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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 13/05/2021 Scarica PDF

Ammortamento alla francese: il numero E [1] tra regime semplice e composto degli interessi. Equivoci e contraddizioni

Giampaolo Morini, Avvocato in Lucca


Sommario: 1. Gli interessi effetto della capitalizzazione quale costo occulto. 2. Gli Interessi: maturazione, periodicità, proporzionalità. 3. Il principio di proporzionalità nei regimi finanziari[2].4. Il numero di Eulero quale fattore di crescita. 5. Brevi cenni sulla trasparenza bancaria: necessità di chiarezza. 6. Gli strumenti ermeneutici. 7. Funzione monetaria o fungibilità dei beni oggetto della prestazione principale. 8. … Segue: l’accessorietà – autonomia. 9. Eguaglianza generica dell’oggetto. 10. Il principio della proporzionalità: il limite interno dell’autonomia contrattuale e il limite esterno dell’abuso del diritto. Breve disamina degli strumenti a disposizione dei contraenti. 11. L’art. 1206 quale ulteriore strumento riequilibratore. 12. Conclusioni.

     

1. Gli interessi effetto della capitalizzazione quale costo occulto.

Nella Relazione Ministeriale n. 570, le diverse tipologie di interessi[3] vengono definite in funzione della loro causa ovvero a seconda che abbiano una funzione remunerativa, data la naturale fecondità del denaro, o risarcitoria intesa come liquidazione forfettaria minima del danno per ritardato pagamento[4]: sono dunque chiamati compensativi gli interessi che prescindono dalla mora del debitore e dunque dalla scadenza.

Sono invece corrispettivi gli interessi che dipendono dalla naturale scadenza del debito.

Tale tripartizione fu voluta nel ’42 dal ministro guardasigilli al fine di differenziare i concetti di interesse, in passato inteso unitariamente tra moratori e corrispettivi, ribadendo la peculiarità e specificità di quelli compensativi[5].

Infatti in precedenza la dottrina italiana non distingueva gli tra corrispettivi e compensativi ma solo i prima dai moratori[6].

Rappresentano una impronta storica fondamentale per comprendere la natura degli interessi le considerazioni svolte dalla Commissione Senatoriale in relazione al progetto Pisanelli del codice civile del 1865 che sosteneva la necessità di non porre un limite alla liceità degli interessi al fine del rispetto della Legge economica invariabile, che fa uscire il prezzo delle cose permutabili dal rapporto tra l’offerta e la domanda … (evitando di lasciare) … i capitali inerti e stagnanti nelle mani dei prestatori con grave iattura dell’agricoltura e dell’industria.

Nell’ultimo decennio la giurisprudenza di merito ha, sotto gli aspetti che di seguito verranno esaminati, faticato e interpretare la natura degli interessi nei contratti bancari: la recente Sentenza del Tribunale Roma, F. Basile, n.2188/2021[7], ne è un esempio: Qualora il piano di ammortamento sia calcolato utilizzando la formula matematica finanziaria della capitalizzazione composta, gli interessi sono qualificati sulla base di una formula esponenziale, mentre qualora sia calcolato secondo la formula della capitalizzazione semplice, gli interessi hanno uno sviluppo lineare (…) nel calcolo di mutui ultrannuali la capitalizzazione composta determina un maggior debito per interessi, nella stessa misura degli interessi anatocistici, ma senza che ciò derivi dal fenomeno anatocistico contemplato dall’art. 1283 c.c..

La determinazione del giudice secondo cui nel calcolo di mutui ultrannuali la capitalizzazione composta determina un maggior debito per interessi non è chiara: non si comprende se ritiene il fenomeno della capitalizzazione composta fenomeno che produce un maggior debito per interessi esclusivamente se ultrannuale, o se gli interessi in regime di capitalizzazione composta per periodi inferiori all’anno non producono un maggior debito per interessi, o entrambe le conclusioni: in tutti i casi la tesi non è, a parere di chi scrive corretta.

La capitalizzazione composta determina un maggior debito per interessi per effetto del relativo acquisto (art.821 c.c.) frazionato in sub periodi (da intendersi non solo all’anno ma a tutta la durata del piano): se si prende in considerazione l’ipotesi di un prestito da restituire in unica soluzione dopo un anno (comprensivo di capitale e interessi) che ci si trovi in regime di capitalizzazione composta o semplice la quantità di interessi sarà la medesima, diversamente se si fraziona il pagamento del capitale in sub periodi, che siano riferiti ad un finanziamento annuale, infrannuale o ultrannuale, il regime composto determinerà sempre e comunque un maggior debito per interessi, così come avremo un maggior costo di interessi se il capitale viene restituito in unica soluzione alla scadenza, (sia essa infrannuale annuale o ultrannuale), ma gli interessi vengono pagati anticipatamente (sono le ipotesi dei finanziamenti c.d. bullet, e dell’ammortamento con il sistema tedesco)[8].

Se da un lato, quindi la sentenza del Tribunale di Roma riconosce che nell’ammortamento alla francese si applica una formula dell’interesse composto, la conseguenza che ne deriverebbe, è tutt’altro che chiara nella motivazione: la capitalizzazione composta determina un maggior debito per interessi, nella stessa misura degli interessi anatocistici, ma senza che ciò derivi dal fenomeno anatocistico contemplato dall’art. 1283 c.c.

Il Tribunale conclude quindi che ciò che la capitalizzazione composta cela è un costo occulto: l’unica considerazione che si può aggiungere è il passaggio logico conclusivo (che tuttavia manca nella sentenza) ovvero, che se è l’interesse ad essere composto ed è la capitalizzazione composta che determina il costo occulto, il costo occulto non può che essere interesse.

Ciò che tuttavia lascia più sorpresi è il fatto che scorge l’effetto incrementativo degli interessi dovuto alla capitalizzazione composta[9] solo nell’ultrannualità poiché, tale effetto è probabilmente più evidente sotto il profilo infrannuale che ultrannuale, e non perché sussista una qualche differenza, ma semplicemente per una maggior semplicità di calcolo e di strumenti di misurazione: i TASSI (in quanto operano su base annua - l'art. 1284 cod. civ. stabilisce che il saggio degli interessi legali e il cinque per cento in ragione di anno, ove occorra determinare l'importo degli interessi per un periodo inferiore all'anno - come il TAN e il TAE).

Infatti, per poter comprendere il problema è prima di tutto necessario stabilire il significato dei termini che si usano in materia di contratti bancari.

Primo tra tutto il TAN: esso è il tasso puro applicato ad un finanziamento e viene utilizzato nella matematica finanziaria come termine di paragone con il tasso di rendimento delle attività finanziarie, (es. con il tasso di sconto) tale tasso tuttavia non corrisponde all’interesse realmente applicato al finanziamento, ma al tasso periodale moltiplicato per il numero di periodi in cui l’anno è ripartito, ad esempio se il tasso nominale annuo è il 10% avremo un tasso mensile (nominale) di 10% / 12 ovvero 0,833%.

Il tasso annuo effettivo o TAE diversamente dal TAN, ed è ciò che da esso lo distingue, tiene conto della composizione degli interessi e della distribuzione del capitale nelle singole rate, ovvero, della capitalizzazione infrannuale che si ha quando l’acquisizione degli interessi avviene più di una volta all’anno e quindi si ha una restituzione di un interesse effettivo (TAE) diverso da quello nominale (TAN).

In termini di tasso effettivo, per convertire il tasso periodale in annuale non è tuttavia possibile utilizzare il medesimo metodo utilizzato per il TAN (ovvero quello della mera moltiplicazione del tasso periodale con il numero dei periodi): per convertire il tasso di interesse da mensile a annuale ed ottenere il tasso effettivo (ovvero effettivamente applicato ma sempre inferiore al costo complessivo del finanziamento poiché non include i costi accessori), viene utilizzata la seguente formula [...] dove K è il numero di periodi in un anno, h il numero di periodi di conversione ed i il tasso nominale: applicando tale formula per convertire nell’esempio in esame il tasso mensile, 0,833% in annuale, otterremo il tasso annuo effettivo TAE ovvero il 10,466924%.

Il TAE infatti tenendo conto della composizione degli interessi viene utilizzato per poter confrontare i diversi regimi di capitalizzazione[10].

La forbice TAN / TAE è determinata dunque dalla periodicità con cui gli interessi vengono acquistati (concetto diverso da quello della scadenza in coerenza con l’art. 821 c.c.), quindi più alto è il numero dei periodi maggiore sarà il divario tra i due tassi, e quindi più oneroso sarà il mutuo.

Dunque nel caso di unica rata annuale il TAN e il TAE saranno equivalenti, ma ciò non varrà sul piano ultrannuale:

 

 


Anno

Valore Iniziale

+

Interesse

=

Valore Finale

Valore Iniziale

+

Interesse

=

Valore Finale

1     2     3     4

100      110      120      130

10         10         10         10

110      120      130      140

100                            110                            121                            133.1

10                        11                 12.1                  13.3

110                            121                           133.1                           146.4

 

A quanto si ricava dalla tavola, quello che è definito occulto è in effetti più evidente di quanto sembri.

Per comprendere, tuttavia, la ragione che genera la capitalizzazione degli interessi e gli effetti che ne conseguono, occorre fare un breve passo indietro cercando di individuare le caratteristiche giuridiche dell’interesse.

È importante dunque fissare alcuni punti fermi quando si tratta la materia del calcolo degli interessi: la proporzionalità, la maturazione, l’autonomia, periodicità (il giorno[11]) scadenza, divieto di capitalizzazione, divieto di anatocismo[12]: assunti detti punti, come presupposti inderogabili, potranno applicarsi i più svariati metodi di calcolo.

 

2. Gli Interessi: maturazione, periodicità, proporzionalità.

In relazione ai rapporti obbligatori, il legislatore, pur disciplinandolo in molte norme, non ha dato una definizione di interessi, confidando sulla univocità della nozione tradizionale accettata nel linguaggio sia comune che giuridico.

Naturalmente, laddove il legislatore omette di definire un istituto, il giurista deve, per poter procedere alla sua analisi, estrapolare, attraverso le norme che lo disciplinano, una nozione.

La definizione più condivisa in dottrina e giurisprudenza di interessi è quella data da Ferrara F. Jr che li definì: prestazioni accessorie, omogenee rispetto alla prestazione principale, che si aggiungono ad essa per effetto del decorso del tempo e che sono commisurate ad una aliquota della stessa[13].

Sotto il profilo storico[14], gli interessi hanno indubbiamente rappresentato uno degli indici più fedeli e significativi del mutamento dei mercati dei capitali.

Ebbene, dall’analisi storica l’interesse esprime la sua natura in relazione alla disciplina dei rapporti monetari e al capitale (QUADRI).

Ecco allora, che la stretta relazione tra interesse e capitale, sembra trovare una sua origine normativa nell’art. 820 u.c. c.c.: Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni.

Tale inquadramento, riconducibile alla teoria dell’uso o del godimento[15] (Nutzungstheorie), che ha influenzato il nostro ordinamento, ha aiutato a superare una impostazione culturale che vedeva il denaro come un mero bene accantonato per un futuro scambio a scopi di consumo[16], per arrivare a ridefinirlo, nella sua funzione, come strumento per la produzione di nuova ricchezza[17]: ma con dei limiti.

La concezione dei frutti civili in effetti non ha convinto a fondo alcuni autori (MAZZONI, SCOZZAFAVA) che osservano che nel nostro sistema possono essere considerati interessi in sensi tecnico solo quelli che il soggetto ritrae da un capitale come corrispettivo del godimento che altri ne abbia, conseguentemente, i frutti come interessi avranno ragion d’essere solamente per quelli  che trovano la propria fonte in un contratto mediante cui i privati attribuiscono a terzi il godimento del proprio denaro[18].

Come si ricava dalla Relazione al codice civile n. 593, l’interesse è dunque, il prezzo del capitale che assume la natura di merce.

Tale affermazione, alla luce della richiamata dottrina[19], necessita tuttavia di una precisazione: l’interesse come corrispettivo (inteso come compenso), non è solo quello di fonte pattizia che potremo classificare come legittima, ma anche frutto di una ritenzione illegittima del un capitale[20] (QUADRI, MARINETTI): in effetti v’è chi definisce gli interessi come prestazioni pecuniarie percentuali e periodiche dovute da chi utilizza un capitale altrui o ne ritarda il pagamento[21], e chi, senza richiamarsi al concetto di capitale, si riferisce direttamente al denaro come bene produttivo di frutti civili denominati interessi[22] .

Indubbiamente l’inclusione degli interessi di capitale tra i frutti civili rappresenta il risultato di un processo storico che ha voluto categorizzare tutti i redditi di sostituzione, equiparando la funzione del denaro, bene fungibile (che a differenza egli atri beni fungibili non si consuma con l’uso – MAZZONI), a tutti gli altri beni produttivi concessi in godimento.

È proprio il reddito di sostituzione, ovvero, il provento derivato al posto del beneficio che il godimento diretto della cosa avrebbe apportato al proprietario, nozione che aveva consentito alla romanistica prima e la pandettistica poi di consolidare la derivazione della categoria dei frutti civili da quella più unitaria e generale dei frutti naturali[23].

La ricostruzione appena fatta dell’interesse, pone la necessità di attualizzare il concetto stesso di denaro.

Esso svolge tre funzioni, quella di unità di conto, di riserva di valore e di mezzo di pagamento.

È proprio sulla terza funzione, che il denaro assume la natura di bene fruttifero, ma che oggi, assume una caratterizzazione nuova[24].

Esaminando dunque l’istituto degli interessi sotto il profilo funzionale, la giurisprudenza ha distinto tra obbligazioni pecuniarie e contratti di scambio.

Funzione primaria degli interessi è: nelle obbligazioni pecuniarie, quella corrispettiva, quali frutti civili della somma dovuta, e nei contratti di scambio, caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, quella compensativa del mancato godimento dei frutti della cosa, consegnata all'altra parte prima di riceverne la controprestazione.

Sussiste, poi una funzione secondaria degli interessi che è quella risarcitoria, propria degli interessi di mora, i quali presupponendo l'accertamento del colpevole ritardo o la costituzione in mora ex lege del debitore, debbono essere espressamente demandati, indipendentemente dalla domanda di pagamento del capitale.

Ne consegue che la richiesta di corresponsione degli interessi, non seguita da alcuna particolare qualificazione, deve essere intesa come rivolta all'ottenimento soltanto degli interessi corrispettivi, i quali, come quelli compensativi, decorrono, in base al principio della naturale fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, salva l'ipotesi della mora del creditore[25].

Tale ultimo principio trova la sua fonte nell’art. 1282 c.c. per cui decorrono di pieno diritto gli interessi su tutti i debiti pecuniari liquidi ed esigibili[26].

La giurisprudenza ha precisato che l'art. 1282 sancisce il principio dell'automatica decorrenza degli interessi su tutte le somme di denaro liquide ed esigibili, con le sole eccezioni previste dalla legge[27].

Deve intendersi liquido il credito quando il suo ammontare è certo, o comunque accertabile con un semplice calcolo aritmetico[28]; la liquidazione del debito può essere affidata allo stesso creditore o ad un terzo e qualora non sia previsto diversamente è il debitore che deve provvedere alla liquidazione del proprio debito[29].

La mancanza del requisito della liquidità impedisce il decorso degli interessi di pieno diritto, tuttavia non esime il debitore da responsabilità nel caso in cui ritardi ingiustificatamente il pagamento, dunque in tal caso decorreranno gli interessi moratori[30].

Il credito è infine esigibile qualora non sia soggetto a condizione sospensiva né a termine in favore del debitore, ovvero quando la prestazione può essere attualmente richiesta[31]: detto requisito dell'esigibilità presuppone l'infruttuosa scadenza dell'obbligazione[32].

La decorrenza degli interessi di pieno diritto, trattandosi di norma derogabile, può essere esclusa dalla volontà delle parti, con un patto che non richiede la forma scritta[33].

È un esempio la clausola che determina l'ammontare degli interessi in misura pari alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, ritenuta dalla giurisprudenza nulla in quanto non sufficientemente univoca e non in grado di giustificare la pretesa al pagamento di interessi in misura superiore a quella legale[34].

Per le obbligazioni pecuniarie quindi, la funzione primaria degli interessi, è quella corrispettiva, ovvero frutti civili della somma dovuta.

Relativamente ai contratti di scambio, invece, essendo caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, la funzione degli interessi è compensativa del mancato godimento dei frutti della cosa consegnata all’altra parte prima di ricevere la controprestazione.

Ai sensi dell'art. 1499 c.c., invece, gli interessi compensativi sono quelli dovuti nei contratti di scambio quando le reciproche prestazioni dei due contraenti debbono avvenire contemporaneamente e sono così chiamati perché servono a compensare il creditore dei mancati frutti e del mancato godimento della cosa da lui consegnata all'altra parte prima di riceverne la controprestazione[35].

Esiste poi una funzione risarcitoria attribuita agli interessi, detti di mora, che presuppone un colpevole ritardo nell’adempimento.

Sotto il profilo strutturale e statico la dottrina dunque, ha inteso l’obbligazione di interessi caratterizzata da: accessorietà rispetto ad una obbligazione principale; eguaglianza generica dell’oggetto[36] (obbligazione principale e accessoria); periodicità, intesa, in coerenza con l’art. 821 c.c. come acquisto e non inteso come scadenza, quest’ultima oggetto di convenzione tra le parti; proporzionalità[37], ovvero rapporto percentuale con l’obbligazione principale rapportato al fattore tempo.

In ragione della stretta correlazione tra frutti civili e rapporto contrattuale, parte della dottrina ha sostenuto l'improprietà della definizione codicistica e la necessità di identificare il frutto non tanto nel corrispettivo[38], suscitando tuttavia considerevoli perplessità.

In lince generali, è stato osservato come il credito non rappresenti l’utilità finale derivante dalla cosa, ossia il suo prodotto economico, ma lo strumento attraverso cui l’utilità-corrispettivo indirettamente si consegue, giorno per giorno ed in proporzione alla durata del godimento[39].

