Bancario


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 30/03/2021 Scarica PDF

Nuove forme di garanzia del credito e necessità di una interpretazione rigida del divieto di patto commissorio: una applicazione concreta (nota a Cass. Civ. Sez. III, ord. 4664/2021)

Mauro Zollo, Avvocato in Napoli


Cass. civ. Sez. III Ord., 22/02/2021, n. 4664

Massima

“Il "sale and lease back" si configura come un'operazione negoziale complessa, frequentemente applicata nella pratica degli affari poiché risponde all'esigenza degli operatori economici di ottenere, con immediatezza, liquidità, mediante l'alienazione di un bene strumentale, di norma funzionale ad un determinato assetto produttivo e, pertanto, non agevolmente collocabile sul mercato, conservandone l'uso con la facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. Si tratta, dunque, di operazione caratterizzata da una pluralità di negozi collegati funzionalmente volti al perseguimento di uno specifico interesse pratico che ne costituisce appunto la relativa causa concreta, la quale assume specifica ed autonoma rilevanza rispetto a quella - parziale - dei singoli contratti, di questi ultimi connotando la reciproca interdipendenza (sì che le vicende dell'uno si ripercuotono sull'altro, condizionandone la validità e l'efficacia) nella pur persistente individualità propria di ciascun tipo negoziale, a tale stregua segnandone la distinzione con il negozio complesso o con il negozio misto.”

       

Cass. civ. Sez. III Ord., 22/02/2021, n. 4664

Leasing


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele - Presidente -

Dott. FIECCONI Francesca - Consigliere -

Dott. CIRILLO Francesco Maria - Consigliere -

Dott. MOSCARINI Anna - Consigliere -

Dott. GUIZZI Stefano Giaime - rel. Consigliere -


ha pronunciato la seguente:


ORDINANZA


sul ricorso omissis proposto da:

omissis;

- ricorrente -

contro

omissis;

- controricorrente -


avverso la sentenza n. omissis della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il omissis;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio de110/11/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO


Svolgimento del processo


1. La curatela fallimentare della società omissis, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 3738/18, del 1 agosto 2018, della Corte d'Appello di Milano, che respingendo il gravame da essa esperito avverso la sentenza n. 12131/16, del 4 novembre 2016, del Tribunale di Milano - ha confermato il rigetto della domanda volta a far dichiarare la nullità, per violazione dell'art. 2744 c.c., di due contratti di compravendita immobiliare, collegati negozialmente ad altrettanti contratti di "sale an lease back", stipulati dalla società omissis con la società omissis .

2. Riferisce, in punto di fatto, la curatela fallimentare che tra le società omissis intervenivano,nel 2007, due contratti di compravendita immobiliare (per il valore complessivo di cinque milioni di Euro), nel quadro di un'operazione di "sale an lease back", finalizzata a consentire all'alienante - mediante il trasferimento della proprietà di due opifici industriali, che la stessa si riservava di riacquistare a conclusione della locazione finanziaria - di reperire liquidità per proseguire la propria attività.

Dei contratti conclusi, tuttavia, era prospetta la nullità inizialmente, innanzi al Tribunale di Parma, poi dichiaratosi incompetente territorialmente in favore del Tribunale meneghino, innanzi al quale la causa veniva riassunta - dalla società omissis, per violazione del divieto del patto commissorio. A sostegno della domanda, l'attrice allegava, innanzitutto, la sproporzione tra

il valore dei beni trasferiti ad omissis ed il corrispettivo effettivamente erogatole, al netto degli importi da essa versati come "maxicanone" iniziale della locazione finanziaria, nonchè delle somme direttamente transitate in favore della società omissis, ad estinzione di pregresse esposizioni debitorie, verso la medesima, della stessa società alienante/oratrice, La declaratoria di nullità, inoltre, era motivata, oltre che sul rilievo del preesistente rapporto di credito e debito tra l'utilizzatrice e la società concedente (sebbene, come detto, non di natura "diretta", appartenendo omissis al medesimo gruppo societario di omissis), sulla conoscenza - in capo all'acquirente/locatrice finanziaria - della situazione di difficoltà economica della venditrice/utilizzatrice.

La domanda, tuttavia, era rigettata dai giudice di prime cure, con decisione confermata da quello di appello, che respingeva il gravame esperito dall'attrice soccombente.

3. Avverso la sentenza della Corte ambrosiana ricorre per cassazione la curatela fallimentare, sulla base -come detto - di tre motivi.

3.1. Il primo motivo - proposto a norma dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) - denuncia nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 81, 82, 83, 100, 132 c.p.c..

Deduce l'odierna ricorrente - nel rammentare di aver promosso il giudizio di appello nei confronti della società omissis - che, all'udienza destinata agli incombenti ex art. 352 c.p.c., veniva prodotto  un foglio di precisazione delle conclusioni nell'interesse di omissis quale avente causa da omissis.

