Bancario


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 03/08/2016 Scarica PDF

Anatocismo e capitalizzazione - I promessi sposi sono convolati a nozze: con il nuovo art. 120 TUB si 'scardina' il presidio dell'art. 1283 c.c.

Roberto Marcelli e Antonio Giulio Pastore, Consulenti Finanziari


Sommario. 1. Premessa: anatocismo e capitalizzazione. 2. La capitalizzazione composta: la valanga dell’anatocismo. (pag. 6).  3. Il mercato finanziario e il mercato del credito: la concorrenza fa la differenza. (pag. 18). 4. L’apertura di credito e lo scoperto di conto. (pag. 27). 5. L’anatocismo e l’art. 1283 c.c. (pag. 34). 6. Sintesi e conclusioni: la Banca d’Italia in soccorso agli intermediari. (pag. 36).


     

1. Premessa: anatocismo e capitalizzazione

La rilevanza e delicatezza della funzione ricoperta dall’intermediario bancario, nel collegamento fra i centri di formazione del risparmio e di impiego delle risorse finanziarie, ha giustificato - nella stesura del TUB e nel successivo decennio – una speciale protezione da parte dell’Organo legislativo, una particolare prudenza e tolleranza da parte dell’Organo di Vigilanza, nonché un misurato e cauto interventismo dell’Organo giudiziario.

In questo generale quadro informato alla moderazione, con la concentrazione e privatizzazione dell’operatore bancario, avviata nei primi anni ’90, si sono radicalmente modificate le logiche di conduzione della politica aziendale degli intermediari: le finalità di interesse pubblico – tutela del risparmio e corretta allocazione del credito – risultano ormai condizionate da spinte opportunistiche di bilancio che incontrano un debole presidio negli interventi dell’Organo di Vigilanza.

Con la più recente evoluzione giurisprudenziale un muro di variegate mistificazioni è venuto cadendo, dipanando un assetto di comportamenti bancari ‘aggressivi’, in una logica di profitto non dissimile da un’ordinaria impresa. Modalità operative, estese all’intero sistema, nella scarsa consapevolezza e nella marcata soggezione del cliente, hanno piegato e condizionato alle esigenze e interessi dell’operatore bancario le norme e i principi giuridici che presiedono il mercato del credito. I presidi alla trasparenza hanno esercitato uno scarso temperamento allo squilibrio dei rapporti contrattuali[2].

Anatocismo e capitalizzazione, due distinti e contrapposti fenomeni, sono risultati per lungo tempo arbitrariamente assimilati e unificati nel sistema di contabilizzazione dei rapporti bancari, realizzando forme traverse di elusione e disapplicazione di principi storicamente radicati nell’ordinamento giuridico.

L’art. 1283 c.c., nonostante le rigorose e reiterate pronunce della Suprema Corte, non ha mai trovato applicazione; nell’asimmetria contrattuale una continua contrapposizione e conflittualità si è venuta sviluppando nel corso del tempo.

La Cassazione, con più sentenze del 1999, aveva riportato in asse il baricentro, relegando la liceità dell’anatocismo alle due specifiche circostanze contemplate dall’art. 1283 c.c.[3]: è seguito il d. lgs. 342/99 di modifica dell’art. 120 TUB e la tempestiva Delibera CICR 9/2/00 che ha consentito agli intermediari di derogare dall’art. 1283 c.c.. Il provvedimento legislativo presentava, tuttavia, una palese forzatura: il 3 comma dell’art. 25, che prevedeva la validazione delle pregresse clausole anatocistiche, veniva a cadere per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 425/00 e le clausole anatocistiche stipulate in precedenza venivano così rimesse all’ordinaria disciplina, che all’art. 1283 c.c. ne stabilisce la nullità.

Successivamente la Cassazione, con la sentenza n. 24418/10, precisava il processo di pagamento degli interessi, escludendo ogni forma spuria di automatica capitalizzazione degli stessi; un intervento legislativo (legge n. 10/11, provvedimento ‘mille proroghe’), che con una singolare interpretazione, attribuiva valore e rilievo all’annotazione in conto, non superava il vaglio della Corte Costituzionale.

E’ intervenuto poi il provvedimento legislativo n. 147/13, art. 1, comma 629, che, modificando nuovamente l’art. 120 TUB, rimuoveva la deroga all’anatocismo introdotta dalla Delibera CICR 9/2/00: tale rimozione è rimasta in un limbo regolamentare e, caduto un primo tentativo di modifica con il D.L. n. 91/14, più recentemente, con un emendamento al DL 18/2016, l’art. 120 TUB è stato nuovamente modificato, ripristinando, seppur su una periodicità annuale, l’anatocismo nei rapporti di conto corrente[4].

La nuova formulazione dell’art. 120 TUB risulta, in alcuni passaggi, alquanto criptica e confusa: un aspetto, in particolare, viene a ‘scardinare’ principi che l’ordinamento ha reiteratamente presidiato a tutela dell’utente bancario; il nuovo art. 120 TUB prevede al punto b) ‘ …. il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è considerata sorte capitale’.

Con questa formulazione – proposta e sostenuta dalla Banca d’Italia – si torna ad introdurre una deroga all’art. 1283 c.c. ancor più pervasiva di quella prevista dalla Delibera CICR 9/2/00: la lusinga della periodicità annuale del computo degli interessi è accompagnata da uno ‘stravolgimento’ dei principi di pagamento stabiliti dalla Cassazione n. 24418/10, con la rimozione della fondamentale distinzione fra anatocismo e capitalizzazione. Non si ha più la produzione di interessi su interessi: più semplicemente, la somma addebitata diviene capitale.

Divieto di anatocismo e interessi bancari: questo connubio non sembra proprio che s’abbia da fare, né domani, né mai. Eppure il divieto di anatocismo, con i correttivi previsti dall’art. 1283 c.c., assolve ad una pregnante funzione sociale, oltre che economica. I presidi posti dalla norma – senza pregiudicare sostanzialmente i diritti del creditore – sono volti ad evitare che la pratica dell’anatocismo diventi un “moltiplicatore incontrollabile” del costo del credito, tutelando la posizione del debitore da ogni forma di abuso di tale prassi, spesso considerata come uno degli espedienti più insidiosi per dissumalre la pratica di usura[5].

L’anatocismo è fenomeno ben distinto dalla capitalizzazione: il primo è stato spesso mistificato nel secondo per non incorrere nel divieto posto dall’art. 1283 c.c.: sopravanzando il dettato normativo, si è assegnato all’annotazione in conto un significato che la giurisprudenza ha sempre rigettato.

La confusione trae presumibilmente origine dalla circostanza che la fungibilità del denaro impedisce sul piano economico una distinzione delle somme attinenti agli interessi dalle somme attinenti al capitale, distinzione che viene invece attentamente considerata nel divieto disposto dall’art. 1283 c.c.[6]

Con il termine ‘capitalizzazione degli interessi’ ci si vuole spesso riferire non all’aspetto giuridico di trasformazione degli interessi in capitale, quanto ai risvolti matematici della produzione di interessi, che, funzionali al tempo, rimangono indipendenti dalla natura, accessoria o principale, delle poste interessate.

In matematica l’interesse alla scadenza si fonde e scompare nel montante: non permane alcuna distinzione fra interessi e capitale. Sul piano giuridico il credito da interessi, non si trasforma alla scandenza in capitale: la norma, anche quando con la Delibera CICR 9/2/00 si è derogato dal principio generale disposto dall’art. 1283 c.c., ha previsto esclusivamente la produzione di interessi su interessi, non la loro capitalizzazione.

I due fenomeni, capitalizzazione e anatocismo risultano, in chiave giuridica, paradossalmente opposti, nel senso che si escludono a vicenda. Conducono matematicamente al medesimo risultato economico-finanziario, ma in un quadro giuridico diverso: se c’è capitalizzazione, non vi è alcuna forma di anatocismo; la trasformazione degli interessi in capitale modifica l’obbligazione da accessoria in principale e non si realizza produzione di interessi su interessi, bensì produzione di interessi su capitale.

La commistione fra le due prospettive trova radice e sostegno nell’opaco meccanismo di contabilizzazione impiegato della banca, che fonde e confonde gli interessi al capitale.

Secondo i principi generali dettati dall’ordinamento giuridico, gli interessi derivano dal capitale con il decorso del tempo ma per gli stessi non è prevista alcuna automatica produzione di interessi: l’art. 1283 c.c. ne consente la produzione, se dovuti per sei mesi, attraverso una successiva convenzione o domanda giudiziaria. La norma ha un chiaro carattere protettivo, volto a limitarne il fenomeno e comunque a rendere consapevole il debitore dell’evoluzione ascendente indotta dall’anatocismo, che, in assenza di limiti e controlli, può facilmente condurre al dissesto economico. 

In ambito finanziario si distinguono e contrappongono due forme di capitalizzazione, quella semplice e quella composta. L’anatocismo si realizza solo in quest’ultima, mentre nella prima l’interesse viene calcolato e tenuto separato dal capitale: costituisce un importo che rimane improduttivo, cumulandosi alle distinte scadenze sino a quando non interviene il pagamento. L’art. 1283 c.c. non pone un divieto di interessi composti, ma ne regola la produzione circoscrivendola alle fattispecie nello stesso considerate.

Ben si comprende e qualifica il presidio disposto dall’art. 1283 c.c.: ‘La mancata previsione della possibilità di porre in essere patti contrari (se non nei limiti dalla norma stessa indicati) trova, invece, la sua spiegazione nelle finalità che la norma di cui all’art. 1283 c.c. si prefigge. Come è stato ricordato da Cass. n. 2374 del ’99: “Le finalità della norma sono state identificate, da una parte, nella esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurari, e dall’altra, nell’intento di consentire al debitore di rendersi conto del rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell’inadempimento (onere della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di sottoscrivere l’apposita convenzione, l’esatto ammontare del suo debito. Richiedendo che l’apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi, il legislatore mira anche ad evitare che l’accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per poter accedere al credito. (…) pur rimanendo nei limiti del tasso soglia, le conseguenze economiche sono diverse a secondo che sulla somma capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti. E’ stato, infatti, osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del cinque per cento si raddoppia in venti anni, mentre con la capitalizzazione degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa quattordici anni’. (Cass. n. 2593 del 20 febbraio 2003).

   

2. La capitalizzazione composta: la valanga dell’anatocismo

Il tasso nominale (TAN) di un finanziamento è indicativo del costo, ma è un tasso semplice rapportato all’anno che non tiene conto dei tempi di pagamento: il tasso che invece risulta onnicomprensivo di tutti gli aspetti economico-finanziari del finanziamento – ivi compresi, all’occorrenza, oneri, spese e commissioni - è appunto il tasso annuo effettivo globale (TAEG), uniformemente impiegato nelle transazioni finanziarie[7]. Per ogni operazione, quale che siano i termini di pagamento, si calcola, per equivalenza finanziaria, il TAEG, cioè il tasso composto annuo che esprime una riproduttività annuale degli interessi[8].

Il tasso composto è la logica risultante della fruttuosità del capitale: se gli interessi, con il regolare pagamento, divengono capitale che può essere nuovamente impiegato, generando interessi, si giustifica – sul piano prettamente economico-finanziario – una pari produttività degli interessi scaduti e rimasti impagati, che, attraverso la capitalizzazione, vengono a ‘comporsi’ fruttando nuovi interessi (anatocismo); in altri termini, la mancata disponibilità degli interessi scaduti trova compensazione nella capitalizzazione che replica la fruttuosità del capitale liquido ed esigibile. Dalla fruttuosità stessa del capitale discende il naturale regime dell’interesse composto al quale si ricollega la formula del TAEG.

Il TAN presenta una proiezione temporale di tipo lineare, mentre il TAEG presenta una proiezione temporale di tipo esponenziale.

Per un finanziamento di 100, il tasso annuo del 10% (TAN), può essere pagato trimestralmente, semestralmente o annualmente. Se pagabile trimestralmente, il prenditore dei fondi dovrà pagare 2,5 trimestralmente che possono immediatamente produrre nuovi interessi; il TAN restituisce in capo ad un anno il tasso del 10%, mentre il TAEG restituisce in capo ad un anno il tasso del 10,38%. La formula del TAEG ricomprende e valorizza il tempo dei pagamenti: 10% annuo semplice, pagato trimestralmente corrisponde al rendimento effettivo del 10,38%, più alto del rendimento semplice del 10% in quanto il creditore beneficia, prima della scadenza dell’anno, dell’importo degli interessi che, reimpiegati sempre al 10%, producono appunto a fine anno un monte interessi di 10,38: sul piano finanziario pagare 2,5 per quattro trimestri risulta equivalente a pagare 10,38 alla fine dell’anno. Non vi è anatocismo se l’interesse viene regolarmente pagato alla scadenza trimestrale convenuta, mentre vi è anatocismo se l’interesse viene trimestralmente contabilizzato impropriamente a capitale.

Nella formula del TAEG il tasso è composto, sia che gli interessi vengano pagati sia che vengano capitalizzati. Il tasso effettivo annuo fornisce un’informazione corretta, completa e trasparente, consentendo il confronto e favorendo per questa via la concorrenza sul mercato.

Il TAN, tasso semplice, è funzionale alla capitalizzazione semplice, termine poco felice che vuole indicare ‘senza capitalizzazione’. Il TAEG, tasso composto, è funzionale alla capitalizzazione composta ed è anche uniformemente impiegato, a prescindere che sia prevista o meno la capitalizzazione, per misurare l’effettivo costo del finanziamento.

Un mutuo al tasso del 10%, con ammortamento alla francese, presenta un costo diverso se pagato trimestralmente o annualmente: ciò che individua il costo effettivo è il TAEG (rispettivamente 10,38% e 10%), non il TAN; un TAEG maggiore del TAN non è tout court assimilabile all’anatocismo: ancorché il piano di ammortamento trimestrale comporti un costo maggiore, non si ha né pagamento di interessi su interessi, né tanto meno capitalizzazione di interessi.

Come detto, il tasso composto, implicito nell’anatocismo, si sviluppa su una proiezione esponenziale: proprio tale aspetto può determinare, nella concessione del credito, per tassi elevati e un periodo protratto nel tempo, effetti disastrosi, in grado di scardinare ogni equilibrio di bilancio.