È stato parimenti obiettato come ritenere così caratterizzante la discendenza da un diritto di credito ponga in ombra la derivazione economica del frutto civile dalla cosa madre, rendendo ora complesso discernere i frutti da proventi occasionali come le indennità o gli interessi compensativi, ora giustificare il senso della disciplina dell’acquisto introdotta dall’art. 821 c.c.: secondo  BARCELLONA[40]: “anzitutto si può osservare che facendo leva principalmente sul fatto che i frutti civili si conseguono normalmente per il tramite di un diritto di credito, si finisce col sottovalutare il rapporto di derivazione economica dalla cosa-madre, con la duplice conseguenza di rendere incerta la distinzione tra i frutti e gli altri proventi occasionali (interessi compensativi, clausola penale, indennità, ecc.) e di non poter dar conto dei criteri di ripartizione dei frutti civili adottati dal codice (art. 821 c.c.). Non si spiega, ad esempio, perché la spettanza dei frutti civili è proporzionale alla durata del rapporto con la cosa-madre e perché l’acquisto avviene giorno per giorno”.

Sempre lo stesso autore, ha ritenuto opportuno specificare il criterio con ulteriori notazioni, tali da mettere in evidenza il fatto che per quanto i frutti civili rappresentino una ragione di credito, tale qualifica non sia immediata conseguenza della struttura del rapporto da cui essi originano, né ogni prestazione corrispettiva alla concessione del godimento di un bene produttivo possa definirsi frutto: prova ne è il fatto che il diritto di credito avente ad oggetto il corrispettivo è attribuito alla parte contestualmente alla conclusione del contratto, mentre il modo di acquisto dei frutti civili delineato dall’art. 821 c.c. subordina la qualifica al requisito della loro maturazione e proporzionalità rispetto alla durata del godimento del bene, includendo così nella categoria solo il corrispettivo per crediti già maturati durante il rapporto con la cosa madre[41].

Il principio appena richiamato è la ragione per cui viene negato che i crediti riscossi anticipatamente ed in via non correlata al periodo di effettivo godimento possano considerarsi frutti, salvo per la parte già effettivamente maturata: non è al modo di acquisto che deve guardarsi per definire i contorni della categoria, ma al requisito della “proporzionalità del risultato utile al periodo del godimento del diritto o della cosa”[42], poiché la corresponsione dei frutti trova il suo fondamento non nella conclusione del contratto ma nell’effettività del godimento da parte del debitore.

Conseguenza di tale impostazione è la scissione concettuale tra titolarità del diritto di credito e diritto alla percezione dei frutti civili, ove il primo obbedisce alla disciplina delle obbligazioni, mentre il secondo segue le regole proprie — e dispositive — della materia dei frutti[43].

A questo punto, appare evidente che l’ammortamento alla francese, anche senza affrontare la questione inerente il regime finanziario, appare incompatibile con il nostro ordinamento: infatti gli interessi non maturano proporzionalmente nel senso anzidetto ma esponenzialmente con il pagamento degli interessi completamente sbilanciato nella parte inziale del piano (in quanto inizia con quote capitali crescenti ed interessi decrescenti: insomma nell’a.f., interessi e capitale non sono legati dal principio di proporzionalità[44]).

 

3. Il principio di proporzionalità nei regimi finanziari.

Come osservato nel paragrafo precedente,  il modo di acquisto dei frutti civili delineato dall’art. 821 c.c. subordina la qualifica al requisito della loro maturazione e proporzionalità rispetto alla durata del godimento del bene, includendo così nella categoria solo il corrispettivo per crediti già maturati durante il rapporto con la cosa madre[45]; nell’ammortamento alla francese, invece, l’acquisto dei frutti, ovvero gli interessi, essendo esponenziale, sono distribuiti nel piano in modo decrescente rispetto al rimborso di quote di capitale  (crescente) così che i frutti vengono acquisiti prima della maturazione, ovvero in senso non proporzionale rispetto alla durata del godimento del bene (capitale): spieghiamo meglio.

L’autonomia contrattuale privata non è libera nel gestire gli interessi, esistono delle norme che ne circoscrivono l’operatività: le norme che qui vengono in gioco sono principalmente l’art. 821, che stabilisce il principio di proporzionalità de gli interessi che maturano giorno per giorno (indipendentemente dalla volontà delle parti); l’art. 1282 c.c. che stabilisce che il crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto (indipendentemente dalla volontà delle parti); l’art. 1283 c.c. che vieta l’applicazione di interessi su interessi scaduti salvo i casi della convenzione posteriore alla scadenza degli stessi e della domanda giudiziale, a condizione, in entrambi i casi che siano dovuti da almeno 6 mesi; l’art. 120  c. 2 TUB che demanda al CICR i criteri di produzione degli interessi (e non più di interessi su interessi come nella precedente formulazione), e l’art. 1284 c.c. che, per le vie brevi, stabilisce che il saggio di interesse si rapporta all’anno. Tutti questi articoli vincolano l’autonomia contrattuale circoscrivendo l’operatività degli interessi.

Ciò che determina la corretta applicazione degli interessi non dipende quindi dal modo di acquisto, ma dal requisito della “proporzionalità del risultato utile al periodo del godimento del diritto o della cosa”, per cui i frutti si acquistano giorno per giorno poiché la corresponsione dei frutti trova il suo fondamento non nella conclusione del contratto ma nell’effettività del godimento da parte del debitore; di conseguenza, dato che nell’a.f. gli interessi crescono esponenzialmente (pe effetto del regime composto al quale gli interessi sono sottoposti) la conseguenza è che, sotto il profilo giuridico i frutti vengono acquisiti prima della maturazione.

Quest’ultimo passaggio non trova corrispondenza sul piano matematico, e può risultare difficile da comprendere, proprio perché ciò che consente la legge non trova applicazione nella dinamica dell’ammortamento alla francese, ed ecco allora che si finisce per non riconoscere gli interessi legittimi da quelli illegittimi finendo per classificare questi ultimi come costi occulti.

Dunque tronando al passo della sentenza del tribunale di Roma (Tribunale Roma, F. Basile, n.2188/2021) sopra richiamato (§1), ciò che determina il “costo occulto” è la liquidazione (rectus, acquisizione) periodica (intesa, in coerenza con l’art. 821 c.c. come acquisto e non inteso come scadenza) degli interessi che avviene più di una volta all’anno e negli anni: dunque il punto non è l’ultrannualità ma la modalità di liquidazione degli interessi.

Nell’ a. f. dunque, gli interessi vengono acquisiti più velocemente (ovvero in quantità maggiore) di quanto avvenga per il capitale: interessi e capitale, si muovono in senso inverso l’uno con l’altro.

Appare dunque opportuno distinguere, nella dinamica degli interessi due momenti, maturazione e scadenza, determinano dunque una conseguente distinzione necessaria ancor prima che normativa, tra capitalizzazione[46] (interessi su interessi in quanto caratterizzati dalla periodicità intesa, in coerenza con l’art. 821 c.c. come acquisto e non inteso come scadenza) e anatocismo (interessi su interessi che invece presuppone la scadenza): ritenere i due termini sinonimi vorrebbe dire o che non si attribuisce alcun valore al termine scadenza o ancora peggio, che nella realtà empirica si ritiene impossibile calcolare interessi su interessi[47].

Sulla base delle considerazioni anzidette si può giungere ad una conclusione: mentre la capitalizzazione può generarsi nel corso della maturazione degli interessi, l’anatocismo necessita la scadenza degli stessi[48].

Da ultimo non appare neppure corretto il consueto richiamo da parte della giurisprudenza all’art. 1283 c.c., dal momento che il fenomeno della capitalizzazione (che include anche il fenomeno più ristretto dell’anatocismo) è disciplinato dal 2000 dall’art. 120 TUB che è norma speciale.

Nell’ a. f., i frutti non maturano seguendo un criterio lineare caratterizzato quindi da una costante di proporzionalità [...] (dove k, appunto è la costante di proporzionalità) ma esponenziale, ovvero secondo una legge di progressione geometrica tipica della capitalizzazione composta, [...] ovvero una equazione alle differenze finite, di cui una progressione di rapporto comune è la soluzione.

Come si può osservare dalla rappresentazione grafica (fig. 1) il regime composto è rappresentato da una curva (rossa) che cresce esponenzialmente rispetto all’interesse semplice che ha una crescita costante (retta gialla)

 

(fig. 1)

 

Peraltro il criterio della proporzionalità è un principio adottato anche nel diritto comunitario, dall’art.16 della Direttiva 2008/48/CE, che ha trovato la sua sede nell’art. 125 sexies TUB.

L’art. 125-sexies TUB introdotto dal D.lgs. n. 141/2010 prevede che “Il consumatore può rimborsare anticipatamente in qualsiasi momento, in tutto o in parte, l'importo dovuto al finanziatore”.

In tale caso il consumatore ha diritto a una riduzione del costo totale del credito, pari all'importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto” (conformemente a quanto, peraltro, già segnalato nella Comunicazione del Governatore della Banca d’Italia del 10 novembre 2009, nella quale si osserva che in caso di estinzione anticipata del mutuo l’intermediario dovrà restituire, nel caso in cui tutti gli oneri relativi al contratto siano stati pagati anticipatamente dal consumatore, la relativa quota non maturata l’accordo ABI-Ania del 22 ottobre 2008 (in cui si dispongono le ‘Linee guida per le polizze assicurative connesse a mutui e altri contratti di finanziamento’), in base al quale Nel caso in cui il contratto di mutuo o di finanziamento venga estinto anticipatamente rispetto all’iniziale durata contrattuale, ed esso sia assistito da una copertura assicurativa collocata dal soggetto mutuante ed il cui premio sia stato pagato anticipatamente in soluzione unica ..., il soggetto mutuante restituisce al cliente – sia nel caso in cui il pagamento del premio sia stato anticipato dal mutuante sia nel caso in cui sia stato effettuato direttamente dal cliente nei confronti dell’assicuratore – la parte di premio pagato relativo al periodo residuo per il quale il rischio è cessato[49].

Orientamento, quest’ultimo,  confermato dall’art. 22, comma 15-quater, del D.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito con legge di conversione 17 dicembre 2012, n. 221), secondo cui Nei contratti di assicurazione connessi a mutui e ad altri contratti di finanziamento, per i quali sia stato corrisposto un premio unico il cui onere è sostenuto dal debitore/assicurato, le imprese, nel caso di estinzione anticipata o di trasferimento del mutuo o del finanziamento, restituiscono al debitore/assicurato la parte di premio pagato relativo al periodo residuo rispetto alla scadenza originaria, calcolata per il premio puro in funzione degli anni e della frazione di anno mancanti alla scadenza della copertura nonché del capitale assicurato residuo (sul punto si richiama la Comunicazione del Governatore della Banca d’Italia del 10 novembre 2009[50]).

In tale ambito, è necessario che nei fogli informativi e nei contratti di finanziamento sia riportata una chiara indicazione delle diverse componenti di costo per la clientela, enucleando in particolare quelle soggette a maturazione nel corso del tempo (a titolo di esempio, gli interessi dovuti all’ente finanziatore, le spese di gestione e incasso, le commissioni che rappresentano il ricavo per la prestazione della garanzia “non riscosso per riscosso” in favore dei soggetti “plafonanti”, ecc.).

L’obbligo di indicare le diverse componenti di costo trova applicazione anche ai compensi spettanti alle diverse componenti della rete distributiva (soggetti di cui agli articoli 106 e 107 TUB, mediatori, agenti).

Conseguentemente, le banche e gli intermediari finanziari devono: - assicurare che la documentazione di trasparenza sia conforme alla normativa, tenuto anche conto di quanto sopra indicato; - ricostruire le quote di commissioni soggette a maturazione nel corso del tempo, anche al fine di ristorare, quanto meno con riferimento ai contratti in essere, la clientela che abbia proceduto ad estinzione.

Il Collegio di Coordinamento con decisione n. 26525 del 2019 ha stabilito il seguente principio di diritto: A seguito della sentenza 11 settembre 2019 della Corte di Giustizia Europea, immediatamente applicabile anche ai ricorsi non ancora decisi, l’art.125 sexies TUB deve essere interpretato nel senso che, in caso di estinzione anticipata del finanziamento, il consumatore ha diritto alla riduzione di tutte le componenti del costo totale del credito, compresi i costi up front”. “Il criterio applicabile per la riduzione dei costi istantanei, in mancanza di una diversa previsione pattizia che sia comunque basata su un principio di proporzionalità, deve essere determinato in via integrativa dal Collegio decidente secondo equità[51], mentre per i costi recurring e gli oneri assicurativi continuano ad applicarsi gli orientamenti consolidati dell’ABF”.

Appare dunque evidente che la distribuzione degli interessi nell’ammortamento alla francese rappresentano, (più evidente nel caso di estinzione anticipata) una alterazione della regola di proporzionalità (da intendersi caratterizzata da una costante di proporzionalità, ovvero con sviluppo lineare), proporzionalità sancita dall’art.16 della Direttiva 2008/48/CE.

Purtroppo, come spesso accade tutto ciò che pare in un primo momento chiaro, nel diritto è destinato a complicarsi.

La Decisione N. 3861 del 16 febbraio 2021 del collegio di Milano[52] ha ritenuto che: il criterio applicabile per la riduzione dei costi up front deve essere determinato in via integrativa dal Collegio decidente secondo equità ritenendo, peraltro “che il criterio preferibile per quantificare la quota ripetibile di tali costi sia analogo a quello che le parti hanno previsto per il conteggio degli interessi corrispettivi, costituendo essi la principale voce del costo totale del credito espressamente disciplinata in via negoziale”.

Considerato che nell’ammortamento alla francese gli interessi vengono distribuiti in modo tutt’altro che equo, visto che vengono ammortizzati prevalentemente nella parte iniziale del piano (dipende naturalmente dal tasso e dalla durata), il timore è che l’interpretazione data dall’ABF finirà per svilire il significato e le finalità della Corte di Giustizia: perché non prendere come riferimento l’ammortamento del capitale? 

In fondo nella logica dell’ammortamento alla francese il rischio di perdita per il finanziatore è bilanciato proprio dal fatto che percepisce interessi molto più velocemente di quanto avvenga per il capitale, capitale, che comunque, dovrà essere restituito nella sua residualità.

Seguendo l’interpretazione dell’ABF di Milano si finirà per ridurre i rimborsi a pochi “spiccioli” che poco hanno a che fare con il principio di equità.

Tuttavia si deve annotare come la sentenza del Tribunale Milano, 09 Aprile 2021. Est. Stefani[53], ha precisato: che l’art. 16.1 della direttiva citata deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore (c. CGUE, sentenza 11/9/2019, C. 383/18).

Scendendo più nel dettaglio, il disposto dell’art. 16.1 della direttiva, stabilisce: Il consumatore ha il diritto di adempiere in qualsiasi momento, in tutto o in parte, agli obblighi che gli derivano dal contratto di credito. In tal caso, egli ha diritto ad una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto.

Il Tribunale di Milano richiama la necessità di ridurre i costi a seguito della estinzione anticipata del finanziamento, in linea con la sentenza della Corte di Giustizia[54], precisando che la Corte ha opportunamente valorizzato il contesto della disposizione – che è volto ad assicurare la riduzione del costo totale del credito – e il suo obiettivo, cioè quello di garantire in modo effettivo un’elevata protezione del consumatore.

Il richiamo da parte della CGUE anche agli interessi dovuti per la restante durata del contratto sarà per i prossimi anni oggetto di aspre interpretazioni; in questo momento non si può che prendere come “strumento di misurazione” l’equità, principio tutt’altro che stabile ma a cui la giurisprudenza ha dato un contenuto sempre più chiaro (anche se non potrà mai essere definitivo). 

Alla luce del funzionamento dell’a.f. è impensabile ritenere equo il rimborso dei costi (up front o recurring) sulla base della distribuzione degli interessi, perché ciò non solo snaturerebbe decenni di giurisprudenza, anche costituzionale, sul principio di equità (e solidarietà sociale), ma finirebbe anche per disapplicare almeno una parte della sentenza CGUE, ovvero quella che stabilisce: In tal caso, egli ha diritto ad una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto: è evidente che non può che riferirsi ad interessi già pagati, visto che si parla di restituzione!

Ciò mette sotto i riflettori il metodo dell’a.f.  e tutti i metodi che prevedono una distribuzione degli interessi sbilanciata sulla parte iniziale del piano di rimborso.

La sentenza del Tribunale di Torino, 21 Marzo 2020. Est. Astuni[55], è in parte condivisibile laddove ritiene irrilevante, per il tenore della sentenza Lexitor, la distinzione tra costi up front e recurring[56]:  Non può ammettersi “la presa in considerazione dei soli costi presentati dal soggetto concedente il credito come dipendenti dalla durata del contratto, dato che [..] i costi e la loro ripartizione sono determinati unilateralmente dalla banca e che la fatturazione di costi può includere un certo margine di profitto” (punto 31), né la riduzione dei “soli costi espressamente correlati alla durata del contratto” poiché ciò “comporterebbe il rischio che il consumatore si veda imporre pagamenti non ricorrenti più elevati al momento della conclusione del contratto di credito, poiché il soggetto concedente il credito potrebbe essere tentato di ridurre al minimo i costi dipendenti dalla durata del contratto” (punto 32). Infine, la stessa divisione dei costi in due tipologie distinte, per causa e-o tempo di maturazione, è in grado di pregiudicare l’effettività del diritto del consumatore, visto che “il margine di manovra di cui dispongono gli istituti creditizi nella loro fatturazione e nella loro organizzazione interna rende, in pratica, molto difficile la determinazione, da parte di un consumatore o di un giudice, dei costi oggettivamente correlati alla durata del contratto” (punto 33).

Ciò che invece non è condivisibile è la seguente conclusione: L’indennizzo previsto dall’art. 16 della direttiva, ancorché la norma si esprima forse impropriamente in termini di “costi”, serve anzitutto e primariamente a ristorare il finanziatore degli interessi perduti per la chiusura anticipata del contratto, in uno scenario di calo dei tassi di mercato rispetto al tasso convenuto sul capitale rimborsato anticipatamente. 

Qui, il Tribunale di Torino, capovolge l’interesse perseguito dalla sentenza Lexitor che è quella di tutelare il soggetto consumatore, tutale che trova la sua origine, da un lato nella violazione della disciplina della trasparenza, dall’altro nel salvaguardare i diritti del contraente più debole che altrimenti finirebbe per sostenere costi privi di causa.

Invece di seguire la ratio della CGUE, il Tribunale di Torino volge l’attenzione verso il finanziatore, che non è il soggetto da tutelare ma la causa dell’alterazione dell’equilibrio nelle prestazioni corrispettive: sotto tale profilo il funzionamento dell’a.f. non può essere privo di rilevanza, ma assumere al contrario l’aspetto principale al quale prestare attenzione.

La capitalizzazione composta è dunque contraria ai principi generali della trasparenza, della proporzionalità, e della non discriminazione sanciti dai trattati e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.

