borsa titoli di credito, 2006, I, 20. In giurisprudenza: Trib. Udine, Sez. II, 19 maggio 2016, in Il Fall., 8-9/2016, 912 ss.; Trib. Enna, 27 settembre 2006, cit.

([36]) Trib. Udine, 19 maggio 2016, cit.; Trib. Roma, 20 maggio 2010 (decreto), in Dir. fall. e delle soc. comm., 3-4/2011, II, 352; Trib. Roma, 5 novembre 2009, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, 731, ove si considera necessario il deposito del piano quando esso sia essenziale per assicurare una sufficiente intellegibilità dell’accordo pubblicato; Trib. Enna, 27 settembre 2006, cit.

([37]) Trib. Udine, 19 maggio 2016, cit.

([38]) In aderenza all’ormai invalsa lettura estensiva dell’art. 182-bis, secondo comma, l. fall., abbracciata anche dal Conservatore del Registro delle Imprese di Parma. In proposito, si veda quanto consigliato a pag. 9 del “Prontuario adempimenti pubblicitari nelle procedure concorsuali (giugno 2013)”, pubblicato sul sito della C.C.I.A.A. di Parma e reperibile al link http://www.pr.camcom.it/registro-imprese-e-albi/news/storico-news-registro-imprese/archivio-2013/nuovi-adempimenti-a-carico-dei-curatori-fallimentari.

([39]) Non ci si sofferma, qui, sul diverso, anche se connesso, tema relativo al dies a quo di decorrenza del termine per reclamare, sebbene taluno abbia osservato che, stabilendo l’art. 182-bis, quinto comma, l. fall., che il decreto del tribunale sia reclamabile entro quindici giorni «dalla sua pubblicazione», e non dalla sua notificazione, ciò costituirebbe un indice sintomatico del riconoscimento di una legittimazione ad agire, per così dire, “diffusa”. In altre parole, l’ancorare la decorrenza del termine a una conoscenza legale presuntiva del decreto, in luogo della conoscenza legale attuata mediante notifica del provvedimento, attesterebbe «la volontà legislativa di renderlo conoscibile [ai fini impugnativi] anche da parte dei creditori e degli altri interessati non opponenti; intenzione che ha senso solo se si riconosce anche a questi soggetti la legittimazione [attiva] a proporre reclamo»: F. De Vita, L’evoluzione normativa degli accordi di ristrutturazione dei debiti e le incertezze processuali nel relativo giudizio di omologazione, pubblicato il 13 novembre 2012 in www.judicium.it, 23-24.

([40]) Cass. civ., S.U., 27 dicembre 2016, n. 26989, reperibile nella banca-dati Giuffrè DeJure.

([41]) C. Merlo, Disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio, in S. Chiarloni (a cura di), Commentario del Codice di Procedura Civile. Libro quarto: Procedimenti speciali art. 737-795, Torino, Zanichelli, 2017, 87. Si veda anche F.P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, IX ed., Milano, Giuffrè, 239 ss.

([42]) M. Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna, Zanichelli, 2011, 706 (l’enfasi è di chi scrive).

([43]) L’incessante dibattito intorno all’inquadramento sistematico degli accordi di ristrutturazione dei debiti è ben noto e, tra l’altro, esso è stato rinfocolato assai di recente (i) dalle pronunce della Corte di Cassazione, Sez. I, del 12 aprile 2018, n. 9087, del 18 gennaio 2018, n. 1182 e del 25 gennaio 2018, n. 1896, reperibili nella banca-dati Giuffrè DeJure, stando alle quali gli accordi apparterrebbero agli istituti di diritto concorsuale e (ii) da due successive decisioni del Tribunale di Reggio Emilia, pressoché coeve (14 e 15 febbraio 2018, entrambe pubblicate il 27 febbraio 2018 su IlCaso.it), attestate sulla posizione opposta. A commento di tali pronunce, si veda S. Bonfatti, Ancora sulla natura giuridica degli “accordi di ristrutturazione”, pubblicato il 22 febbraio 2018 su Il Caso.it.