Rileva, tuttavia, la ricorrente che in quel frangente, come del resto anche in occasione di precedenti atti, non risultò prodotta ed indicata alcuna procura alle liti rilasciata ai difensori dell'interveniente, nè il titolo in forza del quale quest'ultima affermava essere avente causa dall'appellata società. Ricorrerebbe, pertanto, violazione sia dell'art. 81 c.p.c., essendo omissis priva di legittimazione ad agire, nonché degli artt. 82 e 83 c.p.c., in quanto la medesima per potersi costituire in giudizio avrebbe dovuto rilasciare apposita procura ai difensori. D'altra parte, sarebbero stati violati sia l'art. 100 c.p.c., poichè dagli atti di causa non risulta quale fosse l'interesse ad agire in capo all'interveniente, che l'art. 132 c.p.c., visto che la sentenza ha deciso su conclusioni precisate da una parte illegittimamente ammessa al processo.

3.2. Il secondo motivo - proposto a norma dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) - denuncia nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 81, 82, 83, 100, 132 c.p.c., sulla base dei medesimi rilievi appena svolti, sebbene proposti, in questo caso, quale vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto.

3.3. Il terzo motivo - proposto a norma dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) - denuncia nullità della sentenza per violazione degli artt. 1344, 1418, 2740, 2741 e 2744 c.c..

Richiama la ricorrente il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui il contratto di "sale and lease back" può essere impiegato per scopi illeciti o fraudolenti, ovvero, segnatamente, per eludere il divieto del patto commissorio. Tale sarebbe, appunto, l'evenienza ipotizzabile nel caso che occupa, visto che il reale scopo della programmata operazione negoziale non era di concedere un nuovo finanziamento alla venditrice/utilizzatrice, bensì di ripianare talune pregresse esposizioni debitorie della stessa nei confronti di omissis, ovvero una società appartenente al medesimo gruppo della locatrice finanziaria. Del resto, significativa in tal senso, sarebbe la circostanza che la conclusione dell'operazione negoziale avvenne nell'immediatezza di un dimezzamento di fidi concessi da omissis ad essa ricorrente (con contestuale richiesta di rientro, immediato, dagli stessi), oltre al fatto che larga parte del prezzo conseguito dalla vendita degli opifici industriali, poi oggetto della locazione finanziaria, venne utilizzata proprio per estinguere due mutui erogati da omissis - tra l'altro, assistiti da ipoteca su quegli stessi immobili - ed ulteriori esposizioni debitorie verso di essa. La circostanza, dunque, che fu omissis, attraverso omissis, a proporre la stipulazione di due contratti di "sale and lease back", esprimerebbe in maniera inequivocabile la sussistenza di una situazione di approfittamento da parte del creditore.

Ciò detto, si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ritiene che il requisito della interdipendenza tra le operazioni negoziali, necessario perchè possa ravvisarsi la violazione del divieto del patto commissorio, sia ipotizzabile solo in presenza di un'interdipendenza tra mutuo e trasferimento della proprietà.

La Corte territoriale, d'altra parte, avrebbe errato nell'escludere la sussistenza di una sproporzione tra il valore di mercato dei beni alienati e il loro prezzo di vendita. Difatti, a fronte di un prezzo complessivo di Euro 5.000.000,00, la somma effettivamente incassata dalla venditrice era risultata pari ad Euro 2.600.000,00, in quanto essa si era accollata il costo delle imposte ipotecarie e catastali, per complessivi Euro 100.000,00, ed aveva, inoltre, destinato Euro 1.610.989,40 all'estinzione anticipata di mutui verso omissis, nonché ulteriori Euro 256.000,00 quale maxicanone iniziale del contratto di locazione finanziaria e, infine, Euro 354.969,00 quale rientro dalle già indicate esposizioni a breve termine sempre verso omissis. Inoltre, a fronte di un incasso netto, per l'appunto, di Euro 2.600.000, nei quindici anni di durata del rapporto l'utilizzatrice avrebbe dovuto corrispondere Euro 6.567.466,00 a titolo di canone di locazione, con possibilità di versare un'ulteriore somma di Euro 765.000,00 per esercitare il diritto di riscatto dei beni.

D'altra parte, a corroborare ulteriormente - oltre ai rilievi appena svolti - la sproporzione in cui si diceva, rileverebbero, secondo la ricorrente, i dati delle perizie di parte prodotte in giudizio, i quali attesterebbero un valore di mercato dei canoni, astrattamente ricavabili dalla locazione immobiliare dei beni oggetto, invece, di vendita (e di contestuale "sale and lease back"), di gran lunga superiore a quello dei pattuiti canoni della locazione finanziaria.

Ciò premesso, risulterebbe errata la sentenza della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto di arrestare l'indagine sulla liceità dell'operazione sottoposta ai suo esame alla mera verifica della simultanea ricorrenza di tutti gli indici "sintomatici" della violazione dell'art. 2744 c.c. (vale a dire, la preesistente situazione di debito credito tra le parti della locazione finanziaria, la grave situazione di difficoltà economica della società venditrice/utilizzatrice e, infine, la sproporzione tra il valore dei beni e il corrispettivo versato dall'acquirente), visto, oltretutto, che gli stessi, per i motivi illustrati, dovrebbero ritenersi sussistenti nel caso di specie.

Infine, la ricorrente rileva come, attraverso l'operazione negoziale oggetto di causa, il gruppo bancario di appartenenza della società concedente il leasing abbia visto soddisfare i propri crediti, anche chirografari, con la cessione degli immobili oggetto della locazione finanziaria, evitando che sugli stessi potessero soddisfarsi altri creditori della società venditrice, almeno per la parte eccedente il valore della ipoteca esistente su di essi.