Il principio di proporzionalità, affermato incidentalmente nella sentenza Federeation Charbonniere de Belgique in applicazione del Trattato CECA (Causa C-8/55 sentenza della Corte del 29 novembre 1956), e esplicitamente enunciato nella sentenza Koester (Causa C.25/70 sentenza della Corte del 17 dicembre 1970).

Nelle Cause C-19/61 Mannesmann e C-265/87 Schrader la Corte di Lussemburgo ha affermato che il principio di proporzionalità si pone tra i principi generali del diritto comunitario e alla base dello stato di diritto, principio quest’ultimo accolto nel trattato di Amsterdam all’art. 6.

Al principio di proporzionalità, la giurisprudenza comunitaria ha attribuito la natura di norma giuridica vincolante e di applicazione diretta da parte dei giudici nazionali che sono tenuti a disapplicare le norme nazionali che sono in contrasto con esso e a rilevare d’ufficio la sua infrazione.

La citata giurisprudenza ha altresì elevato il principio di proporzionalità al rango di norma costituzionale, quale elemento regolatore che estende il suo campo d’azione anche sull’attività legislativa comunitaria.

Da ciò consegue che uno stato dell’Unione Europea non può attribuire ad un intero settore economico (quello bancario) il diritto di imporre alla clientela condizioni economiche che sia l’effetto di asimmetria informativa che consenta ai professionisti del credito di imporre sistematicamente contratti i cui reali ed effettivi oneri siano occultati al contraente debole, e consenta attraverso  contratti di massa, di contenere condizioni economiche sproporzionate che consentono di trarre un profitto ingiustificatamente esorbitante .

Il magistrato, pertanto, in ossequio al principio di proporzionalità deve disapplicare tutte quelle norme che determinano o favoriscono il conseguimento di un profitto eccessivo dalle obbligazioni pecuniarie, ed interpretare la legge antiusura alla luce del principio di proporzionalità.

Unitamente al principio di proporzionalità deve altresì essere rispettato il principio di non discriminazione sancito dall’art. 1 bis TUE.

La Corte di Lussemburgo ha statuito che il principio di non discriminazione deve essere rispettato anche nei rapporti tra imprese e tra imprese e consumatori (Causa C-5/73 Balkan, punto n. 5 della massima e C-265/87, Schraeder, punti nn. 3 e 26).

È importane, a questo punto richiamare la nota sentenza della Corte del 14 luglio 1981 nella causa C-172/80 Zuechner nella quale fu statuito che “le banche commerciali sono imprese ai sensi dell’art, 85 n. 1 del Trattato” e pertanto non godono di nessuna esenzione o trattamento privilegiato quali quelli previsti dallo status di imprese “incaricate della gestione di servizi d’interesse economico generale” in riferimento all’allora vigente §2 dell’art. 90 del Trattato CE.

Preso atto di tale situazione giuridica è possibile adesso ritagliare quelle sentenze comunitarie che anno affermato e ribadito i principi enunciati inevitabilmente applicabili anche al sistema bancario.

Prima tra tutte la sentenza relativa alla Causa C-389/08 Base NV- Belgacom, nella quale al punto 33 afferma l’imperatività del “rispetto dei principi di obbiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità” e l’esigenza di “limitare le distorsioni del mercato tutelando nel contempo l’interesse pubblico”.

Se rappresentiamo graficamente l’ipotesi di proporzionalità costante con due differenti ipotesi di crescita esponenziale si noterà come la crescita lineare corrisponda al regime semplice degli interessi e quella esponenziale al regime composto, tuttavia si deve anche notare che la funzione matematica applicata all’ a. f., fa assumere alla curva una maggiore ripidità (fig. 1) tanto che il flusso degli interessi è sempre maggiore nel regime composto applicato all’ a. f. rispetto ad altre ipotesi di crescita esponenziale e lineare.


(in rosso crescita lineare; in verde crescita esponenziale; in blu crescita cubica)

 

(fig. 2)

 

Ciò quindi che ha determina il c.d. costo occulto è una alterazione del principio della proporzionalità lineare (da intendersi caratterizzata da una costante di proporzionalità), alterazione dovuta alla capitalizzazione degli interessi (che si è raffigurata nella fig. 1 dallo spazio tra la retta e la curva).

Detto questo, qualcuno potrebbe obbiettare, che rispettato il principio di proporzionalità, nessuna obbiezione può essere posta, tuttavia la questione potrebbe essere molto più complessa, perché deve fare i conti col Capo IV del c.c. “l’interpretazione del contratto”.

 

4. Il numero di Eulero quale fattore di crescita.

Su una tavoletta babilonese, conservata al Louvre di Parigi, del 1700 a. C. viene riportato un problema: Quanto tempo ci vorrà perché una certa somma di denaro raddoppi, se ogni anno aumenta del 20%? 

La questione inerente al rendimento di un capitale, non è, a quanto pare, un problema solo del nostro tempo, e se i babilonesi con l’ingegno della interpolazione si erano avvicinati a quel risultato che solo agli inizi del XVII secolo[57] trovava il suo battesimo nel numero di Eulero[58] (o numero di Nepero), oggi stentiamo o forse fingiamo di non riconoscerlo e conoscerne la funzione.

La determinazione della formula generale, per quella che si chiama capitalizzazione composta e che si trova su qualsiasi libro di Matematica Finanziaria, può aiutare a comprendere meglio il problema.

Se calcola il montante per un anno, al tasso annuo i (nel nostro esempio 100%) avremo

M = C (1 + i)

Se calcoliamo invece il montante per un anno, ma suddividendo l’anno in due semestri e aggiungiamo l’interesse, calcolato dopo i primi sei mesi, al capitale iniziale, avremo il nuovo montante

[...]

Infatti, per sei mesi, il tasso di interesse è i/2 (nell’esempio precedente sarebbe il 50%). Quindi il montante dopo i primi sei mesi è

[...]

Ed è su questo che dobbiamo calcolare il nuovo montante per i successivi sei mesi:

[...]

Allo stesso modo, se suddividiamo l’anno in tre parti, e l’interesse maturato nel primo quadrimestre lo aggiungiamo al capitale iniziale per produrre, insieme con esso, il nuovo interesse nel quadrimestre successivo e seguiamo ancora questo procedimento per l’ultimo quadrimestre, arriviamo alla formula

[...]

Se suddividiamo il calcolo, in generale, per un intervallo di tempo n, avremo:

[...]

Per cui, con il calcolo dell’interesse composto mensile avremo

[...]

In matematica il numero e è una costante il cui valore approssimato a 12 cifre decimali è 2,718281828459: è la base della funzione esponenziale [...]e del logaritmo naturale.

Può essere definita in vari modi, il più comune tra i quali è come il limite della successione [...] al tendere di n all'infinito: che troviamo nella formula dell’ a. f.: in poche parole in numero e, è il numero, utilizzato in matematica finanziaria per la capitalizzazione degli interessi e che assume la funzione di [...]: facciamo un esempio (il numero di Eulero o Nepero viene approssimato a 2,7):

 

Sia C il capitale iniziale =   €100 

Sia r il tasso composto nel continuo = 0,05 = 5%

Sia t il tempo, espresso in anni = 2

Applicando la formula si ottiene:

 

[...]

 

La dimostrazione appena fatta prova come la formula dell’a. f. utilizzi il fattore [...] quale strumento di capitalizzazione: il fattore [...] è universalmente riconosciuto, ed applicato ovunque, nel settore bancario e finanziario, quindi, se da un lato sono comprensibili le discussioni sotto il profilo giuridico, il fraintendimento di una funzione matematica appare sintomo dubbie conoscenze della materia.

 

5. Brevi cenni sulla trasparenza bancaria: necessità di chiarezza.

Risalendo adesso al dato normativo, è possibile rinvenire nel diritto positivo tre segmenti che caratterizzano la fase precontrattuale.

Tali segmenti sono rinvenibili nell’art. 116 c. 3 TUB e nella delibera CICR 4 marzo 2003 n. 10 ovvero: Principali norme di trasparenza 8art. 4); Fogli informativi (art. 5); Annunci pubblicitari (art. 7).

Da questi dati normativi si rileva che il sistema contrattuale in materia bancaria e condizionato dall’obbligatorietà di informazioni preventive e di pubblicità del contenuto che incidono sulla validità del contratto.

 A questi obblighi si aggiungono, come già detto, quelli di consegna della copia completa dello schema contrattuale al cliente prima della conclusione del contratto, del documento di sintesi e il testo del contratto che dovrà essere sottoscritto (ovviamente includendo i dati relativi alla specifica operazione finanziaria, tasso effettivo globale adeguatamente pubblicizzato).

Quanto ai fogli informativi, essi volgono la loro funzione non solo alla informatizzazione circa le condizioni economiche, tasso di interesse, spese, commissioni ma anche delle condizioni non economiche, come ad esempio sugli esoneri e limitazioni di responsabilità, condizioni e termini di recesso, dati inerenti al soggetto bancario.

Anche la Banca d’Italia ha posto l’obbligo alla banca di rendere pubblica una speciale informativa nota come discolsure sulla propria situazione economico patrimoniale, organizzazione amministrativa e contabile: è quindi evidente l’allargamento dello stesso concetto di trasparenza.

Le regole di protezione sottese alla disciplina sulla trasparenza mirano da un lato alla protezione esclusiva del cliente, dall’altro denota l’interesse pubblico a dare effettività a tale tutela conferendo al giudice il potere di rilevare d’ufficio le derivate nullità: tali principi si rilevano dalla lettura dell’art. 127, comma 2, TUB.

Il Collegio di Milano nella decisione n.2672 del 2011, così si è espresso; la correttezza innestata sull’obbligo di buona fede è principio di carattere generale; il concetto di trasparenza viene ulteriormente ad ampliare il diritto all’informazione; il richiamo all’equità consente invece, al giudice, di riequilibrare contratti.

Come sottolineato da Cass. N.24795 del 2008, principio poi ripreso dal Collegio di Roma nella decisione n. 2651 del 2012, al cliente deve essere fornita una conoscenza utile ritenendo insufficiente la semplice lettura dell’atto notarile già formato e predisposto per la sottoscrizione in sede di stipula, poiché la sottoscrizione assumerebbe una sostanziale presa d’atto.

La Cassazione giunge a tale conclusione attraverso il richiamo dell’art. 1337 c.c. ritenendo tale clausola generale fonte autonoma di doveri informativi.

Le informazioni precontrattuali, che hanno dunque la funzione di assenso consapevole al contenuto del contratto, devono a loro volta soddisfare i requisiti della chiarezza e comprensibilità.

Il Collegio di Roma nella decisione n. 1419 del 2012 rileva come l’indicazione di buona fede informativa ex articolo 1337 cc sia altresì rinvenibile nell’art. 5 comma 3 del Codice del Consumo: l’informazione resa al cliente deve assumere tono univoco senza alcuna ambiguità.

Necessita tuttavia sul punto osservare che chiarezza e comprensività possono assumere una doppia rilevanza sia sul piano soggettivo che oggettivo, ovvero ciò che è comprensibile per l’uno può non esserlo per l’altro.

Sul punto può correre in aiuto la disciplina della materia finanziaria, che attraverso lo strumento della c.d. suatbility rule si procede ad indagare sulle caratteristiche soggettive del cliente.  

Rimandando a proseguo le questioni giuridiche sottese alle caratteristiche soggettive che le clausole dovrebbero avere per garantire effettività alla trasparenza è prodromico individuare il requisito minimo di ogni informativa (ovvero clausola) per individuare i criteri minimi di decodificazione oggettiva.

Si cita all’uopo il Collegio di Napoli che con la decisione n. 2186 del 2011 ha riscontrato che: “l’obbiettiva inintelligibilità (oltre che illeggibilità) delle condizioni generali di contratto” e “l’indebita e irrituale sovrapposizione tra documento di sintesi e norme del contratto” determinano un “importante difetto di trasparenza informativa”.

Altrettanto utile è la decisione del Collegio di Milano n. 650/2012 che rileva la nullità di una clausola scritta in caratteri minuscoli, la n. 340 del 2011 che affronta il problema dell’offerta pubblicitaria che riportava le indicazioni di un TAEG più basso rispetto a quello contrattualmente imposto e la decisione n.1017/2011 che affronta il caso di un contratto in cui TAN e TAEG non erano stati inseriti ed era stato lasciato uno spazio bianco da riempire.

Come sin qui evidenziato, la disciplina sulla trasparenza ha subito negli anni una evoluzione, passando dagli elementari precetti di forma a verifiche strettamente sostanziali della effettività della trasparenza stessa.

È quindi arrivato il momento di trattare il principio della c.d. agevole comprensibilità.

Nelle Istruzioni di Vigilanza (a pag. 4) si legge che i documenti informativi sono redatti con modalità che garantiscono la correttezza, la completezza e la comprensibilità delle informazioni, così da consentire al cliente di capire le caratteristiche e i costi del servizio, confrontare con facilità i prodotti, adottare decisioni ponderate e consapevoli[59].

Sempre le istruzioni di vigilanza (a pag. 83), prevedono, nell’ipotesi di “forme complesse di remunerazione”, l’obbligo per le banche di mettere a disposizione della clientela un “algoritmo che consenta un agevole calcolo dei costi”, così come l’art. 123 c. 1 lett. F TUB stabilisce il dovere di pubblicare, laddove possibile, in anticipo l’importo totale del dovuto da parte del consumatore.

Il contratto, oltre ad essere di agevole comprensione deve essere altresì conciso – art. 125 bis TUB. 

In effetti come ha avuto modo di osservare l’ABF di Milano nella decisione n. 1381/2010, l’apparente dettaglio potrebbe celare una mancanza di trasparenza tale da rendere impossibile per il consumatore una scelta consapevole e mediata.

Non manca nel diritto positivo, e l’Arbitro finanziario ne ha affrontato nella pratica le difficoltà applicative, l’apertura ad una informazione personalizzata.

Le fonti di riferimento sono l’art. 124 TUB e le Istruzioni di Vigilanza (non propriamente fonte) che a pag. 3 recita, in applicazione del principio di proporzionalità la disciplina si articola secondo modalità differenziate in ragione alle esigenze delle diverse fasce di clientela.  

Le Istruzioni di Vigilanza identificano come categoria i c.d. “clienti al dettaglio” (consumatori, persone fisiche che esercitano professioni o attività artigianali e microimprese) per i quali vengono previsti obblighi comportamentali maggiori.

È aperto il dibattito tra la scelta da operare tra informazione differenziata e informazione personalizzata: mentre per la prima ipotesi sono richiesti diversi standards astrattamente idonei ed adeguati, nella seconda ipotesi si individuano informazioni comuni plasmate su caratteristiche concrete del singolo cliente.

Il Collegio di Milano nella decisione n. 3891/2012, afferma, tuttavia che: “adempimento di obblighi informativi gravanti si una impresa bancaria non può essere calibrato sulle qualità soggettive dei singoli clienti e che le indicazioni relative alla professionalità del ricorrente sono insufficienti anche al fine di configurare un concorso di colpa ex art. 1227 c.c.”.

È utile ricordare la Comunicazione del 7 aprile 2011, la Banca d’Italia sollecita gli intermediari, alla lettera b) adottare presidi organizzativi per evitare che i clienti siano indirizzati verso operazioni incoerenti con le loro condizioni economico finanziarie, come richiesto dal Provvedimento in materia di trasparenza del 29 luglio 2009. In tale ambito andrà valutata l’adozione di strumenti, anche informatici, che consentano di verificare la coerenza del prodotto con le caratteristiche economico-finanziarie e attuariali delle diverse categorie di clienti (tale valutazione deve essere effettuata con particolare attenzione nei casi di rinnovo e nei finanziamenti da erogare alle persone in età avanzata). È, inoltre, necessario rafforzare le procedure interne volte a valutare la sostenibilità dell’operazione da parte della clientela, conformemente a quanto previsto dalla disciplina sulla valutazione del merito creditizio.

Sempre nella Comunicazione del 7 aprile 2011, nell’allegato, in relazione alla trasparenza si legge: Sul punto, si sottolinea la necessità di assicurare uno scrupoloso rispetto dell’obbligo posto dalla vigente normativa di evitare che i clienti siano indirizzati verso operazioni incoerenti con le loro condizioni economico finanziarie ed attuariali, come richiesto dal citato Provvedimento in materia di trasparenza del 29 luglio 2009[60]. Ciò richiede che siano attentamente valutate eventuali azioni promozionali nei confronti della specifica categoria di debitori, indipendentemente dalla previsione di un’età massima per gli stessi.

 

6. Gli strumenti ermeneutici.

L'interpretazione e la qualificazione giuridica insieme all'integrazione, sono aspetti di un procedimento conoscitivo unitario volto alla ricostruzione complessiva del significato contrattuale[61] (art. 1362 c.c.).

Gli strumento in esame (seppur sommariamente) rappresentano strumenti indispensabili alla interpretazione dei contratti bancari, che assumono, nella loro attuale strutturazione la natura di veri e propri contratti complessi che vanno ben oltre il nomen iuris (come si vedrà nel penultimo paragrafo), oltre al fatto, che in alcuni casi, come nei contratti di mutuo e finanziamenti, le clausole sulla determinazione del relativo costo  appaiono insufficienti se non addirittura indeterminati e indeterminabili, con la conseguenza, nei casi più estremi, che il contratto resti inficiato di nullità.

La scelta da parte del giudice di merito del mezzo ermeneutico più idoneo all'accertamento della comune intenzione dei contraenti non è sindacabile in sede di legittimità qualora sia stato rispettato il principio del gradualismo, secondo il quale deve farsi ricorso ai criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale delle espressioni adoperate dai contraenti e collegamento logico tra le varie clausole) siano insufficienti all'identificazione della comune intenzione stessa[62].

Deve annotarsi, che nella generalità delle formule contrattuali di finanziamenti e mutui, le banche non forniscono alcun elemento atto a individuare un metodo di calcolo e tanto mendo indica un criterio di proporzionalità, pertanto è indispensabile, attraverso gli strumenti ermeneutici fornito dal codice civile, cercare di comprendere se il contratto possa trovare una qualche esecuzione o se semplicemente debba essere dichiarato nullo.

Nell'interpretazione dei contratti, gli strumenti dell'interpretazione letterale (art. 1362, c. 1 ), del coordinamento delle varie clausole e della individuazione del senso che emerge dal complesso dell'atto (art. 1363) sono legati da un rapporto di necessità: essi non sono autosufficienti o indipendenti, ma legati da un vincolo di unitarietà, poiché la loro separazione cronologica nell'iter interpretativo viene assorbita da una contestualità logica, in un procedimento in cui ogni parola è nel contempo oggetto e strumento di interpretazione (Cass. 27.6.1998 n. 6389).

