Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 29/04/2020 Scarica PDF

La rinegoziazione contrattuale e l'insolvenza ai tempi del COVID-19 (e non solo)

Paolo Pannella, .


L'articolo si propone di richiamare l'attenzione su due temi che a seguito del Covid-19 si presenteranno a breve sia negli studi professionali che nelle aule di Tribunale: 1) la rinegoziazione dei contratti e la sua obbligatorietà (invocata); 2) "l'insolvenza incolpevole" e quindi i rimedi e l'esegesi della norma.

Sono argomenti "scottanti" ed urgenti che abbisognano di una riflessione proponendo soluzioni legislative, ed agli interpreti la richiesta di un pò più di audacia nel caso di "sordità" del legislatore.

     

L’evento eccezionale della pandemia non solo ha comportato un’emergenza sanitaria di notevole portata ma anche un grave dissesto nei rapporti economici e commerciali.

Il nostro Paese, già sconvolto da difficoltà di liquidità sin dal 2008, a causa di non accorte politiche economiche, si trova oggi a far fronte, nel rapporto anche con altri paesi, alla ricerca di soluzioni per immettere danaro, senza maggior oneri o quantomeno con oneri di scarsissima rilevanza, nel ciclo produttivo così da far ripartire le aziende che, rimaste chiuse, non hanno potuto e non possono non solo rispettare i contratti conclusi ma anche garantire una ripresa in un tempo ben determinato. Onde i rapporti economici, nel senso più ampio, anche tra le persone fisiche, risentendo delle difficoltà del mondo imprenditoriale, sono soggetti a grandi ripercussioni.

Insomma, oserei dire, che ci troviamo nella condizione che siamo tutti inadempienti.

Il governo, con una serie di decreti, sta cercando di tamponare lo squilibrio economico e finanziario che si è creato, innanzitutto decretando (almeno sulla carta) una serie di aiuti finanziari sia per le aziende che per i lavoratori autonomi ed indipendenti ora con il ricorso al credito ora con un’agevolazione di tassazione, ma in modo disorganico e temporaneo.

Appunto temporaneo, anche con la sospensione di ogni pagamento di imposte e tasse procrastinandole ad un diverso periodo, in alcuni casi anche breve, non prevedendo, almeno fino ad oggi, “per il post emergenza” allorquando si riprenderà la vita normale. Infatti, dopo verranno fuori le criticità circa i rapporto contrattuali in essere e che per effetti dei vari decreti sono sospesi a vario titolo.

Le regole di correttezza, buona fede e di solidarietà economica che nei contratti sono i principi basilari cui devono attenersi i contraenti, ora più che mai saranno oggetto di interpretazione dinanzi ad un accadimento imprevisto ed imprevedibile che ha comportato e comporterà l’inadempimento delle prestazioni.

Nel nostro Codice civile è previsto (art. 1218) che la non esatta esecuzione della prestazione non comporta il risarcimento del danno, laddove si dimostri che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile all’inadempiente.

Ancora l’obbligazione si estingue per causa non imputabile al debitore se la prestazione diventa impossibile(art.1256). Se l’impossibilità è solo temporanea il debitore non è responsabile del ritardo, ma se l’impossibilità perdura l’obbligazione si estingue se in relazione al titolo dell’obbligazione ed alla natura dell’oggetto, il debitore non può essere ritenuto obbligato ad eseguire la prestazione ovvero il debitore non ha più interesse a conseguirla. Inoltre (art. 1463), nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può più chiedere la controprestazione e deve restituire quanto ricevuto, se, invece (art. 1464), la prestazione è divenuta solo parzialmente impossibile l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale. Infine (art. 1467), nei contratti a esecuzione periodica o a prestazione differita, se la prestazione della parti è divenuta eccessivamente onerosa a causa di avvenimenti straordinari ed imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, ma la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla se offre di modificare equamente le condizioni del contratto.

Da quanto sopra riportato emerge che nel quadro normativo del nostro codice non è previsto un obbligo di “rimodulazione” dei patti contrattuali nel caso in cui un evento imprevisto ed imprevedibile comporti un’alterazione significativa degli interessi economici di ciascun contraente posti alla base del contratto stipulato.

Altri ordinamenti, come quelli tedesco e francese, hanno invece introdotto modifiche nei propri codici per la soluzione del problema.

L’Unidroit (istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato), che persegue l’armonizzazione del diritto internazionale privato composto da 63 stati membri, tra i quali anche l’Italia, ha dettato dei principi cui devono attenersi gli stati, che possono essere sintetizzati in quattro idee fondamentali di fondo: la libertà contrattuale, il principio di buona fede, l’apertura agli usi contrattuali ed il favor contractus.