La dinamica dell’anatocismo non è di immediata percezione: l’interesse anatocistico trasfigurandosi in capitale rimane ‘affogato’ nello stesso; il meccanismo di capitalizzazione composta priva di trasparenza l’avvitamento nel tempo dell’anatocismo, celando, al termine dell’operazione, la dimensione del capitale effettivamente utilizzato e degli interessi cumulati nel tempo. L’effetto diviene particolarmente insidioso nel tempo quando, lievitando l’importo, rimane più arduo il reperimento delle risorse e si innesca una perniciosa spirale ascendente, che spesso risulta accelerata dagli incrementi del tasso di interesse, adeguati ex art. 118 TUB al deterioramento del merito di credito.

Il meccanismo degli interessi composti assume connotazioni tecniche strettamente legate alla durata e al tasso.

Nella tabella qui di seguito riportata è indicato, per un credito iniziale di 100 e un tasso nominale annuo del 10%, l’evoluzione del montante in quindici anni: i) in capitalizzazione semplice; ii) in capitalizzazione composta; iii) in capitalizzazione composta con tasso progressivo, in linea con il decadimento del merito di credito.

Il grafico mostra il tracciato esponenziale della capitalizzazione composta; l’effetto della capitalizzazione composta è modesto nei primi anni ma cresce rapidamente: il divario si comincia ad avvertire negli anni. Il raddoppio del capitale, che nella capitalizzazione semplice interviene al 10° anno, in quella composta si raggiunge prima dell’8° anno (prima del 7° anno con l’interesse progressivo ipotizzato). Per un tasso nominale annuo del 10%, un capitale di 100, dopo 15 anni, si attesta a: i) 250 in capitalizzazione semplice; ii) 418 in capitalizzazione composta; iii) 589 se consideriamo un tasso progressivo per il decadimento del merito di credito[9].

La velocità di ascesa dell’indebitamento si accentua ulteriormente se la periodicità della capitalizzazione interviene trimestralmente anziché annualmente (Cfr. Grafico 1 allegato).

L’anatocismo è altresì funzione del tasso, che condiziona ancor più significativamente l’accelerazione degli interessi composti. Il percorso di ascesa del debito si amplifica tanto più rapidamente e tanto più significativamente quanto maggiore è l’interesse: ad un tasso del 20% annuo, il capitale si raddoppia in soli quattro anni e si decuplica in meno di tredici anni. 

 

Al crescere del tasso l’effetto anatocistico diviene devastante: dopo dieci anni, ad un tasso del 20%, il montante è pari ad oltre 6 volte il capitale iniziale (100) e gli interessi maturati risultano pari a quelli rivenienti da un interesse semplice del 51,92% annuo. L’effetto è ancor più marcato con la capitalizzazione trimestrale (Cfr. Grafico 2 allegato).

Il montante di un interesse composto espresso in termini di interesse semplice equivalente da l’immediata evidenza del divario che nel tempo si determina fra capitalizzazione semplice e capitalizzazione composta.

Come mostra la tabella, tasso e durata operano congiuntamente: un tasso annuo composto del 10% è equivalente ad un tasso semplice del 15,94% su una durata di 10 anni e ad un tasso semplice del 21,18% su una durata di 15 anni; un tasso composto del 20% è equivalente ad un tasso semplice del 51,92% su una durata di 10 anni e ad un tasso semplice del 96,05% su una durata di 15 anni. Passando alla capitalizzazione trimestrale i tassi equivalenti lievitano, seppur in misura moderata.

Il confronto fra tasso composto e tasso semplice equivalente segna rapidamente un marcato divario al crescere del tasso e della durata, fornendo una misura dell’effetto devastante che si cela nell’anatocismo decorsi i primi anni. Per contro la periodicità, trimestrale o annuale, non induce una particolare incidenza nella misura del divario.

Il confronto mette in luce altresì come la tutela del prenditore di fondi vada ricercata, più che nella periodicità di scadenza degli interessi, nella trasparenza, consapevolezza e moderazione del meccanismo di lievitazione dell’interesse.

Sotto una diversa angolatura, si può misurare il divario che si viene a creare fra capitalizzazione semplice (interesse semplice) e capitalizzazione composta (interesse composto), distinguendo, nella lievitazione del debito, la componente semplice degli interessi prodotta dal capitale inizialmente erogato, dalla componente anatocistica prodotta dagli interessi sugli interessi. Nella tavola che segue sono riportate, per un capitale iniziale di 100, capitalizzato annualmente, le due componenti, sia in termini assoluti, sia in termini percentuali.

Per un capitale iniziale di 100 e per un tasso nominale del 5%, la componente anatocistica presenta, sul totale degli interessi, un’incidenza compresa fra il 9,5% sulla scadenza di cinque anni e il 30,5% su una scadenza di quindici anni; al crescere del tasso nominale la componente anatocistica tende a divenire dominante: per un tasso nominale del 20% la componente anatocistica assorbe una porzione degli interessi compresa fra il 32,8% sulla scadenza quinquennale e il 79,2% sulla scadenza di quindici anni.

Il tempo, soprattutto su tassi elevati, determina un innalzamento del debito che diviene deflagrante per l’incidenza dell’anatocisno, inducendo un’accelerazione alla lievitazione e determinando un effetto assimilabile ad una valanga.

 
 

La deroga disposta dalla Delibera CICR 9/2/00 ha impedito che l’art. 1283 c.c. dispiegasse i suoi effetti raffrenanti il reiterato impiego dell’anatocismo. Rimane, pur tuttavia, operativo il presidio integrativo disposto dall’art. 2948 c.c., punto 4, che quanto meno impedisce il protrarsi del debito degli interessi oltre il quinquennio; il principio di prescrizione fissato dalla Cassazione S.U. n. 24418/10 dischiude risvolti ad oggi del tutto trascurati: se non sono più ripetibili le rimesse solutorie che hanno pagato interessi illegittimi esigibili oltre il decennio a ritroso, parimenti gli interessi a debito, annotati in conto ed esigibili, decorso il quinquennio, ancorché legittimi, si prescrivono e non posssono essere più pretesi dalla banca. Il presidio disposto dall’art. 2948 c.c. può costituire, per gli anni pregressi – prima e dopo la Delibera CICR 9/2/00 –, un rimedio sostanziale all’indiscriminata reiterazione dell’anatocismo[10]. Per altro, se l’intermediario creditizio, senza una corretta istruttoria del credito, lascia che il debito si amplifiche attraverso l’automatica lievitazione indotta dall’anatocismo si possono altresì ravvisare elementi di abusiva erogazione del credito.

Operativamente, soprattutto nelle aperture di credito a tempo indeterminato, la reiterata riproduzione dell’anatocismo viene celata nel sistema di contabilizzazione impiegato dalla banche, così che, nel roll over periodico, si perde la dimensione degli interessi riconosciuti sul capitale inizialmente erogato.

Se gli interessi fossero evidenziati distintamente dal capitale e il cliente acquisisse consapevolezza della rapida ascesa indotta sul monte interesse dal meccanismo di lievitazione composta, porrebbe una maggiore attenzione e cautela nel rinviare indefinitamente il pagamento degli stessi. Al contrario il sistema di contabilizzazione impiegato dalla banca passa immediatamente a montante, al termine di ciascun trimestre, gli interessi maturati, realizzando una impropria capitalizzazione, che impedisce di acquisire consapevolezza ed avere memoria degli interessi che cumulandosi gradualmente nel tempo vengono a comporre l’esposizione finanziaria.

La clientela meno accorta e finanziariamente sprovveduta, se non viene puntualmente richiamata al pagamento periodico degli interessi, nei termini convenuti contrattualmente, può facilmente essere indotta a procrastinare il pagamento stesso e, nell’inconsapevolezza del meccanismo di lievitazione, essere travolta da impegni finanziari che esorbitano le ordinarie risorse di reddito disponibili. In tali circostanze, più che presidi passivi di trasparenza dei termini contrattuali, un più incidente coinvolgimento dell’intermediario - chiamato a valutare l’adeguatezza del rapporto di credito e la coerenza della natura del credito stesso con l’esigenza del cliente - potrebbe evitare le reiterate insolvenze alle periodiche scadenze, con il palese rischio di depauperamento del patrimonio del cliente. In altri termini, la tutela del cliente è resa più pervasiva sopravanzando gli obblighi di trasparenza con un più stringente presidio ai principi di correttezza, professionalità e buona fede in capo all’intermediario.

Il presidio posto dall’art. 1283 c.c. fissa un arresto che, di fatto, non impedisce l’anatocismo, ma più semplicemente ne ostacola un’agevole e inconsapevole reiterazione. Il creditore rimane tutelato, in un coretto equilibrio con la protezione che si rende necessario prestare al debitore che si trova nell’impossibilità di assolvere gli impegni assunti.

Gli imprenditori, posti frequentemente nell’immediata esigenza di liquidità, non usi ad una ponderata programmazione finanziaria, vengono  indotti dagli stessi automatismi contabili di capitalizzazione a rinviare il pagamento degli interessi che, procrastinati nel tempo, avvitano l’esposizione in una spirale ascendente, pregiudicando rapidamente la possibilità di rimborso.

La periodicità, trimestrale od annuale, di calcolo degli interessi ha un’incidenza modesta sulla lievitazione del debito. La criticità si rinviene nell’automatismo della capitalizzazione, già preordinato contabilmente, che favorisce la reiterazione e sottrae al cliente l’autonomia e la responsabilizzazione, in una sorta di assenso sopito e vincolato. Così come per ogni altro fornitore di servizi, si renderebbe necessaria una specifica e libera disposizione di pagamento, senza la quale la banca non dovrebbe automaticamente mutare gli interessi in capitale: al contrario, l’importo viene automaticamente sottratto dalla disponibilità del cliente, determinando in tal modo una corsia privilegiata di pagamento del capitale, rispetto agli altri fattori che intervengono nell’attività d’impresa.

D’altra parte non si può trascurare che le forme di credito a revoca appaiono più rispondenti alle esigenze dell’intermediario che a quelle dell’imprenditore. Se il credito concesso dagli intermediari fosse più aderente ai tempi di ritorno dell’impiego – e non fosse, anche per investimenti a medio lungo termine, condizionato a scadenze ravvicinate e rinnovate – la patologia dell’insolvenza alla scadenza risulterebbe ridimensionata.

In una situazione di palese dominanza, troppo spesso forma, tipologia e durata del credito offerto vengono dagli intermediari modellate e piegate alle proprie esigenze di gestione, in luogo di accostarle alle esigenze del cliente e agli effettivi ritorni dell’investimento finanziato, contando sulla lievitazione indotta dall’anatocismo e sulle prerogative di protezione offerte dalle garanzie reali e personali, nonché dalla discrezionalità di revoca del fido.

E’ compito e responsabilità dell’intermediario verificare e monitorare la coerenza fra il credito concesso e il suo costo da un lato, con le capacità di reddito del consumatore e di ritorno dell’impiego finanziato dall’altro: le garanzie reali e personali assumono una funzione sussidiaria e non possono colmare o sopperire una corretta istruttoria del merito di credito[11].

Il divieto di anatocismo persegue lo scopo di sospingere il cliente ad una autodisciplina, inducendolo ad una maggiore responsabilizzazione nel momento in cui dispone il pagamento degli interessi, acquisendo una maggiore consapevolezza dell’incidenza del costo del credito e della provenienza delle risorse impiegate per il relativo pagamento: se rivenienti dalla liquidità prodotta dall’azienda o dal reddito del proprio lavoro, o se, invece, per colmare le proprie carenze finanziarie, debba far ricorso all’ulteriore credito disponibile presso la banca e/o erodere il proprio patrimonio.

Il mercato del credito non può essere assimilato al mercato finanziario: profonde differenze caratterizzano i due mercati.

A differenza del mercato creditizio, il mercato finanziario presenta connotazioni di elevata trasparenza, professionalità e concorrenza: in tale mercato l’impiego diffuso e condiviso dell’interesse composto non da luogo ad alcuna forma di discrasia o misleading; costituisce invece lo strumento finanziario più corretto ed efficiente per una scelta razionale di impiego.

Sul mercato finanziario, soprattutto su lunghe scadenze, l’azione di un’efficiente concorrenza mantiene i tassi, a meno di circostanze particolari, su valori apprezzabilmente compressi, con un effetto dell’anatocismo relativamente modesto: gli zero coupond bond, come anche le obbligazioni a lungo termine presentano, di regola, tassi ad una cifra di modesta dimensione; bisogna accostarsi a prodotti finanziari deteriorati, obbligazioni ‘spazzatura’, per incontrare rendimenti a due cifre.

In un mercato concorrenziale il tasso composto è la regola di efficienza: non si rendono necessarie ingerenze pervasive della norma. In un mercato che non è concorrenziale, il tasso composto non conduce all’efficienza ma a forme di opportunismo e rendite di posizione: si impongono norme di protezione a tutela del contraente debole.

Il mercato del credito presenta ampi spazi di inefficienza e la diffusa presenza di operatori retail che subiscono, in assenza di concorrenza, una significativa asimmetria informativa e contrattuale. In tali circostanze, senza il dispiego di una più incisiva regolamentazione a protezione, ne viene pregiudicato l’accesso e viene compromesso il naturale supporto che tale mercato deve prestare allo sviluppo economico del paese.

Per diverse tipologie di credito si riscontrano tassi nominali a due cifre.  I tassi medi di mercato rivenienti dalle segnalazioni trimestrali dell’usura, più che la rilevazione generale dei tassi condotta anch’essa dalla Banca d’Italia, esprimono compiutamente, per ciascuna categoria di credito, l’effettivo costo che la diffusa compagine di operatori retail sopporta nell’utilizzo di finanziamenti sia rivolti al consumo che all’attività d’impresa. Soprattutto nei rapporti di conto, nel finanziamento alle Famiglie, negli scoperti e nel leasing si riscontrano le sacche di maggiore inefficienza del mercato.


 

A fronte di un costo della provvista pressoché nullo, i tassi relativi allo ‘Scoperto senza affidamento’ e al credito revolving arrivano a collocarsi, nel valore medio nell’intorno del 15% e nel valore massimo oltre il 20%[12].

Per le imprese italiane, scarsamente patrimonializzate, il credito bancario rimane prioritario, pressoché esclusivo, coprendo il 91% dei finanziamenti totali (dati BCE). L’importanza della PMI è particolarmente accentuata in Italia dove assorbe l’81% della forza lavoro, contro il 46% del Regno Unito e il 39% di Francia e Germania (dati Eurostat 2008). La quasi totalità delle imprese italiane sono PMI, distinte in PMI-retail (fatturato fino a 5 milioni e finanziamenti fino a 1 milione) e PMI-corporate (fatturato compreso tra 5 e 50 milioni e finanziamenti superiore a 1 milione).