Il giudice quindi, deve condurre una duplice operazione, ovvero selezionare, tra le clausole contrattuali, quelle che sono essenziali, rispetto a quelle sovrabbondanti togliendo efficacia a quelle clausole che non hanno un senso proprio, se contrastante con quello unitario e generale del negozio e tenere conto anche delle clausole invalide, come mero elemento di fatto, per chiarire l'intera volontà negoziale[63]: l’indicazione di un tasso di interesse senza l’indicazione della modalità di calcolo, può trovare un senso proprio solo attraverso il combinato disposto degli artt. 1367, 1370 (interpretazione delle clausole contrattuali contro l'autore delle stesse, dal momento che sono unilateralmente predisposti dalla banca) e  1371 c.c., a condizione che il contratto non venga ritenuto nullo per la nullità dell’oggetto,  ovvero il miglio risultato possibile applicando modalità di calcolo più favorevoli al debitore.

Considerato unitariamente, il negozio deve essere posto in relazione con altre pattuizioni che eventualmente le parti abbiano posto in essere, collateralmente a quella esaminata.

Il criterio della buona fede costituisce strumento sussidiario di interpretazione della volontà negoziale ed è perciò inutilizzabile ove questa risulti di per sé chiara attraverso l'interpretazione letterale[64].

Il canone dell'interpretazione secondo buona fede sarebbe la prima delle norme di interpretazione oggettiva e, pertanto, sarebbe consentito ricorrervi solo quando non sia possibile individuare il senso del contratto o delle singole clausole alla stregua delle regole interpretative dettate negli articoli precedenti[65].

Per la dottrina maggioritaria, qui condivisa, invece, la buona fede rappresenta un fondamentale precetto di lealtà e di chiarezza sul cui presupposto andrebbe interpretato il contratto e in cui verrebbero a sintetizzarsi il momento soggettivo e quello oggettivo[66], dunque, un criterio di controllo del contratto[67] senza un contenuto prestabilito ma basato su principio di solidarietà contrattuale che si specifica in due fondamentali aspetti, quello della salvaguardia e della lealtà[68]: dunque se lealtà e buona fede hanno una stretta relazione con la chiarezza, una corretta valutazione delle clausole contrattuali inerenti i costi dei mutui e finanziamenti (ma non solo) non potranno che condurre ad una valutazione di insufficienza.

Il criterio dell'affidamento, espresso nell' art. 1366, deve dominare l'operazione ermeneutica, per cui interpretare secondo buona fede significa applicare un criterio obiettivo di interpretazione sia nella fase soggettiva che in quella oggettiva[69].

Considerato che i contratti bancari sono unilateralmente predisposti dalla banca, assume particolare rilevanza l’art. 1370 c.c., ovvero, lo strumento sussidi del principio della interpretazione contro l'autore della clausola, strumentodi interpretazione della volontà negoziale inutilizzabile solo ove non sussista alcun dubbio sul reale significato della dichiarazione contrattuale[70].

È condivisibile quell’attenta dottrina che individua la vera ratio dell' art. 1370 non tanto nella codificazione della regola secondo cui in stipulationibus verba contra stipulatorem interpretanda sunt, quanto nella necessità di proteggere il contraente economicamente più debole nell'ambito del fenomeno della contrattazione standardizzata: o scopo fondamentale e qualificante dell' art. 1370 è quello di rinforzare, in sede interpretativa, la tutela apprestata dagli artt. 1341 e 1342 a favore del contraente che aderisca a schemi negoziali, non concordati, ma unilateralmente predisposti[71].

La giurisprudenza ha accolto orientamento dottrinale[72], statuendo che il criterio della interpretazione delle clausole contrattuali contro l'autore delle stesse, sancito dall'art. 1370 , non vale nell'ipotesi di contratti stipulati individualmente, ma solo in quella di contratto concluso mediante adesione a condizioni generali, moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti e da sottoporre ad una pluralità di eventuali controparti: tale criterio interpretativo deve pertanto ritenersi applicabile alla contrattualistica bancaria[73].

Il principio di conservazione del contratto ha carattere sussidiario, rientra nel gruppo di norme di interpretazione oggettiva[74] ed è invocabile solo quando non sia stato possibile risalire alla comune intenzione delle parti in base alle norme di interpretazione soggettiva[75], non essendo autorizzata la conservazione del contratto attraverso un'interpretazione sostitutiva della volontà delle parti[76].

L’art. 1367 si realizza sulla ricerca del senso in cui il contratto realizza il massimo risultato utile, diversamente la norma troverebbe scarsa applicazione difettando il criterio di scelta tra le interpretazioni che in varia misura possono avere a conservare il contratto[77].

La norma non impone, comunque, di attribuire all'atto un significato tale da assicurare la sua più ampia applicazione, ma richiede soltanto che il significato attribuitogli possa avere un qualche effetto, specie se l'interpretazione comportante la più estesa applicazione dell'atto è da escludersi sulla base di una lettura che tenga conto degli altri prioritari criteri ermeneutici codificati[78].

Prima di invocare il principio della conservazione del contratto, dovrà innanzitutto essere dimostrato che il contratto esiste[79]; inoltre, l'art. 1367 non si applica ai contratti nulli e tale nullità non può essere esclusa in virtù del principio di conservazione[80].

Il criterio in esame non comporta solo che il contratto venga interpretato nel senso in cui possa avere qualche effetto, ma richiede che il contratto non risulti neppure in parte frustrato e che la sua efficacia potenziale non subisca alcuna limitazione[81], esso non può trovare riferimento per la sua applicabilità in dichiarazioni o comportamenti di terzi, che sono estranei al negozio da interpretare[82].

Appare infine risolutivo l’art. 1371 c.c., ovvero il favor debitoris, seppur strumento di carattere espressamente residuale applicabile solo nel caso in cui, malgrado il ricorso a tutti gli altri criteri previsti dagli artt. 1362-1370, la volontà delle parti rimanga dubbia[83]: naturalmente, trattandosi, i contratti bancari, di contratti onerosi, detto criterio ha riguardo agli interessi al momento della stipulazione e non a quelli nel momento della decisione della lite[84].

Alla luce degli strumenti ermeneutici disposizione, nella lettura dei generali modelli di finanziamento e mutuo, la questione che si pone è l’assenza di precisa specificazione che mette in relazione il tasso di interesse con il capitale.

Le clausole contrattuali, si limitano a specificare che le rate sono costituite da quota capitale crescente e quota interesse decrescente; tale indicazione corrisponde al metodo di ammortamento c.d. alla francese, tuttavia nulla viene specificato in merito al regime finanziario applicato e quindi di come il tasso di interesse va a lavorare sul capitale.

L’assenza di una tale indicazione, in particolare nel caso del tasso variabile, rende praticamente impossibile poter determinare ab origine l’effettivo costo dell’operazione bancaria e ciò a scapito stesso del contratto il cui oggetto, almeno nei casi del tasso variabile diviene indeterminato e indeterminabile[85].

Riprendendo la considerazione riguardo al principio di proporzionalità, considerata anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia che adotta il predetto criterio come principio di equità nei rapporti contrattuali, tale criterio dovrà, essere assunto a principio nel suo sviluppo lineare, unico mezzo per evitare l’addebito di costi occulti, o in altre parole gli effetti dell’interesse composto.

In ultima analisi la Suprema Corte ha altresì sottolineato la necessità di assumere condotte trasparenti (Titolo VI TUB) con le sentenze n. 5562 del 07.06.1999 e n. 72 del 8.01.1997, per garantire un corretto svolgimento dell’attività di erogazione del credito.

Il cliente ha dunque il diritto soggettivo autonomamente azionabile ad una corretta e veritiera informazione, pertanto sarà fonte di responsabilità della banca che fornisce informazioni inesatte, incomplete o non veritiere[86].

La Corte di Cassazione con le sentenze n. 4571 del 15.04.1992, n. 72 del 8.01.1997 e n. 12093 del 27.09.2001 ha ritenuto di dover giudicare il comportamento della banca in modo più rigoroso e specifico richiedendo un grado elevato di diligenza necessario per evitare il verificarsi di eventi dannosi per la clientela.

Tale principio trae la sua origine dal generale dovere a carico di ciascun consociato di attivarsi al fine di impedire eventi dannosi dal quale la giurisprudenza ha tratto doveri e regole d’azione la cui violazione può integrare ipotesi di responsabilità civile.

Nel settore bancario tale principio è connotato dal ruolo della banca che assume sul piano funzionale un ruolo preminente innalzando, agli istituti di credito, un l’obbligo di diligenza e buona fede dal livello medio del buon padre di famiglia a quello qualificato, diligenza, caratterizzata da condotte in parte tipizzate in parte enucleabili caso per caso la cui violazione genererà responsabilità per culpa in omettendo[87].

Infatti la normativa di correttezza nell'adempimento delle obbligazioni, prevista da molteplici norme del nostro ordinamento (artt. 1175, 1374, 1375 ed altre), e confortata dal precetto costituzionale (art. 2 Cost) che impone il rispetto dell'inderogabile dovere di solidarietà sociale, esige attuazione piena, nei limiti di compatibilità con altri valori di pari grado e dignità. Ciò comporta che diritti ed obblighi, seppure specificamente regolati dalle norme che li prevedono, non possono mai prescindere dall'osservanza del principio di buona fede, operante all'interno delle posizioni soggettive, non potendo l'autore di un comportamento scorretto trarre da esso utilità con altrui danno[88].

In altri termini è stato ritenuto che per il carattere dell’attività svolta dalle banche è dovuto un maggior grado di attenzione e prudenza nonché l’adozione di ogni cautela utile o necessaria richiesta dal comportamento diligente dell’accorto banchiere (Cass. 12.10.1982 n. 5267).

La c.d. diligenza del Bonus argentarius qualifica il maggior grado di prudenza ed attenzione che la connotazione professionale dell’agente richiede.  Essa deve trovare applicazione non solo in riferimento ai contratti bancari in senso stretto ma anche ad ogni tipo di atto o di operazione posta in essere, nell’esercizio della sua attività, dalla banca la quale deve predisporre qualsiasi mezzo idoneo onde evitare il verificarsi di eventi pregiudizievoli comunque prevedibili – Cass. 7.05.1992 n. 5421[89].

Merita di essere sottolineata quell’attenta dottrina che ha tratto dagli art. 1218 e 2729 c.c. spunto per ritenere sussistenti i presupposti di un vero e propria presunzione di responsabilità della banca in caso di azione diretta a far dichiarare l’inadempimento contrattuale invertendo altresì l’onere della prova: spetterà quindi alla banca, utilizzando ogni mezzo di prova, dimostrare di aver adottato la diligenza necessaria sufficiente a dimostrare il proprio adempimento[90].

In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza n. 2058 del 23.02.2000 che così ha scritto: “nel nostro ordinamento l’attività bancaria nel suo complesso, quale comprensiva dell’esercizio del credito e della raccolta di risparmio  risulta disciplinata in modo tale da configurare non solo una delle forme di esercizio d’impresa, già di per sé sottoposta a particolari forme di controllo, ma soprattutto, proprio in quanto riservata in via esclusiva agli istituti di credito ed in conformità al dato della tutela costituzionale del risparmio di cui all’art. 47 Cost. predisposta in favore della collettività, un servizio per il pubblico con tipiche forme di autorizzazione, vigilanza e trasparenza. Da ciò deriva che i profili di responsabilità nell’espletamento di tale attività vanno individuati e, ove sussistenti, sanzionati in conformità dell’elevato grado di professionalità”.

Ancor prima di procedere ad esaminare i profili del contratto bancario in generale è indispensabile indagare sulla fase preliminare alla formazione di qualunque contratto caratterizzata dall’obbligo di informazione.

Solo il cliente “debitamente informato può fare scelte consapevoli” (ABF Decisione n. 1119/2011).

L’informazione, in effetti, serve ad identificare con precisione cosa la banca VUOLE dal cliente, cosicché quest’ultimo possa operare scientemente le proprie scelte.

Appare rispondente all’esigenza “sociale” la definizione che taluno ha dato della trasparenza, ovvero “termine trasparenza è un modo riassuntivo di esprimere il concetto di informazione completa e adeguata[91].

Traendo spunto dai principi generali dell’art. 1374 c.c., ovvero buona fede e correttezza della condotta, si ricava l’obbligo di informazione quale “obbligo(hi) accessorio(i)” al rapporto contrattuale e alla sua integrazione.

Come ha avuto modo di precisare la Corte di Cassazione   con sentenza n. 12093 del 27.09.2001, tra i più generali doveri di buona fede rientra quello di consegnare al cliente la documentazione relativa al rapporto concluso, dovere che trova la sua corrispondenza negli artt. 1374, 1375 e 119 TUB che sanciscono un vero e proprio diritto soggettivo del cliente a farsi consegnare tale documentazione.

L’eventuale violazione di tele diritto potrà quindi generare una ipotesi di responsabilità contrattuale da inadempimento ed extracontrattuale ex art. 2043 c.c. per la violazione del generale principio del neminem ledere nell’ambito del c.d. culpa in omittendo.

 

7. Funzione monetaria o fungibilità dei beni oggetto della prestazione principale.

Autorevole dottrina (QUADRI) aggiunge un ulteriore caratterizzazione quella monetaria o fungibilità dei beni oggetto della prestazione principale, ovvero del capitale.

Che gli interessi ed il capitale che li ha prodotti, abbiano un destino strettamente legato alla moneta è già stato dato cenno nelle pagine che precedono, tuttavia in materia di obbligazioni non mancano certamente ipotesi di prestazione di cose infungibili, dunque diversi dalla moneta: in qual caso non è da escludersi l’ammissibilità di interessi computati al loro valore di stima (Weber, Staudingers Kommentar zum BGB, 1294). 

Quello tuttavia che interessa è comprendere quale sia l’attuale concetto di moneta e come si concilia con la tradizione giuridica dell’obbligazione.

È largamente accolta la distinzione tra moneta scritturale - scritturazioni bancarie - basata sulla garanzia che offrono le banche, e gli altri sistemi tradizionali di pagamento, come la cambiale, con la particolarità che l'effetto satisfattorio si realizza con la disponibilità monetaria a favore del creditore.

Alla base del concetto di disponibilità riposa l'idea della smaterializzazione del denaro ovvero nella trasformazione del diritto reale sui pezzi monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro.

La smaterializzazione del denaro resta comunque ancorata al principio nominalistico in virtù del quale, salvo patto contrario, laddove lecito, il pagamento di una obbligazione pecuniaria deve effettuarsi con moneta corrente nello stato in cui deve effettuarsi il pagamento, a prescindere dalle variazioni del suo potere di acquisto (Cass. Civ. 16 settembre 1980, n. 5275).

Nella concezione moderna, la custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante è ritenuta inefficienti oltre che insicura pertanto si è sviluppata la tendenza alla eliminazione degli spostamenti materiali.

L'adempimento dell'obbligazione pecuniaria, diviene dunque un giusto contemperamento tra il principio della correttezza per il creditore e la regola della diligenza per il debitore, diretta all'estinzione del debito, per la quale le parti devono collaborare.

L'adempimento di una obbligazione pecuniaria, si può ritenere efficace e liberatorio solo qualora produca i medesimi effetti del pagamento per contanti ovvero, quando pone il creditore nelle condizioni di disporre liberamente della somma di denaro, rendendo l’eventuale rapporto di credito verso una banca irrilevante.

Il codice civile, tuttavia non contiene una norma che parifica la moneta avente corso legale (art. 1277 e 1278 c.c.) a quella scritturale, tuttavia non si può ignorare la legislazione speciale (in specie quella tributaria).  

Infatti dagli anni ’90 i sono registrati diversi interventi formativi finalizzati a tracciare il movimento di denaro limitando l’uso del contente.[92]

Non ci sono dubbi che, sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie contenuto negli artt. 1277, 1182, 1197 c.c., costituisca una norma datata, che non tiene conto dell'evoluzione socio-economica tuttavia non vale l'osservazione che seppur il D.L. n. 143 del 1991 conserva valenza all'art. 1277 c.c. il creditore ha il diritto di pretendere il pagamento in moneta avente corso legale, anche attraverso l'intermediario abilitato che subentra nella posizione del debitore (Cass. 10.6.2005, n. 12324), poiché la convertibilità in denaro è tipica di qualsiasi sistema e alternativo di pagamento.

Ne consegue che oggi, il rischio di convertibilità ovvero, l'eventualità che la banca non sia in grado di garantire la conversione in moneta legale dipende dal grado di affidabilità della banca.

L'interpretazione giurisprudenziale prevalente dell'art. 1277 c.c. è granitica nel ritenere i che debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato, pertanto il creditore può rifiutare qualsiasi altro mezzo di pagamento, compreso l'assegno circolare che pure è assistito da una particolare affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.

Anche la dottrina ha osservato che l'art. 1277 c.c. non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema valutario nazionale, ed è ad esso che i mezzi monetari impiegati si riferiscano; secondo la concezione moderna il denaro è unità ideale di valore a cui l'ordinamento riconosce la funzione di unità di misura dei valori monetari anche detta ideal unit, astratta unità ideale monetaria creata dallo Stato.

In definitiva, l'oggetto del pagamento è rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro e non più dalla moneta, dovendo ritenere che, moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento si riferisca esclusivamente al sistema valutario nazionale.

Solamente procedendo con il criterio interpretativo anzidetto l’interpretazione dell'art. 1277 c.c. consente altri sistemi di pagamento, pur nella necessità di garantire al creditore lo stesso effetto del pagamento per contanti ovvero, forniscano la disponibilità della somma di denaro dovuta.

Diviene un naturale corollario che il rischio di convertibilità (l'eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di assicurare la conversione dell'assegno in moneta legale) rimane a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell'operazione.

Sono proprio i caratteri dell’obbligazione di interessi appena enunciati a venire in gioco e che devono essere applicati ai contratti bancari che prevedono la restituzione del capitale e dell’accessorio interesse: l’interesse deve restare accessorio e non può trasformarsi in capitale divenendo così produttivo di interessi.

Nell’ordinamento vigente sono normativamente riscontrabili l’interesse corrispettivo nell’art. 1282 c.c., compensativo in specifici casi previsti dagli artt. 1499, 1815, 1825, e moratori nell’art. 1224 c.c.