4. Ha resistito omissis (quale avente causa, per scissione societaria, da omissis), con controricorso, all'avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

Quanto ai due primi motivi di ricorso, la controricorrente ne assume l'infondatezza o, comunque, l'irrilevanza. Osserva, infatti, che sin dalla comparsa di costituzione in giudizio, i difensori di omissis ebbero a dedurre che, in pendenza della lite, la società si era parzialmente scissa, e cìò mediante assegnazione del proprio ramo d'azienda organizzato per la detenzione e gestione di crediti in sofferenza non cartolarizzati, derivanti da operazioni di leasing finanziario, a favore di omissis. Poichè, peraltro, la successione nel diritto controverso era avvenuta in corso di causa, aveva trovato applicazione l'art. 111 c.p.c., con prosecuzione del giudizio tra le parti originarie dello stesso.

Ciò premesso, la circostanza che, nel foglio di precisazione delle conclusioni in appello, le stesse fossero state rassegnate da omissis non avrebbe implicato alcun vizio procedimentale, meno che mai idoneo a riverberarsi sulla decisione finale, anche perchè le conclusioni sulle quali la Corte territoriale ha reso la propria pronuncia ricalcavano totalmente quelle già rassegnate dalla parte appellata nella comparsa di risposta, conclusioni, peraltro, successivamente confermate e trascritte nella comparsa conclusionale dalla stessa deposita.

In ogni caso, poi, la ricorrente, nel dedurre il suddetto "error in procedendo", non avrebbe in alcun modo soddisfatto l'onere di indicare il pregiudizio concreto derivatole dall'invocata nullità processuale, adempimento indispensabile, visto che il vizio di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), non è posto a salvaguardia di un interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria.

Il terzo motivo di ricorso, invece, sarebbe innanzitutto inammissibile, in quanto la ricorrente non contesta al giudice di merito di aver errato nell'individuazione della norma regolatrice della fattispecie, bensì di avere erroneamente escluso, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie normativa mente regolata.

Ad ogni buon conto, l'operazione di "sale and lease back" risulterebbe, nel presente caso, del tutto lecita, a tale conclusione la Corte territoriale essendo pervenuta sulla base di due circostanze, ovvero la rispondenza del pattuito prezzo di vendita al valore di mercato degli immobili trasferiti e la non configurabilità della funzione di garanzia del trasferimento della loro proprietà, non constando, nella specie, il mantenimento di una preesistente situazione di debito a cui presidio, in funzione di garanzia, risultava posta la vendita stessa.

Senza tacere, poi, che i rilievi della ricorrente circa la sproporzione tra il valore di mercato dei beni e il prezzo di vendita degli stessi non coglierebbero nel segno, giacchè, come rilevato dalla stessa Corte territoriale, la circostanza che parte del ricavato della vendita fosse stato utilizzato per estinguere debiti preesistenti non significa che sia stato pagato un minor prezzo, posto che la somma così utilizzata risulta, comunque, entrata nel patrimonio del venditore/utilizzatore, traducendosi in una diminuzione delle sue passività. Analogamente sarebbe a dirsi per la provvista utilizzata al fine di pagare il maxicanone iniziale, che, almeno contabilmente, deve considerarsi come somma pagata in favore dell'utilizzatore. Nè, d'altra parte, a conferire carattere illecito all'operazione negoziale potrebbe addursi la circostanza che, attraverso di essa, si è determinata una lesione della "par condicio creditorum", giacchè siffatta evenienza, ove realmente sussistente, dovrebbe trovare risposta attraverso le azioni specificamente previste a tale scopo.

Si contesta, inoltre, la possibilità di dedurre la sproporzione tra il valore dei beni alienati e il prezzo ricavato dalla loro vendita sulla base della stima unilaterale operata dal perito di parte, al netto, peraltro, del rilievo che la stima in questione costituisce, semmai, una chiara conferma che non vi fu alcuna sproporzione, dal momento che il prezzo pagato per la vendita dei beni risulta addirittura superiore ai valore di mercato degli stessi. Parimenti, nessun utile elemento di valutazione potrebbe ricavarsi dalla stima relativa al canone di locazione immobiliare astrattamente ricavabile dai due opifici, considerato che, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, ogni raffronto fra canone di leasing e canone di locazione è precluso dal fatto che mentre quest'ultimo rappresenta il corrispettivo del mero godimento dei beni, nel contratto di locazione finanziaria con effetti traslativi il canone in parte remunera il mero godimento del bene, in parte sconta il prezzo del futuro acquisto che potrà essere perfezionato con l'esercizio dell'opzione.

Infine, si sottolinea come del tutto corretta, giacchè conforme alla giurisprudenza di questa Corte, risulti l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata che esige la presenza di tutti i requisiti ai quali è ordinariamente subordinata la verifica della possibile illiceità della causa del contratto di "sale and lease back".