L’articolo 6.2.2 dei principi Unidroit prevede una deroga al principio generale della forza obbligatoria del contratto tra le parti in relazione ad eventi che alterano in modo sostanziale l’equilibrio contrattuale ed in particolar modo nella ipotesi di accrescimento dei costi della prestazione di una delle due parti ovvero per la diminuzione del valore della controprestazione e nella ipotesi di disaccordo, a seguito dell’apertura di una fase di rinegoziazione, è possibile l’intervento di un terzo.

Il codice tedesco con le modifiche introdotte nel 2002 ha previsto l’ipotesi dell’alterazione del fondamento negoziale al paragrafo 313 del BGB:

“se le circostanze, divenute base del contratto, sono alterate dopo la conclusione del contratto in modo talmente rilevante che le parti, se avessero previsto questa alterazione delle circostanze, non avrebbero concluso il contratto o lo avrebbero concluso con un contenuto diverso, ciascuna parte può chiedere all’altra l’adeguamento del contratto in quanto non può presumersi per una parte di rimanere vincolata al contratto invariato, considerando tutte le circostanze del singolo caso e, in particolar modo la ripartizione del rischio contrattuale o legale.

All’alterazione delle circostanze equivale la situazione in cui le idee essenziali delle parti, divenute base del contratto, si rivelino erronee.”

Dal testo del paragrafo appare subito evidente che si tratta di una norma destinata a correggere il principio “pacta sunt servanda”, per evitare che le parti rimangano vincolate ad un contratto il cui adempimento comporterebbe per una di esse una ingiustizia insopportabile. I prerequisiti di una tale modifica sono tuttavia rigidi. Ci vuole un’alterazione veramente grave e profonda delle condizioni esterne che sono divenute, per ambedue le parti, esplicitamente il fondamento del contratto concluso; ed il cambiamento di quelle condizioni deve essere talmente incisivo sull’equilibrio del contratto che sarebbe inconcepibile insistere sull’adempimento del contratto inalterato.

È poi interessante notare come la norma preveda, di regola, non lo scioglimento ma l’adeguamento del contratto in modo da salvaguardare il più possibile il rapporto creato dalle parti in base alla propria autonomia contrattuale.

Per quanto la codificazione dell’istituto di origine giurisprudenziale sia fedele, il legislatore, ha previsto una piccola modificazione per facilitare l’applicazione della norma nella prassi e per dare alle parti più autonomia e al tempo stesso più sicurezza nell’adeguamento del contratto alle condizioni alterate. Mentre, infatti, la giurisprudenza tedesca aveva concepito l’adeguamento del contratto come un automatismo legale, che richiedeva soltanto la determinazione e la conferma, da parte del giudice, delle nuove condizioni contrattuali introdotte ex lege ma non prevedibili dalle parti, nella nuova normativa è previsto che siano queste a decidere in che modo, quanto e in che senso vorrebbero modificare il contratto. Lo strumento dogmatico utilizzato per arrivare a questo effetto non è più un automatismo di adeguamento.

La nuova norma, infatti, concede alla parte svantaggiata la facoltà di chiedere al contraente una modificazione del contratto. Se il contraente rifiuta di trattare, la parte svantaggiata ha il diritto di citarlo in giudizio per l’adeguamento del contratto.

Anche il codice civile francese sin dall’ottobre 2016 ha modificato il principio “pacta sunt servanda”. Difatti è stata definita “rivoluzionaria” da alcuni commentatori la codificazione della cosiddetta “theorie de l’imprevision”, rivoluzionaria perché attenendosi costantemente ad un principio risalente affermato dalla Corte di Cassazione nel 1986 (c.d. sentenza “Canal de Craponne”) la giurisprudenza francese, infatti, aveva fino ad oggi applicato in modo molto rigoroso il principio della irrevocabilità delle disposizioni contrattuali. Difatti, fondandosi sulla disposizione dell’art. 1134 che equipara al valore di legge gli accordi contrattuali, escludeva che i tribunali potessero prendere in considerazione il tempo e le circostanze mutate per modificare gli accordi che le parti avevano liberamente stabilito. Con l’introduzione del nuovo articolo 1195, invece, è stato previsto che nelle ipotesi di un’ imprevedibile cambiamento di circostanze, naturalmente successive alla conclusione del contratto, che lo rendono eccessivamente onerosa a carico di un contraente, è possibile per quest’ultimo domandare di rinegoziare i termini contrattuali all’altra parte; se la rinegoziazione fallisce o qualora la controparte rifiuti di rinegoziare di comune accordo, possono rivolgersi al giudice affinché decida sulle sorti del contratto. In via sussidiaria l’autorità giudiziaria può essere adita su istanza della sola parte onerata nel caso che le trattative si siano protratte oltre una durata ragionevole.