Tale distinzione e solo apparentemente così decisa: in realtà i confini delle varie fattispecie e norme non è così facile da individuare, tanto che alcuni studiosi hanno ritenuto il diritto delle obbligazioni uscito dalla riforma del 1942, uno dei capitoli più complessi e intricati[93].

 

8. … Segue: l’accessorietà – autonomia

Gli interessi sono una particolare obbligazione pecuniaria, avente carattere accessorio rispetto ad una obbligazione principale pur essa a contenuto pecuniario[94].

La caratteristica dell’accessorietà viene utilizzata per distinguere gli interessi dalla rendita dove manca un debito di capitale, e dalle rate relative a forme di finanziamento il cui pagamento frazionato di capitale e interesse sono una modalità di adempimento dell’obbligazione[95].

Non si deve pensare che l’attribuzione agli interessi del connotato accessorio, renda gli stessi meno importanti dell’obbligazione che li ha generati, poiché gli interessi, rappresentano, in alcuni contratti elemento che connota il rapporto sinallagmatico[96]: accessorio significa semplicemente che la sua esistenza dipende dall’esistenza di un debito di capitale.

Giacché il presente lavoro, vuol proporre spunti per una lettura attuale dell’istituto interessi, si ricorda che autorevole dottrina (BIANCA) non riconduce gli interessi alla macrocategoria del capitale, ma ritiene, quest’ultima fonte degli interessi quali frutti civili, individuando poi, gli interessi: su somme liquide ed esigibili; sul prezzo di cosa fruttifera già in possesso del compratore; sulle somme dovute a titolo risarcitorio e indennitario[97].

La giurisprudenza ritiene, proprio in virtù del carattere accessorio dell’interesse, la prova della debenza degli interessi, una volta accertata l’esigibilità e le liquidità del credito (pecuniario) che li ha prodotti[98].

Se la disciplina dell’usufrutto porta a ritenere che l’enunciato della accessorietà non è necessario dal momento che la legge far sorgere un'obbligazione di interessi[99]senza una corrispondente obbligazione principale, resta comunque valido l’assunto secondo cui la decorrenza degli interessi inizia con il sorgere dell'obbligazione principale e termina con la sua estinzione (rilegando ad eccezione l’ipotesi dell’usufrutto).

L’accessorietà, è riferibile al solo momento genetico[100] dell'obbligazione mentre gli interessi già maturati costituiscono un'obbligazione pecuniaria che nel suo successivo sviluppo è autonoma rispetto a quella principale.

Facendo una disamina sulle vicende possibili legate all’obbligazione principale e per interessi, si ricava che a fronte di una dichiarazione di nullità, annullabilità o rescissione dell’obbligazione principale deriverà la caducazione anche degli interessi, tuttavia, al di là del caso citato, la sorte dell’obbligazione principale non segue sempre e necessariamente quella dell’obbligazione interessi potendo, quest’ultima, formare oggetto di separati atti giuridici.

Ecco allora che la rimessione del debito in linea capitale non estinguerà l’obbligazione degli interessi, così come la prescrizione[101] dell’obbligazione principale non avrà riflesso alcuno sulla prescrizione quinquennale degli interessi, anzi, l’atto interruttivo del decorso del termine di prescrizione relativamente al capitale non interromperà la prescrizione del credito per gli interessi[102].

L’autonomia degli interessi è particolarmente evidente in relazione alla prescrizione. Infatti in riferimento all’art. 2948 n. 4 c.c., sia la dottrina che la giurisprudenza, hanno rilevato tre corollari:

a) la prescrizione del debito principale non determina al prescrizione del debito per interessi[103];

b) gli atti interruttivi la prescrizione relativi al capitale non interrompe il decorso del termine di prescrizione sul credito per interessi la Corte di Cassazione si è espressa in più occasione sostenendo che è  escluso l'estensione degli effetti dell'interruzione della prescrizione, scaturenti dal riconoscimento del debito nella somma sopra indicata, anche al credito per gli interessi, dato il loro legame solo genetico di accessorietà col capitale, che rende i relativi diritti suscettibili di negoziazione autonoma, e rilevando che la norma dell'art. 2948 c.c. diversamente opinando, sarebbe vanificata[104].

Sul punto, tuttavia la giurisprudenza[105] non ha raggiunto un orientamento unitario, infatti pur ribadendo e che l'obbligazione relativa agli interessi è legata da un vincolo di accessorietà all'obbligazione principale solo nel momento genetico e le sue vicende sono indipendenti da quelle del capitale e dagli atti interruttivi riguardanti esclusivamente quest'ultima e che, costituendo una prestazione dovuta in base ad una causa debendi continuativa, la relativa prescrizione è quella quinquennale regolata dall'art. 2948, n. 4, c.c.[106]

Precisa: A diversa conclusione può pervenirsi soltanto ove l'obbligazione per interessi attenga ad un debito unico, rateizzato in prestazioni periodiche di eguale o di diverso importo, che costituiscano adempimento parziale di un'unica obbligazione principale, giacché unicamente in tale caso, che nella specie non ricorre, dovendo le varie prestazioni essere considerate nel loro insieme ai fini dell'adempimento, l'identità della causa debendi della prestazione principale e di quella accessoria comporta che il termine di prescrizione inizia a decorrere per entrambe dal momento utile per il pagamento dell'ultima rata del debito principale e viene ad identificarsi anche per gli interessi con quello ordinario decennale.

c) la rinunzia alla prescrizione del debito principale non si estende automaticamente al debito in linea di interessi, non potendosi dubitare, dell'autonomia del diritto di credito relativo agli interessi rispetto a quello avente ad oggetto la sorte capitale, per cui ben può il debitore rinunciare all'operatività della prescrizione solo con riferimento ad una delle due componenti del credito.[107]

La giurisprudenza insegna inoltre che gli interessi possono essere oggetto di atti di disposizione separati rispetto a quelli relativi al credito pecuniario principale, per cui il credito per gli interessi, dato il loro legame solo genetico di accessorietà col capitale, che rende i relativi diritti suscettibili di negoziazione autonoma, e rilevando che la norma dell'art. 2948 c.c. diversamente opinando, sarebbe vanificata.

Tale autonomia dovrà, tuttavia essere oggetto di una attenta indagine dal punto di vista funzionale e in relazione al tipo di interesse in gioco.

Il rapporto di autonomia e accessorietà si ha inoltre in relazione agli interessi anatocistici (art. 1283 c.c.) che possiamo distinguere rispetto agli interessi primari (corrispettivi o compensativi, mai moratori).

L’anatocismo disciplinato dall’art. 1283 c.c. si pone come limite all’art. 1282 c. 1 c.c. che diversamente sarebbe applicabile anche al debito di interessi semplicemente maturati[108].

Tale rilievo assume notevole importanza in relazione ad un altro concetto, spesso confuso con quello dell’anatocismo e che prende il nome capitalizzazione.

Le differenze tra interessi primari ed anatocistici, corrono inoltre in relazione al saggio, che può essere diverso, la legge non pone alcun limite salvo la legge antiusura (108/1996), ed alla relativa decorrenza, l’art. 1282, e 1283 indicano condizioni e dies a quo ben determinati: la decorrenza degli interessi inizia solo con il sorgere dell’obbligazione principale e cessa con l’estinzione della stessa salvo diverso accordo (vedi artt. 1193 e 1194 c.c.).

 

9. Eguaglianza generica dell’oggetto.

Il carattere dell’omogeneità degli interessi, consiste nella relativa identità di genere l’obbligazione principale, tuttavia, è largamente condivisa l’opinione che l’autonomia contrattuale può derogarvi[109].

Come osservato da V. Farina[110], nella Costituzione è l’art. 47 Cost. ad ascrivere tra i compiti della Repubblica quello, in particolare, di disciplinare, coordinare e controllare l’esercizio del credito, che si differenzia da altre attività economiche, la cui iniziativa è libera (art. 41, comma 1, cost.). Così implicitamente esclude che il regolamento degli interessi in gioco possa essere affidato esclusivamente all’autonomia delle parti. Allora ben si comprende come i limiti posti alla normale fruttuosità del danaro ad esempio dagli artt. 1224-1283 -1815- 2855 c.c., 644 c.p., 11-, 120 e 124 T.U.B., lungi dal rappresentare un anacronismo, o peggio, un’insanabile contraddizione del sistema delineato dall’art. 1282 c.c., siano espressione di un interesse pubblico al normale e regolare esercizio del credito, il tutto in una logica di rispetto dei precetti di cui all’art. 47 Cost. Il che peraltro è perfettamente in linea con quell’orientamento della Corte costituzionale che considera esattamente “limitato” e “relativo” qualsiasi diritto individuale, anche di rango costituzionale.

Il carattere dell’omogeneità ha assunto negli ultimi anni un significato particolarmente importante se si pensa alla c.d. indicizzazione dei tassi di interesse.

L’approfondimento del tema servirà a comprendere se e quando la disciplina degli interessi potrà estendersi alle ipotesi di indicizzazione[111].

Sono ormai ampiamente diffusi i contratti che prevedono remunerazioni il cui importo dipende dalla struttura dei tassi di interesse: si tratta dei contratti indicizzati il cui parametro di indicizzazione è un tasso di interesse.

Nei contratti indicizzati gli interessi non sono noti al momento genetico poiché diverranno noti a date future.

Sussiste pertanto un carattere aleatorio che pone l’interesse al di fuori dalla sua dimensione tradizionale.

Il meccanismo di indicizzazione, con cui verrà determinata l’entità del pagamento, è frutto dell’autonomia contrattuale.

I principali esempi di contratti indicizzati a tassi di interesse sono i titoli a tasso variabile, di cui i Certificati di Credito del Tesoro (CCT), i mutui a tasso variabile di varie tipologie e gli interest rate swap.

È divenuta non sola esigenza, ma un vero e proprio prodotto da vendere, la gestione del rischio fluttuazione dei tassi di interesse, questo probabilmente il profilo che mette in discussione la concezione tradizionale dell’istituto in commento. 

Nel 1952 Redington elabora quella conosciuta come Redington’s theory of immunization[112].

La teoria sull’immunizzazione finanziaria consiste in un metodo di matematica volta a neutralizzare gli effetti della variazione del tasso di valutazione su di un portafoglio attivo (crediti) o passivo (debiti).

Con l'immunizzazione finanziaria si cerca di strutturare le attività e le passività in modo da eliminare, o alla peggio, limitare, le perdite causate da cambiamenti nel livello dei tassi d'interesse. Si tratta quindi di un metodo di copertura dal rischio di tasso, anche detto rischio di mercato.

Così pure il Teorema di Fisher - Weil (1971) fornisce un metodo di copertura dal rischio di tasso solo se tutte le somme che pagherà il portafoglio sono collocate nel futuro[113].

Lungi, in questa sede ripercorrere tutti i passi evolutivi della matematica finanziaria e attuariale, sicuramente, rispetto all’impostazione di Redington, oggi il concetto di immunizzazione finanziaria viene ridefinito come controllo del rischio di tasso di interesse nel senso della teoria delle decisioni in condizioni di incertezza.

La stabilità o la turbolenza dei mercati finanziari determina la scelta di strategie volte a controbilanciare la variazione dei tassi, basti pensare, all’esigenza del proteggersi dalla variabilità del tasso di interesse nel mutuo.

Quando il mercato mostra stabilità, lo strumento più adatto è (o era) l’investimento in titoli obbligazionari, investimenti non rischiosi per la bassa volatilità nella performance del rendimento.

Diversamente l’intervenuta turbolenza dei mercati generato, una alta variabilità nel tempo dei prezzi e dei rendimenti dei titoli obbligazionari rendendo quelli che un tempo erano investimenti a basso rischio in vere e proprie operazioni speculative; in una situazione di questo tipo diviene, in definitiva, rilevante, la componente di rischio di tasso di interesse, sia che investa in portafogli di puro investimento, sia i portafogli complessi di intermediazione.

Il rischio di tasso è generato dalla aleatorietà della struttura per scadenza dei tassi di interesse e dunque connesso alla trasformazione dei tempi delle scadenze.

Il risultato economico dell’intermediazione è quindi influenzato dalla variabilità della struttura dei tassi; la gestione dell’impresa bancaria e della componente finanziaria non potrà che essere impostata con modelli di asset-liability management.

Il tasso di interesse, diviene quindi l’oggetto di contratti finanziari che finiscono inevitabilmente per interagire con l’oggetto e la causa del contratto principale dalla quale si origina l’obbligazione principale.

La Cass. 29/05/12, n. 8548 in proposito,  sottolinea che, ferma la legittimità del mutuo fondiario in valuta estera,  l’inserimento in un mutuo fondiario di un fattore di rischio come quello di cui si verte (andamento della valuta estera rispetto al suo cambio contrattualmente convenuto) ne modifica lo schema tipico del contratto commutativo, mediante l’aggiunta di un rischio che a quello schema sarebbe estraneo, rendendolo, per tale aspetto, aleatorio con l’effetto, non trascurabile, di rendere ad esso inapplicabili  i meccanismi riequilibratorii previsti nella ordinaria disciplina del contratto.

Anche la Cass. 28/02/13, n. 5050 pone in evidenza che La ragione, di intuitiva evidenza, è che la trasformazione di un negozio tipico commutativo in un negozio atipico aleatorio non può che determinarne la modifica causale, divenendo l’alea “elemento essenziale del sinallagma”, con conseguente inapplicabilità al secondo della disciplina normativa dettata per il primo.

Tale affermazione di principio, impone di valutare caso per caso, quando ci troviamo di fronte ad un Contratto di mutuo fondiario ai sensi degli articoli 38 e segg. del D. Lgs. 385 del 1/9/93e quando ad un mutuo connotato da un rilevante fattore di rischio finanziario (negozio atipico di natura aleatoria), sia pure per volontà di entrambe le parti.

Diventa quindi essenziale valutare ogni volta se siano presenti in contrattoriferimento alla atipicità/aleatorietà del negozio e al meccanismo di indicizzazione del mutuo, ovvero se adeguatamente evidenziata la natura atipica e aleatoria del contratto nella sua titolazione, se è adeguata la titolazione e formulazione, l’eventuale accentuato tecnicismo del meccanismo di indicizzazione adottato la congruità del termine capitale restituito e l’ incidenza economica della rivalutazione posta a carico dei diversi interessati al momento della eventuale estinzione anticipata del mutuo, al fine di qualificare correttamente il contratto in esame.

Pur essendo indiscutibile la possibilità che le parti inseriscano, ai sensi dell’art. 1469 cod. civ., elementi di aleatorietà nel contratto di mutuo adottando un meccanismo di indicizzazione quale quello di cui si tratta, resta da valutare se nella specie la formulazione delle previsioni contrattuali, singolarmente e complessivamente intese, possa considerarsi pienamente rispondente al dovere di informativa sancito dal citato art. 35, d.lgs. n. 206/05, oltre che a quello, avente come noto rango costituzionale, di solidarietà sociale e di tutela degli interessi della controparte (v. Cass. 10/11/10, n. 22819; Cass. 29/09/11, n. 19879) in cui si sostanzia l’obbligo di buona fede anche in fase precontrattuale, come ripetutamente affermato con specifico riferimento agli intermediari bancari e finanziari dalla Suprema Corte (v. ad es. Cass. 19/12/07 n. 26742) e da questo Arbitro (v. ad es. ABF dec. 07/04/10 n. 207), considerato anche lo specifico grado di diligenza loro imposto dall’ordinamento (v. ad es. Cass. 24/09/09, n. 20543), derivandone, in difetto, un obbligo risarcitorio da rapportarsi al maggior onere sopportato dai ricorrenti (v. Cass. 29/09/05, n. 19024), ovvero quantomeno un concorso di colpa dell’intermediario nella determinazione del pregiudizio da loro subìto, ovvero se, al contrario, l’effetto economico pregiudizievole patito dai ricorrenti debba ritenersi conseguente alla valida pattuizione di un rischio loro noto o che tale avrebbe dovuto essere.

La responsabilità dell’intermediario può essere valutata alla stregua dei princìpi sanciti dagli artt. 1337 e 1338 c.c. nella lettura costituzionalmente orientata sopra richiamata.

Dalla responsabilità di siffatta natura discende l'obbligo per l'intermediario di risarcire i danni subìti dai mutuatari ed invero, la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l'esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto (Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724)[114].

10. Il principio della proporzionalità: il limite interno dell’autonomia contrattuale[115] e il limite esterno dell’abuso del diritto[116]. Breve disamina degli strumenti a disposizione dei contraenti.

A questo punto, appare evidente che l’ammortamento alla francese, anche senza affrontare la questione inerente il regime finanziario, appare incompatibile con il nostro ordinamento: infatti gli interessi non maturano proporzionalmente nel senso anzidetto dal momento che detto ammortamento prevede un pagamento degli interessi che si evolvono esponenzialmente (in modo completamente sbilanciato nella parte inziale del piano, in quanto inizia con quote capitali crescenti ed interessi decrescenti): insomma quota interessi e quota capitale che compongono ciascuna rata legati nell’ a. f. in modo inverso[117], finendo inevitabilmente per influenzare anche la quantificazione della quota capitale all’interno della rata rendendola ab origine, in buona parte dei casi di mutuo a tasso variabile (non indicizzato), indeterminato e indeterminabile per la scarsità di informazioni rese nei contratti.

Non è un caso che la Corte di Giustizia abbia adottato il principio di proporzionalità come paradigma dei rapporti contrattuali, e l’equità come strumento di rimedio[118].

In realtà il nostro ordinamento si fonda sugli stessi paradigmi, che la giurisprudenza non solo ha adottato ma espanso.

Dunque la risoluzione anticipata di un contratto di mutuo con a.f. non potrà restare immune dagli strumenti riequilibratorii, così come lo stesso a.f. non potrà trovare una applicazione che non rispetti i principi nominati.

La sentenza 11 settembre 2019 della Corte di Giustizia Europea ha nuovamente affrontato la necessità di riequilibrare nei rapporti corrispettivi l’equilibro dalle prestazioni; lo stesso diritto comunitario con l’art.16 della Direttiva 2008/48/CE, che ha trovato la sua sede nell’art. 125 sexies TUB ha perseguita tale fine, tuttavia dobbiamo rilevare che la giurisprudenza aveva in passato già affrontato la questione inerente il riequilibrio delle condizioni contrattuali dando nuovo contenuto all’istituto dei limiti dell’autonomia contrattuale, da un lato e l’abuso del diritto dall’altro.

Gli artt. 1175 e 1375 consentono di porre un sindacato sulle scelte e sulle azioni del titolare del diritto relativo, ampliando, la buona fede, l’area della valutazione dei rapporti obbligatori.