Pur considerando i più incisivi oneri di istruttoria e gestione che caratterizzano i crediti di minor dimensione, i tassi praticati nel credito al settore Famiglie e all’ampia compagine delle piccole imprese, confrontati con i tassi del mercato dei capitali, danno conto delle pregnanti carenze di efficienza che interessano ampi comparti del mercato del credito[13].

L’anatocismo, se applicato per brevi periodi e per tassi moderati, risulta un fenomeno dai risvolti sostenibili, assimilabili a quelli che si riscontrano sul mercato finanziario. Applicato per lunghi periodi su tassi elevati, l’anatocismo diviene disastroso: si può ragionevolmente ritenere che, ad un tasso del 20%, un’impresa non può ricavare, di regola, dall’impiego del credito concesso, margini sui ricavi sufficienti al pagamento degli interessi alla scadenza: quando vi provvede erode il proprio patrimonio.

Se le condizioni contrattuali del finanziamento non vengono correttamente commisurate alla capacità di rientro del cliente, l’impossibilità, alla scadenza, di far fronte al pagamento degli interessi, pone il cliente in una spirale ascendente del debito che, prorogata nel tempo, si accentua a dismisura; la spirale ascendente risulta ulteriormente accelerata dal rialzo dei tassi che usualmente l’intermediario accompagna all’automatica capitalizzazione degli interessi, in linea con il deterioramento del merito di credito che il mancato pagamento degli interessi induce; né il cliente, sotto la ‘gogna’ della revoca, è in condizione di negoziare il tasso dell’esposizione.

L’anatocismo, vale a dire l’interesse composto, è il naturale principio che presiede e conduce all’efficienza un mercato concorrenziale, come il mercato dei capitali: trasporre da tale mercato una libera applicazione dell’anatocismo al mercato del credito, aggravando oltre tutto gli effetti con la mora estesa agli interessi, senza i correttivi e i temperamenti previsti dall’art. 1283 c.c., accentua ineluttabilmente le forme di sovra-indebitamento e dissesto economico.


3. Il mercato finanziario e il mercato del credito: la concorrenza fa la differenza

La domanda e l’offerta di risorse economiche sono governate da un lato dall’utilità marginale del prenditore e dall’altro dal costo della raccolta e gestione dell’offerente. In un mercato concorrenziale, in assenza di vincoli e razionamenti, come per ogni prodotto, il tasso di equilibrio tende a ‘schiacciarsi’ sul costo del servizio mentre in un mercato imperfetto il tasso di equilibrio tende a ‘schiacciarsi’ sull’utilità marginale del prenditore.

In presenza di vischiosità di mercato, di forme di cartello e situazioni di oligopolio che ostacolano la concorrenza, i tassi praticati dagli intermediari tendono a cogliere rendite di posizione, elevandosi oltre i costi di provvista e di copertura del rischio, sino ad erodere significativamente l’utilità marginale del prenditore di fondi.

Nel mercato finanziario, ampiamente evoluto ed efficiente, la presenza stessa di operatori specializzati consente di utilizzare al meglio le informazioni disponibili e di pervenire a prezzi di equilibrio che meglio commisurano il tasso al rischio del prenditore finanziato, senza alcun free lunch per il datore di fondi. Le grandi imprese che accedono a tale mercato possono trovare l’opportunità di raccogliere risorse finanziarie nella forma e con le scadenze più congeniali all’investimento da realizzare, a condizioni di tasso che rispecchiano efficientemente il costo del denaro e il rischio implicito nel finanziamento. In tale mercato la funzionalità, efficienza e specializzazione evita l’insorgere di posizioni di cartello e rendite di posizione: i tassi negoziati sul mercato tendono ad allinearsi ai costi necessari ad assicurare la remunerazione del denaro e coprire il rischio dell’impiego.

Le piccole e medie imprese, per ostacoli di natura dimensionale, informativa e organizzativa, dispongono di uno scarso accesso al mercato dei capitali: possono contare pressoché esclusivamente sul credito bancario.

Nel mercato del credito il particolare assetto normativo posto a tutela della delicata funzione assolta dall’intermediario si accompagna ad un endemica assenza di concorrenza e ad una pervicace uniformità dell’offerta, determinando rapporti bancari pervasi da una pregnante asimmetria contrattuale, oltre che informativa.

Nel credito, diversamente dal mercato finanziario, è possibile individuare un’ampia fascia del mercato - costituita da operatori retail, consumatori e piccole/medie imprese - nella quale la concorrenza è pressoché assente, l’offerta del denaro risulta razionata ed i tassi risultano apprezzabilmente elevati, spesso marcatamente discosti dal costo del servizio prestato.

Nei rapporti bancari, rimessi all’assoluta disponibilità, dominanza e discrezionalità dell’intermediario, è venuto emergendo un crescente ricorso a garanzie reali e personali, con reazioni imprenditoriali all’asimmetria contrattuale volte a limitare il capitale immesso nell’impresa e tenere separati e tutelati, attraverso forme traverse, celate e surrettizie, i patrimoni personali e familiari. La distorsione e conflittualità dei rapporti alimenta l’inefficienza del mercato che si riflette, in primis, sugli intermediari e da questi ribaltata sui costi del credito in una spirale ascendente che si autoalimenta.

Le gravi carenze di concorrenza nel settore del credito consentono l’impiego indiscriminato di contratti di adesione nei quali l’intermediario stabilisce – in piena discrezionalità – tassi, modalità e termini di erogazione del credito. In assenza di concorrenza, l’asimmetria nei poteri negoziali induce, da parte degli intermediari creditizi, diffuse prassi comportamentali spregiudicate, che distorcono l’equilibrio negoziale, cogliendo opportunisticamente i momenti di maggiore debolezza e precarietà della clientela.

I livelli di consapevolezza ed emancipazione finanziaria della nutrita schiera di piccoli imprenditori non è dissimile da quella che si riscontra nel consumatore, con un’ampia casistica di insolvenze che si riflette, a domino, sul regolare funzionamento del mercato reale, pregiudicando lo stesso sviluppo economico del paese.

In un mercato concorrenziale ed efficiente, non risulterebbero praticabili rapporti di credito squilibrati e pratiche di inasprimento delle condizioni, esasperate da un reiterato ed automatico anatocismo e commisurate alla dipendenza negoziale e finanziaria del cliente.

Anche il presidio penale all’usura, unico baluardo ad un’incontrollata ascesa dei tassi, viene ad essere piegato ad una celata strumentalizzazione: le soglie d’usura risultano indurre, in una tacita collusione, un indebolimento della concorrenza, assumendo la veste di valori di riferimento nelle decisioni sul prezzo del credito[14]. La modalità endogena di rilevazione del tasso soglia sortisce, fra un trimestre e il successivo, un effetto perverso di crescita (échelle de perroquet) nella misura in cui l’intermediario finanziario è sospinto a praticare tassi prossimi alla soglia[15],.

La problematica dell’anatocismo e le ricadute sociali ed economiche si pongono soprattutto per il credito al consumo e l’ampia schiera di piccole e medie imprese, settori finanziariamente fragili, caratterizzati da una scarsa professionalità finanziaria, che subiscono passivamente le diffuse forme di finanziamento, particolarmente insidiose, opache ed onerose.

Sul fronte del credito al consumo è particolarmente avvertita la problematica del sovra-indebitamento, indotta spesso da allettanti proposte di finanziamento, dai costi poco trasparenti, non compiutamente commisurati al servizio prestato, che favoriscono un accesso poco responsabile al consumo immediato, senza una piena consapevolezza degli effetti di lievitazione accelerata dell’indebitamento, indotta dal meccanismo di anatocismo. Questo sospinge un maggior razionamento del credito al settore Famiglie da una parte e un più esteso fenomeno dei sovra-indebitamenti dall’altro, e si riflette, a livello di sistema, in un freno ai consumi ed ad un’esasperazione delle problematiche umane e sociali.

Dai dati di fonte BCE, elaborati dalla Banca d’Italia, emerge, per il credito al settore Famiglie un costo sistematicamente più elevato del valore medio riscontrato nell’areo Euro, che si attesta nel 2014 su un livello di tassi del 30% maggiori, rispetto agli altri paesi europei, sia nei prestiti per l’acquisto delle abitazioni, sia nel credito al consumo.


 

La situazione del credito alle imprese non è dissimile.

Dai dati di fonte BCE emerge, oltre ad un maggior razionamento del credito, un costo del credito per le imprese italiane significativamente più elevato di quelle francesi e tedesche: i dati censiti tuttavia non includono le erogazioni di prestiti in conto corrente che, come sopra evidenziato, per le piccole e medie imprese italiane, assumono una significativa dimensione e presentano un costo notevolmente più elevato degli altri finanziamenti[16].



Occorre per altro osservare che i dati statistici del credito risultano falsati nella rilevazione di sistema: il credito non è eguale per tutti.

L’ampia fascia di operatori retail presenta costi del credito che si discostano sensibilmente da quelli riportati nei dati medi di sistema armonizzati elaborati dalla Banca d’Italia. Consumatori e piccoli imprenditori, anche per impieghi a più ampia scadenza, vengono finanziati con credito a revoca e forme di anatocismo che, nella dimensione del tasso e nella frequenza della capitalizzazione, determinano una esasperata lievitazione dell’indebitamento.

Le ristrettezze nell’offerta del credito e l’anomala dimensione che è venuto assumendo il credito a revoca e a breve termine – ampiamente scollegato dalle esigenze finanziarie dell’impresa – determinano una situazione di oligopolica dominanza. In questa cornice del mercato, l’ampio ricorso allo ius variandi per modificare le condizioni contrattuali vanifica ogni spinta alla concorrenza: ogni ragionata selezione e comparazione degli intermediari creditizi, con gli apprezzabili costi di spostamento dei rapporti, si scontra con l’instabilità e la precarietà delle nuove condizioni economiche offerte dall’intermediario.

I dati armonizzati, impiegati nei confronti con gli altri paesi della Comunità, non esprimono l’esatta misura della divergenza che subisce l’utilizzatore retail del credito, sia esso consumatore che piccolo imprenditore. Come riferisce il Governatore ‘il contenuto informativo riguardo alle condizioni praticate ai singoli debitori è parziale, poiché i tassi armonizzati sono calcolati come medie ponderate per gli importi, riguardano i soli prestiti non deteriorati e, per quasi tutte le tipologie di finanziamenti, sono calcolati al netto di commissioni o altri oneri’. Ben diverso è il costo del credito per la generalità degli operatori medio-piccoli, che trovano un più attendibile indicatore dalle statistiche rilevate dalla Banca d’Italia ai fini del contrasto all’usura. ‘Vengono calcolate in questo caso medie semplici dei tassi d’interesse, includendo anche i prestiti deteriorati, purchè non in sofferenza, e le commissioni; possono pertanto risultare superiori, in alcuni casi in misura rilevante, rispetto ai tassi armonizzati[17].

Per la stragrande maggioranza del tessuto imprenditoriale i costi del credito si commisurano al TEGM rilevato per le soglie d’usura (comprensivo di ogni commissione, onere e spesa e calcolato con la media aritmetica, non ponderata): solo le grandi imprese possono spuntare costi prossimi ai valori armonizzati pubblicati dalla Banca d’Italia.

Con un’inflazione prossima allo zero ed un costo della raccolta sotto zero – a giudicare dai tassi medi rilevati per le soglie d’usura - il costo del credito è rimasto ai livelli precedenti l’introduzione dell’Euro: il TEGM delle aperture di credito in c/c (< € 5.000), che era attestato sul 12% nel ’99, si posiziona oggi all’11,53% e al 16,00% per gli scoperti[18].

La remunerazione del risparmio si è ridotta a valori esigui con scarsi benefici per le imprese alle quali, attraverso l’intermediazione bancaria, tale risparmio affluisce a costi marcatamente elevati. Sia il risparmiatore che il prenditore di fondi rimangono ‘strozzati’ da una forbice dei tassi segnatamente allargata da risvolti patologici. Il costo del credito si colloca su livelli tra i più alti in Europa e viene a costituire per l’impresa nazionale un ulteriore sovraccarico economico, alla stregua di quello energetico e fiscale[19].

La stabilità degli intermediari non può essere perseguita a discapito dei consumatori e piccoli imprenditori, che vengono scontando un costo del credito del tutto scollegato dai costi di provvista. La tutela della funzione creditizia passa attraverso l’equilibrio dei rapporti, l’efficienza del mercato e l’affrancamento da perniciose rendite di posizione, in una strategia di sistema subordinata e preordinata allo sviluppo economico.

Si avverte l’esigenza di una rivisitazione dei criteri di gestione del credito, di una maggiore attenzione e rispetto della funzione pubblica assolta dal credito, di un esercizio più incisivo e pervasivo dei poteri di vigilanza, previsti dall’art. 5 del TUB, con riguardo all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia, oltre che di un apparato sanzionatorio in grado di condizionare le logiche costi-benefici e fungere da sostanziale deterrente di comportamenti che deviano il mercato su percorsi contrari all’interesse pubblico.

Gli interventi della Banca d’Italia e, da ultimo, la proposta di Delibera CICR dalla stessa avanzata e in buona parte ricompresa nella più recente formulazione dell’art. 120 TUB approvata dal legislatore, dispiegano una tutela dell’intermediario che, travalicando basilari principi posti dall’ordinamento a tutela della clientela bancaria, è suscettibile di accrescere la conflittualità e di ledere ulteriormente il corretto funzionamento del mercato.

Senza ‘scardinare’ l’equilibrio posto dall’art. 1283 c.c., si rende necessario trovare un’equa composizione dei diritti ed obblighi dallo stesso previsti. Una maggiore responsabilizzazione dell’intermediario e una migliore consapevolezza del cliente condurrebbe ad un proficuo ridimensionamento dell’asimmetria contrattuale, incidendo significativamente sulle pregiudiziali ad un più corretto ed efficiente funzionamento del mercato del credito.

   

4. L’apertura di credito e lo scoperto di conto

L’intermediario è preposto dall’ordinamento giuridico alla canalizzazione del risparmio verso il finanziamento dello sviluppo economico. Le risorse finanziarie sono un bene limitato e prezioso: salvo casi particolari e circostanziati, corroborati da ritorni economici significativi, ordinariamente non vi dovrebbero essere disponibilità per un rischio corrispondente a tassi marcatamente elevati. Tuttavia spesso non è il rischio che eleva il tasso. L’imprenditore lo subisce per semplice carenza di liquidità e il costo del credito, sino a valori effettivi superiori al 20%, non è che il ‘giogo’ risultante da comportamenti il più delle volte dissociati: il fido non viene concesso (o ampliato) ma, ciò nonostante, il credito viene erogato[20].