Nè, conclusivamente, si manca di osservare come ad escludere l'illiceità del presente contratto venga in rilievo la presenza, nello stesso, di una specifica clausola (quella di cui all'art. 12) che vieta alla società concedente, per il caso di inadempimento dell'utilizzatore e conseguente risoluzione anticipata del contratto, di trattenere per sè l'eventuale eccedenza del valore di realizzo del bene rispetto al residuo credito in linea capitale, imponendole, anzi, di riversare tale eventuale eccedenza all'utilizzatore. Si tratta di un meccanismo che ricalca, nella sostanza, il cosiddetto "patto marciano" di romanistica memoria, impedendo che la proprietà del bene in capo alla concedente possa costituire uno strumento di rafforzamento della sua posizione di creditrice, in quanto tale meccanismo esclude in radice che essa possa avvalersi del bene per acquisire utilità superiore al suo credito. avversarie. In particolare, in relazione alla possibilità di considerare l'art. 12 del contratto alla stregua di "un patto marciano", rileva la carenza delle condizioni, individuate da questa Corte, perchè siffatta clausola possa essere interpretata in tal senso. Difatti, ad escludere l'illiceità della causa in concreto del contratto di "sale and lease back", per violazione del divieto di patto commissorio, è solo quella pattuizione accessoria attraverso cui le parti "abbiano preventivamente convenuto che al termine del rapporto - effettuata la stima del bene con tempi certi e modalità definite, tali da assicurare una valutazione imparziale ancorata a parametri oggettivi ed autonomi ad opera di un terzo - il creditore debba, per acquisire il bene, pagare l'importo eccedente l'entità del suo credito, sì da ristabilire l'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni e da evitare che il debitore subisca una lesione dal trasferimento del bene in garanzia" (è citata Cass. Sez. 1, sent. 28 gennaio 2015, n. 1625, Rv. 63483801). Tuttavia, nel caso che occupa, sottolinea il ricorrente, non solo non erano stabiliti tempi certi per la stima del bene (e criteri oggettivi per la stessa), ma, soprattutto, essa formava oggetto di previsione quale mera facoltà e non obbligo, risultando, infine, del tutto incongruo - date le caratteristiche dell'immobile - un termine di appena otto giorni per la segnalazione di altro acquirente.

 

Motivi della decisione


6. Il ricorso va rigettato.

6.1. I motivi primo e secondo - da scrutinare congiuntamente, data la loro connessione - sono inammissibili, per varie ragioni.

6.1.1. Va, difatti, in primo luogo osservato che la censura relativa alla violazione di norma del procedimento, in punto di esistenza della procura, non risultando sollevata in sede di giudizio di appello, è ormai definitivamente preclusa. Invero, la carenza di svolgimento dell'azione senza ministero di difensore, cioè la violazione dell'art. 83 c.p.c., non costituisce - in quanto determinativa della nullità della costituzione in giudizio, in questo caso, specificamente, dell'intervento del successore a titolo particolare nel processo, ex art. 111 c.p.c. - un vizio di nullità rilevabile in ogni stato e grado del giudizio. Vale, al riguardo, il costante indirizzo di questa Corte, secondo cui con l'impugnazione, in sede di legittimità, della sentenza d'appello, "non può essere messa in discussione l'ammissibilità della costituzione nel procedimento di secondo grado, sotto il profilo tigli difetto di ritualità e validità della procura conferita dalla parte appellante" (ma lo stesso è a dirsi, evidentemente, per l'interveniente), "ove la questione non sia stata tempestivamente sollevata nello stesso secondo grado di giudizio, nel quale il giudice non abbia ritenuto d'ufficio di dovere richiedere alla parte la dimostrazione dell'effettività e della legittimità dei relativi poteri rappresentativi" (da uitimo, Cass. Sez. 3, sent. 18 maggio 2017, n. 12461, Rv. 644200-01; nello stesso senso, Cass. Sez. 3, sent. 24 ottobre 2007, n. 22330, Rv. 599788-01).

Verso l'esito dell'inammissibilità dei motivi in esame convergono, poi, altre ragioni. Invero, la circostanza che la sentenza di appello sia stata, comunque, pronunciata nei confronti di omissis (nessuna statuizione concerne, infatti, omissis, del cui intervento neanche viene dato atto nel testo della decisione oggi impugnata, e neppure nella sua intestazione) rende assolutamente irrilevante la circostanza che, in occasione della precisazione delle conclusioni, le stesse furono rassegnate (solo) dalla predetta omissis.

In disparte, infatti, il rilievo - sul quale ha insistito la controricorrente - che "la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione" (tra le molte, Cass. Sez. 1, sent. 21 novembre 2016, n. 23638, Rv. 642799-01), dirimente è la seguente constatazione. Ovvero, che l'evenienza verificatasi nel caso che occupa è, in sostanza, paragonabile a quella della mancata presenza di una parte in occasione dell'udienza di precisazione delle conclusioni (peraltro, nella specie, successivamente ribadite dall'appellata omissis in comparsa conclusionale, in conformità con quelle rassegnate nella comparsa di costituzione in appello). Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui, "nell'ipotesi in cui il procuratore della parte non sì presenti all'udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in modo generico, vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate" (da ultimo, Cass. Sez. 6-1, ord. 9 maggio 2018, n. 11122, Rv. 648580-01, nello stesso senso, tra le altre, già Cass. Sez. 6-1, ord. 30 settembre 2013, n. 22360, Rv. 627928-01).