Appare decisiva la Cassazione civile sez. un.  13 settembre 2005 n. 18128 nella decisione sul potere di esercitare d’ufficio la riduzione della penale ex art. 1384 c.c. secondo cui «La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento».

In realtà sino alla sentenza n. 10511/99 C. Cass., la giurisprudenza della Suprema Corte è stata concorde nell'affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d'ufficio.

La sentenza n. 10511/99 non trovò tuttavia seguito nella successiva giurisprudenza della Corte, che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/03) ha confermato l'orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/03, n. 8813/03, n. 5691/02, n. 14172/00.

Le Sezioni Unite, hanno confermato il principio espresso dalla sentenza n. 10511/99, cui si è adeguata la sentenza n. 8188/03.

La ragione per cui è opportuno richiamare in questa sede il dibattito sull’art. 1384 sta nella motivazione all’avanguardia, adoperata dalla Corte.

Per risolvere la questione, la Corte[119] parte dal tema dell’autonomia contrattuale, ovvero dai suoi limiti.  

L'art. 1322 cod. civ. attribuisce alle parti:

a) il potere di determinare il contenuto del contratto;

b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.

Ed ecco i limiti, l'autonomia delle parti deve svolgersi «nei limiti imposti dalla legge», ed il contratto deve essere diretto «a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico».

I limiti tracciati sono soggetti a sindacato del giudice, che non può riconoscere il diritto fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non appaiono meritevoli secondo l'ordinamento giuridico.

L'intervento del giudice in tali casi è indubbiamente esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge.

Se da un lato il legislatore ha lasciato nelle mani dei contraenti la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l'aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una sanzione per l'inadempimento (se ne vuole privilegiare l'aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private, dall’altro ha riservato al giudice un potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa autonomia.

È condivisibile l’osservazione di PROVENZANO: Ne deriva che, a fronte di un ipotetico (pur sempre unico) inadempimento relativo alle rate di rimborso, stante la possibile compresenza, in forza delle disposizioni appena richiamate, di interessi anatocistici (quali quelli generati per effetto dell’applicazione del regime composto nei piani di ammortamento a rata costante) e di interessi di mora computati sui medesimi interessi anatocistici (nel caso in cui le rate, e quindi anche le rispettive quote interessi, rimangano insolute alla scadenza), deve concludersi che nell’attuale assetto ordinamentale – ove si voglia predicare l’inadempimento del debitore quale necessario presupposto della pattuizione anatocistica - pare privo di effettiva giustificazione (e non rispondente al principio di meritevolezza dell’interesse sotteso ad una clausola di tal genere, ex art. 1322 c.c.) reintegrare la sfera giuridica del creditore (giova ribadire, in relazione ad una medesima fattispecie di inadempimento) attraverso una duplice forma di ristoro, vale a dire, in ipotesi, sia con il computo di interessi ulteriori (anatocistici) calcolati su quelli corrispettivi insoluti (interessi ulteriori che devono considerarsi anatocistici per l’appunto “per la parte di rata composta da interessi primari”)[120].

Così facendo il legislatore … ha in sostanza spostato l'intervento giudiziale, diretto al controllo della conformità del manifestarsi dell'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell'accordo - che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l'ammontare della penale - alla sua fase attuativa, mediante l'attribuzione al giudice del potere di controllare che la penale non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento. Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre l'accordo ad equità[121].

Il potere di controllo attribuito al giudice non ha la funzione di tutela nell’interesse della parte ma l'interesse dell'ordinamento, per evitare che l'autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non toglie che l'interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come aspetto riflesso della funzione primaria cui assolve la norma. Può essere affermato allora che il potere concesso al giudice di ridurre la penale si pone come un limite all'autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale, limite non prefissato ma individuato dal giudice di volta in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla norma, con riferimento al principio di equità[122].

Nella sentenza Cassazione civile sez. III 18 settembre 2009 n. 20106 la Corte, definisce il principio della buona fede oggettiva, come reciproca lealtà di condotta, che deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase[123].

Da tali assunti, prosegue la Corte, tra la conseguenza che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).

Già la Cass. 15.2.2007 n. 3462 aveva rilevato che l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza è, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica.

Una volta trasfigurato il principio della buona fede sul piano costituzionale diviene una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

Il criterio della buona fede costituisce quindi strumento, per il giudice, per controllare, sia in senso modificativo che integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.

D’altronde il criterio della reciprocità lo si desume già dalla Relazione ministeriale al codice civile: il principio di correttezza e buona fede, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore".

In sintesi, dice la Corte, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.

La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.

Pregio della sentenza in commento è di aver individuato che: Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto.

L'abuso del diritto[124], non è una violazione in senso formale, ma delinea una utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore[125].

La Corte ribadisce che nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto per le ragioni storiche già trattate, tuttavia rileva che: in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità[126].

Sussiste pertanto il divieto di abuso del diritto come principio generale non consente di ricostruire un comportamento a contenuto prestabilito, ma si pone esclusivamente come limite esterno all'esercizio di una pretesa, per contemperare degli opposti interessi[127].

Inoltre, la mancata specificazione nei contratti di bancari delle modalità di calcolo degli interessi, può rappresentare una ipotesi di abuso nel contratto, che si realizza allorquando ci si trova di fronte ad una asimmetria nella forza contrattuale che genera abuso da parte dell’un contraente nei confronti dell’altro.

È evidente che i due tipi di abuso sono differenti e solamente nel primo tipo abbiamo l’approfittamento della propria supremazia economica tale da generare sopraffazione. Nell’abuso unilaterale il potere economico integra il presuppostone la condizione dell’abuso[128].

L’abuso del diritto, è invece l’effetto giuridico in quanto presuppone una situazione giuridica già esistente ed anomala per l’uso dei poteri esercitati dal titolare.

Il giudizio di meritevolezza del diritto viene effettuato non più solo alla stregua dell’assetto volontaristico dato dalle parti, ma molto più ampiamente, utilizzando, quale tertium comparationis, l’ordinamento stesso con i suoi principi ed i suoi valori (Scialoja – Branca – Galgano, op. cit. pag. 1518).

Anche il contratto tipico, di per sé già meritevole di tutela, resterà comunque soggetto a sindacato in ordine all’equilibrio concreto e conseguentemente alla funzione che viene nei fatti a perseguire[129].

Nell’ambito dell’autonomia privata è quindi necessario trovare un bilanciamento tra l’iniziativa economica privata[130] – art. 41 Cost. e il dovere solidaristico nei rapporti intersoggettivi ex art. 2 Cost. [131]

Il principio della libertà di contratto, codificato nell’art. 1322 c.c., non è specificamente garantito per sé stesso dalla Costituzione italiana[132].

Infatti, se da un lato gli artt. 41 e 42 della Costituzione, garantiscono la libertà dell'iniziativa economica privata ed il libero godimento della proprietà privata, dall’altro consentono che a tali libertà siano imposti limiti, al fine di farli armonizzare con l'utilità sociale e render possibile l'adempimento di quella funzione sociale che non può dissociarsi dal godimento dei beni di produzione o, più generalmente, dall'esercizio di ogni attività produttiva. È così giustificata l'imposizione di condizioni restrittive per lo svolgimento dell'autonomia contrattuale, mediante la modifica o l'eliminazione di clausole di contratti in corso quando esse si rivelino contrastanti con l'utilità sociale. (Corte Cost., 27 febbraio 1962, n. 7).

La Corte Costituzionale ha in più occasioni affermato che il carattere particolare o limitato della categoria economica considerata dalla legge non è, in linea di principio, sufficiente ad escludere che venga perseguita una finalità sociale (cfr. sentenza n. 54 del 1962); ed ecco ancora una volta che la Corte delle leggi ribadisce il principio per cui rientra nei poteri conferiti al legislatore dall'art. 41 della Costituzione la riduzione ad equità di rapporti che appaiano sperequati a danno della parte più debole (sentenza n. 7 del 1962).(Corte Cost., 23 aprile 1965, n. 30).

La Corte Costituzionale esprime un parere di non sufficienza dei  principi di correttezza e buona fede nelle trattative e nella formazione ed esecuzione del contratto (artt. 1175, 1337, 1366, 1375 cod. civ.), delle regole della correttezza professionale (art. 2598, n. 3, cod. civ.) e dei doveri correlati alla responsabilità extracontrattuale (art. 2043 cod. civ.) ad arginare la libertà di scelta del contraente nonché la determinazione del contenuto del contratto che caratterizzano l'autonomia contrattuale, e non sono perciò idonei a sopperire alterazione dell'equilibrio tra le parti che consegue all'essere una di esse in posizione di supremazia. (Corte cost., 15 maggio 1990, n. 241)

Non sono mancati tentativi di ricondurre all’art. 2 della Costituzione, che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», una garanzia implicita, tuttavia invanì per ragioni storico e ideologiche.

Tuttavia non si può ignorare il principio di solidarietà espresso nell’art. 2 della Cost.

Il principio generale del sistema è la liceità e la libertà, e non anche la doverosità e l’obbligo[133], la connotazione dell’uomo uti socius ha reso necessario l’intervento del legislatore, ma anche dell’interprete, di porre, da un lato, limiti all’esercizio dei propri diritti al fine di costituire uno sbarramento all’individualismo esasperato[134], dall’altro dei doveri ed obblighi finalizzati alla vita e allo sviluppo della società[135].

L’art. 2 si riferisce dunque ai diritti inviolabili originari della persona umana, preesistenti all’ordinamento positivo.

A questa categoria sono riconducibili soltanto le manifestazioni concrete dell’autonomia privata che sono all’origine di alcune delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2, nelle quali si svolge la personalità dei singoli: la famiglia fondata sul matrimonio e le associazioni liberamente costituite per scopi leciti[136].

Nel campo dei rapporti patrimoniali la libertà individuale di contratto fruisce soltanto di una tutela costituzionale indiretta, in quanto strumento di esercizio della libertà di iniziativa economica e del diritto di proprietà[137].

Non vi sono dubbi che il legislatore italiano abbia affrontato l’intervento pubblico nell’economia nell’ambito delle funzioni di controllo e di regolazione del mercato[138], in modo non troppo deciso da qui la mancata costituzionalizzazione della libertà di contratto[139].

Seppur ripudiava l’indirizzo corporativistico e autarchico del precedente regime autoritario, i costituenti, di fatto ne hanno mantenuto la finalità positivizzando la funzione di programmazione economica democratica, strumentario dirigistico, funzionalizzato da organi preposti alla fissazione dei prezzi di determinati beni e servizi, inseriti ope legis nei contratti tra privati anche in sostituzione delle clausole difformi pattuite dalle parti (artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.).

La difficoltà dei costituenti ad assumere una posizione marcata sula rapporto tra autonomia e libertà privata e l’interesse pubblico ad una funzione sociale della condotta umana la si rileva altresì dall’inserimento nell’art. 41 cost., di un terzo comma che riserva alla legge il compito di “determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata sia indirizzata e coordinata a fini sociali”.

La garanzia delle libertà economiche (artt. 41[140] e 42 cost.) e l’obbligo che ne deriva al legislatore di riconoscerle e di determinarne i limiti destinati ad armonizzarne l’esercizio con l’utilità sociale e col rispetto della sicurezza, della libertà, della dignità umana, si riflettono sull’autonomia negoziale.

Fino agli anni ’80 la citata norma veniva fondava il principio dello stato interventista ovvero l’intervento pubblico nell’economia, sovrapposto al sistema del mercato quale modello giuridico di sviluppo deciso dalla volontà politica realizzato con imprese pubbliche sottratte alle leggi del mercato.

Dalla metà degli anni ’80, dietro la spinta esercitata sull’Italia dall’Atto Unico Europeo del 1986 viene riqualificato l’intervento pubblico indirizzandolo esclusivamente a dettare regole al mercato per garantirne correttezza ed efficienza.

Il primato del mercato ha portato ad una rilettura della Costituzione spostando l’intervento pubblico, dalla funzione programmatica a quella di rimuovere gli ostacoli al funzionamento del mercato.

Il nuovo fine proposto, è quindi, quello di promuovere l’utilità sociale valorizzare i diversi settori ed attitudini del mercato, produrre ricchezza e benessere, ma non solo: lo Stato dovrà intervenire per correggere le disparità di potere contrattuale che ostano alla libertà delle scelte economiche individuali.

La nuova lettura dell’art. 41 Cost. identifica dunque i fini sociali oggetto della riserva di legge prevista nel terzo comma con i limiti della libertà di iniziativa economica indicati nel comma secondo.

Necessita in questa sede ricordare come anche la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto[141]  rappresenti uno strumento per la tutela di valori costituzionalmente rilevanti Cassazione civile sez. un. 12 dicembre 2014 n. 26242: Si è detto "indiscutibile" lo scopo della nullità relativa volto anche alla protezione di un interesse generale tipico della società di massa, così che la legittimazione ristretta non comporterebbe alcuna riqualificazione in termini soltanto privatistici e personalistici dell'interesse (pubblicistico) tutelato dalla norma attraverso la previsione della invalidità[142].

Di norma non hanno efficacia immediata nei rapporti privati, i diritti fondamentali corrispondenti ai valori della sicurezza, della libertà, della dignità umana, diritti, che devono trovare un equilibrio con quello di iniziativa economica[143].

La Corte Costituzionale con sentenza del 9 marzo 1989 n. 103 ricorda i limiti convenzionali e legali posti dalla Costituzione[144], "proprio in virtù del precetto costituzionale di cui all'art. 41 della Costituzione, il potere di iniziativa dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento, e in specie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana".

È il legislatore il primo protagonista nella gestione (discrezionale) dello spazio che esiste tra autonomia privata e funzione sociale[145], gestione comunque vincolata ai valori costituzionali, quali e dal il principio di ragionevolezza, congruità e proporzione (allo scopo): così si espresse la Corte Costituzionale il 23 aprile 1965, con la sentenza n. 30.

Sono pochi i casi previsti nel codice civile in cui è rinvenibile un potere di intervento del Giudice volto a ripristinare[146] un equilibrio equo del rapporto: art. 1384 (riduzione equitativa della clausola penale), art. 1526 (riduzione equitativa dell’indennità convenuta in favore del venditore in caso di risoluzione della vendita a rate), art. 1934 (riduzione della posta eccessiva in caso di gioco autorizzato dalla legge)[147].

La Corte Costituzionale con sentenza n. 103 del 9 marzo 1989[148] (Corte Costituzionale il 23 aprile 1965, con la sentenza n. 30[149]), ha ritenuto di poter trarre dal principio espresso nell’art. 3 Cost. — coordinato con i principi di equa retribuzione (art. 36) e della dignità umana (art. 41, comma 2) — il potere del giudice di sindacare la razionalità delle clausole del contratto collettivo che comportano disparità di trattamento tra lavoratori adibiti a mansioni uguali o analoghe, con l’effetto, in caso di valutazione negativa, dell’annullamento dell’accordo[150].

Questa interpretazione non è stata tuttavia accolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in quanto essendo il contratto un modo di composizione di interessi in conflitto ed esplicazione dell’autonomia contrattuale, il giudice non può procedere ad un esame sulla ragionevolezza.

In effetti, il giudizio di ragionevolezza, in relazione all’autonomia contrattuale, sul contenuto del singolo contratto è già implicito nel giudizio di meritevolezza degli interessi che quel tipo di contratto è diretto a realizzare, ovvero l’idoneità del contratto a realizzare la funzione socialmente rilevante (causa astratta), giudizio già precostituito dalla legge per i contratti nominati, o formulato dal giudice negli altri casi.

Lo studio sin qui sviluppato, rivela che Costituzione e l’Autonomia Privata sono due fronti collegati solo dalla legge e dalle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di leggi che non rispettano i limiti costituzionali della libertà di contratto.

Diversamente non è possibile interferire nei rapporti negoziali privati fatta eccezione, naturalmente, per l’ermeneutica che dovrà ispirarsi sempre ai principi costituzionali.

I diritti fondamentali, che in effetti esprimono valori costituzionali, non acquisiscono efficacia normativa sull’autonomia privata[151].

I diritti fondamentali, dunque, costituiscono un parametro valutativo, come gli standard sociali di valutazione, di cui si serve il giudice per valutare la liceità dello scopo del contratto.

La costituzionalizzazione dei valori etici della persona in diritti fondamentali ha consentito di utilizzare la clausola della correttezza e della buona fede come strumento di controllo dell’autonomia privata[152].

Da qui la necessità (ovvero il dovere, ma non l’obbligo) di preservare gli interessi di ciascun contraente da comportamenti contrari a buone fede e correttezza sia nella fase delle trattative che dell’esecuzione del contratto[153], buona fede, intesa, dunque, come reciproca lealtà di condotta[154].

Raffrontando gli artt. 1374, 1375, 1366 c.c. si può desumere che in ordine alle prestazioni dedotte in contratto, la buona fede, non è fonte di integrazione del regolamento negoziale (art. 1374, lo sono invece gli usi e soprattutto l’equità), ma criterio ermeneutico (art. 1366 c.c.) che consente di ricavare i doveri e le condizioni implicite nell’accordo (art. 1366 c.c.: il contratto deve essere interpretato secondo buona fede).

La buona fede diviene quindi, il metro di valutazione dell’esattezza dell’esecuzione del contratto (art. 1375)[155]. 

In termini generali, non può farsi a meno di ricordare come la buona fede operi non solo in sede d'interpretazione ed esecuzione del contratto, a norma degli artt. 1366 e 1375 c.c., ma anche quale fonte d'integrazione della stessa regolamentazione contrattuale, secondo quel che si desume dall'art. 1374 c.c., "concorrendo alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere inderogabile di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti ... nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio". Cass. 22 maggio 1997, n. 4598. [156]

In nessun caso comunque, la violazione del dovere di buona fede è causa di invalidità del contratto[157], ma solo fonte di responsabilità per i danni.

La buona fede è dunque  regola di comportamento che vincola le parti nell'esecuzione del rapporto operando "al di là" e "contro" le specifiche previsioni contrattuali, in quanto fondamento etico di solidarietà e, quindi, dotata dei caratteri tipici di una norma di ordine pubblico, che è sovraordinata ai poteri dispositivi delle parti: "la buona fede, intesa in senso etico, come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito col proposito doloso di recare pregiudizio, ma anche se il comportamento non sia stato improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede" (Cass. 5 gennaio 1966, n. 89).

