EsecuzioneForzata


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 11/10/2016 Scarica PDF

Le novità in materia di esecuzione forzata immobiliare: il D.L. 59/2016 convertito in legge 119/2016

Giulio Borella, Magistrato


Sommario: 1.1 - La distribuzione parziale; 1.2 - La distribuzione condizionata; 2 - L'ordine di liberazione anticipato; 3 - La decadenza dalle opposizioni.

 

   

1.1 - La distribuzione parziale

Il d.l. 59/2016, convertito con l. 119/2016, ha novellato l'art. 596 cpc, prevedendo ora che "Se non si può prevedere a norma dell'art. 510 co. 1 cpc, il giudice dell'esecuzione o il professionista delegato...non più tardi di 30 giorni dal versamento del prezzo, provvede a formare un progetto di distribuzione, anche parziale, contenente la graduazione dei creditori che vi partecipano, e lo deposita in cancelleria, affinchè possa essere consultato dai creditori e dal debitore, fissando udienza per la loro audizione. Il progetto di distribuzione parziale non può superare il novanta per cento delle somme da ripartire".

La previsione di riparti parziali non costituisce una assoluta novità nell'ambito delle esecuzioni, nè dal punto di vista normativo, nè della prassi.

Da sempre l'art. 594 cpc prevede che, in caso di amministrazione giudiziaria dell'immobile, laddove questo produca rendite, l'amministratore debba presentare un rendiconto trimestrale e si possa procedere a riparti parziali.

Più di recente il d.l. 83/2015, convertito dalla l. 132/2015, aveva novellato l'art. 495 cpc, prevedendo, in parte per compensare i più ampi termini di rateazione concessi, in parte recependo alcune prassi di alcuni uffici giudiziari, la possibilità di procedere a riparti parziali, ogni sei mesi.

Più in generale, nella prassi pretoria, si è sempre proceduto a riparti parziali, in particolare quando oggetto dell'esecuzione fossero più immobili, suddivisi in più lotti, venduti in tempi diversi, tenuto conto che, malgrado il cumulo oggettivo, ad ogni immobile corrisponde idealmente una distinta azione esecutiva ed una distinta massa, con possibilità anche che su di essa concorrano creditori differenti[2].

La novità della recente novella è semmai costituita da un lato dalla apparente generalizzazione - almeno per le esecuzioni immobiliari - dei riparti parziali, dall'altro dalla previsione, ispirata agli artt. 110-113 l.f., di un accantonamento sulla distribuzione parziale, di almeno il 10%.

I problemi che la nuova disciplina pone sono però molteplici: quando può parlarsi di distribuzione parziale e quando invece di vera e propria distribuzione finale (senza quindi il limite del 10%)? Dopo il progetto di distribuzione parziale sono ancora ammessi nuovi interventi? Se sì, i creditori successivi possono ripetere nei nuovi ripati quanto eventualmente non ricevuto nel riparto a cui non hanno partecipato? E, collegato a tale problema, qual è il grdo di stabilità dei riparti parziali?

Oltre a problemi minori, come quello dell'obbligatorietà o meno dei riparti parziali, o quello della possibilità di fare accantonamenti superiori al 10%, o se nei riparti successivi il 10% accantonato si computi sulla massa complessiva da distribuire o rimanga comunque intangibile fino al riparto finale (così potendosi cumulare più accantonamenti), o se la nuova norma sull'accantonamento si applichi anche alle precedenti ipotesi già previste dalla legge di riparti parziali, o se essa si applichi anche alle esecuzioni mobiliari, ecc.

Partendo dalla distinzione tra riparto parziale e finale, dovrebbe aversi riguardo a quanto accennato circa il principio della ideale autonomia dell'esecuzione su ciascun singolo immobile, malgrado l'eventuale cumulo oggettivo, cumulo che si verifica quando il creditore procedente pignori più beni con lo stesso atto (o quando un creditore successivamente pignori in parte beni già inclusi in altra procedura, in parte beni diversi, e si decida di procedere alla riunione).

Tale principio consente di affermare che, quand’anche si proceda alla vendita in più lotti, una volta esitato un lotto e incassato il relativo prezzo, malgrado la procedura prosegua per la vendita di altri cespiti, non di distribuzione parziale dovrebbe parlarsi, ma di distribuzione finale, in quanto con la distribuzione del ricavato della vendita di un lotto si esaurisce ogni pretesa su quella specifica massa.

Con la conseguenza che, in tali casi, non si deve procedere ad accantonamenti.

Non può negarsi peraltro che, così intesa la novella, essa finisce con l'avere un ambito di applicazione estremamente ridotto, riferendosi ai riparti parziali di frutti e rendite o somme rinvenienti da conversione, confische o altre fonti e, quindi, finirebbe con l'essere una specificazione degli artt. 495 e 594 cpc.

L’alternativa sarebbe quella di ritenere che, parlando di distribuzione parziale, il legislatore abbia inteso la parola parziale come riferita non già all’esecuzione, ma alla procedura, ma si tratterebbe di un’interpretazione eccentrica, che non terrebbe neppure conto del principio espresso dall’art. 111 ter l.f., secondo cui il curatore deve tenere conti distinti per i beni oggetto di prelazione, da ritenersi principio contabile di portata generale e, quindi, comune anche all’esecuzione individuale, sebbene non espressamente dichiarato dal alcuna norma. Così che, anche volendo, non vi sarebbe motivo di riferire la parzialità alla procedura, piuttosto che all’esecuzione.

Senza contare che in tal modo rimarrebbe del tutto oscura la funzione di tale accantonamento.

Venendo quindi proprio al problema della funzione dell’accantonamento, secondo una tesi, ispirata probabilmente dalla prassi pretoria, l'accantonamento avrebbe la funzione di garantirsi comunque la copertura delle spese di esecuzione (ausiliari - esperto, custode, delegato -, spese di pubblicità, spese di liberazione, ecc.).

Ritengo tale tesi non condivisibile, in quanto, sebbene sia vero che nella prassi pretoria si tende (anche ad es. quando si debba disporre il pagamento diretto in favore del fondiario ex art. 41 t.u.b.) a non distribuire l'intero in sede di riparto parziale, a garanzia della copertura delle spese di esecuzione, e, sebbene sia pure vero che, sempre nella prassi, si tenda a trattare tali spese come spese in prededuzione, autorizzandone il prelievo diretto dal ricavato delle vendite o delle rendite o collocandole in prededuzione nel progetto di distribuzione, deve comunque tenersi fermo il principio che, nell'esecuzione individuale, a differenza di quella concorsuale, la prededuzione non pare configurabile, se non de facto.