6.3. Il terzo motivo, invece, è in parte non fondato e in parte inammissibile.

6.3.1. Nel procedere al suo scrutinio, occorre muovere dalla constatazione che - come anche osservato in dottrina - il contratto denominato "sale and laese back", ovvero locazione finanziaria di ritorno, nella sua struttura socialmente tipica costituisce una complessa operazione contrattuale mediante la quale un soggetto (impresa o lavoratore autonomo) vende ("sale") un proprio bene (mobile o, più spesso, immobile), di natura strumentale all'esercizio della sua attività, ad un'impresa di leasing o ad una società finanziaria, la quale, dopo aver versato il prezzo pattuito, concede contestualmente o entro un breve lasso di tempo il bene in leasing all'alienante ("lease back") che, per potere utilizzare il bene, le corrisponde un canone ed ha la facoltà, alla scadenza del rapporto, di riacquistare la proprietà, esercitando il diritto d'opzione ad un prezzo di regola nettamente inferiore rispetto ai valore effettivo del bene stesso. Più precisamente, alla scadenza del contratto, il "seller-lessee" (alienante-utilizzatore) potrà optare per la continuazione della locazione (a canoni ridotti) ovvero per l'acquisto del bene, esercitando il diritto di opzione.

A differenza, dunque, di quanto accade nel leasing "ordinario", contratto con cui l'utilizzatore mira a conseguire la disponibilità di beni strumentali al processo produttivo, nel "sale and lease back", posto che un bene siffatto è già in proprietà del "seller-lessee", l'operazione realizzata, dal punto di vista economicogestionale, risponde - come sottolineato in dottrina - "all'esigenza di (auto)finanziamento dell'impresa venditrice, ossia all'esigenza di incrementare il proprio capitale circolante attraverso lo smobilizzo di una parte del capitale fisso, senza peraltro perdere la materiale disponibilità del bene venduto".

La tipicità sociale del contratto "de quo", nonchè la meritevolezza - ex art. 1322 c.c., comma 2 – degli interessi perseguiti attraverso di esso costituiscono, del resto, dati ormai acquisiti anche nella giurisprudenza di questa Corte.

Ancora da ultimo, infatti, si è ribadito che il "sale and lease back" si configura "come un'operazione negoziale complessa, frequentemente applicata nella pratica degli affari poichè risponde all'esigenza degli operatori economici di ottenere, con immediatezza, liquidità, mediante l'alienazione di un bene strumentale, di norma funzionale ad un determinato assetto produttivo e, pertanto, non agevolmente collocabile sui mercato, conservandone l'uso con la facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto" (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 12 luglio 2018, n: 18327, non massimata). Si tratta, dunque, di "operazione caratterizzata da una pluralità di negozi collegati funzionalmente volti al perseguimento di uno specifico interesse pratico che ne costituisce appunto la relativa causa concreta, la quale assume specifica ed autonoma rilevanza rispetto a quella - parziale - dei singoli contratti, di questi ultimi connotando la reciproca interdipendenza (sì che le vicende dell'uno si ripercuotono sull'altro, condizionandone la validità e l'efficacia) nella pur persistente individualità propria di ciascun tipo negoziale, a tale stregua segnandone la distinzione con il negozio complesso o con il negozio misto" (così Cass. Sez. 3, sent. 6 luglio 2017, n. 16646, non massimata).

6.3.2. Peraltro, proprio "la circostanza che il bene venduto rimanga, di regola, nella disponibilità del venditore, il quale continua ad usarlo corrispondendo canoni periodici e con la possibilità di riacquistarlo al termine del contratto e le indubbie somiglianze tra questa fattispecie contrattuale e le alienazioni a scopo di garanzia, ha indotto la giurisprudenza di legittimità a interrogarsi circa la liceità dell'operazione di "lease back": e, segnatamente, a chiedersi se e a quali condizioni sia possibile che il contratto di "lease back" possa costituire il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa ( art. 1344 c.c.), ovvero che, sotto le spoglie del contratto in parola, si celi un patto commissorio vietato dall'art. 2744 c.c." (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, ord. n. 18327 del 2018, cit.).

Se, dunque, si deve "ritenere, in linea di massima, astrattamente valido lo schema contrattuale del "lease back", in quanto contratto d'impresa socialmente tipico", resta, nondimeno, "ferma la necessità di verificare, caso per caso, l'assenza di elementi patologici sintomatici di un contratto di finanziamento assistito da una vendita in funzione di garanzia, volto cioè ad aggirare, con intento fraudolento, il divieto di patto commissorio previsto dall'art. 2744 c.c. e pertanto sanzionabile, per illiceità della causa, con la nullità, ai sensi dell'art. 1344 c.c., in relazione all'art. 1418 c.c., comma 2" (così, in motivazione, già Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2006, n. 5438, Rv. 587332-01, nonchè, tra le più recenti, e sempre in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 11 settembre 2017, n. 21402, Rv. 645552-01; Cass. Sez. 3, ord. n. 18327 del 2018, cit.).