Nel nostro ordinamento, non è stato ancora codificata una previsione così chiara della obbligatorietà della rinegoziazione del contratto pur essendo stata prevista, anche recentemente, in sede di disegno di Legge delega[1].

La drammatica emergenza di questi momenti induce però a ricercare, in caso di silenzio del legislatore in tempi brevi, soluzioni interpretative anche audaci delle norme che il nostro codice mette a disposizione degli interpreti in base ai principi basilari sopramenzionati: buona fede, correttezza e solidarietà.

Trattare l’argomento con la impossibilità sopravvenuta della prestazione, allorquando quest’ultima consiste nel pagamento di una somma di danaro (che si verifica nella maggior parte dei casi), non è possibile perché trova il suo limite nell’art. 1178 c.c.; ed anche parlare di eccessiva onerosità trova il suo limite nell’art. 1467 c.c. che indica solo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica o ad esecuzione differita la possibilità di domandare per il debitore la risoluzione contrattuale e non certo la rinegoziazione dei patti del contratto.

La soluzione che si intende prospettare tiene conto anche di un altro principio fondamentale accanto a quelli di buona fede, correttezza e solidarietà ed è quello della equità che nel nostro codice all’art. 1374 c.c. stabilisce:” il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza secondo gli usi e l’equità”.

Si può pensare che la locuzione in mancanza, può essere considerata un accadimento imprevisto ed imprevedibile non normato dalle parti proprio perché imprevisto ed imprevedibile e che ha modificato, alterando, in maniera forte e concreta, l’interesse delle parti inizialmente perseguita nel contratto stipulato.

Sono consapevole che qualche giurista potrà storcere il naso di fronte alle interpretazioni un po’ eccessive proposte, anche se altri autori[2] hanno affermato che l’ordinamento italiano favorisce delle soluzioni “manutentive” ossia di conservazione del vincolo contrattuale, adeguandolo ad una nuova regolamentazione compiuta tra le parti o, in subordine dalla pronuncia di un giudice, prima di arrivare alla risoluzione del contratto per effetto degli accadimenti imprevisti dalle parti stesse. Anche per noi giuristi italiani l’intervento del giudice nei rapporti contrattuali, ancorché in via sussidiaria, sarebbe una rivoluzione come quella francese ma penso che sia necessaria per evitare all’indomani di una ripresa, o pseudo tale, un forte squilibrio dei rapporti economici sia commerciali che tra privati laddove le parti non intendessero trovare una soluzione adeguata che riequilibri gli interessi contrattuali.

Le Sezioni Unite della Cassazione[3] hanno affermato, con particolare riferimento alla clausola penale di cui all’art. 1384 c.c., che l’intervento correttivo-equitativo del giudice non può considerarsi eccezionale, ma quale atto di governo riservato dall’ordinamento all’autorità giudiziaria sugli atti di autonomia privata in sintonia con il dovere costituzionale di solidarietà, riferibile anche ai rapporti contrattuali, e con la clausola generale di buona fede e correttezza, onde il potere del giudice di riduzione equitativa può essere esercitato anche in difetto di un’ istanza del debitore per la realizzazione di un interesse oggettivo dell’ordinamento. Questo principio ammette l’applicazione analogica dell’intervento del giudice col potere di ridurre ad equità quelle clausole anche nei contratti manifestamente squilibrati. Ciò per non disattendere il dovere di solidarietà, previsto dall’art. 2 della costituzione, che in sinergia con i principi generali di buona fede e correttezza si pongono come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente assunta.

Se vogliamo immaginare gli "inadempimenti regolari” degli imprenditori sia sopra che sotto soglia che dei soggetti non imprenditori che si avranno in numero molto rilevante all’indomani della “sospensione Covid”, si può immaginare un paese completamente insolvente.