Nell'ambito delle esecuzioni non è infatti prevista una disciplina analoga a quella dell'art. 111 l.f., norma non estensibile analogicamente, mentre la disciplina delle spese rimane dettata dall’art. 8 d.p.r. 115/2002, a mente del quale le spese di giustizia sono anticipate da chi chiede il compimento di un atto, o da chi ne è interessato, o da colui a carico del quale sono poste dal giudice (norma di fatto inapplicabile nell'esecuzione di massa, in quanto non si saprebbe a carico di quale, tra i numerosi creditori, tutti potenzialmente interessati al compimento degli atti di procedura,  dovrebbero essere poste le spese, spesso del anche di un certo rilievo), senza contare che la norma specifica in ordine al trattamento e alla qualità dei crediti per le spese di esecuzione esiste ed è l'art. 2770 c.c., che attribuisce ai crediti per spese di esecuzione e di giustizia l'antergazione su ogni altro credito.

Sebbene quindi possa anche immaginarsi che il legislatore abbia inteso dettare una disciplina ispirata al diritto vivente, soprattutto appunto nel caso di riparti parziali di frutti o renditre o altre fonti minori, non pare vi siano indici sicuri per ritenere acquisita anche in ambito fallimentare la regola della prededuzione delle spese di procedura, così che se ne deve desumere che l'accantonamento del 10% (o della maggior misura eventualmente disposta dal giudice) dovrebbe avere altra funzione, ma non quella di garanzia di copertura delle spese di esecuzione (a differenza dell'accantonamento ex art. 113 l.f., che ha anche questa funzione).

In particolare l’accantonamento potrebbe avere la funzione di garantire una riserva in favore di eventuali interventori successivi, ma qui il problema si lega alla possibilità stessa di configurare un intervento successivo.

Venendo appunto a tale problema, ossia alla questione dei rapporti tra riparti parziali e interventi successivi, deve ricordarsi che l'art. 565 cpc, non toccato dalla novella, continua a prevedere che i creditori chirografari che intervengono dopo che sia stata disposta la vendita, ma prima dell'udienza prevista dall'art. 596 cpc, concorrono alla distribuzione della somma che sopravanza, dopo la soddisfazione degli interventori tempestivi (fanno come noto eccezione i creditori prelatizi, in particolare quelli garantiti da ipoteca o privilegio speciale immobiliare o privilegio generale sussidiario, che possono comunque intervenire in ogni momento, fino all’udienza di discussione del progetto di distribuzione, senza perdere la possibilità di far valere il proprio diritto di prelazione).

Il termine ultimo cioè per intervenire nell'esecuzione è l'udienza ex art. 596 cpc, ove si discute il progetto di distribuzione. Oggi però l’art. 596 cpc è stato modificato e si riferisce anche ai riparti parziali, così che è giusto domandarsi se, dopo che si è proceduto ad un riparto parziale, sia ancora ammissibile un intervento. E, ancora, laddove si dia risposta affermativa al quesito precedente, quali facoltà competano all'interventore, se egli cioè possa ripetere le somme distribuite in un precedente riparto parziale (quelle che, se fosse intervenuto tempestivamente, sarebbero a lui toccate), oppure se possa recuperare in un nuovo e successivo riparto quanto gli sarebbe toccato nel riparto precedente, cui non ha partecipato.

Il che poi porta ancora a domandarsi, quale grado di stabilità debba essere riconosciuto ai riparti parziali.

In realtà deve ritenersi che la norma vada letta nel senso che l'intervento, se successivo all'udienza di discussione del progetto di riparto parziale, sia inammissibile solo con riferimento ad esso, ma non ai successivi eventuali, atteso del resto che la ratio della novella non è certo quella di impedire o rendere iù difficoltoso ai creditori l'esercizio dei propri diritti, ma semmai quelli di evitare l'immobilizzazione di risorse per lungo tempo.

Del resto anche un’interpretazione letterale della norma non pare contrastare con quest’impostazione, nel senso che, se in un’esecuzione si susseguono più udienze ex art. 596 cpc, le prime per riparti parziali e l’ultima per riparto finale, sarà solo a quest’ultima che si connetterà l’effetto dell’inammissibilità dell’intervento.

Così letta, la norma introduce e dà già una risposta al quesito circa la stabilità degli effetti dei riparti parziali. Ammesso cioè che anche dopo un riparto parziale sia ammissibile un intervento, ci si domanda quali facoltà conservi l’interventore successivo, ossia se possa ripetere dai creditori soddisfatti nel riparto parziale quanto sarebbe a lui toccato se fosse intervenuto tempestivamente, ovvero se possa recuperare in un riparto successivo quanto gli sarebbe toccato nel riparto parziale cui non ha partecipato.

Vista l’ìnterpretazione data all’art. 565 cpc, ossia che l’inammissibilità ivi richiamata andrebbe ora letta con riferimento ai riparti (parziali) già fatti, ma non a quelli futuri e a quello finale in particolare, dovrebbe conseguentemente dirsi che l’intervenore successivo non può ripetere alcunchè dai creditori beneficiati nel riparto parziale cui non ha partecipato, né potrebbe recuperare in riparti successivi le quote cui avrebbe avuto diritto se avesse partecipato al riparto parziale.

Il che è poi in linea con un costante orientamento giurisprudenziale in ordine alla stabilità della distribuzione[3]. E corrisponde anche alla disciplina fallimentare, cui il legislatore della novella pare essersi ispirato nel dettare la disciplina degli accantonamenti, la quale all'art. 113 l.f. prevede che, nel procedere a riparti parziali, non si possa distribuire più del 80% delle somme a disposizione, prevedendo poi anche, al successivo art. 114 l.f., che i pagamenti effettuati in esecuzione di piani di riparto non possano essere ripetuti, salvo alcune eccezioni (cfr anche art. 102 e art. 112 l.f.). Il che significa anche che il creditore successivo non dovrebbe poter ripetere o recuperare nei successivi riparti quanto eventualmente perso nel riparto parziale cui non ha partecipato. Con l'unico dubbio se ciò valga anche per i creditori ipotecari o che vantino privilegio immobiliare o privilegio mobiliare sussidiario, analogamente a quanto previsto dall'art. 112 l.f., ma deve ritenersi che, in assenza di una analoga norma in ambito esecutivo, tale conclusione non possa raggiungersi in via interpretativa, magari attraverso una estensione analogica dell'art. 112 l.f., attesa la differenza tra l'esecuzione individuale e universale (in quest'ultima la norma tutela i creditori prelatizi, in quanto, trattandosi di esecuzione universale appunto, non potrebbero sperare di recuperare quanto loro dovuto avviando una separata esecuzione individuale; nell'esecuzione individuale invece il prelatizio che sia intervenuto successivamente ad un riparto parziale potrebbe sempre recuperare quanto perso in una esecuzione mobiliare o presso terzi o avviando l'esecuzione individuale su altri immobili del debitore). Insomma, sero venientibus ossa.

Alla luce di quanto detto in ordine all’ammissibilità degli interventi successivi e alla stabilità degli effetti del riparto, appare ancor più calzante l’interpretazione del concetto di riparto parziale che si era propugnata, così come della funzione dell’accantonamento del 10% (o più, a seconda dei casi), il primo come riferito solo al riparto di rendite, frutti o simili, ma non delle somme derivanti dalla vendita del bene; il secondo come funzionale non alla copertura delle spese di esecuzione, ma come riserva a garanzia di eventuali interventi successivi.