([44]) M. Fabiani, L’impugnazione del decreto nel giudizio di omologazione, in Il Fall., 9/2006, 1092-1093, e Concordato preventivo per cessione dei beni e predeterminazione delle modalità della liquidazione, a commento di Trib. Lodi, 1° marzo 2010, in Il Fall., 5/2010, 599, nt. 22. Nello stesso senso, P. Valensise, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare, cit, 464. In giurisprudenza, si veda Cass. civ., Sez. I, 29 febbraio 2016, n. 3954, in motivazione, in DeJure, richiamata anche da Cort. App. Venezia, Sez. I, 12 maggio 2016, e Cort. App. Genova, Sez. I, 23 dicembre 2011, sempre in DeJure.

([45]) Il quale (debitore) deve ritenersi legittimato indipendentemente dalla sua costituzione nel giudizio di omologazione, trattandosi di parte necessaria di un procedimento instaurato ad impulso d’ufficio, sulla base della richiesta implicitamente contenuta nella domanda di ammissione al procedimento. Così A. Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, Cedam, 2009, 1091.

([46]) Maggiori perplessità ha suscitato in dottrina il riconoscimento dell’astratta ammissibilità dell’intervento in lite, in considerazione della riconducibilità del procedimento di omologa nell’alveo dei procedimenti camerali.

In ogni caso, poiché per la proposizione dell’opposizione all’omologa è fissato un termine decadenziale perentorio (anche in omaggio alle esigenze acceleratorie che caratterizzano fortemente siffatto procedimento), l’intervento nel giudizio di omologa non può surrogare la mancata opposizione, con la conseguenza che lo stesso, da chiunque operato, dovrà necessariamente qualificarsi come adesivo dipendente. Così, ibidem, «per tacere del fatto, anch’esso decisivo, che non è ammessa una impugnazione autonoma da parte di chi ha proposto intervento adesivo dipendente». In giurisprudenza, Trib. Bologna, 17 novembre 2011, cit., in motivazione; Cass. civ., Sez. II, 16 febbraio 2009, n. 3734, in Foro it., Mass., 2009, 219; Cass. civ., Sez. III, 16 novembre 2006, n. 24370, in Foro it., Rep., 2006, Intervento in causa e litisconsorzio (ad vocem), nt. 25.

([47]) M. Fabiani, L’impugnazione del decreto nel giudizio di omologazione, cit., 1092.

([48]) Conferma indirettamente quest’affermazione, sia pure in materia di concordato preventivo, una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez. I, 3 aprile 2017, n. 8632, in DeJure) relativa alla particolarissima eventualità in cui il decreto di omologazione innovi la proposta concordataria depositata dal debitore (integrando, fra l’altro, «una violazione del corrispondente principio della domanda ex art. 112 c.p.c.»). Difatti, la Suprema Corte specifica che, in tal caso, il reclamo avverso il decreto di omologazione del tribunale è ammissibile «non solo in presenza di opposizioni da parte dei creditori, ma anche allorquando, pur in assenza di queste (o in caso di opposizioni rinunciate), il menzionato decreto introduca, all’interno della proposta presentata dal debitore, clausole aggiuntive che, lungi dal rappresentare mere formule organizzative per un più ordinato svolgimento attuativo del concordato, la integrino e la modifichino in modo tale da ingenerare dubbi circa la corrispondenza tra l’originario progetto di ristrutturazione del passivo e quello che, omologato dal tribunale, costituirà titolo per il proponente ed i creditori ex art. 184 l. fall.» (l’enfasi è di chi scrive).

([49]) Naturalmente, è del tutto ovvia la considerazione secondo la quale, di determinati interessi potrà essere domandata tutela soltanto attraverso il reclamo e non mediante opposizione, perché essi sorgono solo in occasione del decreto di omologa o di diniego di omologa: è il caso, ad esempio, del creditore aderente al piano, il quale, nonostante l’omologazione, si veda negata la prededuzione e abbia, dunque, tutto l’interesse a reclamare il predetto decreto, per quella parte (art. 182-quater, secondo comma, l. fall.).