Le modalità di accesso al credito possono infatti assumere una veste particolare, o meglio singolare: il cliente non risulta affidato, o viene affidato per un importo inferiore all’effettivo credito erogato, mantenendo in essere uno scoperto prolungato, a tassi che si discostano dall’ordinario; in altre circostanze, in assenza di rientro, la chiusura del conto viene procrastinata nel tempo e gli interessi, ricondotti al limite estremo dell’usura, vengono lasciati lievitare attraverso il meccanismo automatico dell’anatocismo. La dinamica del fenomeno si è ulteriormente accentuata a partire dal 2010, quando la Banca d’Italia ha introdotto, enucleandola dall’apertura di credito, la categoria degli scoperti, innalzando in tal modo di oltre il 30% il tasso limite[21].

Le tipologie più diffuse di prodotti creditizi offerte in conto sono articolate in forme, modalità e scadenze che riflettono aspetti prevalentemente rispondenti alle esigenze di gestione e profittabilità dell’intermediario. Un ruolo di particolare interesse e rilievo per l’intermediario ma, di converso, fonte di pregnanti criticità per il cliente, è ricoperto, oltre che dall’anatocismo, dalla modalità a revoca (a tempo indeterminato) del credito e dalle garanzie richieste. 

Il credito in conto è una tipica fonte di finanziamento del sistema imprenditoriale italiano, tra le più onerose e le più precarie, quando assume la forma ‘a revoca’. E’ un’anomalia tutta italiana la circostanza che si finanzi spesso con credito a revoca ben oltre il capitale circolante. Tale peculiarità non è sfuggita al Governatore Visco che in un suo intervento ha osservato come: ‘la grande diffusione di questa forma tecnica in Italia, assai superiore che in quasi tutti gli altri paesi dell’area, rende necessaria una riflessione sul suo utilizzo. Le imprese devono valutare la possibilità di utilizzare metodi più efficienti e meno costosi di gestione della liquidità, nonché l’opportunità di accrescere il ricorso ai prestiti a scadenza fissa. Le banche devono assicurarsi che i servizi di liquidità inclusi nelle anticipazioni in conto corrente siano fatti pagare a un prezzo non superiore al valore del servizio effettivamente reso e che tenga in dovuto conto anche i vantaggi indiretti che le stesse banche ricavano dall’offerta di questi servizi’.

Più che sollecitazioni e sensibilizzazioni occorrono concreti interventi della Banca d’Italia, mirati alla concorrenza del mercato del credito: la stabilità e patrimonializzazione delle imprese bancaria non può essere perseguita e favorita attraverso rendite di posizione, offerte da un mercato diffusamente pervaso, in ogni specifico ganglio, da preminenti dominanze e rigidità che interessano l’importo finanziato, le modalità, i tempi di rientro e il prezzo. 

Nel finanziamento a revoca (a tempo indeterminato) l’intermediario assume un rischio a breve che, in un costante monitoraggio, viene sistematicamente prorogato nel termine: in ogni momento può essere modificato il tasso o revocato l’affidamento. Il cliente non ha alcuna certezza contrattuale, né di tasso né di durata: pur pagando una commissione dello 0,50% trimestrale, non può pienamente confidare sulla futura disponibilità del credito. Lo squilibrio negoziale è massimo: le ‘leve’ del contratto sono rimesse nella completa discrezionalità dell’intermediario.

Costituisce un paradosso esigere una commissione di affidamento del 2% annuo per la disponibilità di un credito revocabile in ogni momento, ad insindacabile giudizio dell’intermediario; comportamenti al limite dell’opportunismo potrebbero teoricamente prevedere la concessione del fido per poi recovarlo all’atto dell’utilizzo, lucrando la commissione per il periodo trascorso. Tale commissione costituisce, per gli affidamenti a revoca un iniquo ‘balzello’, per gli affidamenti a scadenza una ingiustificata duplicazione per la quota parte del credito utilizzato relativamente alla quale è cessato il servizio di ‘messa a disposizione’.

In assenza di alternative, in un mercato ‘appiattito’ su un pressoché uniforme contratto di adesione, il cliente subisce il ‘dettato’ della banca, pur consapevole che difficilmente potrà rispettare i tempi di rientro imposti all’atto dell’eventuale revoca del fido ed evitare, di riflesso, la segnalazione a tutto il sistema bancario. Al cliente non viene richiesto il distinto e puntuale pagamento degli interessi, che vengono invece automaticamente capitalizzati nel conto, erodendo il margine disponibile o sospingendo, all’occorrenza, l’esposizione oltre il fido.

Mancando l’efficienza e calmierazione indotta dalla concorrenza di mercato, la protezione indotta dalla trasparenza mostra ristretti limiti di efficacia: più penetranti obblighi e condizionamenti si rendono necessari a presidio di comportamenti opportunistici  posti in essere dagli intermediari. L’evoluzione dai tradizionali criteri di trasparenza a quelli di adeguatezza, che ha caratterizzato il collocamento di strumenti finanziari, deve, con modalità proprie, essere estesa più incisivamente al mercato del credito[22]. Alla ‘trasparenza’ delle condizioni contrattuali, con la riforma apportata dal d. lgs. 141/10, si è affiancata, all’art. 127 TUB, la ‘sostanziale’ correttezza dei rapporti con la clientela: il riferimento al merito dei rapporti richiama d’appresso l’adeguatezza delle soluzioni proposte alla situazione economica e finanziaria del cliente stesso[23].

L’operazione di finanziamento non è un servizio comune: all’erogazione del credito corrisponde una prestazione professionale, svolta in un ambito di attività riservata, curata attraverso una qualificata istruttoria sul merito di credito, misurato sulle capacità imprenditoriali, sulle condizioni patrimoniali e potenzialità reddituali del cliente. Una indiscriminata erogazione del credito, oltre a ledere gli equilibri dell’intermediario, può pregiudicare il patrimonio dell’impresa e sottrarre risorse allo sviluppo economico del paese[24].

L’expertise, la capacità professionale e l’informazione di cui dispone l’intermediario gli consentono di valutare, al momento dell’erogazione e nelle successive prorogatio del credito, se questo sia funzionale all’impresa e se l’imprenditore possa sostenere l’impegno assunto, sia nel costo corrente degli interessi, sia nel rimborso alla scadenza del finanziamento ricevuto. Il credito, anche se allarga le potenzialità dell’impresa, non è necessariamente fonte di crescita e stabilità; senza un corretto business plan nel quale trovino equilibrio e copertura il costo degli interessi e il rimborso del capitale, il patrimonio sociale può andare incontro ad una continua erosione; in tali circostanze l’erogazione del credito, tanto più se concessa a tassi particolarmente esosi, può solo favorire la decozione[25]. L’impiego del credito concesso dovrà consentire di realizzare un ciclo economico in grado di realizzare quanto meno liquidità sufficiente a restituire l’importo finanziato e gli interessi relativi. Se il menzionato impiego non è in grado di realizzare tale obiettivo sarà proprio il credito ricevuto a determinare il default dell’imprenditore. Una compiuta istruttoria, l’intuitus personae connesso al richiedente, la puntuale congruenza degli utilizzi e dei rientri del finanziamento al business plan e un costante monitoraggio in corso di realizzazione, costituiscono le prestazioni tecniche di qualificata professionalità rientranti nell’ambito dei canoni di correttezza e cautela prestati dall’intermediario creditizio.

Assai delicati e controversi sono le circostanze e i limiti oltre i quali il sostegno finanziario comporti la responsabilità della banca per il depauperamento del patrimonio, con pregiudizio sia dell’impresa che dei creditori. Ancorché sporadici siano i casi di singoli creditori che intraprendono un’azione risarcitoria nei confronti delle banche, non appaiono così infrequenti i casi nei quali il finanziamento risulta sproporzionato ai mezzi del sovvenuto, o la banca non assume una completa informazione sulla situazione economico-finanziaria e semplicemente mantiene la linea di credito, non avvedendosi del progressivo peggioramento delle condizioni del cliente. Soprattutto per i crediti alle piccole imprese, nella scarsa attendibilità delle risultanze contabili, si rinuncia spesso ad un’analisi accurata del merito di credito dell’iniziativa finanziata, preferendo da un lato estendere il ricorso alle garanzie e dall’altro spalmare indifferentemente su tutta la clientela il costo medio delle insolvenze[26].

Anche a seguito delle nuove regole di Basilea, i rischi di un abusiva concessione di credito non possono essere trascurati[27].

In un mercato imperfetto, privo di alternative, nell’erogazione del finanziamento è l’intermediario che detta la ‘legge’ del contratto: in tale circostanza il cliente è portato ad accettare una condizione contrattuale di anatocismo che se, da un lato gli consente una maggiore flessibilità, potendo, alla scadenza, rinviare il pagamento degli interessi, dall’altro lo può facilmente condurre ad un avvitamento, in una pericolosa lievitazione del debito. L’anatocismo costituisce, in questo senso, il primo segnale che il ritorno dell’investimento finanziato si sta discostando dal business plan programmato[28].

L’intermediario, dal canto suo, disponendo di un potere di revoca immediata del finanziamento e delle più ampie garanzie personali e reali, non ha un particolare interesse a richiamare il cliente al rispetto del business plan, sino a che le reiterate capitalizzazioni degli interessi non assorbono il valore delle garanzie prestate: al contrario, nell’impossibilità di un rientro immediato del cliente, forte del potere di revoca e della conseguente segnalazione alla Centrale dei rischi, potrà cogliere l’opportunità di alzare discrezionalmente il tasso di interesse, accelerando la spirale ascendente e trascinando il debito nel tempo, sino al punto di ‘non ritorno’: in tal modo il finanziamento – e buona parte degli interessi capitalizzati – vengono di fatto sostanzialmente sottratti alla procedura concorsuale.

Criteri e meccanismi analoghi agiscono anche per il credito al consumo, attraverso la capitalizzazione degli interessi che, trascinata nel tempo, può essere sospinta oltre le capacità di rimborso del consumatore, conducendolo al sovra-indebitamento e, nell’impossibilità di far fronte al debito con il reddito, al depauperamento del patrimonio personale.

Nella circostanza, per la diversa conoscenza, informazione e professionalità, all’intermediario compete una responsabilità non minore di quella del prenditore di fondi che, spesso, compresso nel bisogno del finanziamento, non ha una piena consapevolezza del percorso ascendente del debito nel quale si pone rinviando al futuro il pagamento degli interessi.

 

5. L’anatocismo e l’art. 1283 c.c.

Occorre da un lato presidiare il rispetto dei termini contrattuali, dall’altro evitare un sovraccarico di interessi, oneri e spese automaticamente rinviati al futuro, che si accompagnano ad una deresponsabilizzazione sia del prenditore che del datore di fondi e alimentano un processo di reiterato deterioramento delle condizioni economico-finanziarie che prelude al sovra-indebitamento e al default.

Per il credito al consumo – al quale, per fragilità e carenze informative, non può non accostarsi il credito alla piccola impresa – le Direttive europee dettano appropriate misure volte a rafforzare pratiche di responsabilità e correttezza: ‘Lending has at all times to be cautious, responsible and fair. Credit and its servicing must be productive for the borrower. Responsible lending requires the prevision of all necessary information and advice to consumers and liability for missing and incorrect information. No lender should be allowed to exploit the weakness, need or naivety of borrowers. Early repayment, without penalty, must be possible. The conditions under which consumers can refinance or reschedule their debt should be regulated’.

Nel mercato finanziario l’impiego dell’interesse composto è la regola: in tale mercato – evoluto a pregnanti livelli di efficienza e concorrenza – operatori per lo più professionali impiegano, in regime di capitalizzazione composta, i capitali che lievitano nel tempo su una proiezione esponenziale.

Nel settore del credito, per contro, il mercato non è così evoluto e competitivo come quello finanziario e soprattutto i prenditori di fondi sono spesso operatori retail e piccoli imprenditori, con scarsa professionalità. In un mercato imperfetto si rende necessario l’intervento del regolatore volto a bilanciare le discrasie del mercato stesso.

Le rilevanti carenze del mercato e la forte asimmetria negoziale nei rapporti di credito hanno indotto il legislatore a regolare la naturale fruttuosità del denaro, ponendo significativi temperamenti all’anatocismo per tutelare il contraente debole da forme di lievitazione dell’indebitamento che, in condizioni di concorrenza di mercato, potrebbero più agevolmente essere evitate, moderate e più consapevolmente commisurate ai futuri flussi di reddito disponibili.

Forme di limitazione dell’anatocismo, nei casi di insolvenza nel pagamento degli interessi, dovrebbero indurre l’intermediario a prestare ex ante una maggiore attenzione alle capacità di rispetto delle scadenze da parte del cliente e, di riflesso, stimolando una sensibilizzazione e responsabilità di quest’ultimo, con un apprezzabile ridimensionamento del fenomeno di cumulo degli interessi nel tempo.

Ravvisando, soprattutto nel credito al consumo e nel finanziamento alle piccole e medie imprese, un impiego ‘sconsiderato’ dell’anatocismo, risulterebbe quanto mai opportuno il completo dispiego dei limiti all’anatocismo previsti dall’art. 1283 c.c., che risultano, invece, pervicacemente derogati a tutela della stabilità dell’intermediario. Con l’anatocismo si allenta nell’immediato il rigore di bilancio, si favorisce l’intermediario e si agevola il cliente, ma non si presta, in una continua reiterazione, un servizio all’impresa e al consumatore; nel medio-lungo termine il nocumento si riversa sull’efficienza del sistema, con riflessi economici e sociali non trascurabili.

L’art. 1283 c.c. non esprime un divieto assoluto: l’anatocismo non viene eliminato, bensì viene limitato e temperato nelle deroghe previste dal medesimo articolo, che consentono – decorsi sei mesi – la formazione di un anatocismo giudiziale o convenzionale.