Solo infatti se il riparto parziale ha ad oggetto frutti o rendite o confische il danno per l’interventore successivo è tendenzialmente minimo e può essere limitato con un accantonamento, del 10% o più.

Quanto alla misura dell’accantonamento poi, essa sarà commisurata al rischio di interventi successivi, e alla natura e qualità del credito del potenziale interventore. Se ad es. l’esecuzione è intrapresa dal condominio e si sa che vi è un creditore ipotecario fondiario non ancora intervenuto, è opportuno che nel piano di riparto parziale soi distribuiscano solo le spese necessarie a consentire al condominio il rientro delle spese di esecuzione.

Le altre questioni poste al principio appaiono di più agevole soluzione (quello dell'obbligatorietà o meno dei riparti parziali, o se nei riparti successivi il 10% accantonato si computi sulla massa complessiva da distribuire o rimanga comunque intangibile fino al riparto finale (così potendosi cumulare più accantonamenti), o se la nuova norma sull'accantonamento si applichi anche alle precedenti ipotesi già previste dalla legge di riparti parziali, o se essa si applichi anche alle esecuzioni mobiliari, ecc.).

Circa l'obbligatorietà del riparto parziale, se si accede all'idea che per tale non deve intendersi quello cui si procede all'esito della vendita di un lotto (nel caso di procedura con più lotti), ma quello cui si procede in caso di frutti o rendite o conversione o confisca, allora deve dirsi che, mentre per la conversione l'art. 495 cpc parrebbe dare risposta positiva, attraverso l'uso dell'indicativo presente, l'art. 594 cpc quanto alle rendite prevede una mera possibilità, mentre in tutti gli altri casi, nulla essendo previsto, rimarrebbe in capo al giudice un potere discrezionale se procedere o meno a riparto parziale.

Circa la possibilità di aumentare la misura dell'accantonamento è la stessa legge che prevede che "il progetto di distribuzione parziale non può superare il 90%...", con ciò lasciando intendere che la distribuzione può arrivare al massimo al 90% delle somme disponibili, ma può avere ad oggetto anche una misura inferiore, secondo un prudente apprezzamento del giudice o del delegato, non dissimile da quello che l'art. 113 co. 2 l.f. rimette al Curatore.

Circa la possibilità di procedere a riparti parziali anche in presenza di unico creditore, è bensì vero che l'art. 496 c.p.c. continua a prevedere che "quando non si può procedere a norma dell'art. 510 co. 1 cpc...", ossia fuori dai casi di unico creditore, ma non sembrano esservi seri ostacoli a procedere ad assegnazioni parziali, tenuto conto della ratio della norma, di far conseguire ai creditori il prima possibile quanto loro dovuto ed evitare inutili giacenze di denaro sui conti della procedura.

Circa il problema se nei riparti successivi debba tenersi conto o meno anche delle somme precedentemente accantonate, appare preferibile la tesi negativa. Se infatti la funzione dell’accantonamento è quella di salvaguardare gli interventori successivi, per poter svolgere adeguatamente tale funnzione è evidente che gli accantonamenti debbono cumularsi tra loro, per essere ripartiti solo in sede di distribuzione finale.

   

1.2 - La distribuzione condizionata

Il d.l. 59/2016 poi ha anche modificato la disciplina degli accantonamenti previsti dall'art. 510 co. 2 c.c., per il caso dei crediti disconosciuti dal debitore, prevedendo ora la possibilità di non far luogo all'accantomanento e, quindi, autorizzare il pagamento condizionato in favore di tali creditori, qualora essi presentino una garanzia autonoma e a prima richiesta, ex art. 574 c.p.c. Stessa possibilità è riconosciuta ai creditori contestati ex art. 512 c.p.c. Ma anche ai creditori di grado poziore, che avrebbero diritto al pagamento, laddove il credito del creditore disconosciuto o contestato, pel quale è stato previsto rispettivamente l'accantomanento o la sospensione della distribuzione, risulti in tutto o in parte insussistente nel giudizio di merito.

Circa l'ipotesi dell'accantonamento, occorre innanzitutto domandarsi in che fase può essere proposta l'istanza e presentata la garanzia. Nulla vieta ovviamente che l'istanza possa essere proposta fin dal ricorso per intervento o nella nota di precisazione del credito, ma ciò che occorre domandarsi è quale sia il termine ultimo per l'esercizio della facoltà, termine che dovrebbe essere individuato nell'udienza ex art. 596 cpc, essendo questo il luogo fissato appositamente per la discussione e approvazione del progetto di distribuzione. Prima comunque che il giudice dichiari l'esecutività del progetto stesso.

Laddove l'istanza sia formulata, si ritiene che il giudice debba assegnare un termine per il deposito della garanzia, cui dovrebbe far seguito il deposito di un nuovo progetto di distribuzione, atteso che su di esso potrebbero sorgere contestazioni, ad es. sulla validità e idoneità della garanzia prestata, sulla quale gli altri creditori potrebbero avere qualcosa da ridire. Ma si può anche pensare, in una situazione come quella descritta, ossia che l’ìstanza viene presentata solo dal creditore accantonato, a forme più semplici, che non passino per la predisposizione di un nuovo progetto di distribuzione, ma semplicemente per un’udienza, successiva al deposito della polizza,  ove gli altri creditori sian messi in condizione di discutere della stessa (la situazione è simile a quella che si determina quando il creditore accantonato si sia procurato il titolo per una somma corrispondente al credito per cui sia stato fatto l’intervento, atteso che, anche in tal caso, sarebbe sufficiente fissare un’udienza di discussione, senza modifica del progetto di distribuzione). Naturalmente un nuovo progetto sarebbe necessario invece laddove l’istanza sia avanzata non dal creditore accantonato, ma da altro creditore di grado poziore o ancor più se sia avanzata da più creditori poziori del medesimo grado.

In quest’ultimo caso poi, laddove cioè l'istanza sia formulata sia dal creditore per il quale è disposto l'accantonamento, sia dall'eventuale creditore (o più di essi) poziore che, in caso di insussistenza del credito del creditore accantonato, beneficerebbe delle relative somme, ci si domanda chi di essi debba essere preferito. Deve ritenersi che la preferenza debba accordarsi seguendo l'ordine della graduazione, accogliendo innanzitutto l'istanza del creditore accantonato, quindi quella degli altri creditori, secondo la rispettiva collocazione in riparto e, in caso di pari collocazione, in via proporzionale tra loro.

Laddove poi il progetto venga discusso avanti al professionista delegato, ci si domanda se sull'istanza possa provvedere il medesimo, ovvero se essa sia di esclusiva competenza del giudice. Dalla circostanza che, di regola, l'approvazione del progetto di distribuzione può avvenire davanti al delegato e che l'intervento del giudice scatta solo laddove vi siano contestazioni ex art. 512 cpc, sarei dell'idea che tutta la fase dianzi descritta, compreso il subprocedimento che si avvia con l'istanza, possa svolgersi davanti al delegato, il quale rimetterà gli atti al G.E. solo laddove, rivisto il progetto di distribuzione all'esito dell'istanza del creditore accantonato o di altro poziore, sorgano contestazioni.