Più precisamente, come principio di solidarietà contrattuale, la buona fede si articola in due canoni della condotta, che attengono, rispettivamente, alla fase di formazione - interpretazione (artt. 1337 e 1366 c.c.) e alla fase d'esecuzione del contratto (1375 c.c.). 

Il primo si traduce nel dovere di lealtà; il secondo si concreta nel c.d. obbligo di salvaguardia.

È proprio la combinazione tra il dovere di lealtà e l’obbligo di salvaguardia che vincola ciascuna le parti ad assicurare l'utilità dell'altra – indifferentemente dalle previsioni negoziali e del dovere generale del "neminem laedere" – ovviamente nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico.

Il contraente, deve quindi, salvaguardare l'utilità della controparte compatibilmente con il proprio interesse nei limiti dei poteri discrezionali che gli derivano dagli accordi.

 

11. L’art. 1206 quale ulteriore strumento riequilibratore.

Sicuramente, il mercato ha affievolito i principi sanciti dall’art. 1206[158] c.c.  in base al quale il creditore in tanto è tenuto a cooperare all'adempimento del debitore in quanto tale cooperazione sia necessaria e l'accertamento di tale necessità di cooperazione deve essere compiuta con riferimento alla portata obiettiva della obbligazione medesima, nel senso che l'attuazione del rapporto obbligatorio non sia giuridicamente possibile senza il concorso del creditore. (Cass. 12 marzo 1984 n. 1694).

L’obbligo di cooperazione si fonda sull’obbligo di correttezza sancito dall’art. 1175 c.c. Tale obbligo non rileva tuttavia per quanto attiene alla cooperazione rientrante nella sfera di competenza del creditore. Questa cooperazione è infatti oggetto di un onere del creditore, e l’onere assorbe l’obbligo di solidarietà imposto alle parti del rapporto obbligatorio in quanto rende necessaria la cooperazione del creditore a prescindere dai presupposti di doverosità del comportamento secondo correttezza[159]. La cooperazione fondata sull’obbligo di correttezza incontra per altro un limite fondamentale, poiché il creditore deve attivarsi per rimuovere e prevenire gli impedimenti e le difficoltà della prestazione ma sempre nella misura in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio[160].

Anche per la Cassazione civile sez. III, 23/05/2011 n.11295, buona fede e correttezza integrano un generale principio di solidarietà sociale e trovano applicazione a prescindere alla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, imponendo al soggetto di mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale; buona fede e correttezza sono inoltre fonte legale d'integrazione del contratto, quale obiettiva regola di condotta che vale a determinare il comportamento dovuto in relazione alle concrete circostanze di attuazione del rapporto, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso, ed è volta alla salvaguardia dell'utilità altrui nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati[161].

Tali riflessioni assumono una diversa e maggio rilevanza laddove si prenda in considerazione la disciplina del credito al consumo e della tutela di quest’ultimo, in sede di risoluzione anticipata dei contratti di finanziamento[162]. 

Segna un passaggio essenziale la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 15.01.2000 n. 537: considerando che la valutazione, secondo i criteri generali stabiliti, del carattere abusivo di clausole, in particolare nell'ambito di attività professionali a carattere pubblico per la prestazione di servizi collettivi che presuppongono una solidarietà fra utenti, deve essere integrata con uno strumento idoneo ad attuare una valutazione globale dei vari interessi in causa; che si tratta nella fattispecie del requisito di buona fede; che nel valutare la buona fede occorre rivolgere particolare attenzione alla forza delle rispettive posizioni delle parti, al quesito se il consumatore sia stato in qualche modo incoraggiato a dare il suo accordo alla clausola e se i beni o servizi siano stati venduti o forniti su ordine speciale del consumatore; che il professionista può soddisfare il requisito di buona fede trattando in modo leale ed equo con la controparte, di cui deve tenere presenti i legittimi interessi.

Anche la Corte di Cassazione civile sez. III 22/10/2014 (ud. 02/07/2014, dep.22/10/2014 ) N. 22343 ha ribadito che: … già la Relazione ministeriale al codice civile (ove si sottolinea come esso richiami "nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore") indica doversi intendere in senso oggettivo, enunziando un dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost. che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (v. Cass., 10/11/2010, n. 22819), quale criterio d'interpretazione del contratto (fondato sull'esigenza definita in dottrina di "solidarietà contrattuale") si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte[163].

Se da un lato è vero che il titolare di una posizione giuridica soggettiva è libera sul se attivare o meno la propria pretesa, libertà tutelata dall’ordinamento è pur vero che tale libertà ha subito lo scorso secolo una rilettura in chiave di rilevanza sociale.

Non vale più, dunque, il principio qui suo jure utitur neminem laedit[164], di stampo liberale la valorizzazione degli obblighi di solidarietà sociale e di civile convivenza, da cui sorge il c.d. abuso del diritto.

Formulazione quest’ultima che ha suscitato non pochi dibattiti, definita da parte di autorevole dottrina un vero e proprio ossimoro.

È stato quindi necessario trovare il modo di rendere possibile la convivenza tra libertà ed abuso[165].

La teorica dell’abuso della libertà contrattuale[166] nasce e si sviluppa dunque a fronte dell’abbandono della visione liberale classica dei rapporti economici e per l’ormai inadeguatezza del principio di eguaglianza formale a garantire la giustizia del contratto[167].

L’abuso è senza dubbio un limite esterno alla libertà ed è uno strumento proprio della giurisprudenza utilizzato per dare “coerenza esterna al sistema nel suo complesso considerato[168].

L’abuso del diritto, quindi, si presenta strettamente correlato ai principi di buona fede e di correttezza, quasi riportando il sistema alla definizione di Celso per cui il diritto era ars boni et equi ed il suo oggetto avrebbe necessariamente dovuto tendere all’aequitas, ossia al raggiungimento della migliore soluzione possibile in concreto (e, aggiungiamo non contrastante, nemmeno indirettamente, con l’ordinamento ed i suoi principi)[169].

Quanto sopra valorizza il principio per cui non omne quod licet, honestum est.

È necessario tuttavia distinguere tra abuso del diritto e eccesso dal diritto: in entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un eccesso nell’agere con la differenza che l’abuso è apparentemente conforme al contenuto del diritto[170]. 

Mentre in caso di eccesso dal diritto lo sconfinamento dal contenuto del diritto è di immediatamente rilevabile in quanto non conforme al precetto normativo[171].

È necessario adesso procedere alla distinzione tra abuso nel contratto, che si realizza allorquando ci si trova di fronte ad una asimmetria nella forza contrattuale che genera abuso da parte dell’un contraente nei confronti dell’altro e l’ipotesi di abuso del contratto[172]che si realizza quando entrambe le parti concorrono nell’abuso per ledere i terzi creditori.

È evidente che i due tipi di abuso sono differenti e solamente nel primo tipo abbiamo l’approfittamento della propria supremazia economica tale da generare sopraffazione.

Nell’ abuso unilaterale il potere economico integra il presuppostone la condizione dell’abuso[173].

L’abuso del diritto, è invece l’effetto giuridico in quanto presuppone una situazione giuridica già esistente ed anomala per l’uso dei poteri esercitati dal titolare.

Il giudizio di meritevolezza del diritto viene effettuato non più solo alla stregua dell’assetto volontaristico dato dalle parti, ma molto più ampiamente, utilizzando, quale tertium comparationis, l’ordinamento stesso con i suoi principi ed i suoi valori[174].

Anche il contratto tipico, di per sé già meritevole di tutela, resterà comunque soggetto a sindacato in ordine all’equilibrio concreto e conseguentemente alla funzione che viene nei fatti a perseguire[175].

Nell’ambito dell’autonomia privata è quindi necessario trovare un bilanciamento tra l’iniziativa economica privata – art. 41 Cost. e il dovere solidaristico nei rapporti intersoggettivi ex art. 2 Cost.

La Sentenza n. 103 del 1989 della Corte Costituzionale afferma: risulta notevolmente diminuito lo ius variandi del datore di lavoro, mentre proprio in virtù del precetto costituzionale di cui all'art. 41 Cost., il potere di iniziativa economica dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento ed in specie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.

Ecco allora, che una condotta legittima può essere comunque fonte di responsabilità.

È ciò che è accaduto in un caso di disparità di trattamento che pur non configurandosi come "discriminazione" nell'ambito delle norme positive - costituzionali ed ordinarie - esistenti, poiché il principio dell'autonomia e della libertà di iniziativa imprenditoriale consente al datore di lavoro di riconoscere ad alcuni dipendenti, superminimi o altri vantaggi economici, nell'esercizio di un suo diritto, una simile condotta, se si appalesa pertanto del tutto legittima nei riguardi dei beneficiari, finisce però per configurare, a causa della violazione dei principi di correttezza e buona fede, una ipotesi di responsabilità contrattuale, con conseguenze di carattere risarcitorio, nei riguardi egli altri dipendenti[176].

 

12. Conclusioni.

L’evoluzione del mercato finanziario ha reso necessario, come ci mostra la giurisprudenza cennata, una necessaria rielaborazione del diritto bancario alle prese, da un lato con l’intento, in parte realizzato, di dar vita al diritto bancario europeo, dall’altro, di adeguare la normativa di provenienza europea con il diritto civile, con particolare attenzione al diritto dei contratti e delle obbligazioni.

L’ammortamento alla francese e il regime composto degli interessi solo per una mera casualità si trovano ad essere protagonisti nelle aule di giustizia e nelle discussioni dottrinali: le questioni legate al contratto di mutuo sono molte e forse più complesse, come sommariamente mostrato nel paragrafo precedente.

Il mercato non offre più i contratti come disciplinati nel codice civile (e a dire il vero neppure nel testo ultimo bancario, sempre alle prese con mini riforme) ma contratti complessi di cui è necessario volta volta verificare la liceità della causa dell’oggetto, della forma, senza dimenticare la dichiarazione di volontà delle parti che si può dire realmente realizzata solo nel rispetto della normativa della trasparenza[177], spesso relegata  dalla giurisprudenza di merito ad aspetti esclusivamente formali.

Con l’evoluzione della moneta elettronica e le limitazioni nell’uso del contante assume, oggi, un significato nuovo anche lo stesso concetto di moneta.

Lo stesso processo civile, è oggi invaso, nella materia bancaria, da concetti matematici estranei al diritto che vede giudici e avvocati impegnati a comprendere questioni non semplici e spesso poco chiarite anche dagli stessi consulenti tecnici.

È probabile che gli ultimi anni siano stati caratterizzati da un innocente invasione di campo che ha visto comparire negli atti giudiziari formule matematiche e tesi non propriamente giuridiche.

Ricapitolando, gli interessi in relazione all’ammortamento alla francese e il regime composto[178],  il modo di acquisto dei frutti civili delineato dall’art. 821 c.c. subordina la qualifica al requisito della loro maturazione e proporzionalità rispetto alla durata del godimento del bene, includendo così nella categoria solo il corrispettivo per crediti già maturati durante il rapporto con la cosa madre.

Nell’ammortamento alla francese, invece, gli interessi sono trattati come diritto di credito, il cui oggetto, il corrispettivo, è attribuito alla parte contestualmente alla conclusione del contratto[179]: è dunque, l’acquisizione periodica (intesa, in coerenza con l’art. 821 c.c. come acquisto e non inteso come scadenza) degli interessi che avviene più di una volta all’anno e negli anni a celare la capitalizzazione composta e a veder levitare costi effettivi (o se si vuole occulti).

Come autorevolmente sostenuto: si può osservare che facendo leva principalmente sul fatto che i frutti civili si conseguono normalmente per il tramite di un diritto di credito, si finisce col sottovalutare il rapporto di derivazione economica dalla cosa-madre, con la duplice conseguenza di rendere incerta la distinzione tra i frutti e gli altri proventi occasionali (interessi compensativi, clausola penale, indennità, ecc.) e di non poter dar conto dei criteri di ripartizione dei frutti civili adottati dal codice (art. 821 c.c.). Non si spiega, ad esempio, perché la spettanza dei frutti civili è proporzionale alla durata del rapporto con la cosa-madre e perché l’acquisto avviene giorno per giorno[180].

Il principio appena richiamato è la ragione per cui viene negato che i crediti riscossi anticipatamente ed in via non correlata al periodo di effettivo godimento possano considerarsi frutti, salvo per la parte già effettivamente maturata: non è al modo di acquisto che deve guardarsi per definire i contorni della categoria, ma al requisito della “proporzionalità del risultato utile al periodo del godimento del diritto o della cosa”[181], poiché la corresponsione dei frutti trova il suo fondamento non nella conclusione del contratto ma nell’effettività del godimento da parte del debitore.

Conseguenza di tale impostazione è la scissione concettuale tra titolarità del diritto di credito e diritto alla percezione dei frutti civili, ove il primo obbedisce alla disciplina delle obbligazioni, mentre il secondo segue le regole proprie — e dispositive — della materia dei frutti[182].

Il fattore [...] è universalmente riconosciuto, e utilizzato per la capitalizzazione composta degli interessi, ed applicato ovunque nel settore bancario e finanziario, quindi, se da un lato sono comprensibili le discussioni sotto il profilo giuridico, il fraintendimento di una funzione matematica lascerebbe di stucco gli stessi babilonesi.

Alla luce delle considerazioni sommariamente accennate nel presente lavoro, appare sempre più attuale e urgente maturare il concetto di giustizia contrattuale.

Questa, nella sua letteralità, potrebbe ricomprendere la stessa forza vincolante del contratto e le regole che la assicurano, assumendosi lo stesso pacta sunt servanda quale precetto etico espressivo di valori di giustizia.

Ma il significato che appare implicato dall'uso corrente della formula sembra piuttosto esprimere una contrapposizione, o quantomeno una tensione, una conflittualità potenziale, tra vincolo contrattuale e giustizia, tra osservanza del contenuto delle pattuizioni e salvaguardia di interessi che sono da esse pregiudicati e che sia invece giusto proteggere.

Questo ampio significato è tale da accogliere la stessa descrizione sintetica e un loro comune fondamento delle regole, e delle esigenze che le ispirano, che in vario modo limitano o escludono la forza vincolante dei patti in presenza di determinate situazioni tipiche previste dalla legge; e ciò con riguardo a settori tradizionali della disciplina dei contratti: regime delle incapacità, dei vizi della volontà, della rescissione, regole che impongono lo scioglimento del vincolo a ragione di circostanze sopravvenute considerate con esso incompatibili.

Questi rimedi sono tutti volti alla rimozione del vincolo su iniziativa del contraente da essi protetto, il quale però spesso non dispone di strumenti che gli consentano di soddisfare, invece, il suo positivo interesse alla realizzazione dell'operazione contrattuale a condizioni ricondotte a giustizia.

Solo il regime della rescissione implica un sindacato sul contenuto del contratto, che è invece estraneo alla disciplina degli altri rimedi; ma anche per la rescissione occorrono presupposti ulteriori rispetto alla considerazione dell'equilibrio economico-contrattuale.

A ragione di questi caratteri, non ha avuto modo di affermarsi nella nostra tradizione la costruzione, dall'insieme di queste regole, di un principio generale, di una portata che le trascendesse, sul quale fondare un controllo circa la conformità del contratto a un modello ideale di giusto equilibrio economico normativo e un conseguente controllo e adeguamento giudiziale delle condizioni convenute dalle parti.

Al contrario, se ne è tratto argomento in particolare dalla disciplina della rescissione per negare l'ammissibilità di operazioni siffatte. Pertanto, rispetto a tali regimi, la formula giustizia contrattuale non sembra possa avere altro significato che quello di una loro sintesi descrittiva.

Più problematico appare il contenimento della formula nei limiti di un significato descrittivo di regole e rimedi specifici stabiliti dall'ordinamento riguardo alle direttive evolutive che si sono affermate con la disciplina delle clausole abusive dei contratti dei consumatori, dell'abuso di dipendenza economica nei contratti tra imprese, dei termini di pagamento dei corrispettivi contrattuali.

Questi nuovi regimi implicano infatti, a differenza dei rimedi tradizionali, un sindacato sull'equilibrio contrattuale.

E, seppur esso è circoscritto a determinati contenuti pattizi e non è per lo più di per sé rilevante, disgiunto dalla considerazione delle condizioni dei contraenti e della loro condotta nella fase negoziale e formativa, tuttavia appare legittimo l'interrogativo se sia ricostruibile una direttiva di più generale portata, o mutuabile al diritto comune dei contratti, e in quali termini.

La verifica dell'esistenza di un fondamento di diritto positivo di un supposto principio di giustizia contrattuale, e di sindacabilità e modificabilità giudiziaria, alla stregua di esso, dei contenuti delle private convenzioni, può prospettarsi, oltre che riguardo all'attendibilità di una generalizzazione di regole e rimedi specifici stabiliti dalla legge, anche nel senso della ricerca di enunciati normativi da cui possa direttamente desumersi, in via ermeneutica, costruttiva, una direttiva siffatta.

Ed è naturale che i fautori di tendenze innovative, in mancanza di precetti più definiti dai quali trarre il principio, si siano volti al valore costituzionale di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.) e alla clausola generale di buona fede, onde fruire di più estesi spazi di argomentazione.

Di questi profili giuridici ci occuperemo più avanti, nella specifica loro connessione con la prospettiva della buona fede.

Conviene però brevemente intrattenerci su altri aspetti, anche non propriamente giuridici, che di quelli costituiscono in certo senso il contorno e in vario modo possono con essi interferire.

Innanzitutto, la stessa formulazione dell'interrogativo circa la sussistenza nel nostro ordinamento di un principio di giustizia contrattuale impone di discernere diversi possibili significati del medesimo.

Si ricerca un precetto di contenuto etico, pur destinato ad essere trasferito nell'ordine giuridico, ovvero un precetto da mutuarsi dall'ordine economico? ovvero un valore etico destinato ad essere attuato mediante il riferimento a parametri economici? E secondo la distinzione aristotelica, che nei discorsi dei giuristi, oltre che in quelli degli studiosi di filosofia morale e di teoria della giustizia, mostra una persistente attualità vuole assumersi una qualificazione di giustizia in senso distributivo o commutativo?

Rispetto a queste alternative si prospettano differenti problematiche con riguardo: alla stessa teorica legittimità e attendibilità di un sindacato sul contratto in termini di sua conformità a giustizia, a seconda che esso attenga soltanto all'oggettiva valutazione dell'equilibrio contrattuale o si estenda anche all'apprezzamento delle circostanze e delle condotte inerenti alla fase delle trattative e della formazione del vincolo; alle considerazioni circa le condizioni, i modi e i criteri di pratica esperibilità di un intervento del giudice di controllo e conformazione dell'affare privato; alle ragioni di policy che possono rispettivamente sostenere l'affermazione o la negazione del principio, o, nel primo caso, orientarne i criteri di attuazione.