Il divieto di anatocismo dettato dall’art. 1283 c.c. per le obbligazioni pecuniarie, con le deroghe previste nello stesso, risponde, nel rispetto degli obblighi contrattuali assunti, ad un corretto ed equilibrato principio di tutela sia del creditore che del debitore. All’atto dell’erogazione del credito, di regola, viene convenuto il piano di rientro del finanziamento e i relativi interessi. Detto piano, attraverso l’istruttoria condotta dall’intermediario, risulterà coerente con i termini di rientro previsti nel business plan o con la capacità di reddito del consumatore. Appare pertanto fisiologico – in una sana e prudente gestione del credito – che gli interessi vengano pagati alle scadenze prestabilite contrattualmente. Il mancato pagamento degli interessi alla scadenza costituisce un primo segnale di insolvenza, che palesa una situazione di illiquidità del momento, una distonia con il piano concordato contrattualmente. Le deroghe previste dall’art. 1283 c.c. intervengono prevedendo per la risoluzione dell’insolvenza, senza trascurare i diritti del creditore, una migliore protezione della parte che si trova in una posizione di debolezza contrattuale. Se la situazione di illiquidità del momento non può essere sanata, le parti potranno convenire un anatocismo convenzionale e con esso la prosecuzione del rapporto di credito; se, invece, le parti non addivengono ad un accordo, l’intermediario troverà tutela giudiziale ed otterrà un anatocismo legale, oltre che risolvere il rapporto di credito e pretendere la restituzione del capitale con i relativi interessi di mora nel frattempo maturati. L’intermediario subirà una moderata penalizzazione: l’importo degli interessi scaduti sarà comunque fruttifero; il cliente risponderà dell’insolvenza nei termini calmierati dall’ordinamento.

La criticità insorta con l’insolvenza alla scadenza degli interessi trova una soluzione equilibrata, nelle distinte responsabilità: da parte dell’intermediario, per aver valutato congruo e coerente il business plan e idonee le capacità manageriali di condurlo a termine; da parte del cliente, per aver mancato la realizzazione del progetto di investimento per il quale ha richiesto il credito. In tal modo entrambe le parti vengono responsabilizzate in una scelta più consapevole: se proseguire nel rapporto di fiducia, in un anatocismo convenuto, o se risolvere il rapporto, senza innescare la spirale ascendente dell’anatocismo stesso.

L’asimmetria contrattuale risulta temperata. La dilazione di sei mesi consente al cliente un congruo margine di flessibilità nel pagamento e una maggiore libertà contrattuale ma soprattutto rimuove quegli automatismi che sopiscono l’attenzione e consapevolezza del cliente stesso. Per converso l’intermediario viene indotto ad una migliore gestione del merito di credito e, in particolare, del vaglio e definizione dei termini contrattuali. D’altra parte le commissioni di affidamento, sino allo 0,50% trimestrale, non sono una rendita di posizione: ad esse corrisponde un servizio e parallelamente un’assunzione di responsabilità della congruità e coerenza del credito erogato. Le gestione di una vasta clientela non giustifica l’impiego di automatismi che vorrebbero surrogare l’attenzione per il servizio per il quale l’intermediario percepisce un congruo riconoscimento economico.

In questa prospettiva, il temperamento all’anatocismo, nella ferma determinatezza espressa dall’ordinamento giuridico, nell’ambito delle misurate deroghe prescritte dall’art. 1283 c.c., è suscettibile di ridimensionare apprezzabilmente il fenomeno di sovra-indebitamento, dei dissesti familiari e imprenditoriali, con i conseguenti costi sociali e di pregiudizio allo sviluppo economico.

   

6. Sintesi e conclusioni: la Banca d’Italia in soccorso agli intermediari

Con la privatizzazione degli intermediari e la riconduzione della funzione creditizia ai principi che presiedono il libero mercato, intervenute negli anni ’90, gli obiettivi aziendali degli intermediari sopravanzano l’interesse pubblico ad una corretta allocazione del credito. Si assiste da lungo tempo ad una continua e pervicace tensione degli intermediari bancari volta a ricercare margini di profitto in forme contrattuali e comportamenti giuridicamente estremi, confidando – in una esasperata logica di costi benefici - nei tempi lunghi impiegati dalla giurisprudenza per dirimere dubbi, contraddizioni e discrasie. Le circostanze di scarsa chiarezza e definizione delle regole di condotta pregiudicano la concorrenza nel mercato del credito, inducendo comportamenti ‘aggressivi’ volti ad acquisire margini di profitto, attraverso strategie di prezzo e condizioni di credito, collocate su posizioni border line, dove i limiti di demarcazione legale non trovano un’unanime e condivisa individuazione[29].

La patologia dei comportamenti nei rapporti bancari di conto corrente, con la sua ampia diffusione e dimensione, palesa ambiti di illiceità nei quali l’Organo di Vigilanza è apparso restio ad intervenire nel prevenire, correggere e rimuovere tempestivamente comportamenti che dispiegano un ampio pregiudizio alla tutela della clientela bancaria, consumatori ed imprese. Nonostante il TUB (art. 5) assegni alla Banca d’Italia il compito di vigilare sulla ‘sana e prudente gestione’ degli intermediari creditizi oltre che sull’’osservanza delle disposizioni in materia creditizia’[30], nonché (art. 127) sulla trasparenza delle condizioni contrattuali e la correttezza dei rapporti con la clientela, la stessa sembra astenersi dall’intervenire e addirittura talora pare assecondare i menzionati comportamenti degli operatori bancari, ponendosi sin anche in contrasto con le pronunce della Cassazione; si scorgono atteggiamenti di tutela, in odore di connivenza, che non paiono propri all’Organo di Vigilanza[31]. Si è venuto creando un solco fra Istituto Centrale e società civile: il rapido deterioramento dell’immagine reputazionale dell’intermediario ha toccato anche l’Istituto Centrale i cui interventi non appaiono talvolta distanti e distinti dall’Associazione di categoria[32].

Con un sistema italiano particolarmente banco-centrico e un tessuto industriale parcellizzato e sottocapitalizzato, assai più incidente risulta il trade-off fra costo del credito e sviluppo economico: quand’anche l’accesso al credito non sia impedito da vincoli, condizioni e vischiosità organizzative, una maggiorazione del costo oltre il tasso ordinario di mercato esclude una porzione più incidente di impieghi imprenditoriali; se nel breve l’ampia forbice dei tassi, fra raccolta ed impiego, rafforza la stabilità dell’intermediario, nel tempo ne pregiudica lo stesso sviluppo, per gli effetti di ritorno che discendono dalle imprese in crisi.  Gli elevati margini di sofferenze denunciati dal sistema in questi ultimi anni presentano elementi di accelerazione della crisi riconducibili ai più marcati tassi praticati dagli stessi intermediari.

La concorrenza, con le riflesse sinergie di calmiere, è pressoché assente in buona parte delle categorie di credito. La marcata tensione a cogliere le opportunità di un mercato del credito affetto da un’endemica carenza di concorrenza, dove il prezzo del denaro si forma più sull’utilità marginale del prenditore che sul costo del servizio del datore, sospinge gli intermediari ad utilizzare, nelle pieghe normative, l’asimmetria contrattuale per massimizzare i profitti, valutando di esiguo rilievo, nel calcolo dei costi/benefici, i riflessi reputazionali e giudiziari dei comportamenti adottati[33].   

Le distorsioni indotte dall’anatocismo applicato a tassi marcatamente elevati hanno assunto una dimensione ragguardevole: l’indiscriminata pratica di automatismi contabili di capitalizzazione degli interessi sopisce la consapevolezza del cliente e ne attenua la responsabilizzazione.

L’art. 1283 c.c. non ha mai trovato in passato una sostanziale applicazione: prima nella convinzione degli usi normativi, poi con la riserva posta dalla Delibera CICR del 9/2/00, l’automatica contabilizzazione a capitale è sempre stata la regola. Il tentativo di ripristino dei limiti all’anatocismo disposti dall’art. 1283 c.c., operato dalla legge 147/13, è stato, nel volger di un biennio, prima arenato, poi bloccato[34].

Considerata la pregnante responsabilità della banca, che accompagna e talvolta determina l’insolvenza dell’impresa, appare alquanto singolare ed improprio che venga riconosciuta agli interessi sul credito un’automatica ed implicita prelazione sulle risorse del cliente, sottraendole alla sua libera disponibilità, anteponendo il pagamento degli interessi alla remunerazione degli altri fattori della produzione: fornitori e dipendenti, oltre che fisco.

L’insolvenza alla scadenza degli interessi, quando non è imputabile ad occasionalità a priori imprevedibili, è riconducibile ad una valutazione fallace dei flussi di cassa da parte del cliente; deriva altresì da una concessione di credito basata su una fallace istruttoria dell’intermediario, che ha stimato attendibile e capiente il business plan del cliente.

Risulta viziato lo stesso processo decisionale che presiede l’erogazione del finanziamento quando l’attenzione dell’intermediario si viene rivolgendo più alle garanzie che al ritorno atteso dell’investimento: la banca abusa dell’esercizio del credito quando fonda la concessione del credito sulle garanzie personali e reali, dell’imprenditore e di soggetti terzi, disattendendo i principi che presiedono l’attività creditizia [35]. Precostituendo, per questa via, le condizioni per eludere la par condicio creditorum si perviene altresì a scaricare sugli altri stakeholders i fallimenti delle iniziative finanziate.

L’equilibrio negoziale del rapporto di conto corrente, chiarito dalla sentenza della Cassazione Sezione Unite n. 24418/10, nel principio di distinzione delle rimesse solutorie e ripristinatorie riconosce, ex art. 1194 c.c., un’automatica sottrazione delle rimesse affluite in conto solo in presenza di un debito di capitale ed interessi liquidi ed esigibili, lasciando nella discrezionalità del cliente le rimanenti rimesse finanziarie che giacciono o affluiscono nel conto. Appare assai improprio che il prestatore di capitale, in quanto anche gestore di un mandato ad incassi e pagamenti, acquisisca, per ciò stesso, una posizione di privilegio rispetto agli altri creditori.

Con il costo del credito che può ascendere a tassi praticati sino ad oltre il 20% non si favorisce lo sviluppo economico, al più si disloca credito altrimenti utilizzabile più proficuamente; se poi il credito è incagliato in carenze di liquidità, con l’automatismo indotto dal nuovo art. 120 TUB si innesca una lievitazione anatocistica che può facilmente sospingere l’impresa verso il default. 

Di regola investimenti meritevoli di credito non riescono a spesare tassi così elevati: se applicati a carenze di liquidità, rivenienti da un fido che risulta preordinatamente limitato per essere ‘sforato’, lo stesso costo del credito finisce per pregiudicare l’iniziativa finanziata. Se il margine economico dell’iniziativa non riesce, nei tempi e nelle dimensioni, a produrre la liquidità necessaria a coprire gli interessi, viene ad essere innescato un irreversibile aumento del passivo, alimentato dagli anacronistici tassi dello ‘scoperto di conto’, con una persistente erosione delle risorse sottratte agli impieghi produttivi, che finisce per pregiudicare l’integrità del patrimonio.

Con tale politica del credito non si favorisce lo sviluppo, bensì lo si ‘affossa’. Il nuovo art. 120 TUB, privando di protezione il cliente in difficoltà, lo pone completamente alla mercé dell’intermediario che frequentemente ordina e preordina a beneficio del proprio bilancio il graduale ‘avvitamento’ finanziario sino all’epilogo del default.

La grave crisi economica che ha interessato il nostro paese in questi ultimi anni ha notevolmente amplificato il fenomeno del sovra-indebitamento e dei default aziendali; non ultimo ha contribuito, in termini significativi, la riserva di anatocismo consentita all’intermediario creditizio. Con la Delibera CICR del 9/2/00 ed ora con il nuovo art. 120 TUB, continuando a disapplicare i correttivi disposti dall’art. 1283 c.c. ed estendendo altresì la mora agli interessi, si induce un’ulteriore amplificazione delle condizioni di asimmetria contrattuale, con recrudescenza della patologia di funzionamento del mercato, della contrapposizione e conflittualità: in assenza di interventi riequilibratori, le ricadute economiche e sociali risulteranno ancor più gravi di quelle alle quali veniamo assistendo ai nostri giorni.

Sull’anatocismo si concentrano forze di resistenza informate ad un radicalismo estremo, che impediscono di contemperare e condizionare la remunerazione del credito con l’esigenza di proteggere consumatori e piccole imprese da automatiche lievitazioni dell’anatocismo protratto nel tempo. Il provvedimento di ripristino dell’inderogabilità dei limiti all’anatocismo previsti dall’art. 1283 c.c., disposto dalla legge 147/13, art. 1, comma 629, ha avuto vita breve. La relativa proposta di Delibera CICR, intervenuta a distanza di 18 mesi dalla legge, attraverso una ‘disinvolta’ interpretazione della Banca d’Italia, ripristinava un anatocismo annuale, che era già stata rigettato nell’agosto del ’14 in sede di conversione del D.L. 91/14.

Le osservazioni e criticità al documento di consultazione, avanzate da un’ampia schiera di docenti, magistrati, avvocati e tecnici (Cfr. Atti del Convegno Assoctu, Roma 16 ottobre 2015), prospettavano un quadro di confusione e contraddizione con il dettato legislativo, prognostico di un’amplificazione dei ricorsi giudiziari e di concreti rischi di una sostanziale disapplicazione della Delibera stessa.

Rinunciando ad ogni tentativo di mediazione e conciliazione del testo legislativo vigente con le opposte esigenze degli intermediari e della clientela, si è preferito attendere per intervenire nuovamente nella formulazione dell’art. 120 TUB, adeguandolo, pressoché pedissequamente, alla Delibera CICR proposta dalla Banca d’Italia nell’agosto 2015.

L’operazione, riuscita con l’usuale escamotage di un improvvisato emendamento inserito nella legge di riforma delle banche cooperative, ci restituisce un anacronistico testo dell’art. 120 TUB che, se da un lato, sormontando l’atto amministrativo, risolve talune debolezze regolamentari, dall’altro apporta pregnanti elementi di distorsione nei precari equilibri che presiedono i rapporti bancari, in controtendenza con la maggiore protezione che l’ordinamento viene rivolgendo alla parte debole del contratto.

Non appare un’equilibrata mediazione, né tanto meno un intervento a tutela della clientela bancaria, il testo proposto dalla Banca d’Italia: la periodicità annuale è un debole palliativo alla legalizzazione dell’anatocismo[36]. Con la preventiva autorizzazione all’addebito si modifica la forma, lasciando immodificata la sostanza: con l’annotazione in conto gli interessi divengono capitale e l’anatocismo dell’art. 1283 c.c. viene in tal modo dissipato. Appare uno ‘spregiudicato’ intervento volto a scongiurare ogni possibile interferenza della giurisprudenza mirante a riequilibrare l’asimmetria implicita nei contratti di adesione[37].