Quanto all'ipotesi del credito contestato ex art. 512 cpc, pare evidente che un'istanza di liberazione di somme dietro garanzia possa essere formulata e abbia un senso di essere formulata solo laddove il giudice, a seguito della proposizione della contestazione, o dopo la proposizione di opposizione agli atti avverso la decisione sommaria di cui all'art. 512 cpc, abbia sospeso l'esecutività del progetto di distribuzione, in tutto o in parte. In tal caso potrebbe appunto essere interesse del creditore contestato e sospeso ottenere il pagamento condizionato, dietro garanzia, cosa che peraltro non pareva preclusa neppure prima dell'avvento della novella, ex art. 669 undecies cpc.

Circa il termine per proporre l'istanza di pagamento condizionato, essa dovrebbe essere avanzata in seno alle conclusioni rassegnate nel subprocedimento di contestazione, in via subordinata all'accoglimento della sospensiva, anche se vi è chi ritiene che, non precludendo l'art. 626 cpc, durante la sospensione, l'adozione di ogni atto, ma solo di quelli strictu sensu esecutivi (ossia che fan procedere la procedura verso la liquidazione e la distribuzione), ma non quelli di gestione[4], un'istanza sarebbe consentita in qualunque momento, anche durante la sospensione.

Anche in questo caso l'istanza di pagamento condizionato potrebbe essere avanzata non dal creditore sospeso, ma dal creditore che ha sollevato la contestazione, o da un altro creditore che, se fosse accolta la contestazione, avrebbe comunque diritto a parte delle somme liberate. Analogamente perciò si ritiene che il giudice debba procedere alla predisposizione di un nuovo progetto di disribuzione, sia perchè, come già per il caso di accantonamento, i creditori potrebbero avere da ridire sulla validità ed idoneità della garanzia prestata, sia perchè l'istanza potrebbe essere avanzata da più creditori di grado diverso o di pari grado, tra i quali le somme andrebbero redistribuite.

   

2 - L'ordine di liberazione anticipato

La storia della modifica dell'art. 560 cpc ad opera del d.l. 59/2016 e legge di conversione è stata abbastanza travagliata.

Nella versione originaria del decreto legge, molto più snella, ci si limitava a prevedere che l'ordine di liberazione fosse attuato dal custode, sotto la direzione del giudice dell'esecuzione, escludendo così di dover ricorrere alla procedura di esecuzione per consegna o rilascio di cui agli artt. 605 e ss cpc, in precedenza utilizzata.

Ciò aveva dato adito a numerosi interrogativi, in particolare per ciò che concerne la tutela dell'eventuale terzo occupante, in quanto, mentre in caso di esecuzione per rilascio questi avrebbe potuto proporre opposizione all'esecuzione, per far valere l'opponibilità del proprio titolo di detenzione al creditore procedente o all'aggiudicatario, con l'attuazione ad opera del custode tale facoltà non avrebbe potuto esercitarsi e ci si sarebbe dovuti interrogare sulle nuove ed eventuali forme di tutela del terzo, con l'ulteriore e connesso problema di domandarsi se non fosse intervenuto un mutamento della natura stessa del provvedimento di liberazione.

A tal proposito la prassi pretoria aveva sempre ricostruito l’ordine di liberazione anticipato in termini di unitarietà, strutturale e funzionale, rispetto all’ordine di rilascio contenuto nel decreto di trasferimento, potendosi quindi predicare con riferimento al primo quanto la giurisprudenza aveva detto con riferimento al secondo, in particolare in ordine alla natura non decisoria dell'atto (con conseguente inammissibilità del ricorso straordinario in Cassazione e trasferimento delle tutele in sede di esecuzione per rilascio[5]) e alla sua efficacia erga omnes[6].

All'indomani del d.l. quindi ci si era domandati se ciò fosse ancora vero, attesa la evidente diminuzione di tutela per il terzo, che non poteva più avvalersi dell'opposizione all'esecuzione per rilascio. Col che non era mancato chi, rispolverando orientamenti minoritari, aveva ritenuto che il nuovo ordine di liberazione si potesse emettere solo in caso di immobile occupato dal debitore o terzi sine titulo (come parrebbe dal tenore letterale dell’art. 560 cpc), non ovviamente se era occupato da terzi con titolo, opponibile o meno che fosse, con ciò mantenendo ferma la natura meramente esecutiva dell'atto. Ma si era anche ritenuto da alcuni che il riferimento all'attuazione dell'ordine di liberazione implicasse un rinvio all'art. 669 duodecies cpc e alla natura di decisione sommaria del provvedimento, passibile di essere emesso anche contro il terzo, sebbene inaudita altera parte, senza però risolvere il problema delle possibili forme di reazione del terzo (reclamo ex art. 669 terdecies cpc?). E infine si era anche detto che con l'emanazione dell'ordine di liberazione il terzo diviene parte della procedura (come lo diviene l'aggiudicatario dopo l'emanazione del D.T., cfr Cass. 7708/2014), con possibilità di proporre opposizione agli atti esecutivi.

In sede di conversione del d.l. si è seguita quest'ultima impostazione e la norma è stata implementata con la previsione della necessità di notificare il provvedimento al terzo, con possibilità per questi di proporre opposizione ex art. 617 cpc.

Nondimeno i problemi non paiono risolti.

Se infatti si vuole tenere fermo il principio dell'identità funzionale e strutturale dell'ordine di liberazione anticipato rispetto all'ordine di rilascio, non appare agevolmente giustificabile la diminuzione di tutela del terzo, che nel primo caso potrebbe tutelarsi solo con l'opposizione agli atti esecutivi, che si concluderebbe con sentenza, avverso la quale sarebbe possibile solo proporre ricorso in Cassazione, mentre nel secondo potrebbe continuare a beneficiare dell'opposizione all'esecuzione per consegna e rilascio, con possibilità di percorrere tutti i gradi di giudizio.

Tale differente tutela, dipendente solo dal momento in cui l'atto viene emesso, non appare di facile giustificazione e potrebbe altresì dare adito a dubbi in ordine alla legittimità costituzionale della nuova disciplina (sarebbe forse stato più appropriato consentire al terzo di proporre opposizione ex art. 619 cpc, pur non vantando egli un diritto reale sul bene).

L'unica alternativa possibile pare quella di attribuire alla decisione ex art. 617 cpc carattere meramente endoprocedimentale, allo stesso modo di quanto la giurisprudenza predica in ordine alle controversie distributive ex art. 512 cpc e di quanto è invece espressamente previsto sulle controversie sulla dischiarazione del terzo ex art. 548-549 cpc.