Lo spostamento al primo settembre 2021 dell’ingresso del Codice della crisi dell’impresa dovuto sicuramente ad un’inefficienza degli apparati burocratici, degli enti e delle associazioni del nostro paese (penso alle Camere di Commercio nonché all' Unioni Industriali, alla Confcommercio, all’Agenzia delle entrate, all’Inps ecc.) che hanno avuto ben 18 mesi per organizzarsi per l’introduzione che era prevista nella metà di agosto 2020, non giova assolutamente considerando l’importanza degli strumenti di allerta, opportunamente azionati ed interpretati “non come una sorta di ultimatum rivolto all’imprenditore minacciato di subire in futuro la liquidazione giudiziale della sua azienda, bensì come un mezzo di supporto che al medesimo imprenditore si offre per aiutarlo a superare nei limiti del possibile la situazione di crisi in cui versa e ad evitare il paventato esito liquidatorio”[4]. È ovvio che a causa della pandemia anche gli indici di indicatore della crisi dovevano essere aggiornati e rivisti tenendo conto di tutte le criticità. Ma ciò poteva essere fatto anche dagli illustri e preparati dottori commercialisti ed esperti contabili del nostro paese che sicuramente ed alacremente sin dagli inizi del mese di marzo si sarebbero dovuti incontrare e delineare gli indici adeguandoli con previsioni all’emergenza. Come anche sarebbe stato necessario ed importante far entrare in vigore le norme sul sovra indebitamento, sulla esdebitazione e sul concordato minore che avrebbero modificato sostanzialmente la L. n. 3/2012 (c.d. Legge salva suicidi).

Il passaggio dall’inadempienza contrattuale all’insolvenza è breve anche perché quest’ultima si manifesta allorquando l’imprenditore con “inadempimenti regolari” non è più in grado di soddisfare le proprie obbligazioni.

È lecito dire che a causa della pandemia gli imprenditori individuali o collettivi non sono e non saranno per molto tempo in grado di soddisfare le obbligazioni assunte. Questo dato di fatto che dovrà essere accertato dal giudice della insolvenza (al fine di evitare mistificazioni da parte degli imprenditori già in conclamato stato di insolvenza) dovrà essere preso in considerazione e non può, pertanto, tradursi in un semplice esame dei parametri di cui all’art. 1 della l.f. ma deve, invece, approfondire ed esaminare le cause della insolvenza. È già stato sostenuto[5] che il regolare adempimento delle obbligazioni è un concetto da intendersi in senso lato per certi versi finanche prospettico, dal momento che, in ragione degli interessi che l’ordinamento vanta alla conservazione degli strumenti produttivi, la regolarità deve investire la gestione dell’impresa e tutti i rapporti che ne discendono. D’altro canto ritenere l’insolvenza come una sanzione per l’imprenditore commerciale è ormai superata da tempo, tant’ è che sia la Raccomandazione della Commissione Europea del 12 marzo 2014 che prevede un’altra "chance" per l’imprenditore, sfortunato ed incolpevole e sia il nostro recente legislatore che ha abolito il termine di “fallito” dal nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza sta a significare una nuova interpretazione dell’art. 5 della l.f..

Ed allora è giusto pensare che le imprese sane non abbiano a trovarsi per cause a loro non imputabili negli “stretti parametri” delle legge fallimentare con la presentazione di ricorsi di stato di insolvenza da parte di creditori (di cui alcuni senza scrupoli e con tanta voglia magari di accaparrarsi l’azienda una volta dichiarata fallita). La prospettata ed autorevole rivisitazione[6] dell’art. 5 con la previsione di una esclusione della dichiarazione di fallimento ove “l’inadempimento regolare delle obbligazioni” sia stato determinato da cause di forza maggiore o da altri avvenimenti straordinari ed imprevedibili comportando una oggettiva incapacità di provvedere è una soluzione da prendersi in considerazione.

D’altra parte “la oggettività dell’insolvenza” era stata già minata dal fatto che la dichiarazione di fallimento non può essere più dichiarata d’ufficio ma, a parte dal debitore stesso, su istanza di terzi: creditori e P.M.. Ed allora a maggior ragione per quanto sopra detto circa l’intervento del giudice nei rapporti contrattuali il Tribunale nel verificare su istanza dei terzi l’inadempimento non più regolare delle obbligazioni contrattuali potrebbe non solo in base ai principi di buona fede, correttezza, solidarietà ma anche in base al principio di diligenza professionale (art.1176, comma 2) rendersi conto che l’inadempimento delle obbligazioni dell’imprenditore è dipeso da eventi straordinari a lui non imputabili. Così, a mio avviso, l’imprenditore non è neanche “esaminabile” ai sensi dell’art. 1 della l.f..

