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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 12/05/2020 Scarica PDF

COVID e Mascherine

Alberto Rizzo, Avvocato in Asti


SOMMARIO: 1. L’obbligo di indossare mascherine nell’emergenza pandemica; 2. La normativa di carattere penale attualmente vigente; 3. Il problema del burqua; 4. Le attuali problematiche di carattere penale; 5. Obbligatorietà dell’azione penale.

         

Sono trascorsi diversi mesi dall’inizio dell’emergenza scatenata dal Covid-2019, eppure il virus non cessa di essere il protagonista indiscusso dei nostri pensieri e diuturni discorsi.

Di cose se ne sono dette tante - anche troppe - e si continua a dirne. Certamente, uno degli argomenti su cui tutti hanno espresso il proprio parere è la dibattutissima questione delle mascherine: quali usare, quando usarle, a chi farle indossare, a chi no e così via.

Ebbene, senza voler scendere nel merito della funzionalità tecnica di questi dispositivi, la cui valutazione è opportuno lasciare alle menti scientifiche, proviamo a concentrare l’attenzione su uno scenario che è rimasto in secondo piano, ma che ha comunque notevole rilevanza: i regolamenti regionali e ministeriali che impongono alla popolazione di indossare le mascherine sono davvero del tutto legittimi?

Procediamo con ordine.

 

1. L’obbligo di indossare mascherine nell’emergenza pandemica.

Inizialmente, l’obbligo di indossare le mascherine non si è articolato in modo uniforme sul territorio. Tale obbligatorietà è stata per lo più prevista in modo “trasversale”, ossia solo per determinate fasce di popolazione (i sanitari, gli esercenti commerciali dei beni di prima necessità come alimentari, farmacie etc.) e – in ogni caso – solo a livello regionale.

Quindi, obbligatorie solo per alcuni e, comunque, non dappertutto.

A causa dell’alto numero di contagi, la Lombardia è stata la prima ad emettere un’ordinanza locale con cui ha imposto l’obbligo a chiunque esca di casa di coprire naso e bocca, possibilmente con una mascherina o, in mancanza, impiegando una sciarpa o un foulard (Ordinanza n. 521 del 4/4/2020).

Sempre a inizio aprile, la Valle d’Aosta ha stabilito l’obbligo di indossare mascherina e guanti non solo per gli esercenti commerciali, ma anche per chi va a fare la spesa. Stessa cosa ha disposto il Veneto, mentre il Piemonte e la Toscana hanno comunicato che avrebbero reso obbligatorio l’uso della mascherina per tutti, ma solo dopo aver provveduto a distribuirne una gran quantità alla popolazione.

Infine, con il DPCM del 26 aprile, finalizzato ad accompagnare l’Italia nella fatidica “FASE 2”, l’obbligo è stato introdotto e regolamentato sull’intero territorio nazionale.

Ad oggi, l’utilizzo in Piemonte è previsto dal Decreto 2 maggio 2020, n. 50, il quale prevede  l’obbligo per tutti i cittadini di utilizzare protezioni delle vie respiratorie nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, inclusi i mezzi di trasporto, e comunque in tutte le occasioni in cui non sia possibile garantire continuamente il mantenimento della distanza di sicurezza, escludendo da tale obbligo “i bambini al di sotto dei sei anni, nonché i soggetti con forme di disabilità non compatibili con l’uso continuativo delle mascherine ovvero i soggetti che interagiscono con i predetti”.

Questa la situazione attuale.

   

2. La normativa di carattere penale attualmente vigente.

Eppure, in questo contesto di “iper-legificazione” c’è un elemento che pare essere stato completamente dimenticato: il precetto penale.

Infatti, nell’ordinamento italiano esistono ancora delle norme, di carattere penale, che vietano di comparire mascherati o comunque travisati in un luogo pubblico.

In particolare, sono due le norme fondamentali che impongono tali restrizioni:

- l’art. 85 del Testo Unico di legge sulla pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931), che così recita: “E’ vietato comparire mascherato in luogo pubblico. Il contravventore è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000. È vietato l’uso della maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle epoche e con l’osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall’autorità locale di pubblica sicurezza con apposito manifesto. Il contravventore e chi, invitato, non si tolga la maschera, è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000.”

- l’altra, un po’più dettagliata, è l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975: “E' vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l'uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. ((Nei casi di cui al primo periodo del comma precedente, il)) contravventore è punito con l'arresto da uno a due anni e con l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro. ((Qualora il fatto è commesso in occasione delle manifestazioni previste dal primo comma, il contravventore è punito con l'arresto da due a tre anni e con l'ammenda da 2.000 a 6.000 euro.)) Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l'arresto in flagranza.”

Dalla lettura di queste disposizioni sorgono due interrogativi principali: cosa vuol dire “mascherati” e quali sono questi “giustificati motivi”?