Il che a sua volta però implicherebbe un mutamento di natura dell'ordine di liberazione, non più inteso come mero atto esecutivo, ma come decisione semplificata con invitatio ad opponendum verso il terzo, come avviene in tutti gli altri casi espressamente previsti in cui l'opposizione agli atti esecutivi viene utilizzata per sindacare non già l'atto e la sua conformità al modello formale, bensì piegata come strumento di giudizio sul rapporto.

Col che, salvata la legittimità costituzionale della norma, pur a costo della rottura del legame che la avvinceva all’ordine di rilascio contenuto nel D.T., rimarrebbe aperto il problema della stabilità del provvedimento di liberazione.

Dire infatti che l’ordine di liberazione anticipato o i provvedimenti che ne seguissero, in ipotesi di sua impugnazione con ricorso ex art. 617 cpc, hanno solo efficacia endoesecutiva, significa dire che essi spiegano ed esauriscono i propri effetti all’interno dell’esecuzione in cui sono emanati, il che è a dire che il bene viene bensì venduto libero, ma che potrebbe non essere giuridicamente tale, in particolare che il detentore che abbia dovuto lasciare l’immobile, in quanto soccombente nel giudizio endoprocedimentale sull’opponibilità del suo eventuale titolo di detenzione, non formandosi un giudicato esterno sul punto, potrebbe agire in giudizio contro l’aggiudicatario per far riconoscere, questa volta con efficacia di giudicato, il proprio diritto a detenere, oppure potrebbe rinunciare a rientrare nella detenzione del bene, ma chiedere al procedente il risarcimento dei danni.

Questo rischio appare ancor più concreto se si considera che, nei casi in cui il legislatore ha riconosciuto carattere meramente endoesecutivo ad una decisione, si è poi però anche peritato di scongiurare il rischio che la questione analizzata potesse essere riproposta in un nuovo giudizio ad esecuzione conclusa. Il riferimento è in particolare agli artt. 548-549 cpc, ove si è previsto che, in caso di silenzio assenso, l’assegnazione fondata sullo stesso non può essere contestata dal terzo nell’esecuzione in corso o nell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione emesso dal giudice a seguito della non contestazione, regola che dovrebbe valere per l’effetto anche nel caso in cui il terzo abbia attivato lo strumento dell’opposizione ex art. 617 cpc.

Forse un effetto preclusivo potrebbe riconoscersi solamente nell’ipotesi in cui, emesso l’ordine di liberazione contro il terzo, questi non abbia proposto l’opposizione ex art. 617 cpc, così prestando acquiescenza alla decisione del giudice, con conseguente impossibilità di rimettere le cose in discussione in un secondo momento, preclusione derivante dal divieto di venire contra factum proprium e dall’inerzia nell’attivare gli strumenti di reazione previsti dal sistema.

Ma quando, al contrario, una reazione vi sia stata, con l’opposizione agli atti esecutivi, un effetto preclusivo pare più difficile da ricavare in via ermeneutica.

Il che sarebbe potenzialmente devastante nei confronti dell’aggiudicatario, attesa l’attenzione che da qualche anno a questa parte la giurisprudenza e la legge annettono alla questione dell’affidabilità del sistema delle vendite pubbliche, della stabilità degli effetti delle vendite (cfr Cass. 21110/2012).

Un effetto preclusivo potrebbe forse predicarsi, solo in favore dell’aggiudicatario, per il fatto che, inserendosi anche il D.T. nella procedura, come atto esecutivo, la sua ampiezza e portata non potrebbe essere che disegnata dagli atti esecutivi che l’hanno preceduto, in particolare quando siano il portato di una decisione sintetica e semplificata, quale il nuovo ordine di liberazione. Dire cioè che l’ordinanza di liberazione e le controversie su di essa insorte han carattere meramente endoesecutivo significa, come detto, ch’esse esauriscono i loro effetti all’interno dell’esecuzione (il giudicato cioè non si formerebbe tanto sl rapporto, quanto sul diritto della procedra a vendere il bene come libero), quindi anche con riguardo al D.T., che è atto esecutivo, la cui ampiezza e portata sarebbe la risultante degli atti che l’han preceduto, anche con riferimento alle decisioni sintetiche e semplificate sull’opponibilità di titoli di detenzione.

Col che al detentore soccombente nel giudizio di opposizione all’esecuzione non rimarrebbe che l’azione di risarcimento danni nei confronti del creditore procedente e degli intervenuti titolati (posto che, dopo SS.UU. 61/2014, anche nell’intervento da essi spiegato è identificabile un’azione esecutiva).

Il che però dovrebbe potrebbe indurre ad un minore automatismo nell’emissione dell’ordine di liberazione, non potendo esso emettersi quanto meno in presenza di un espresso dissenso di tutti i creditori titolati, atteso che sarebbero come detto il procedente o gli intervenuti titolati a subire poi le conseguenze risarcitorie, se il bene risultasse detenuto con titolo opponibile alla procedura.

Il che peraltro va nel senso contrario alla volontà della riforma, volta ad agevolare l’esecuzione dell’ordine di liberazione, sul presupposto di una sua emanazione non condizionata alla volontà dei creditori creditore, condizionamento del resto non previsto nella legge.

Sarà la prassi pretoria a dover risolvere tale difficile problema.

Non tratto qui dei problemi pratici che la nuova norma potrebbe porre, le difficoltà concrete in cui potrebbe imbattersi il Custode e le modalità per risolverle, ma è certo che sarà necessaria un'ampia collaborazione delle forze dell'ordine e dei servizi sociali, laddove sia necessario vincere resistenze o confrontarsi con situazioni di difficoltà e marginalità. E poichè un intervento a tappeto di questi soggetti per ogni esecuzione è del tutto impredicabile, fondamentale sarà l'opera di moral suasion del Custode e la capacità di quest'ultimo di scendere a patti con l'occupante, per concordare tempi e modi della liberazione da parte di quest'ultimo, ricorrendo all'attuazione del provvedimento e all'eventuale ricorso all'ausilio della forza pubblica e di altri soggetti istituzionali solo in casi mirati.

   

3 - La decadenza dalle opposizioni

Il d.l. 59/2016 ha introdotto una disciplina del tutto innovativa in ordine alle opposizioni all'esecuzione, prevedendo un inedito ed enigmatico termine decadenziale per la propisizione delle stesse, coincidente con l'udienza in cui si dispone la vendita.

A tal fine è stato novellato l'art. 492 cpc, prevedendo un nuovo (l'ennesimo) avvertimento in capo al creditore procedente che "a norma dell'art. 615 secondo comma terzo periodo, l'opposizione è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita p l'assegnazione...salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti o che l'opponente dimostri di non aver potuto tempestivamente proporla per causa a lui non imputabile".

E' stato altresì novellato l'art. 615 cpc, prevedendosi ora al comma 2 terzo periodo che "nell'esecuzione per espropriazione l'opposizione è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l'assegnazione... salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero che l'opponente dimostri di non aver potuto proporla prima per causa a lui non imputabile".