In particolare, si è ritenuto che il patto commissorio sia "ravvisabile rispetto a più negozi tra loro collegati, qualora l'assetto di interessi complessivo sia tale da far ritenere che il trasferimento di un bene sia effettivamente collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia a prescindere sia dalla natura meramente obbligatoria o traslativa o reale del contratto, sia dal momento temporale in cui l'effetto traslativo è destinato a verificarsi, nonchè dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, sempre che tra le diverse pattuizioni sia ravvisabile un rapporto di interdipendenza e le stesse risultino funzionalmente preordinate allo scopo finale di garanzia" (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 27 ottobre 2020, n. 23553; nello stesso senso già Cass. Sez. 2, sent. 19 maggio 2004, n. 9466, Rv. 572938-01).

Al fine, peraltro, di verificare se una specifica operazione di "sale and lease back" sia in concreto diretta ad aggirare, o meno, il disposto dell'art. 2744 c.c., si è prefigurato, da parte di questa Corte, una sorta di "stress test", affermandosi che "gli elementi ordinariamente sintomatici della frode alla legge sono essenzialmente tre, così individuati: 1) la presenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria (concedente) e l'impresa venditrice utilizzatrice, preesistente o contestuale alla vendita; 2) le difficoltà economiche dell'impresa venditrice, legittimanti il sospetto di un approfittamento della sua condizione di debolezza; 3) la sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall'acquirente, che confermi la validità di tale sospetto" (così, in motivazione, già Cass. Sez. 3, sent. n. 5438 del 2006, cit., nonchè Cass. Sez. 3, sent. 21 ottobre 2008, n. 25552, non massimata, ed ancora, tra le più recenti, Cass. Sez. 2, sent. n. 21402 del 2017, cit. e Cass. Sez. 3, ord. n. 18327 del 2018, cit.).

6.3.3. Ciò detto, assolutamente prevalente risulta, poi, l'affermazione - non espressamente presente nella sentenza impugnata, ma dalla stessa implicitamente ricavabile, perchè data chiaramente per presupposta - secondo cui è soltanto il "concorso" di tali elementi sintomatici che "vale a fondare ragionevolmente la presunzione che il lease back, contratto d'impresa per sè lecito, sia stato in concreto impiegato per eludere il divieto di patto commissorio e sia pertanto nullo perchè in frode alla legge" (nuovamente Cass. Sez. 3, sent. n. 5438 del 2006, cit., nonchè Cass. Sez. 3, sent. n. 25552 del 2008, cit., Cass. Sez. 3, sent. n. 16646 del 2017, cit., Cass. Sez. 2, sent. n. 21402 del 2017, cit. e Cass. Sez. 3, ord. n. 18327 del 2018, cit.; "contra", invece, in motivazione, Cass. Sez. 1, ord. 28 maggio 2018, n. 13305, Rv. 649159-01).

E', quest'ultima, un'affermazione alla quale va data continuità, dovendo ritenersi, pertanto, non fondata una delle censure in cui si articola il terzo motivo del ricorso in esame. Difatti, proprio la "compresenza" di tutti gli indici sintomatici suddetti risponde alla necessità – evidenziata dalla medesima dottrina, già sopra richiamata, con valutazione che questo collegio ritiene di fare propria - di non circoscrivere eccessivamente l'impiego del "sale and lease back", nonchè, più in generale, di non ostacolare l'emersione, sul piano delle relazioni commerciali, di "nuove forme di garanzia sussidiaria, volte a salvaguardare con maggiore efficienza le ragioni del creditore, nonchè a consentire un più rapido e sicuro soddisfacimento dei suoi interessi, indipendentemente dalla collaborazione del debitore", dovendo, invero, riconoscersi come l'autonomia privata risulti essersi da tempo "indirizzata verso strumenti solutori alternativi all'espropriazione forzata", e ciò nel tentativo di contemperare due diverse esigenze: "da un iato, la necessità di offrire un'idonea sicurezza al creditore, attribuendogli poteri di autosoddisfazione esecutiva; dall'altro, quello di rendere meno gravosa per il debitore o per il terzo garante a prestazione della garanzia".

6.3.4. Tanto osservato quanto alla censura relativa alla compresenza di tutti gli indici sintomatici suddetti, in relazione, invece, alle altre doglianze prospettate, deve dichiararsene l'inammissibilità.

Al riguardo va premesso che "l'accertamento del carattere fittizio di un contratto di sale and lease back, per la presenza di indizi sintomatici di un'anomalia nello schema causale socialmente tipico del contratto in questione", nel senso sopra delineato di rivelare l'aggiramento del divieto del patto commissorio, "costituisce un'indagine di fatto, insindacabile in sede di legittimità", purchè, però, "adeguatamente e correttamente motivata" (così, ancora una volta, Cass. Sez. 3, sent. n. 5438 del 2006, cit., nonchè, recentemente, Cass. Sez. 2, sent. n. 21402 del 2017, cit. e Cass. Sez. 1, ord. n. 13305 del 2018 cit.).

Nella specie, tuttavia, la ricorrente, pur non contestando "che il prezzo di Euro 5.000.000,00 fosse pari al valore di mercato dei beni", lamenta "che solo una parte della somma venne corrisposta (ad esso, n.d.r.) venditore-utilizzatore", circostanza non apprezzata adeguatamente dalla Corte territoriale, che, su tali basi, avrebbe pertanto erroneamente escluso la sussistenza dell'indice sintomatico della violazione dell'art. 2744 c.c., costituito dalla sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall'acquirente.