La difficile interpretazione di tali norme, invero, ha già comportato non pochi problemi, soprattutto se si pensa alla dibattutissima questione dell’abbigliamento religioso.

In particolare, ci si riferisce a determinati abbigliamenti “occultanti”, ossia quelli imposti dalla fede musulmana (burqa o hijab).

Una donna che va in giro indossando il burqa quale strumento di espressione della sua appartenenza religiosa, può considerarsi “mascherata” ai sensi delle leggi citate e, quindi, sanzionabile penalmente?

Ovviamente il problema non si pone fintanto che la donna in questione non acceda a luoghi pubblici o affollati, ovvero nei quali è necessario provvedere al suo riconoscimento, come i Tribunali o gli aeroporti.

Sono, questi, interrogativi cui la giurisprudenza ha provato a dare risposte, giungendo a conclusioni anche diametralmente opposte. La questione si era fatta tanto spinosa che, nel 2010, una parte politica aveva tentato di riformare il dettato normativo dell’art. 5 L. 152/1975, al fine di rendere più chiara la sua portata interpretativa. Infatti, il nodo gordiano della questione risiede nel fatto che la norma parla espressamente solo di “caschi protettivi”, facendo in seguito riferimento, in via residuale ed assai genericamente, a “qualunque altro mezzo” atto a rendere difficoltoso il riconoscimento.

 

3. Il problema del burqua.

Ebbene, è proprio da questa indeterminatezza che sorge il problema del burqa.

Infatti, che tale indumento renda del tutto impossibile l’attività di riconoscimento, è fuor dubbio.

La proposta di modificare la norma era finalizzata a far rientrare il burqa nel novero dei “mezzi” volti a impedire il riconoscimento, ed era fondata sulla concezione secondo cui i motivi che stanno alla base del velo integrale non siano in realtà di carattere religioso, bensì solo etnico-culturale: non si tratterebbe, quindi, di un precetto imposto dalla fede religiosa, ma solo di un’usanza adottata dalle comunità islamiche più integraliste e, pertanto, non sarebbe da ricomprendere tra i “giustificati motivi” che fondano l’eccezione al precetto penale ex art. 5 L 152/75.

Tuttavia, tale prima proposta di riforma non ha trovato il seguito sperato.

Per quanto concerne la giurisprudenza, ad oggi la pronuncia più importante in materia è quella emessa nel 2008 dal Consiglio di Stato (n. 3076/2008), nella quale viene chiarito che “il burqa non contrasta né con l’art. 85 del R.D. 1931, né con l’art. 5 l. 152/75 poiché, in primo luogo, il riferimento al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico di cui all’articolo 85 del R.D. n. 773/193 non può sussistere, dal momento che il velo islamico non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa”.

Nemmeno sarebbe pertinente, a parere del Consiglio di Stato, il richiamo all’articolo 5 della legge n. 152/1975, che vieta l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.

La ratio della norma, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è quella di evitare che l’utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento.

Un divieto assoluto, quindi, vi è solo in occasione di manifestazioni che avvengano in luogo aperto al pubblico, ad eccezione di quelle di carattere sportivo che impongano tali usi, altrimenti l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento rimane vietato solo se avviene "senza giustificato motivo".

Infine, il Consiglio di Stato ha messo un punto sulla questione, affermando che quello del burqa è “utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. (…) Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.”

Nel 2017, al riguardo, è stata avanzata un’ulteriore proposta di riforma dell’art. 5 L. 152/75, anch’essa rimasta tale, e fondata nuovamente sulla necessità di chiarire la portata troppo generica dei “mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento”. Tale ulteriore proposta poneva l’accento sulla ratio dell’art. 5, ossia quella di scongiurare atti di terrorismo con misure atte a evitare occultamenti o travisamenti di identità.

 

4. Le attuali problematiche di carattere penale.

Ebbene, tornando all’argomento principale, ossia all’obbligo recentemente imposto di indossare le mascherine protettive in luoghi aperti al pubblico, appare una certa similitudine con il discorso sviluppato in riferimento all’abbigliamento occultante, se non altro per quanto concerne i problemi interpretativi che possono sorgere.

Partendo dal presupposto che vi sono due norme di rilevanza penale che impongono di non comparire in luogo pubblico mascherati, o con altri mezzi che rendano difficile il riconoscimento dei connotati - se non per giustificato motivo -, pare opportuno chiedersi se effettivamente le ragioni che stanno alla base dell’obbligo imposto siano valutabili come un “giusto motivo”, tale da scriminare quel comportamento che, altrimenti, avrebbe indubbiamente rilevanza penale.