La novella si applica alle esecuzioni iniziate decorsi 30 giorni dalla legge di conversione.

Prima di discutere delle criticità evidenziate dai primi commentatori in ordine alla legittimità costituzionale della nuova disciplina, c'è da rilevare che il legislatore persevera lungo la strada dell'infittimento degli avvisi che il creditore deve dare al debitore, avviata con la miniriforma del 2005-2006 (quando venne introdotto l'avvertimento circa la decadenza dalla facoltà di proporre istanza di conversione e l’invito ad eleggere domicilio, pena la domiciliazione ex lege in cancelleria), proseguita con il d.l. 83/2015 (con l'avvertimento, da inserire nel precetto, circa la possibilità di avvalersi del procedimento per sovraindebitamento), e giunta a conclusione (per ora), con l'avvertimento sulla decadenza dalla possibilità di proporre le opposizioni all'esecuzione.

L'infittirsi degli avvertimenti in realtà costituisce il risvolto e l'altro lato della medaglia rispetto ad un'altra direttrice di riforma da anni seguita dal legislatore, che è quella dell'incremento e anticipazione delle decadenze a danno del debitore per l'esercizio di alcune facoltà, quali appunto l'istanza di conversione e, ora, le opposizioni esecutive.

Il collegamento tra i due aspetti pare risiedere nel principio di leale collaborazione, che sempre avvince le parti dell'obbligazione, ex art. 1375 c.c. (cfr Cass. SS.UU. 20106/2009), e che non si esaurisce nella fase fisiologica del rapporto, ma prosegue anche in quella patologica, per cui all'introduzione di nuove decadenze fa da contraltare il dovere del creditore di avvisare il debitore dei termini entro cui egli può avvalersi delle facoltà che la legge gli riconosce per evitare l'esecuzione.

Così il precetto ha, oltre alla funzione di costituire in mora il debitore, anche quella di preannunciare l'esecuzione e di metterlo in condizione di evitarla; ancora in sede di pignoramento il debitore può evitare l'espropriazione effettuando il pagamento a mani dell'ufficiale giudiziario, con riserva di ripetizione, ovvero consegnando nelle mani del predetto una somma di danaro come oggetto di esecuzione; e, ancora, sempre al fine di evitare l'espropriazione, il debitore può fare istanza di conversione, prima che sia disposta la vendita.

L'espropriazione costituisce dunque l'extrema ratio e il legislatore vuole che il debitore sia prima messo in condizioni di evitarla, ma d'altro canto l'esercizio di tali facoltà non deve prestarsi a manovre dilatorie, così che ne viene limitato l'esercizio nel tempo, previo avvertimento.

E' poi interessante notare, sempre in via generale, come l'udienza ex art. 569 cpc venga individuata dal legislatore come il termine ultimo per l'esercizio di molteplici facoltà, in quanto essa chiude la fase istruttoria dell'esecuzione e segna, in caso di emissione di ordinanza di vendita, l'avvio di quella liquidatoria. Essa costituisce infatti il termine ultimo per la proposizione dell'istanza di conversione, il termine ultimo per l'intervento nella procedura, il momento per discutere le modalità della vendita, il termine ultimo per proporre le opposizioni agli atti esecutivi contro gli atti della fase istruttoria (semprechè non vi sia stata decadenza), e, ora, anche il termine ultimo per proporre le opposizioni all'esecuzione.

Tale sclta legislativa si giustifica con la struttura stessa del processo esecutivo, che non è configurato come una sequenza continua e ordinata di atti, bensì come sequenza di subprocedimenti[7], autonomi e distinti (istruttorio, liquidatorio, trasferimento, distributivo), e ciò per le naturali esigenza di stabilità che accompagnano tale tipo di procedure liquidative.

La concentrazione da parte del legislatore di tante facoltà nella fase istruttoria corrisponde quindi all'esigenza, più che comprensibile, che, una volta avviata la fase liquidativa, questa possa procedere speditamente e senza ostacoli, visto che essa vede anche, attraverso i procedimenti di evidenza pubblica che la caratterizzano, il coinvolgimento del pubblico in generale e dei potenziali acquirenti, offerenti e aggiudicatari in particolare, che non si vogliono esporre al rischio di veder vanificato il proprio acquisto. Il tutto tenendo anche conto che, sempre in base alla giurisprudenza di legittimità, una volta avviata la fase di vendita, anche i poteri di impulso dei creditori risultano affievoliti, non trattandosi di una fase condizionata dall'impulso di parte (cfr Cass. 13354/2004).

La domanda che ci si pone è peraltro se, ponendo una barriera anche alla possibilità stessa di proporre opposizione all'esecuzione, il legislatore non si sia spinto troppo in là, dettando una disciplina a rischio di incostituzionalità.

Prima di affrontare questo tema, peraltro, merita solo fare un cenno al problema delle conseguenze in caso di omissione, nell'atto di pignoramento, dell'avviso di nuovo conio, se ciò comporti o meno nullità dell'atto.

Ora deve dirsi che la norma non prevede una nullità testuale, e anche dal punto di vista funzionale non pare che l'omissione impedisca all'atto di raggiungere il suo scopo, che è quello di apporre un vincolo di indisponibilità sul bene che si vuole espropriare.

Può riprendersi qui quanto la giurisprudenza aveva già detto con riferimento all'omissione dell'avvertimento circa i termini per proporre istanza di conversione, ossia che l'effetto dell'omissione, che comunque può essere sanata in qualsiasi momento dalla notifica di un atto equpollente (anche del decreto di fissazione udienza ex art. 569 cpc nel quale il giudice abbia ripetuto gli avvisi, come nella prassi avviene) non è la nullità (cfr Cass. 8408/2011), ma, tutt'al più, il mancato verificarsi della decadenza, il che poi appare ancor più vero nel caso della nuova barriera prevista dall'art. 615 cpc, laddove è previsto che, avviata la fase liquidativa, l'opposizione è ancora possibile se si dimostra di non averla potuta proporre per causa a sè non imputabile, che potrebbe risiedere appunto nell'omissione dell'avviso.

L'effetto quindi anche in questo caso non è una nullità opponibile con l'opposizione agli atti esecutivi, per la quale comunque l'opponente dovrebbe dimostrare di avere un interesse concreto e attuale, ma l'impedimento alla decadenza.

Venendo alla questione più scottante, il problema è quello della giustificazione di una barriera preclusiva che, lungi dal riguardare mere facoltà processuali, nell'ambito di un rapporto processuale già instaurato, attiene allo stesso diritto d'azione costituzionalmente garantito. E, quand'anche si potesse rispondere affermativamente a detto quesito, sulla scorta di un blanciamento tra le esigenze di difesa del debitore e le esigenze di trasparenza e funzionalità del sistema delle vendite coattive e del recupero del credito, andrebbe scrutinata la necessità, adeguatezza e proporzionalità di una tale misura, che vede coinvolto nientemeno che il diritto di proprietà, ampiamente tutelato dal protocollo 1 della CEDU, inglobata ormai nei trattati UE.