([50]) Si veda, anche per i riferimenti in letteratura, P. Lotti, Il reclamo. Il sistema di controllo processuale dei decreti e delle ordinanze giudiziali, in P. Cendon (a cura di), Il diritto privato oggi, Milano, Giuffrè, 2002, 175 ss. Per quanto riguarda, invece, la giurisprudenza, Cass. civ., Sez. I, 23 febbraio 1993, n. 2214; Cass. civ., Sez. I, 24 maggio 1991, n. 5877 (richiamata, tra l’altro, da Cort. App. Genova, Sez. I, 23 dicembre 2011, cit.), tutte reperibili in DeJure. Conf.: Cass. civ., Sez. II, 22 maggio 1981, n. 3368; Sez. I, 26 luglio 1978, n. 3745; 15 settembre 1970, n. 1508. Parte di questa rassegna è raccolta anche da M. G. Civinini, I procedimenti in camera di consiglio, in A. Proto Pisani (diretta da), Giurisprudenza sistematica di diritto processuale civile (collana), I, Torino, Utet, 256.

([51]) Cass. civ., S.U., 27 dicembre 2016, n. 26989, cit. nella nt. (40).

([52]) La relazione attestativa del professionista indipendente in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lett. d), l. fall. rappresenta, in questo senso, un prisma di lettura privilegiato, dovendo asseverare i dati aziendali ed effettuare un giudizio prognostico di attuabilità del piano. Si veda Trib. Milano, 10 novembre 2016: «il controllo di attuabilità deve assumere la relazione dell’esperto come dato di partenza, senza tuttavia arrestarsi alla sola constatazione della presenza di essa, ma verificando la esaustività ed analiticità della relazione medesima la quale, esattamente come nel caso dell’attestazione predisposta per il concordato preventivo, dovrà presentare i caratteri di precisione, puntualità, esaustività, approfondimento, adeguatezza motivazionale, coerenza logica e argomentativa […]». La verifica dell’attestatore «passa attraverso l’assoggettamento del piano a prove di resistenza consistenti nella modifica in senso peggiorativo delle variabili critiche esposte ai rischi di avveramento individuati attraverso l’anamnesi dell’impresa, al fine di riscontrare la sostanziale coerenza dell’accordo con i fabbisogni di piano, nonché la valutazione del piano di tesoreria mediante stress test nel quale sia previsto il pagamento dei creditori non aderenti entro il termine di 120 giorni previsto dall’art. 182 bis, comma 1, lett. a), l. fall.»: Trib. Campobasso, 13 marzo 2018 (decreto), pubblicato il 12 aprile 2018 su IlCaso.it.

([53]) Trib. Padova, Sez. I, 31 dicembre 2016, ma anche Trib. Udine, Sez. II, 15 ottobre 2015, Cort. App. Napoli, Sez. I-bis, 1° dicembre 2014, e Trib. Milano, Sez. II, 25 marzo 2010 e 15 ottobre 2009, tutte reperibili in DeJure. Si registrano, tuttavia, orientamenti difformi che aderiscono ad un’interpretazione meno flessibile della disciplina, svincolando l’intensità del controllo del tribunale sull’attuabilità del piano dalla presenza o insussistenza di opposizioni (Trib. Bologna, 17 novembre 2011, cit.), oppure, viceversa, più “penetrante”, a sostegno del potere-dovere del giudice di effettuare apprezzamenti che involgano il merito dell’accordo (Trib. Milano, 23 gennaio 2007, in DeJure).

([54]) M. Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 457.

([55]) Trib. Parma, 27 aprile 2016 (decreto), inedito.

([56]) Sul punto, F. De Vita, L’evoluzione normativa degli accordi di ristrutturazione dei debiti e le incertezze processuali nel relativo giudizio di omologazione, cit., 24, nella parte in cui afferma che, «a fondamento del reclamo contro l’omologazione, sia esso proposto da soggetti già opponenti o da chi non è ancora parte, non possono essere dedotti, salvi quelli sopravvenuti, motivi di opposizione diversi da quelli tempestivamente fatti valere dinanzi al tribunale: diversamente, si determinerebbe di fatto una riapertura del termine per le opposizioni, contrastante con uno dei pochi dati normativi espressi dall’art. 182 bis».

([57]) In questi termini, Cort. App. Firenze, Sez. I, 14 giugno 2012, n. 820, in DeJure.

([58]) D’altronde il reclamante avrà già avuto, o avrebbe già dovuto avere, contezza delle ragioni poste a fondamento di simili censure, accedendo per tempo al fascicolo pubblicato.


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