A tal proposito, è ormai pacifico che il virus si trasmetta tramite un contatto stretto con una persona infetta. È lo stesso Ministero della Salute che, nella pagina Web appositamente dedicata a fornire chiarimenti sulla natura del Covid-19, scrive: “Il nuovo Coronavirus è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto stretto con una persona malata. La via primaria sono le goccioline del respiro delle persone infette”.

Non si tratta, quindi, di un virus che aleggia libero nell’aria e, d’altronde, ad oggi non ci sono protocolli sanitari che chiariscono come l’uso delle mascherine in luoghi aperti e non affollati sia funzionale a prevenire la diffusione del contagio.

Parrebbe, quindi, che indossare la mascherina in luoghi aperti non possa essere in alcun modo un “giustificato motivo”.

Volendo, quindi, ragionare in questi termini, si apre uno scenario alquanto sconcertante.

Appurato che indossare le mascherine per prevenire o limitare la diffusione del virus non costituisce un giustificato motivo ai sensi di legge, va da sé che tale comportamento sia penalmente rilevante ai sensi degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931.

Ebbene, basta dare uno sguardo alle strade di qualunque città d’Italia per rendersi conto di quanti cittadini, certamente convinti di fare una cosa buona e giusta, circolano indossando una mascherina.

A questo punto, dovremmo chiederci per quale motivo tutti i pubblici ufficiali in servizio, che constatano la presenza di persone dotate di mascherine in luogo pubblico, non abbiano segnalato all’Autorità Giudiziaria tali notizie di reato, rendendosi a loro volta passibili del reato di cui all’art. 361 c.p.

Oppure potrebbe essere che, in quanto le nuove norme (che impongono di indossare la mascherina in luogo pubblico) sono completamente contrastanti con le precedenti che vietano espressamente tale comportamento, si sia verificata un’abrogazione implicita di queste ultime, secondo quanto disposto dall’art. 15 delle Preleggi.

Se non fosse così, non ci si spiega come nessuno sia intervenuto a sanzionare tali comportamenti.

Ma non è tutto. Sempre partendo dall’assunto che tale comportamento sia penalmente rilevante - e che non vi sia stata un’abrogazione implicita dei precetti penali che lo sanzionano - si potrebbe affermare come le norme regolamentari, che impongono di andare in giro indossando la mascherina, di fatto stiano invitando la popolazione a tenere un comportamento contra legem.

Infatti, l’art. 414, comma primo, Codice penale, recita: “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione”.

Parrebbe, effettivamente, che sussistano tutti gli elementi costitutivi di tale fattispecie: indubbiamente i regolamenti sono divulgati “in forma pubblica” e, abbiamo appurato, impongono ai consociati di tenere un comportamento che va contro le disposizioni di cui agli artt. 5, L. 152/75, e 85, R.D. 773/1931.

 

5. Obbligatorietà dell’azione penale.

Il principio dell’obbligatorietà dell’azione – che risulta ancora costituzionalmente previsto – è quindi scomparso? Ai Lettori e ai Magistrati il compito di rispondere.

Vi è, peraltro, un’ultima questione che può fornire alcuni spunti di riflessione.

Posto che in molti riterrebbero l’utilizzo delle mascherine un “giustificato motivo”, idoneo a scongiurare un eventuale contrasto con i precetti penali sopra riportati, ciò non toglie che gli obblighi imposti alla popolazione siano stati precettati esclusivamente da ordinanze e decreti regionali, ovvero decreti ministeriali.

Tuttavia, uno dei principi cardine del nostro Ordinamento è quello della gerarchia tra le fonti del diritto: esse non sono tutte di pari grado, bensì assumono importanza differente.

La legge costituzionale è all’apice della gerarchia, seguita dalle leggi statali ordinarie e, solo in seguito, da quelle regolamentari (sia di origine governativa, sia regionale).

La fonte superiore, chiaramente, prevale su quella inferiore e quest’ultima non può in alcun modo contraddire le fonti di grado superiore.

Ciò comporta, quindi, che giammai un regolamento potrebbe imporre un precetto che sia in contrasto con quello di una legge ordinaria (quale è quella penale); in tal caso, ben lungi dall’essere rispettato, sarebbe proprio il regolamento a dover essere disapplicato.

In definitiva, le vie percorribili sono due: o è avvenuta un’abrogazione implicita degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931, poiché il loro contenuto è completamente contrastante con i nuovi regolamenti e decreti che impongono di andare in giro mascherati, oppure questi ultimi andrebbero disapplicati in favore delle leggi penali di rango superiore.

In ogni caso, il contesto legislativo in cui ci troviamo è, a dir poco, confusionario, e sarebbe auspicabile che, nonostante il periodo di emergenza e la necessità di farvi fronte velocemente, non si perdano di vista altri valori altrettanto importanti, quali quelli sanciti nella nostra Costituzione.


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