Sul primo aspetto, quello della stabilità degli effetti delle vendite forzate, si era già espressa la giurisprudenza di legittimità, quando, con SS.UU. 21110/2012, argomentando anche alla luce dell'art. 187 bis d.a. cpc, aveva affermato il principio di stabilità degli effetti delle vendite giudiziarie, rilevando come, malgrado l'eventuale opposizione all'esecuzione o l'opposizione agli atti esecutivi ritualmente spiegate (ma senza sospensione dell'esecuzione ovviamente), l'acquisto dell'aggiudicatario non potesse essere travolto dal successivo accoglimento dell'opposizione stessa, convertendosi il diritto dell'opponente all'arresto della procedura espropriativa nel diritto a ricevere il controvalore in denaro e nel diritto al risarcimento dei danni nei confronti dei creditori titolati.

Un conto sembra però dire che, malgrado l'opposizione, comunque possibile, l'acquisto dell'aggiudicatario è salvo,  tenuto conto del necessario bilanciamento tra l'interesse del debitore ad arrestare l'espropriazione e di quello - evidentemente considerato prevalente - del pubblico e degli aggiudicatari all'affidamento negli acquisti, a sua volta quale risvolto della più generale esigenza di tutela del credito basata sulle vendite coattive, a sua volta corollario della tutela della concorrenza. Altra cosa è negare in radice al debitore, una volta avviata la fase liquidativa, il diritto di azione, a sua volta principio cardine della CEDU, ancora più sensibile laddove sian coinvolte libertà o diritti considerati fondamentali in un ordinamento liberale, quale quello entro il quale si inserisce la Convenzione, quale la proprietà.

Osservata in questi termini la barriera potrebbe essere tacciata di imporre al debitore un sacrificio sproporzionato rispetto al fine della tutela del credito, nè pare possibile giustificare tale sacrificio invocando il tradizionale principio di conversione dei motivi di opposizione in motivi di contestazione ex art. 512 cpc, sempre affermato dalla giurisprudenza, nel senso che tra l'opposizione all'esecuzione e la controversia distributiva non esisterebbe alcuna differenza ontologica, potendo in entrambe essere sollevate le medesime questioni, ma solo un discrimine temporale, per cui una volta conclusasi la fase liquidatoria, con la vendita del bene, non sarebbe più possibile proporre la prima, ma solo la seconda (Cass. SS.UU. 1082/1987).

Per non incorrere quindi in una assai probabile pronuncia di incostituzionalità, potrebbe affermarsi che l'inammissibilità delle opposizioni all'esecuzione voluta dal legislatore discende dalla preclusione naturalmente connessa al giudicato. Un giudicato ovviamente non sul diritto e sulla pretesa del creditore, ma sul diritto all'espropriazione, giudicato tutto interno all'esecuzione quindi, e non preclusivo, oltre che di una eventuale controversia distributiva, di una eventuale azione risarcitoria successiva da parte del debitore ingiustamente espropriato.

In effetti una barriera di tal fatta era presente nella disciplina del codice di procedura civile del 1865, là dove, all'art. 665 cpc, prevedeva che l'esecuzione prendesse il via con la citazione del debitore, da parte del creditore, per far riconoscere il suo diritto ad espropriare e ottenere l'autorizzazione alla vendita, che venivano consacrati in una sentenza, con conseguente netta scomposizione della fase istruttoria/autorizzativa da quella liquidatoria; che si concludeva anch'essa peraltro, all'esito della gara e dell'individuazione del miglior offerente, con una sentenza, che statuiva il trasferimento del diritto espropriato in capo all'offerente stesso (art. 685 cpc del 1865).

Il giudicato quindi appariva ai codificatori del 1865 come il rifugio più sicuro per risolvere tutte le peculiarità dell'esecuzione forzata, dall'inserimento nel novero dei titoli esecutivi di atti privati (cambiale), nei quali non era riconoscibile un accertamento del diritto paragonabile a quello insito in una sentenza o in un atto pubblico notarile, ritenuti naturalmente dotati di imperium, con conseguente necessità di far accertare il diritto ad espropriare; all'esigenza di garantire la stabilità della vendita, pure conseguita con una sentenza, che presupponeva la discussione delle eventuali nullità verificatesi nel corso del procedimento.

Nel tentativo di dare una veste costituzionalmente accettabile al nuovo regime di preclusione introdotto dal legislatore del 2016 allora, si potrebbe pensare proprio a recuperare all'ordinanza di vendita emessa all'esito dell'udienza ex art. 569 cpc quel carattere di decisione (semplificata evidentemente) sul diritto a vendere (o meglio, sull'assenza di contestazioni alla vendita) che il codice del 1940 aveva tentato di superare.

La tecnica della decisione semplificata è del resto uno strumento cui il legislatore sembra aver voluto ricorrere più volte negli ultimi anni, a partire dalla miniriforma del 2005-2006[8], come attestano l'ordinanza sulle controversie distributive ex art. 512 cpc e, in tempi più recenti, le decisioni sulle contestazioni alla dichiarazione del terzo, ex art. 548-549 cpc, con la differenza che, mentre in tali casi il carattere decisorio, seppur endoesecutivo, è affermato espressamente dal legislatore, il carattere decisorio dell'ordinanza di vendita andrebbe ricavato ermeneuticamente, nello sforzo di rendere la norma costituzionalmente accettabile.

D'altro canto vi è almeno un altro caso in cui la dottrina (meno la giurisprudenza) ha avuto modo di riconoscere un carattere di decisione semplificata ad un'ordinanza. Il riferimento è all'art. 785 cpc, in tema di divisione, il quale prevede che, se non sorgono contestazioni sull'an dividendum, il giudice procede sul quomodo con ordinanza, altrimenti dovendo prima risolvere le questioni sull'an con sentenza. Circa la natura di tale ordinanza, parte della dottrina l'ha ricostruita in termini di accordo negoziale implicito (per sostenerne la non revocabilità ex art. 177 cpc), altra parte in termini di provvedimento di volontaria giurisdizione. Altra parte ancora invece ne ha sostenuto appunto il carattere di decisione semplificata, con la quale si prende atto dell'assenza di contestazioni in ordine al diritto di procedere a divisione[9].

Se così fosse, se cioè si dovesse riconoscere nell'ordinanza di vendita un contenuto decisorio semplificato, avente ad oggetto il diritto di vendere, nondimeno si porrebbe il problema delle forme di reazione da parte degli interessati, in primis il debitore, avverso un tal provvedimento.

Escluso l'appello, attesa la tipicità dei mezzi d'impugnazione, riterrei di escludere anche l'opposizione agli atti esecutivi, non perchè essa non possa essere piegata, come recentemente il legislatore ha più volte fatto, da strumento di controllo formale dell'atto, della sua conformità al paradigma legale, a strumento di cognizione del rapporto, ma perchè tale suo utilizzo atipico appare consentito solo nei casi espressamente previsti dalla legge, non potendo essere sdoganato in via interpretativa.