Difatti, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale non avrebbe considerato che parte del ricavato della vendita, per un verso, fu destinata all'estinzione di debiti preesistenti di altra società del gruppo societario (cui appartiene anche la società concedente il leasing), nonchè, per altro verso, fu utilizzata come provvista, ai fine di pagare il maxicanone iniziale. Siffatte censure - al pari di quella secondo cui il valore di mercato dei canoni astrattamente ricavabili dalla locazione immobiliare dei beni oggetto del "sale and lease back", risultava di gran lunga superiore a quello dei pattuiti canoni della locazione finanziaria - si risolvono, così, in una contestazione del giudizio di fatto operato dal giudice di appello, non risultando scrutinabili in questa sede, donde la loro inammissibilità.

Difatti, "il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa" - che è quanto si lamenta nel caso di specie, dai momento che la ricorrente si duole, in definitiva, di un errata valutazione di ciò che dovrebbe considerarsi come "effettivo" prezzo di acquisto - "è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità" (da ultimo, "ex multis", Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

7. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della ricorrente curatela e liquidate come da dispositivo.

8. A carico della ricorrente sussiste, infine, l'obbligo di versare, se dovuto, l'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna la curatela fallimentare della società (OMISSIS) S.p.a. a rifondere, alla  società omissis, le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 20.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, se dovuto, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all'esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 10 novembre 2020.

           

Essendo pacifico che il rapporto contrattuale di sale and lease back è suscettibile di aggiramento in concreto del divieto di patto commissorio, occorre che gli indici sintomatici di tale aggiramento (presenza di una condizione di credito-debito fra il concedente e l’utilizzatore, difficoltà economiche del venditore-utilizzatore, sproporzione tra il valore del bene trasferito e il prezzo versato dall’acquirente-concedente) siano tutti e tre sussistenti, al fine di giustificare una pronuncia di nullità per frode alla legge.

Questo è quanto si ricava dalla pronuncia in esame (ordinanza 4664/2021 della terza sezione civile della Corte di Cassazione), che costituisce un importante spunto di riflessione in merito al delicato bilanciamento tra l’esigenza di riconoscere nuove e rapide forme di garanzia a tutela del creditore, in modo da evitare i costi, i tempi e le incertezze della esecuzione civile e la logica del divieto di patto commissorio (di cui all’articolo 2744 del codice civile), volta a contrastare l’approfittamento della condizione di concreta debolezza e soggezione del debitore.

Il caso sottoposto all’esame della Corte concerne un rapporto contrattuale di sale and lease back (o locazione finanziaria di ritorno), operazione giuridica tramite la quale un soggetto, in genere un’impresa, aliena ad altri un proprio bene, spesso di natura produttiva, che contestualmente gli è concesso in godimento per un dato periodo di tempo, dietro pagamento di un canone.

Si tratta di un istituto contrattuale che la Corte definisce socialmente tipico, ad indicare che, pur non trovando un diretto riconoscimento legislativo, conosce una consistente applicazione pratica, ed è generalmente meritevole di tutela ex articolo 1322 comma 2 del codice civile, differenziandosi dal leasing puro in quanto quest’ultimo contratto non presuppone la preesistente proprietà da parte del  futuro utilizzatore.

Tale meritevolezza di tutela poggia le proprie basi in considerazione di una salvaguardia delle finalità di autofinanziamento dell’impresa che si risolve a vendere propri beni, in modo da reperire pronta liquidità per la propria attività economica (ricavandola dal pagamento del prezzo di vendita), al contempo continuando a godere del bene compravenduto, funzionale alla predetta attività.

Da un punto di vista giuridico, tale operazione dà luogo a un collegamento negoziale, cioè a più rapporti contrattuali, ciascuno dotato di propria causa, ma corrispondenti a una operazione economica unitaria, che finanziariamente smobilizza in parte il capitale fisso di impresa, pur mantenendo ferma la utilità e la disponibilità di un certo bene produttivo.

La conseguenza del concepimento del patto di sale and lease back nell’alveo di un collegamento contrattuale è rappresentata dall’interdipendenza funzionale e di effetti tra i più contratti in essere (la vendita e la vera e propria locazione finanziaria del bene), descritta dall’ordinanza in esame considerando l’autonoma rilevanza della causa concreta del sale and lease back rispetto alla natura parziale delle cause dei singoli contratti facenti parte di tale operazione.

Questa notazione relativa all’unicità di causa concreta, quindi di scopo pratico perseguito dalle parti, rispondente all’autofinanziamento dell’attività di impresa, spiega la estrema rilevanza delle ripercussioni che un eventuale aggiramento del divieto di patto commissorio comporterebbe rispetto all’intera operazione giuridico-economica.

 

In generale, infatti, qualsiasi contratto correli il trasferimento di proprietà di un bene del debitore all’inadempimento dello stesso, a tutto favore del creditore, costituisce una elusione surrettizia, da parte dell’autonomia contrattuale, del generale divieto di patto commissorio di cui all’articolo 2744 del codice civile, con l’effetto di provocare la nullità di tale contratto in base all’articolo 1344 del codice civile.