Si vengono in tal modo a ‘scardinare’ fondamentali tutele, reiteratamente presidiate dalla Cassazione:

i) ‘In mancanza di usi contrari o di una apposita convenzione tra le parti sugli interessi anatocistici, la norma di cui all’art. 1283 c.c. “svolge la funzione di limitare l’oggetto dell’art. 1282, comma I, c.c., secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge (…) stabilisca (…) diversamente. Tale limitazione è realizzata sia prevedendo il controllo giurisdizionale sulla produzione di interessi sugli interessi, sia attribuendo alla domanda giudiziale, non solo il ruolo di condizione, alternativa alla convenzione tra le parti, dell’anatocismo, ma anche il ruolo di termine iniziale per la produzione di interessi secondari’

ii) ‘In mancanza di usi contrari e delle condizioni imperative alla cui effettiva susssistenza la norma di cui all’art. 1283 c.c. consente l’anatocismo, la clausola anatocistica pattuita (non per effetto di ‘una convenzione fra le parti successivamente alla scadenza degli interessi’ ex art. 1283 c.c. ma) in via anticipata e (in relazione a ‘interessi dovuti per almeno un semestre ex art. 1283 c.c.’ ma) prima della scadenza di qualsivoglia interesse, va dichiarata nulla per contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c.’.

Con l’art. 127 TUB, integrato nel 2010, si è demandato alla Banca d’Italia, oltre alle finalità riportate nell’art. 5, la ‘trasparenza delle condizioni contrattuali’ e ‘la correttezza dei rapporti con la clientela’. Quest’ultima si realizza attraverso un più corretto equilibrio dei rapporti e una tutela del cliente che sopravanzando la semplice informazione, si attesti su norme di comportamento non dissimile da quella esplicitamente prevista nel settore finanziario ed assicurativo. Appare una singolare discrasia che la Banca d’Italia sostenga e promuova una più incisiva asimmetria contrattuale, che pregiudicherà ulteriormente ogni forma di concorrenza; protesa a garantire la stabilità del sistema bancario, si avverte meno pressante l’esigenza di un presidio alla tutela della clientela, tanto da svilire e depotenziare la protezione stessa prevista dall’ordinamento giuridico[38].

Con un’autorizzazione preventiva, che verrà de plano inserita nei contratti, l’addebito degli interessi viene assimilato al pagamento, trasformandosi in sorte capitale, immediatamente produttiva di interessi. Questa condizione di privilegio giuridico prevista dalla norma per l’apertura di credito e lo scoperto non potrà che accelerarne lo sviluppo, che già assume una dimensione patologica. Senza la tempestiva introduzione di adeguati correttivi, venendo meno la protezione ad un inconsapevole e spesso inarrestabile avvitamento del debito, si alimenterà e favorirà il fenomeno del sovraindebitamento delle imprese e Famiglie, con una forma tra le più insidiose di conduzione al dissesto economico[39].

La norma, che mal si coordina con i principi che presiedono l’ordinamento giuridico, non incontrerà un’agevole e facile applicazione. Una prima sostanziale contraddizione si pone nello stesso limite al tasso di interesse posto dall’art. 644 c.p. Infatti, risultando il presidio d’usura disposto con riferimento al costo del credito erogato dall’intermediario, potrebbero risultare nello stesso compresi sia gli eventuali interessi di mora richiesti sugli interessi corrispettivi scaduti ed esigibili, sia gli interessi corrispettivi ulteriormente prodotti su quelli che, non risultando pagati da rimesse solutorie, vengono addebitati e divengono ‘sorte capitale’. Al riguardo appare chiaro il riferimento dell’art. 644 c.p. al ‘corrispettivo di una prestazione di denaro’ espresso da ‘commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, collegate all’erogazione del credito’, oltre che agli ‘altri vantaggi o compensi’ contemplati nell’art. 644 c.p., 3° comma. Gli interessi addebitati e divenuti ‘sorte capitale’ non risulterebbero, per ciò stesso, pagamenti secondo i principi disposti dalla Cassazione 24418/10: si modificherebbe la natura, da accessoria a principale, ma permarrebbe la qualifica di remunerazione del capitale originariamente concesso dalla banca. La contabilizzazione separata, prevista nella proposta di Delibera posta a sua tempo in consultazione e ripresa nel Dossier di accompagno del nuovo testo dell’art. 120 TUB, sembra marcarne la distinzione dalla prestazione di denaro effettivamente erogata dalla banca.

Con un mercato del credito efficiente, trasparente, concorrenziale ed informato, meno avvertita risulterebbe l’esigenza di un presidio in grado di attenuare le problematiche sociali ed economiche che, aggravate dalla crisi economica, risultano spesso riconducibili a comportamenti poco trasparenti e opportunistici degli intermediari bancari e finanziari. Il ‘fallimento del mercato del credito’ nel conseguimento di un efficiente impiego delle risorse impone l’intervento correttivo del legislatore e del controllore al fine di temperare asimmetrie e discrasie che pregiudicano il corretto funzionamento del mercato stesso[40].

L’operato della Banca d’Italia non può porsi su un piano antitetico a quello perseguito dal Garante della concorrenza e del mercato: gli interventi della Banca d’Italia hanno sino ad oggi ostacolato l’obiettivo di ricondurre il mercato del credito a livelli di efficienza e concorrenza, attraverso un riequilibrio del rapporto cliente/banca: un più pervasivo controllo del rispetto - sostanziale oltre che formale - delle norme, potrebbe apprezzabilmente sollevare, o quanto meno alleviare, l’oneroso compito di tutela dell’utente bancario, rimesso esclusivamente alla funzione di presidio svolta dalla Magistratura[41].

L’ordinamento giuridico assegna alla Banca d’Italia il compito di sovraintendere al mercato del credito, assicurando la stabilità del sistema bancario, la funzionalità dell’allocazione del credito, il rispetto del quadro normativo.

Perseguire la stabilità del sistema bancario, rafforzando gli strumenti di esazione nei confronti della clientela, edulcorando e limitando la portata dell’art. 1283 c.c., estendendo per giunta l’applicazione della mora agli interessi corrispettivi, in assenza di un’efficace funzione di calmiere del mercato, può sortire un avvitamento del sistema con ulteriori pregiudizi dei rapporti, a discapito della clientela, proprio nelle circostanze di maggiore precarietà e difficoltà di quest’ultima.

Alla Banca d’Italia, oltre al presidio della stabilità del sistema, spetta il compito e la responsabilità di colmare l’ampio divario che separa il costo del credito in Italia rispetto agli altri paesi, perseguendo un processo di revisione del mercato del credito, che acquisisca margini di concorrenza, in grado di liberare una funzione calmieratrice dei tassi e una più efficiente allocazione del credito. L’apparato normativo relativo alla trasparenza, come anche il presidio penale all’usura nelle ‘difformi’ Istruzioni della Banca d’Italia, hanno per lo più espletato una funzione simbolica e di forma, una sorta di copertura alle inefficienze, discrezionalità e prevaricazioni che pervadono il mercato del credito.

Questo si ritiene passi attraverso un riequilibrio dei rapporti negoziali, dove l’intermediario e il cliente cooperino ad un obiettivo comune, nel mutuo rispetto delle distinte funzioni, impegni e responsabilità. In un mercato con regole ‘giuste’ i comportamenti tendono ad essere virtuosi, in un mercato con regole ‘inique’ i comportamenti si corrompono.



[1] A cura di R. Marcelli e A.G. Pastore.

[2] Per lungo tempo si è perseguita da parte della Banca d’Italia la stabilità del sistema bancario, prestando attenzione sovrana alla patrimonializzazione degli istituti di credito e rimettendo, invece, a regole di comportamento e trasparenza la tutela del cliente utilizzatore dei servizi: le regole, tuttavia, si sono rivelate carenti e insufficienti. È stata pervicacemente protetta la funzione creditizia da un’eccessiva esposizione alla concorrenza nella convinzione, assai diffusa, che quest’ultima potesse ledere la stabilità del sistema. Da molti anni l’autorità monetaria manifesta un atteggiamento di estrema cautela, attento a privilegiare e preservare la redditività delle banche per i positivi riflessi di stabilità. L’Organo di Vigilanza ha rivolto deboli misure ed inefficaci richiami ad un più corretto e trasparente rapporto con il cliente: nel corso degli anni anche i rapporti con la clientela sono stati asserviti alla stabilità dell’intermediario, trascurando e logorando oltre misura il rapporto fiduciario banca-cliente costruito nei decenni precedenti.

[3] Con il noto revirement del 1999, con quattro successive sentenze, la Cassazione dichiarava l’illegittimità delle clausole bancarie di capitalizzazione periodica, disconoscendo il carattere normativo degli usi bancari e configurando il rapporto di conto corrente bancario come un rapporto unitario di durata. Considerato il carattere retroattivo delle pronunce, si è aperto il varco ad flusso inarrestabile di vertenze legali, volte alla restituzione di quanto indebitamento pagato in precedenza.

[4] (Modifiche all’articolo 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, relativo alla decorrenza delle valute e al calcolo degli interessi).

1. Al comma 2 dell’articolo 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, le lettere a) e b) sono sostituite dalle seguenti:

a) nei rapporti di conto corrente o di conto di pagamento sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, comunque non inferiore ad un anno; gli interessi sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno e, in ogni caso, al termine del rapporto per cui sono dovuti;

b) gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale; per le aperture di credito regolate in conto corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido: i) gli interessi debitori sono conteggiati al 31 dicembre e divengono esigibili il 1o marzo dell’anno successivo a quello in cui sono maturati; nel caso di chiusura definitiva del rapporto, gli interessi sono immediatamente esigibili; ii) il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è considerata sorte capitale; l’autorizzazione è revocabile in ogni momento, purché prima che l’addebito abbia avuto luogo.».

[5] Cfr.: Buccella, La disciplina degli interessi monetari, Napoli, 2002, 116; Scozzafava, Gli interessi monetari, op. cit.; Sinesio, L’anatocismo, in Dir. banc., 1990, I, 27.

[6]La distinzione tra capitalizzazione e anatocismo è necessaria per la diversità di struttura e di effetti delle due fattispecie. Per anatocismo si deve intendere, conformemente alla lettera dell’art. 1283 c.c., la produzione di interessi sugli interessi; la capitalizzazione è invece l’assimilazione al capitale dell’obbligazione di interessi’. (Di Pietropaolo, Osservazioni in tema di anatocismo, in Nuova Giur. Civ. Comm, 2001).

[7] Per rendere confrontabili finanziamenti di diversa durata ed importo, nonché periodicità degli interessi, il calcolo viene ricondotto, per equivalenza finanziaria, ad un prestito di 100, pagato con gli interessi dopo un anno.

[8] Nel Codice Hammurabi, così come nel diritto romano, il prestito cominciò, non con il denaro, bensì con la semenza che il contadino, dopo un cattivo raccolto, doveva farsi prestare e restituire l’anno successivo. Da qui il calcolo su base annua.

[9] Si è ipotizzato che il decadimento del merito di credito comporti l’aumento del tasso nominale di un punto percentuale ogni tre anni (nella Tabella è indicato il corrispondente tasso effettivo).

[10] (Cfr. R. Marcelli, ‘Le due facce della prescrizione. Nella capitalizzazione degli interessi si cela una mistificazione.’, 2016, in www.assoctu.it).

[11](...) l’erogazione di nuovo credito, finalizzata a sostenere il costo dell’indebitamento – segnatamente quando il debitore non produca fisiologicamente quanto necessario a sostenere il costo dell’indebitamento bancario – può infatti risultare un rimedio improprio, se non accompagnato da altre misure o comunque da una valutazione del contesto che consenta di ritenere la situazione transitoria. Ed è noto che la prassi dei tribunali fallimentari italiani incontri di frequente situazioni di sovra-indebitamento, in cui la concessione di nuovo credito (spesso garantito da scritture collaterali) è stata erroneamente scambiata per una misura di favore per il debitore, mentre proprio l’interesse del debitore avrebbe dovuto suggerire una nuova valutazione della situazione e l’assunzione dei necessari provvedimenti.’ (F. Astone, ‘Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi: l’articolata vicenda dell’anatocismo bancario’, Convegno ASSOCTU, Roma 16 ottobre 2015.).

[12] Cfr. R. Marcelli, ‘La soglia d’usura ha raggiunto un livello pari a 100 volte l’Euribor: il presidio di legge è un argine o una copertura?’, 2013, in www.assoctu.it.

[13] In Francia, che adotta un analogo sistema di presidio all’usura, gli scoperti di conto presentano un tasso medio del 10,03% e una soglia del 13,37%, valori pari a due terzi di quelli riscontrati in Italia.

[14] Sul piano tecnico-pratico l’intermediario, di regola, facendo riferimento al costo della provvista, stabilisce le condizioni di credito applicate in funzione dell’affidamento del cliente e del merito di credito dell’iniziativa che deve essere finanziata: i tassi praticati vengono così distribuiti in un arco di valori compresi fra un minimo prossimo all’Euribor ed un massimo pari alla soglia d’usura.

Taluni intermediari hanno iniziato a prevedere, per il credito in conto corrente, sia esso apertura di credito, anticipazione o altro, un tasso variabile che, anziché essere collegato all’ordinario parametro di finanziamento praticato dal mercato, quale l’Euribor, viene riferito direttamente al tasso soglia, sottraendo a questo uno spread fisso in funzione del merito di credito del cliente.

In altri termini, la tariffazione del credito in conto corrente di tali intermediari assume a riferimento base il tasso soglia, il valore massimo di tasso praticabile al cliente – variabile in funzione delle modifiche apportate trimestralmente dal MEF sulla base della rilevazione dei TEGM condotta dalla Banca d’Italia – per poi stabilire la decurtazione fissa, in rapporto al merito di credito del cliente stesso. Anziché aggiungere uno spread al costo della provvista, si impiega uno spread sottrattivo al valore massimo consentito dalla soglia d’usura. A questo tasso vengono poi affiancati gli altri oneri, commissioni e spese (CDF, CIV, spese chiusura, ecc..). La mora, nella circostanza, viene sistematicamente posta eguale al tasso soglia.

Tale sistema di tariffazione, per taluni aspetti è all’apparenza assimilabile ad una ordinaria parametrazione ai tassi di mercato, risultando il TEGM, sul quale è costruito il tasso soglia, funzione del valore medio del costo del credito espresso dal mercato. Ma la parametrazione è sul valore del tasso soglia, non su quello del TEGM: solo quest’ultimo è un parametro finanziario di mercato, per altro spurio ricomprendendo altre voci di costo. Ciò comporta una discrasia che induce un’artificiosa e perversa lievitazione dei tassi che viene a ledere significativamente il mercato del credito. Contiene infatti una super-indicizzazione al valore medio del mercato, in quanto ad ogni variazione di quest’ultimo fa corrispondere la variazione incrementata del 25%, incorporata nella soglia.