Non rimarrebbe dunque che il ricorso straordinario in Cassazione ex art. 111 Cost., anche se non ci si può nascondere che il mezzo appare forse sproporzionato rispetto alle esigenze di tutela degli interessati.

Tutto ciò se ed in quanto si ritenga di aderire all'idea che l'introduzione di un termine particolarmente anticipato per la proposizione di contestazioni aventi ad oggetto il diritto dei creditori titolati a procedere ad espropriazione confligga con il diritto di azione, in particolare se riferito ad un diritto primario come la proprietà, non perchè l'apposizione di termini per l'esercizio di diritti sia di per sè contrario alla CEDU o al diritto UE, che pure li ammette purchè tali da non rendere eccessivamente gravoso o difficile per una parte l'esercizio del diritto stesso (ossia in pratica finchè i termini non confliggano con il proncipio di effettività della tutela), ma perchè impedire di arrestare la vendita dei propri beni, fino a che la vendita non si sia concretizzata in un'aggiudicazione, non pare trovare adeguate giustificazioni, neppure nell'esigenza di tutela del credito o nell'esigenza di stabilità e affidabilità del sistema delle vendite forzate.

La praticabilità della soluzione proposta incontra peraltro, come comprensibile, molte diffidenze, atteso che non è agevole comprendere del tutto le sue conseguenze, in particolare in ordine all’estensione e alla portata dell’effetto preclusivo del giudicato, che non rimarrebbe confinato alle opposizioni all’esecuzione, ma finirebbe con l’investire altri aspetti della procedura, anche in contrasto con tradizionali orientamenti della giurisprudenza di legittimità (si pensi ad es. al tradizionale orientamento giurisprudenziale in ordine alla rilevabilità d’ufficio in ogni stato del procedimento della mancanza, originaria o sopravvenuta, del titolo esecutivo, cfr Cass. 15363/2011).

E tuttavia non pare dubitabile che altre soluzioni appaiano meno appaganti nel giustificare la nuova barriera preclusiva.



[1] Relazione tenuta al Convegno “Ultime novita' legislative e prima giurisprudenza nella continua evoluzione delle esecuzioni immobiliari e procedure concorsuali - Mantova 7-8 ottobre 2016".

[2] Per l’autonomia delle esecuzioni in procedure con cumulo oggettivo cfr Cass. 3130/1987, ove si legge che “nell’espropriazione forzata mobiliare presso il debitore, in caso di pluralità di pignoramenti, se i pignoramenti vengono eseguiti sullo stesso o sugli stessi beni, il processo esecutivo è unico fin dall’origine e i creditori successivi pignoranti vi si inseriscono quali interventori tempestivi o tardivi; se invece i pignoramenti sono eseguiti anche o soltanto su altri beni, danno origine, per i beni diversi da quelli già pignorati, ciascuno ad un processo esecutivo distinto da quello precedentemente iniziato, in ragione dei distinti beni pignorati. In quest’ultimo caso consegue che ciascun processo esecutivo si svolge separatamente dall’altro, senza confusione dei relativi compendi pignorati e della loro rispettiva destinazione”. Cfr anche Cass. 5078/2001.

[3] Cfr Cass. 17371/2011, secondo cui “il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è tuttavia caratterizzato da una definitività insita nella chiusura del procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti, incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, sussistendo un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all’interno del procedimento esecutivo. Ne consegue che il soggetto espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione dell’indebito contro il creditore procedente o intervenuto, per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata”.

[4] Cfr Cass. 2968/2013, secondo cui “può costituire oggetto di opposizione agli atti esecutivi solo l’atto del processo esecutivo, viziato nelle forme o nei presupposti, che abbia incidenza dannosa nella sfera degli interessati, tal che sia attualmente configurabile un interesse reale alla rimozione dei suoi effetti. E’ pertanto inammissibile l’opposizione ex art. 617 cpc – per carenza di interesse ad impugnare – allorchè investa provvedimenti del giudice dell’esecuzione che abbiano finalità di mero governo del processo, come è tipicamente quello di rinvio dell’udienza, salvo che detti provvedimenti non siano abnormi, e cioè rechino statuizioni non coerenti con la funzione riconosciuta ad un determinato atto dell’ordinamento, e pregiudizievoli per le parti”.

[5] Cfr Cass. 15623/2010, ove si è chiarito che " il provvedimento con il quale il giudice ordina la liberazione dell'immobile pignorato, ai sensi dell'art. 560 co. 3 cpc, non è suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento giurisdizionale qualificato come titolo esecutivo per il rilascio, da eseguirsi a cura del custode, ma non munito dei caratteri della decisorietà e della definitività, così che il terzo occupante dell'immobile che abbia titolo alla prosecuzione della detenzione potrà formulare opposizione all'esecuzione (per rilascio)".

Inoltre sempre in giurisprudenza si è detto che "avverso l'ordine di liberazione il rimedio esperibile da parte del debitore esecutato non è il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., bensì l'opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell'art. 617 cpc, la cui applicabilità non è impedita dalla proclamazione di inimpugnabilità del provvedimento" (cfr Cass. 25654/2010).

[6] Cfr Cass. 15268/2006, ove si legge che "nell'espropriazione forzata immobiliare il decreto di trasferimento di cui all'art. 586 cpc costituisce titolo esecutivo per il rilascio dell'immobile espropriato, in favore dell'aggiudicatario al quale l'immobile sia stato trasferito, non solo nei riguardi del debitore esecutato, ma anche nei confronti di chi si trovi nel possesso o nella detenzione dell'immobile medesimo, senza che vi corrisponda una situazione di diritto soggettivo (reale o personale) già opponibile al creditore pignorante ed ai creditori intervenuti e in quanto tale opponibile anche all'aggiudicatario cui l'immobile sia stato trasferito iussu iudicis".

[7] Cfr Cass. SS.UU. 11178/1995, secondo cui “lo scopo del processo esecutivo non tollera ch’esso si trovi in stato di perenne incertezza, perché l’esecuzione è caratterizzata dalla stabilità dei risultati, che non si prestano ad essere rimessi in discussione, perciò l'esecuzione è strutturata in fasi o subprocedimenti, autonomi e distinti, che si chiudono con un provvedimento autonomo che non è ritrattabile ex art. 487 cpc, ma solo impugnabile ex art. 617 cpc”.

[8] Cfr BRUNO CAPPONI, Dieci anni di riforme sull’esecuzione forzata, articolo apparso su QG nel 2015, ove si legge che “possiamo affermare che la riforma dell’art. 512 cpc ha posto sulla scena un g.e. che non si limita ad eseguire, ma conoscere allo scopo di eseguire”.

[9] cfr ad es. La proprietà immobiliare urbana, Il procedimento divisorio, tomo II, Giuffrè 2008, pag. 1111 e ss).


Scarica Articolo PDF