Sebbene l’articolo 2744 del codice civile, rubricato divieto del patto commissorio, testualmente disciplini, vietandolo, il trasferimento della proprietà in favore del creditore pignoratizio o ipotecario, ad esso è pacificamente attribuita una portata ben più estesa, di principio generale e norma imperativa. E’ discusso se ciò corrisponda a esigenze di tutela in generale della classe debitoria o del singolo, concreto debitore a fronte di un approfittamento tale, da parte del creditore, da determinarne lo spossessamento reale quale conseguenza della violazione del patto obbligatorio.

A ben vedere, come è ormai acclarato da copiosa giurisprudenza, anche l’operazione negoziale di collegamento ad oggetto del rapporto di sale and lease back è suscettibile di costituire, in concreto, un mezzo di elusione del divieto di cui all’articolo 2744 del codice civile.

Ciò avviene ogniqualvolta il patto di sale and lease back celi una vendita con scopo di garanzia, in particolare di un altro rapporto di credito-debito fra acquirente/concedente e alienante/utilizzatore, in modo che di fatto si soddisfi l’interesse del creditore a mezzo del trasferimento in suo favore di un bene della propria controparte. In questa ipotesi si riscontra un vero e proprio annacquamento, uno svilimento della funzione di autofinanziamento del rapporto, il proprium di meritevolezza dello stesso che quindi verrebbe meno.

L’effetto di una simile elusione del divieto di patto commissorio, la nullità ai sensi dell’articolo 1344 del codice civile per frode alla legge, verrebbe dunque a colpire tanto il contratto di vendita del bene, quanto il rapporto di durata costituito dalla locazione finanziaria che attribuisce la disponibilità del bene al suo venditore, quale effetto di quella interdipendenza causale che è il collegamento negoziale partitamente descritto dalla Corte nell’ordinanza in esame.

In questa sede, tuttavia, preme in particolare soffermarsi sugli indici sintomatici che la giurisprudenza riconduce alla possibile violazione del divieto di patto commissorio da parte del collegamento negoziale di cui al patto di sale and lease back.

Essi sono tre: presenza di una condizione di credito-debito fra il concedente e l’utilizzatore, difficoltà economiche del venditore-utilizzatore, sproporzione tra il valore del bene trasferito e il prezzo versato dall’acquirente-concedente.

Si tratta delle tre situazioni che concretamente lasciano presumere che il sale and lease back sia indotto dall’approfittamento da parte del creditore, magari istituto bancario o società di leasing, e non da esigenze di autofinanziamento dell’impresa che vende i propri beni.

Ebbene, la pronuncia in rassegna appare notevole anche per quanto concerne la considerazione che i tre predetti indici debbano ricorrere contestualmente, allo scopo di valutare l’aggiramento del divieto di patto commissorio, e la conseguente nullità dell’intera operazione negoziale.

In altri termini, secondo l’ordinanza in commento, non è affatto sufficiente che ricorrano uno o due tra tali indici, perché altrimenti si svaluterebbe il riconoscimento di forme pronte e celeri di soddisfazione del credito rispetto dell’enfatizzazione della portata del divieto di patto commissorio.

La Corte di Cassazione riconosce chiaramente l’opportunità “di non ostacolare l'emersione, sul piano delle relazioni commerciali, di nuove forme di garanzia sussidiaria, volte a salvaguardare con maggiore efficienza le ragioni del creditore, nonchè a consentire un più rapido e sicuro soddisfacimento dei suoi interessi, indipendentemente dalla collaborazione del debitore, dovendo, invero, riconoscersi come l'autonomia privata risulti essersi da tempo indirizzata verso strumenti solutori alternativi all'espropriazione forzata".

Tale interpretazione si pone in aperto e consapevole contrasto con un altro orientamento, espresso dall’ordinanza 13305 del 2018 della prima sezione della Corte di Cassazione (evocata nel provvedimento in rassegna), in base al quale è invece bastevole che il Giudice ravvisi la preesistenza di un rapporto obbligatorio fra le parti, nell’alternatività della ricorrenza degli altri due criteri.

Emerge la piena e realistica consapevolezza che le ordinarie forme di esecuzione forzata non sono più le sole, e forse le migliori, idonee a garantire e tutelare il creditore, a causa dei loro tempi, dei loro costi e, sovente, dell’incertezza del loro esito.

E’ interessante constatare come tale presa di posizione giurisprudenziale non è isolata, ma invece si inserisce in un contesto anche normativo nuovo, del tutto favorevole a tali forme alternative all’espropriazione forzata, rappresentato dall’introduzione legislativa del recente istituto del “pegno senza spossessamento” nei rapporti fra imprenditori (art. 1 del decreto legge 59/2016, convertito in legge con modificazioni dall’articolo 1, comma 1 della legge 119/2016) che disciplina forme del tutto peculiari a tutela del creditore, quali l’escussione diretta del credito oggetto di pegno o la locazione del bene con imputazione dei canoni fino al soddisfacimento del credito.

In conclusione si è esaminato il contenuto dell’ordinanza 4664/2021 della Corte di Cassazione, concernente le ipotesi di violazione del divieto di patto commissorio ad opera del rapporto di sale and lease back, con peculiare riguardo all’esigenza, espressa dalla Corte, che gli indici di violazione di tale divieto siano tutti contestualmente sussistenti, perché diversamente sarebbe frustrato l’interesse di sistema al riconoscimento di nuove e più celeri forme di tutela del credito, diverse rispetto all’esecuzione forzata.


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