Di fatto, una parte delle competenze trimestrali, cioè a dire gli interessi in senso stretto, viene indicizzato con un acceleratore del 25% alla variazione del TEGM che, per altro, si compone, oltre che degli interessi in senso stretto, di tutti quegli oneri (commissioni, spese, assicurazione, spese legali, ecc.) che accompagnano ed integrano sostanzialmente l’interesse nel comporre l’aggregato complessivo delle competenze.

Si configura nella circostanza descritta un’ingiustificata lievitazione dei costi del credito con aspetti impropri di accelerazione. Per fattispecie diverse, ma che presentavano analoghi aspetti di lucro ingiustificato o costi duplicati, l’ABF è intervenuto censurando il comportamento dell’intermediario.

Il menzionato sistema di tariffazione lascia trasparire la scarsa concorrenza del mercato del credito e la significativa dominanza dell’operatore bancario nei finanziamenti in conto: anziché partire dal costo della raccolta e dagli oneri di copertura dei costi, per stabilire il proprio margine di intermediazione, si parte dal margine massimo praticabile per sottrarre la minore copertura del rischio che il cliente presenta rispetto allo standard. Da un punto di vista sistemico si può ravvisare in tali comportamenti quella che A.A. Dolmetta configura come ‘una rendita da posizione (quale species facente parte del genus espressivo dell’approfittamento da posizione), le cui implicazioni reali vanno colte – pure questo è evidente – con riferimento non al singolo rapporto, bensì alla misura di serialità immessa col prodotto sul mercato’.

Un’analoga vessatoria incongruenza si riscontra per la mora quando questa viene posta pari al tasso soglia. La mora, come detto, si articola in una componente corrispettiva e in una componente prettamente penale: quest’ultima è spesso specificatamente individuata nello spread, in misura fissa, aggiunto al tasso corrispettivo. Per la componente più propriamente corrispettiva, la mora può ben accompagnare i mutamenti del tasso di interesse, mentre per la componente più propriamente penale assai labile appare la parametrazione a commissioni di istruttoria, spese di assicurazione ed altri oneri che intervengono nella determinazione del TEGM, per altro accelerate del 25%.

[15] Non si dispone del dettaglio delle statistiche di rilevazione dei tassi curate dalla Banca d’Italia per la determinazione delle soglie d’usura, ma l’evoluzione dei tassi praticati dopo l’introduzione dell’Euro segnala, per talune categorie di credito, andamenti di crescita che potrebbero essere ricondotti al noto effetto dell’’échelle de perroquet’, che in Francia viene attentamente monitorato e presidiato. In particolari segmenti del credito al consumo e alle imprese – privi di concorrenza, caratterizzati da asimmetria informativa e vincolati da rapporti negoziali di maggiore dipendenza dal credito – l’effetto di trascinamento verso il tasso soglia del tasso medio sembra assumere una pregnante e palese evidenza. (Cfr. R. Marcelli, L’usura della legge e l’usura della Banca d’Italia: nella mora riemerge il simulacro dell’omogeneità, in www.assoctu.it)

[16] Nel Monthly Bulletin ECB, Agosto 2013, si riporta: ‘... statistics do not include interest rates on overdrafts, which are a major source of finance for firms in some large euro area economies (e.g. Italy). Consequently, when interest rates on overdrafts (which are generally higher than other short-term bank lending rates) are taken into account, the estimated borrowing costs are higher.’ (Assessing the retail bank interest rate pass-through in the euro area at times of financial fragmentation).

[17] Intervento del Governatore Ignazio Visco alla Giornata Mondiale del Risparmio del 2015 (28/10/15).

[18] Le variazioni intervenute nella formula di calcolo e nell’enucleazione degli scoperti, con effetti opposti, non appaiono suscettibili di modificare apprezzabilmente il confronto.

[19] Nel Monthly Bulletin ECB, Agosto 2013, si riporta: ‘A number of factors seem to be at play which explain crosscountry divergences in MFI lending rates. Structural factors affecting lending rates include the fact that financial market structures differ across countries. Lending rates tend to be lower in economies where bank competition is stronger and alternative, market-based sources of finance are available through more developed financial sectors. The observed heterogeneity in MFI lending rates may also reflect product heterogeneity, which may be difficult to classify in homogeneous categories in MFI interest rate statistics. Moreover, it may also reflect country-specific institutional factors, such as fiscal and regulatory frameworks, enforcement procedures and collateral practices. Other factors affecting divergence in lending rates might reflect the amplifying effects of increasing credit risk and bank risk aversion in an environment of weak economic growth, potential capital constraints on the part of banks and the impact of bank funding fragmentation.’ (Assessing the retail bank interest rate pass-through in the euro area at times of financial fragmentation).

[20] Un sintomo di disfunzione è rappresentato dagli sconfinamenti sui fidi bancari, un fenomeno che si colloca su livelli particolarmente elevati in talune regioni meridionali. La prassi degli sconfinamenti può dipendere da carenze organizzative delle banche. Essa influisce pesantemente sul costo effettivo del denaro, per effetto delle maggiorazioni di tasso e delle commissioni di massimo scoperto. E’ indicativa di comportamenti non trasparenti: la banca accorda un fido inferiore a quello che serve al cliente, rendendosi peraltro disponibile a mantenerlo di fatto al di sopra dell’accordato; il cliente dal canto suo accetta questa impostazione, che lo pone in una situazione di debolezza nei rapporti quotidiani con la banca. (G. Berionne, Consiglio Superiore della Magistratura, incontro di studio sul tema: ‘Usura e disciplina penale del credito’, Frascati 1997).

[21]Prima del ’10 gli scoperti senza affidamento erano ricompresi nelle aperture di credito con una soglia, nella fascia di importo più basso, del 17% circa: con le modifiche ai criteri di rilevazione del TEG e lo scorporo in due distinte categorie, la soglia degli ‘Scoperti senza affidamento’ è balzata sino al 29,9%, marcando un divario di oltre il 50% dalla soglia prevista per i conti affidati (19,28%)[21]. Nei trimestri successivi i tassi degli ‘Scoperti senza affidamento’ si sono solo in parte ridimensionati mantenendo, rispetto ai tassi sugli affidamenti, un marcato divario, nell’ordine del 30% ed oltre.’ (Cfr. R. Marcelli, L’usura della legge e l’usura della Banca d’Italia: nella mora riemerge il simulacro dell’omogeneità, 2014, in assoctu.it).

[22]Per quanto l’opinione sia diffusa in letteratura, la trasparenza non si esaurisce nell’informazione. Intere tematiche della vigente normativa di trasparenza bancaria non risultano oggettivamente raccordabili con l’idea di un semplice flusso di notizie, pur orientato, che dal produttore va verso il cliente. Né le vanno dati – o riconosciuti – compiti sostitutivi: per dirla in breve, sapere che le uova sono marce non le fa diventare fresche. Pensare che una riduzione delle asimmetrie informative conduca a riequilibri, o a parità di forza delle posizioni è una mistificazione. L’informazione non rende in specie un’operazione equilibrata, posto se non altro che l’equilibrio è misura di rapporto oggettiva. Tanto meno l’informazione potrebbe surrogare l’adeguatezza: in un’ora non si diventa professionisti. E meno ancora l’informazione del cliente viene da sé a rendere diligente l’agire dell’impresa.” (A.A. Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Zanichelli, 2013).

[23]l’autonomia privata deve essere lasciata libera da vincoli, fintanto che le regole che vengono create costituiscono la risultante di una (almeno potenziale) effettiva negoziazione tra le part: quando ciò non accada – e quella delle relazioni tra istituti di credito e clientela (specie se si tratta di consumatori, ma anche di piccole e medie imprese) rappresenta indiscutibilmente un esempio paradigmatico di siffata situazione -, è allora condivisibile che intervenga la norma, affinché la libertà contrattuale, la quale per affermarsi “deve ignorare la disparità di potere contrattuale”, non si riduca a “vuota formula”.’ (C. Colombo, Gli interessi nei contratti bancari, Aracne, 2014).

[24]La concessione di finanziamenti a qualsiasi soggetto economico, se pure necessaria ed utile per lo svolgimento dell’attività, certo non può considerarsi vantaggiosa dal punto di vista strettamente finanziario, in quanto il valore rappresentato dall’importo finanziato è sempre neutralizzato, nel patrimonio della società, dal corrispondente debito nei confronti dell’istituto finanziatore, e deve anche essere maggiorato degli interessi relativi e delle ulteriori spese inerenti al servizio espletato. Conseguentemente, non solo la concessione di finanziamenti si presenta neutra nello stato patrimoniale delle società, ma ha addirittura un effetto negativo laddove si consideri la necessità di conteggiare a debito le somme relative agli interessi maturati nell’esercizio, come pure il corrispettivo spettante all’istituto di credito per il servizio espletato. Tale effetto negativo potrà certo essere controbilanciato dagli effetti positivi dell’impiego del finanziamento nell’impresa ma questo solo a condizione che tale impiego sia produttivo di ricavi operativi. Gli oneri connessi al finanziamento potranno, infatti, essere coperti solo ed in quanto i ricavi derivanti dall’utilizzazione produttiva del finanziamento siano più elevati. In questo caso l’impresa efficiente può effettivamente ben trarre utilità dal finanziamento. Questo si verifica quando l’impresa è in grado di elaborare e soprattutto di attuare un ragionevole piano industriale, che consenta di utilizzare il capitale proveniente da finanziamento per investimenti. Da ciò consegue che in tutti i casi in cui le condizioni economiche dell’impresa finanziata (in particolare le sue capacità produttive), siano tali da non consentire una efficiente utilizzazione della liquidità ottenuta con il finanziamento, il peso degli oneri del finanziamento (la cd. Leva finanziaria)  eroderà in modo progressivo il patrimonio della società.” (B. Inzitari, L’abusiva concessione di credito: pregiudizio per i creditori e per il patrimonio del destinatario del credito, 2007, in: ilcaso.it).

[25]Attraverso l’erogazione del credito, l’imprenditore dota la sua organizzazione produttiva  di un capitale la cui acquisizione si giustifica perché esso viene a costituire uno strumento di produzione dell’impresa stessa. Ma questo significa che, al pari di tutti gli strumenti di produzione, anche il finanziamento ricevuto ha i suoi costi ed i suoi oneri: il costo degli interessi ed altre spese dovute quale corrispettivo alla banca e l’onere di dovere restituire l’intera somma ricevuta alla scadenza. L’imprenditore dovrà necessariamente realizzare un piano industriale che gli consenta di trare utili in una misura sufficiente almeno a coprire il costo degli interessi dovuti al finanziatore. Infatti, in mancanza di un equilibrio tra misura degli utili e misura degli interessi, l’intero patrimonio dell’impresa sarà progressivamente ed inesorabilmente pregiudicato, si verificherà un aumento irreversibile del passivo, come pure si verificherà una inevitabile erosione di risorse che verranno distolte da usi produttivi per far fronte al crescente debito degli interessi. Nella sua forma estrema tale pregiudizio si osserva nei finanziamenti usurai caratterizzati dal fatto che l’abnorme costo degli interessi è, per definizione, di molto superiore a qualsiasi possibile remunerazione e reimpiego che l’imprenditore può trarre dall’uso del denaro acquisito con il finanziamento. (...) Da quanto rappresentato emerge che il danno che può derivare dalla condotta della banca che abbia finanziato in modo irregolare l’impresa investe proprio la società ed il suo patrimonio, il quale, per effetto degli ingiustificati finanziamenti concessi dalla banca stessa, verrà ad essere progressivamente eroso fino a diventare deficitario.” (B. Inzitari, L’abusiva concessione di credito: pregiudizio per i creditori e per il patrimonio del destinatario del credito, 2007, in: ilcaso.it).

[26] Poco più dell’85% delle imprese non ha obblighi contabili, in quanto non costituite nella forma di società di capitale e le esigenze di carattere informativo necessarie per l’applicazione delle regole prudenziale introdotte da Basilea non possono essere soddisfatte appieno. Il rapporto con l’intermediario assume peculiarità poco formali e strutturate e la conoscenza della realtà aziendale si fonda scarsamente su analisi puntuali dei vari indicatori reddituali, finanziari e patrimoniali: le analisi risultano per lo più sintetiche e il patrimonio ricopre un ruolo centralissimo, come dimostra la ormai consueta richiesta ai propri clienti da parte della banca di fornire garanzie personali.

[27]La richiesta dell’imprenditore volta ad ottenere la concessione del credito ha il mero ruolo di invito alla banca ad esaminare la propria situazione e a concedere il credito e l’erogazione del finanziamento avviene in virtù di un’autonoma attività della banca secondo un procedimento tipizzato (istruttoria, delibera, verifica nel tempo delle condizioni patrimoniali del soggetto finanziato) e costituisce il risultato di una valutazione di carattere economico e giuridico vincolata a precisi parametri.’ (P. Piscitelli, Concessione abusiva del credito e patrimonio dell’imprenditore, in Riv. dir. civ., 2010).

[28]La Banca, dunque, non può limitarsi ad una valutazione finalizzata alla mera verifica della capacità dell’impresa sovvenuta di restituire il capitale, comprensivo degli interessi, finanziato magari semplicemente basandosi su eventuali garanzie, personali o reali, concesse da soggetti terzi rispetto al rapporto di finanziamento. Deve, invece, effettuare una valutazione più approfondita che tenga conto anche del positivo utilizzo della somma concessa da parte del soggetto finanziato e cioè deve valutare e considerare se l’impresa è in grado di investire positivamente il capitale oppure se tale capitale è destinato alla dispersione con prolungato inefficiente mantenimento sul mercato di un’impresa destinata al fallimento.’ (V. Piccinini, I rapporti tra banca e clientela, CEDAM, 2008).