È veramente difficile, in questo momento, ma per la verità è già da un po’ di tempo che la crisi attanaglia a vario modo il nostro tessuto imprenditoriale soprattutto medio. Non credo che tutti gli imprenditori siano dei malfattori (come qualcuno sostiene anche quando fa il curatore fallimentare), ma credo spesso che le circostanze portano gli uomini al principio della conservazione non solo della propria persona e dei propri beni ma anche delle aziende che hanno creato magari faticosamente e col tempo. Pensare di perdere tutto quanto costruito spesso annebbia l’imprenditore che non ha la lucidità, immediatamente, di rivolgersi ad esperti per trovare soluzioni di salvataggio dell’impresa. Anche perché, nonostante gli sforzi del legislatore del 2005 e quello del 2019 le procedure concorsuali sono sempre considerate, nella maggior parte dei casi, “la definitiva morte” di un’impresa, con le conseguenti responsabilità degli organi amministrativi e dei sindaci (molte volte inesistenti).

Ecco perché ritengo molto interessanti e validi i suggerimenti di alcuni giuristi Visionari[7] (così positivamente definiti ) che invitano il legislatore a studiare e ad emanare norme che diano la possibilità all’imprenditore in difficoltà, a seguito della pandemia, di essere accompagnato, guidato da professionisti esperti sotto il controllo del Tribunale. Insomma un’anticipazione, ancorché in maniera rivisitata, del Codice della crisi. Difatti, considerato che tra l’altro si auspica l’intervento finanziario a favore delle imprese colpite dal Covid-19, sarebbe interessante, anche soprattutto per un maggiore controllo, prevedere che la nomina di professionisti esperti da parte dei Tribunali, unitamente a Magistrati esperti, possano controllare l'impiego delle risorse finanziarie, il comportamento degli imprenditori per la continuità aziendale e il salvataggio dell’impresa entro un determinato periodo di tempo. In questa ipotesi il controllo del Tribunale e dei commissari nominati diventerà una garanzia per i sani imprenditori in difficoltà; magari una garanzia rafforzata laddove si aggiungesse la possibilità per il Tribunale, in caso di "non armonia contrattuale" tra le parti, di procedere, ancorchè in via temporanea, ad una riduzione ad equità dello squilibrio tra le posizione delle parti venutasi a creare.

Anche il compenso dei commissari, come è stato osservato, deve evitarsi che possa diventare una nuova spesa per la impresa già in crisi, onde ritengo che il compenso dei professionisti, liquidato dal Tribunale e quindi certo e non passibile di ulteriori controlli, non sia corrisposto dall'imprenditore, ma diventi un credito d’imposta legislativamente previsto che può essere compensato immediatamente con gli oneri tributari eventualmente dovuti dal professionista stesso. Ciò perché non siano mortificate la competenza ed il lavoro del professionista che, anche con la sua onestà intellettuale, sarà in grado di controllare se la nave condotta dall’imprenditore che naviga in acque agitate potrà continuare il suo viaggio salvandosi o se invece, traghettata dai rimorchiatori, dovrà essere accompagnata "nel porto del tribunale".

Nel nostro paese non si riscontra una vera “cultura di impresa”, innanzitutto nella maggior parte degli imprenditori medio-piccoli ed anche da una parte di alcuni professionisti e di alcuni magistrati; pare vi sia invece volontà sanzionatoria nei confronti dell’imprenditore che diventa insolvente e ciò anche anche se la insolvenza è determinata da fatti imprevisti o imprevedibili o da altri fatti nonostante l'imprenditore abbia tenuto una condotta diligente.

Ci sarebbe anche molto da dire sul ruolo delle banche nelle attività di impresa che certo non affiancano l’imprenditore, particolarmente quello medio-piccolo, nel seguire il percorso della vita produttiva aziendale limitando il proprio intervento solo al finanziamento e ad un superficiale controllo dell’attività d’impresa (se non quella formale della presentazione dei bilanci annuali) ma questa è un’altra storia … che sarà però opportuno affrontare in maniera seria.



[1] Delega al Governo per la revisione del Codice Civile DDL Senato 1151: “il diritto della parti di contratti divenuti successivamente onerosi per cause eccezionali ed imprevedibili, di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che venga ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenute dalle parti”

[2] F.Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine , Napoli 1996

[3] Cass. S.U. 13 settembre 2005 n. 18128

[4] R. Rordorf Codice della crisi e dell’insolvenza in tempi di pandemia, http://www.giustiziainsieme.it

[5] P.Pannella La nuova frontiera dell’insolvenza, in www.ilcaso.it, articoli del 25 dicembre 2013

[6]G.Limitone, La forza maggiore nel giudizio sull’insolvenza, in www.ilcaso.it

[7] Giuseppe Limitone, l’accompagnamento fuori della crisi con l’aiuto delle OCC Covid-19, http://www.ilcaso.it, 18 aprile 2020. Danilo Galletti, Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra in il Fallimentarista focus 14 aprile 2020


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