[29] Frequentemente l’operatore bancario, cogliendo opportunisticamente improprietà e perplessità insite nel testo letterale, disattende la norma di legge sulla base di un calcolo di convenienza economica. In una stretta visione aziendalistica, la mera valutazione dei costi/benefici induce a sospingere i rischi legali e reputazionali sino a quando i riflessi economici delle vertenze giudiziarie, le sanzioni dell’Organo di Vigilanza e i danni di immagine non sopravanzano i benefici economici che gli intermediari traggono dalle aggressive strategie di comportamento. L’esperienza dell’ultimo decennio ha mostrato una sospinta tensione da parte delle banche a cogliere margini di concorrenza e benefici economici utilizzando, all’occorrenza, oltremisura gradi di elusione che regolamenti o istruzioni applicative consentono, impegnando e congestionando apprezzabilmente l’opera della Magistratura, in una preordinata strategia di trade-off costi/benefici, fondata sul marginale ricorso alle onerose e tortuose vie delle aule giudiziarie. Se poi l’Organo di Vigilanza non esplica compiutamente i poteri che gli rivengono dall’art. 5, più recentemente rafforzati nell’art. 127 del T.U.B., il presidio della norma rimane affidato esclusivamente alla Magistratura. Nei tempi ritardati di quest’ultima, i comportamenti illeciti, per la stessa dinamica del mercato, si vengono diffondendo a buona parte degli intermediari finanziari determinando un continuo flusso seriale di ricorsi giudiziari. Appare calcolata e predeterminata l’economia di costi che all’intermediario riviene dalla quota parte dei soggetti che desistono e rinunciano a percorrere il lungo ed oneroso iter giudiziario per vedere riconosciuti i propri diritti. E’ carente un presidio sanzionatorio, commisurato alla rilevanza e pregnanza dell’interesse pubblico coinvolto. Se all’intermediario, che adotta comportamenti illegittimi, diffusi all’intera platea della clientela, si impone il ristorno dell’indebito solo per coloro che hanno adito le vie legali, si depotenzia il portato coercitivo della norma, rinunciando a quei correttivi che, riconducendo ad equilibrio il trade-off costi benefici, risultano estremi ma efficaci. In altre circostanze, per infrazioni di minor rilievo, si arriva a sanzioni multiple del valore dell’omesso adempimento, inducendo per questa via, seppur forzatamente, comportamenti virtuosi, più prudenti ed attenti alla corretta applicazione della norma.

[30] Le finalità delle Autorità di Vigilanza sono state ulteriormente allargate e precisate dall’art. 127, come modificato dai D. Lgs n. 141/10, n. 218/10 e n. 169/12, il quale prevede che “Le Autorità creditizie esercitano i poteri previsti dal presente titolo avendo riguardo, oltre che alle finalità indicate nell’articolo 5, alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela.”.

[31] In tali circostanze insorgono pregiudizi che, ad esempio, non fanno ritenere compiutamente trasparenti commissioni di istruttoria veloce la cui aderenza ai costi è affidata a procedure interne soggette esclusivamente al controllo dell’Organo di Vigilanza.

[32] Senza un coordinamento del disposto amministrativo, un pervasivo controllo dell’Autorità di Vigilanza e un adeguato presidio sanzionatorio, i principi di trasparenza e le sollecitazioni a comportamenti di etica sociale appaiono acqua fresca in un terreno incolto. Finché non si creano i presupposti per una piena concorrenza che possa esplicare significativi effetti di calmierazione dei prezzi – e questo è lungi dal riscontrarsi soprattutto nei rapporti di credito in conto corrente – la posizione di riserva di legge favorisce comportamenti che, cogliendo i tempi prolassati di intervento della giurisprudenza di legittimità, reagiscono opportunisticamente agli interventi normativi sino a cogliere le opacità che rendono inapplicabile lo stesso presidio penale posto all’usura bancaria.

[33] Il Governatore Draghi, in un articolo pubblicato sull’Osservatore Romano, a commento dell’Enciclica Caritas in veritate, così si esprimeva: Un modello in cui gli operatori considerano lecita ogni mossa, in cui si crede ciecamente nella capacità del mercato di autoregolamentarsi, in cui divengono comuni gravi malversazioni, in cui i regolatori dei mercati sono deboli o prede dei regolati, in cui i compensi degli alti dirigenti d’impresa sono ai più eticamente intollerabili, non può essere un modello per la crescita del mondo”.

[34] A partire dal 1 gennaio ’14, gli interessi addebitati e accreditati dovevano essere tenuti separati e distinti dal capitale per evitare ogni forma di produzione di interessi su interessi e relativa capitalizzazione. Il ritardo della nuova Delibera CICR prevista dal novellato 2° comma dell’art. 120 TUB ha offerto il pretesto per comportamenti, diffusi a tutto il sistema bancario, che – sotto l’egida e indirizzo dell’ABI – ha continuato a perseverare l’applicazione dell’anatocismo previsto nella Delibera CICR del 9/2/00 ormai priva di efficacia. E’ valutabile in oltre € 5 mil.di l’anatocismo illecitamente caricato sui conti correnti nel periodo 1/1/14 – 1/4/16.  Al riguardo la Banca d’Italia ha preferito assumere una posizione agnostica: da un lato nella Relazione di accompagno alla proposta di Delibera si afferma: ‘l’attuale formulazione dell’art. 120 TUB risulta essere quella introdotta dalla già menzionata legge 147/2013’, dall’altro risultano assenti interventi a correzione dei comportamenti illeciti che gli intermediari continuano a praticare.  Gli estratti conto, trasmessi nel 2014 e 2015 alla clientela, risultano in palese contrasto con la nuova formulazione dell’art. 120 TUB: la decisione assunta dagli intermediari bancari ha di fatto precluso alla clientela di usufruire dei benefici disposti dalla legge, presentando aspetti di particolare criticità, anche penale per quei rapporti di credito con tassi prossimi alle soglie d’usura che – per l’ormai illegittima capitalizzazione degli interessi, che si riflette nei ‘Numeri’ al denominatore del TEG – presentano livelli di tasso debordanti la soglia fissata trimestralmente dal Ministero dell’Economia e Finanze. La circostanza assume una particolare criticità, considerato che, dopo i puntuali chiarimenti forniti dalla sentenza della Cassazione n. 46669/11, l’usura oggettiva si viene sostanzialmente a sovrapporre e coincidere con quella soggettiva. La stessa rilevazione dei tassi ai fini della determinazione delle soglie d’usura viene a risultare distorta dalla capitalizzazione degli interessi ricompresa nei ‘numeri’ del TEG segnalati nell’anno. Sarebbe risultato doveroso, da parte del sistema bancario, quanto meno un orientamento cautelativo e prudente volto a rilevare negli estratti conto gli interessi, senza procedere alla loro capitalizzazione, in attesa delle decisioni disposte dal CICR: “... il ragionevole dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza 364/1988 della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga l’incertezza sulla liceità o meno dell’azione stessa, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (cfr. in tal senso Sez. 6, Sentenza n. 6175 del 27/03/1995 Ud. (dep. 27/05/1005) Rv. 201518).” (Cassazione Pen. II Sez., n. 46669/11).

[35] Negli ultimi anni il processo di selezione del credito è apparto rimesso più alla garanzia prestata che alla qualità dell’iniziativa finanziata. L’intermediario non è un Monte dei Pegni, nel quale la garanzia esaurisce e assorbe completamente la scelta del finanziamento, senza alcuna condivisione delle sorti del prenditore. Nell’allocazione del credito l’intermediario, nei limiti propri al ruolo al quale è preposto, deve farsi carico della responsabilità e rischio dell’iniziativa imprenditoriale selezionata e finanziata: il piano industriale, il know how e la capacità imprenditoriale devono costituire le migliori condizioni di garanzia, di sviluppo e, conseguentemente, di ritorno economico.

[36] Come si è mostrato nel paragrafo 3, la periodicità annuale, in luogo di quella trimestrale, non induce una significativo temperamento alla lievitazione del debito conseguente ad un reiterato anatocismo.

[37](...) in pendenza della disciplina previgente, gli obiettivi della trasparenza e della correttezza non erano perseguiti in modo diretto dall’azione di vigilanza, ma si tendeva ad essi piuttosto come ad un ‘obiettivo intermedio, attraverso il quale perseguire altri interessi di natura primaria, quali appunto quello dell’efficienza e competitività del mercato finanziario’. Sotto tale profilo, tuttavia, va anche segnalato che il d. lgs. N. 141 del 2010 ha sistematizzato tendenze che non erano del tutto estranee alla normativa previgente alle prassi seguite dall’autorità di vigilanza. Già prima del decreto, infatti, era stato possibile affermare che ‘La tutela dei clienti degli intermediari è ormai diventata a pieno titolo una finalità di Vigilanza’ (Considerazioni finali del Governatore 2009) e in dottrina si era osservato che ‘pur in assenza di un’esplicita indicazione normativa, l’obiettivo primario perseguito (dalle disposizioni di trasparenza) è quello di tutelare il cliente, attraverso disposizioni che garantiscono adeguate forme di pubblicità delle condizioni praticate e che, in taluni casi, concorrono all’equilibrio degli assetti negoziali’. (...) La riforma implica invece che la trasparenza e la correttezza sono fini in sé dell’esercizio dei poteri delle autorità creditizie e che quindi in una ipotetica situazione di conflitto tra le finalità di cui all’art. 5 e quelle ulteriori di cui all’art. 127, la scelta compiuta dal legislatore dovrebbe imporre quindi una ricerca di un bilanciamento degli, in ipotesi, opposti interessi, non risolvibili in termini di necessaria recessività della finalità di tutela dei clienti.’ (A. Portolano, Commento al TUB, a cura di C. Costa, Giuffré 2013).

[38](...) sorge il sospetto di un pensiero retrostante forse ancora non del tutto superato, per quanto affatto infondato alla luce dell’evoluzione d’insieme dell’ordinamento bancario e più in generale della finanza, che continua a riconoscere una posizione, se non di preminenza, quanto meno di maggiore ‘nobiltà’ ai profili di tutela della sana e prudente gestione degli intermediari vigilati e della stabilità complessiva (...) Ad ogni modo, sembra davvero giunto il momento che anche nel Testo unico bancario la tutela del cliente sia formalmente elevata a paradigma teleologico della complessiva azione di vigilanza, mediante un opportuno intervento modificativo dell’art. 5.’ (A. Urbani, La vigilanza sui soggetti esercenti il credito ai consumatori, Banca Borsa e Titoli di credito, n. 4 2012).

La scelta operata dalla Banca d’Italia con la nuova formulazione dell’art. 120 TUB appare assai stridente con quanto affermato da Draghi nelle Considerazioni finali per l’anno 2009 e riportato nel Quaderno di Ricerca Giuridica n. 68: ‘La più recente evoluzione della regolamentazione finanziaria, che trova riscontro negli interventi di riforma realizzati in alcuni paesi a seguito della crisi finanziaria, va nel senso di considerare la tutela della clientela come obiettivo diretto della vigilanza sugli intermediari e non soltanto come corollario dell’obiettivo della sana e prudente gestione degli intermediari e della stabilità complessiva del sistema bancario e finanziario. Secondo tale impostazione, la tutela della clientela è dunque una precondizione della sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, un presupposto dell’affidabilità del sistema finanziario, un requisito per il radicarsi della fiducia’.

[39]  l’anatocismo, per usare le suggestive parole di una decisione della Corte di Cassazione degli anni trenta del secolo scorso, non ha mai cessato di essere ‘materia ... dibattuta nella coscienza di economisti giuristi e filosofi’. Chi cercasse rapide conferme del lacerante dibattito, cui accennava la Cassazione, non si troverebbe nella necessità di indagare oltre i confini della dottrina giuridica, dove a giudizi sferzanti sull’art. 1283 c.c., in termini di ‘anacronistico residuo’, di ‘archeologia giuridica’, si sono contrapposte letture improntate a sostanziale giustificazione, in quanto norma rispondente alla ‘coscienza sociale’, strumento preordinato a proteggere il debitore dalle vessazioni del creditore e, al tempo stesso, utile ad assicurare la conformità dell’esercizio del credito agli auspici dell’autorità monetaria, ‘frutto’ – prosegue un autore recente, confrontando l’art. 1283 c.c. alle corrispondenti norme di altri ordinamenti – ‘di una più generale presa di posizione nel senso della necessità di una sorta di dialettica fra libertà di determinazione degli interessi, da un lato, e contestuali limitazioni della stessa, dall’altro’. (G. La Rocca, L’anatocismo, E.S.I. 2002).

[40] ‘In un mercato che avesse le caratteristiche appena elencate, la letteratura economica dimostra invero che la funzione disciplinare che la pressione concorrenziale esercita sulle imprese spingerebbe queste ultime - pena l'esclusione dal mercato - a offrire alle loro controparti il miglior servizio che esse possano prestare, compatibilmente con la loro struttura di costi.

Un mercato in concorrenza perfetta è tuttavia solo una mera ipotesi, un paradigma astratto. Esso costituisce infatti un modello mediante il quale è possibile analizzare la realtà del mercato, scomponendolo nei suoi ingranaggi, e accertare la presenza di eventuali "fallimenti del mercato". Con questa locuzione gli economisti definiscono quelle situazioni in cui il funzionamento del mercato - vale a dire del coordinamento spontaneo delle decisioni individuali di produzione e consumo tramite il sistema dei prezzi - non conduce ad un'utilizzazione efficiente delle risorse e alla conseguente offerta del "miglior prodotto possibile". È appunto a fronte di fattori che determinano un "fallimento del mercato" che trova giustificazione, sul piano dell'efficienza, l'intervento correttivo del legislatore sulla forma o sul contenuto del contratto (i.e. dello scambio). Siffatto intervento può essere orientato, a seconda dei casi, al conseguimento di due distinti obiettivi.

a) Può essere diretto a favorire il libero e corretto operare della concorrenza, rimuovendo gli ostacoli che possono impedire il funzionamento del mercato in modo efficiente. È questo ad esempio il caso di quelle norme che mirano a colmare strutturale carenza informativa di una delle parti del contratto imponendo sull'altra parte specifici obblighi di comunicazione. b) Può, sul presupposto che non sussistano le condizioni strutturali per l'affermazione di un mercato concorrenziale ed efficiente, spingersi oltre e giungere a conformare il contenuto stesso dei contratti secondo quelle che si presume siano le condizioni alle quali lo scambio sarebbe avvenuto in un regime di concorrenza. In altri termini, il regolatore tenta di mimare la concorrenza lì dove essa non può operare, ad esempio determinando autoritativamente il prezzo massimo della fornitura del servizio.’ (P. Ferro-Luzzi, Lezioni di Diritto Bancario, Vol. II, G. Giappichelli Editore, 2004).

[41] Sul piano penale, buona fede e favor rei hanno sino ad oggi di fatto arenato i procedimenti di accertamento d’usura. Le ‘difformi’ Istruzioni della Banca d’Italia hanno per lungo tempo prestato una ‘copertura’ all’operato degli intermediari bancari consentendo, nel rispetto della forma, di disattendere l’art. 644 c.p.


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