Conviene tuttavia soffermarsi su alcune considerazioni preliminari che, per la stessa ricchezza di implicazioni della formula e per la complessità delle connessioni tematiche, non potranno essere circoscritte in termini di stretta aderenza alle indicate finalità.

Si riduce ad un mero esercizio retorico, è sterile o, peggio, distorsivo ogni impiego della formula che vada disgiunto dalla identificazione dei problemi di disciplina dei rapporti cui essa dovrebbe pur riferirsi, la varietà dei quali non consente alcun serio e attendibile discorso o ragionamento indifferenziato.

Si pensi soltanto all'ineludibile articolazione problematica che riguarda i diversi aspetti di un ipotetico sindacato di giustizia da esercitarsi dai giudici sul contratto; e così, il suo stesso oggetto, che potrebbe consistere nelle condizioni economiche dello scambio, in quelle normative del rapporto, ovvero in entrambe, nella loro integrata correlazione, ovvero anche nella valutazione di compatibilità del contenuto del contratto con i valori della persona; i termini e i criteri del controllo, che potrebbero concernere valori etici di giustizia, commutativa o distributiva, e di solidarietà sociale, ovvero essere desunti da parametri economici e normativi consistenti negli stessi indici offerti dal mercato e dalle prassi contrattuali.

Gli elementi e le circostanze rilevanti, rispetto al giudizio, che potrebbero consistere nello stesso assetto economico-normativo risultante dalla convenzione in rapporto a un ideale modello di equilibrio giusto, ovvero potrebbero essere identificati nella relazione causale che possa essere intercorsa tra le condizioni soggettive e oggettive in cui ciascuna delle parti si trovava e le condotte da esse tenute nella fase negoziale e formativa, da un lato, e, dall'altro, il contenuto delle pattuizioni che ne sia stato l'effetto.

L'ambito dei rapporti rispetto al quale il controllo di giustizia possa esperirsi, e cioè quello corrispondente a determinate categorie di contratti e di contraenti, ovvero quello, illimitato, della generalità dei rapporti contrattuali.



[1] Il numero e è una costante matematica il cui valore approssimato a 12 cifre decimali è 2,718281828459. Compare per la prima volta in una sua lettera, del 1731, indirizzata a Goldbach. Lettera e come “esponenziale” o forse come “Eulero”.

[2] Nel paragrafo verranno brevemente commentate le decisioni: Tribunale Torino, 21 Marzo 2020. Est. Astuni; Tribunale Milano, 09 Aprile 2021. Est. Stefani; ABF Milano, 16 Febbraio 2021, n. 3861. Pres. Lapertosa. Est. Ferretti.

[3] In relazione ai rapporti obbligatori, il legislatore, pur disciplinandolo in molte norme, non ha dato una definizione di interessi, confidando sulla univocità della nozione tradizionale accettata nel linguaggio sia comune che giuridico.  Naturalmente, laddove il legislatore omette di definire un istituto, il giurista deve, per poter procedere alla sua analisi, estrapolare, attraverso le norme che lo disciplinano, una nozione. Non starò ad elencare le numerose definizioni date al termine interessi, forse impossibile da definire in modo puntuale, data l’eterogeneità delle norme che lo richiamano e disciplinano, seppur si renderà necessario cavalcare alcune di esse, le più condivise ed illuminate, senza nulla togliere agli altri commentatori.  Sotto il profilo storico, gli interessi hanno indubbiamente rappresentato uno degli indici più fedeli e significativi del mutamento dei mercati dei capitali.  Gli interessi, come richiamati nel paragrafo precedente, hanno avuto un largo uso in epoca romanistica, subendo poi una forte resistenza (seppur sotto certi aspetti solo apparente) nel medioevo per il divieto canonistico delle usure, tuttavia hanno contribuito in modo significativo alla formazione dei capitali commerciali. Lo sviluppo dell’economia mercantile, ha trasformato il denaro (ovvero la sua funzione) in strumento di speculazione, ed in concomitanza il divieto canonistico fu eliminato in tutta Europa In Germania, con il par. 174 del Reichsabschied del 1654, venne posto fine al divieto sugli interessi, e stabilendo, tuttavia, la possibilità di applicare interessi solo nel settore commerciale e non civile e ponendo un limite oltre il quale gli interessi divenivano illeciti (tra il 4 e il 6%). Tale passaggio storico è particolarmente significativo poiché porterà allo sviluppo dell’interesse oggi noto come moratorio. Infatti già nel codice napoleonico (art. 1153) la misura dell’interesse veniva rimandato ad un tasso fissato dalla legge. In tutta Europa, imperava il limite di applicare gli interessi entro il limite del 4 – 5 % e la quantificazione degli interessi moratori avveniva con il rinvio alla detta misura legale stabilita come limite massimo per gli interessi convenzionalmente disposti. La ratio era riconducibile all’esigenza di compensare il creditore per il ritardo nel rientro del proprio capitale che poteva quindi ottenere il vantaggio economico corrispondente a quello della più favorevole contrattazione. In seguito con la “liberalizzazione” del saggio di interesse, il collegamento tra i tassi venne meno. È proprio con la codificazione francese ed italiana che si trovano le prime disposizioni relative agli interessi (art. 1153 code Napoleon; art. 1224 codice Albertino; art. 1231 c.c. del 1865). L’influenza canonistica, nonostante il superamento del divieto di usura, perderà ogni rilievo solamente nel XIX secolo quando fu finalmente affermato il principio della decorrenza di pieno diritto degli interessi indifferentemente dagli accodi (sia avvia dunque la concezione moderna degli interessi che oggi troviamo nell’art. 1282 c.c.).Il primo cambiamento in tal senso lo troveremo ancora una volta nella legislazione tedesca: il par. 289 del primo codice di commercio tedesco (ADHGB del 1861) stabilirà che: i commercianti possono tra loro, negli atti che sono di commercio da ambo le parti, chiedere, anche senza patto o interpellanze, interessi per ogni credito dal giorno della sua scadenza. Un principio molto simile troverà ingresso nel codice di commercio italiano del 1882 che all’art. 41 prevederà che i debiti commerciali liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto[3]. È qui che troviamo l’origine della distinzione degli interessi (art. 1231 cod. 1861) intesi come compenso corrispettivo dell’uso di quella fecondità che, negli affari commerciali, si ritiene effettiva, con presunzione assoluta e gli interessi moratori. Solo nei rapporti commerciali, però, gli interessi accompagnavano il debito liquido ed esigibile come si può rilevare dal par. 289 ADHGB del 1861, dall’art. 41 cod. di commercio del 1882 e dal par. 353 HGB del 1897. Nei rapporti civili l’interesse era ammesso esclusivamente come risarcimento danni subito da un creditore per il ritardo nel pagamento.Questo il retaggio storico alla base delle discussioni parlamentari relativi alla redazione del codice del 1942.

[4] Bianca, Diritto Civile, vol. 4, Milano 1990 pagg. 177 – 178; Libertini, voce Interessi, Enc. del Dir. Vol. XXII, Milano, 1972, 101.

[5] B. Inzitari, voce Interessi, in Digesto – Discipline Privatistiche, Vol. IX, 2002, pag. 568

[6] Messa, L’obbligazione degli interessi e le sue fonti, Milano, 1911, 228 e 223.

[7] R. Marcelli, Le criticità dell’ammortamento alla francese vengono gradualmente emergendo. Il Caso.it Articoli, pubb. 15 Marzo 2021.

[8] D. Provenzano, Alla ricerca di una sintesi tra matematica e diritto nell’analisi del fenomeno anatocistico nel contratto di mutuo con ammortamento alla francese ... Il Caso.it. Articoli, pubb. 21 Novembre 2019.

[9] R. Marcelli, L’ammortamento a rata costante (alla francese): si fa strada il riconoscimento del regime composto. Il Caso.it, Articoli, pubb. 02 Dicembre 2020.

[10] Dunque, per fare due esempi, a fronte di un TAN del 10%, si ottiene il TAE che, con: rata semestrale TAE = (1 + 0,1/2) 2– 1 = 10,25%;

rata mensile TAE = (1 + 0,1/12) 2 – 1= 10,47%

[11] La Corte di Cassazione del 1964, la n. 191ci ricorda che: In tema di maturazione degli interessi il periodo normale preso a base per il calcolo di essi è il giorno. A norma dell'art. 821 cod. civ., i frutti civili (tra i quali sono compresi gli interessi dei capitali) si acquistano giorno per giorno. Pertanto, poiché l'art. 1284 cod. civ. stabilisce che il saggio degli interessi legali e il cinque per cento in ragione di anno, ove occorra determinare l'importo degli interessi per un periodo inferiore all'anno. Bisogna dividere l'importo degli interessi annuali per il numero dei giorni che compongono l'anno e moltiplicare il quoziente per il numero dei giorni da considerare (In tal senso: Cass. S.U. 23 novembre 1974 n. 3797).

[12] R. Marcelli, L’ammortamento alla francese e il presidio dell’art. 1283 c.c. (Trib. Roma 5 maggio 2020 n. 6897, est. Colazingari.). Il Caso.it, Articoli, pubb. 28 Maggio 2020.

[13] Ferrara F. Jr, Il fallimento, Milano, 1966, 291.

[14] Gli interessi, hanno avuto un largo uso in epoca romanistica, subendo poi una forte resistenza (seppur sotto certi aspetti solo apparente) nel medioevo per il divieto canonistico delle usure[14], tuttavia hanno contribuito in modo significativo alla formazione dei capitali commerciali. Lo sviluppo dell’economia mercantile, ha trasformato il denaro (ovvero la sua funzione) in strumento di speculazione, ed in concomitanza il divieto canonistico fu eliminato in tutta Europa In Germania, con il par. 174 del Reichsabschied del 1654, venne posto fine al divieto sugli interessi, e stabilendo, tuttavia, la possibilità di applicare interessi solo nel settore commerciale e non civile e ponendo un limite oltre il quale gli interessi divenivano illeciti (tra il 4 e il 6%). Tale passaggio storico è particolarmente significativo poiché porterà allo sviluppo dell’interesse oggi noto come moratorio. Infatti già nel codice napoleonico (art. 1153) la misura dell’interesse veniva rimandato ad un tasso fissato dalla legge. In tutta Europa, imperava il limite di applicare gli interessi entro il limite del 4 – 5 % e la quantificazione degli interessi moratori avveniva con il rinvio alla detta misura legale stabilita come limite massimo per gli interessi convenzionalmente disposti. La ratio era riconducibile all’esigenza di compensare il creditore per il ritardo nel rientro del proprio capitale che poteva quindi ottenere il vantaggio economico corrispondente a quello della più favorevole contrattazione. In seguito con la “liberalizzazione” del saggio di interesse, il collegamento tra i tassi venne meno. È proprio con la codificazione francese ed italiana che si trovano le prime disposizioni relative agli interessi (art. 1153 code Napoleon; art. 1224 codice Albertino; art. 1231 c.c. del 1865). L’influenza canonistica, nonostante il superamento del divieto di usura, perderà ogni rilievo solamente nel XIX secolo quando fu finalmente affermato il principio della decorrenza di pieno diritto degli interessi indifferentemente dagli accodi (sia avvia dunque la concezione moderna degli interessi che oggi troviamo nell’art. 1282 c.c.). Il primo cambiamento in tal senso lo troveremo ancora una volta nella legislazione tedesca: il par. 289 del primo codice di commercio tedesco (ADHGB del 1861) stabilirà che: i commercianti possono tra loro, negli atti che sono di commercio da ambo le parti, chiedere, anche senza patto o interpellanze, interessi per ogni credito dal giorno della sua scadenza[14]. Un principio molto simile troverà ingresso nel codice di commercio italiano del 1882 che all’art. 41 prevederà che i debiti commerciali liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto. È qui che troviamo l’origine della distinzione degli interessi (art. 1231 cod. 1861) intesi come compenso corrispettivo dell’uso di quella fecondità che, negli affari commerciali, si ritiene effettiva, con presunzione assoluta e gli interessi moratori. Solo nei rapporti commerciali, però, gli interessi accompagnavano il debito liquido ed esigibile come si può rilevare dal par. 289 ADHGB del 1861, dall’art. 41 cod. di commercio del 1882 e dal par. 353 HGB del 1897. Nei rapporti civili l’interesse era ammesso esclusivamente come risarcimento danni subito da un creditore per il ritardo nel pagamento. Questo il retaggio storico alla base delle discussioni parlamentari relativi alla redazione del codice del 1942. Nella Relazione Ministeriale n. 570, le diverse tipologie di interessi vengono definite in funzione della loro causa ovvero a seconda che abbiano una funzione remunerativa, data la naturale fecondità del denaro, o risarcitoria intesa come liquidazione forfettaria minima del danno per ritardato pagamento[14]. Sono dunque chiamati compensativi gli interessi che prescindono dalla mora del debitore e dunque dalla scadenza. Sono invece corrispettivi gli interessi che dipendono dalla naturale scadenza del debito. Tale tripartizione fu voluta nel ’42 dal ministro guardasigilli al fine di differenziare i concetti di interesse, in passato inteso unitariamente tra moratori e corrispettivi, ribadendo la peculiarità e specificità di quelli compensativi. Infatti in precedenza la dottrina italiana non distingueva gli tra corrispettivi e compensativi ma solo i prima dai moratori. Rappresentano una impronta storica fondamentale per comprendere la natura degli interessi le considerazioni svolte dalla Commissione Senatoriale in relazione al progetto Pisanelli del codice civile del 1865 che sosteneva la necessità di non porre un limite alla liceità degli interessi al fine del rispetto della Legge economica invariabile, che fa uscire il prezzo delle cose permutabili dal rapporto tra l’offerta e la domanda … (evitando di lasciare) … i capitali inerti e stagnanti nelle mani dei prestatori con grave iattura dell’agricoltura e dell’industria.

[15] Simonetto, I contratti di credito, Padova, 1953, 257 ss.

[16] Ascarelli, Obbligazioni pecuniarie, 576

[17] Ascarelli, op. cit.

[18] Scozzafava, Gli interessi dei capitali, Giuffrè, Milano, 2001, 51, 67, 160

[19] Mazzoni, Scozzafava.

[20] Marinetti, Interessi, voce in Noviss. Digesto It. VIII Torino.

[21] Bianca, Diritto Civile, vol IV, Milano, 1993, 174.

[22] F. Galgano, Trattato di Diritto Civile, Vol. 2, Padova, 2010, 49.

[23] C. Sganga, Dei beni in generale – artt. 810 – 821, Il codice Civile – Commentario diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2015, 339.

[24] Nella dottrina più recente prevale la tesi, che la regola, secondo la quale il denaro contante è l'unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, deve essere scardinata riconoscendo efficacia solutoria a mezzi alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di moneta, come l'assegno circolare, dovendosi intendere per somma di denaro la funzione ideale del mezzo monetario (Cass. SS.UU. 18 dicembre 2007 n. 26617).

[25] Cass. 12 marzo 1981 n. 1411. Ex multis Cass. 18 agosto 1982 n. 4642

[26] Inzitari, La moneta, Tr. Galgano, VI, Padova 1983; Quadri, Le obbligazioni pecuniarie, Tr. RES., IX, Torino 1999, 638; Sinesio D., Gli interessi, in Diritto Civile diretto da Lipari-Rescigno, Milano, 2009, vol. III -Obbligazioni -, t. 1 - Il rapporto obbligatorio -, 439; Bianca C.M., Diritto civile, L'obbligazione, IV, Milano, rist. agg., 2004.

[27] Cass. 18.7.2002 n. 10428; Cass. 17.12.1994 n. 10901; in caso di richiesta di corresponsione degli interessi non seguita da alcuna particolare qualificazione, andranno liquidati a favore del creditore gli interessi corrispettivi che, come quelli compensativi, decorrono, in base al principio della naturale fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, Cass. 23.1.2008 n. 1377. La certezza del credito non impedisce la produttività di interessi, attenendo essa non alla sua esistenza, atteso che la lettera dell'art. 1282 fa esclusivo riferimento alla liquidità ed esigibilità del credito (TAR Campania 27.7.1982 n. 408).

[28] Cass. 22.4.1986 n. 2843.

[29] Bianca, op. cit., 183.

[30] Bianca, op. cit., 184.

[31] Bianca, op. cit., 184.

[32] Giorgianni, L'inadempimento, Milano 1975, 159. La giurisprudenza ritiene che i crediti riconosciuti da sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva producono, anche se pendente l'impugnazione, interessi di pieno diritto (Cass. 13.9.1974 n. 2489). È stato precisato che l'avvenuta impugnazione di una pronunzia esecutiva di condanna al pagamento di una somma di denaro non esime il debitore, anche pubblico, dall'ottemperarvi, in quanto tale pronuncia, pur non ancora consolidata nel giudicato, presuppone comunque la liquidità del credito, ossia la sua esistenza e la determinazione del suo ammontare, e l'esigibilità del medesimo, che consegue all'accoglimento della domanda giudiziale Cass. 16.3.2000 n. 3032). Infine non impedisce la decorrenza degli interessi il fatto che il debitore sia impedito a pagare da sequestri o pignoramenti eseguiti sulle somme dovute, in quanto tale temporanea indisponibilità, estrinseca al credito, e come tale diversa dalla sua inesigibilità, derivante sempre da ragioni intrinseche, non fa venir meno il vantaggio che il debitore ritrae dal trattenere le somme, quale che sia la ragione per cui esse rimangono presso di lui (Cass. 22.12.2011 n. 28204).

[33] Bianca, op. cit., 188. Ai fini della decorrenza degli interessi di pieno diritto, a parere della dottrina unanime, sono ininfluenti sia la costituzione in mora che l'accertamento dell'imputabilità del ritardo nel pagamento al debitore. Anche la giurisprudenza è della stessa opinione ritenendo i suddetti elementi necessari solo per la decorrenza degli interessi moratori ex art. 1224 (Cass. 18.7.2002 n. 10428; Cass. 9.4.1999 n. 3944; Cass. 8.3.1983 n. 1663). Il principio secondo cui gli interessi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento decorrono dalla data del verificarsi del danno trova applicazione soltanto in materia di responsabilità aquiliana mentre quando l'obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale quale atto idoneo a costituire in mora il debitore, anche se a quella data il credito non sia ancora liquido ed esigibile (Cass. 19.3.1990 n. 2296).

[34] Cass. 10.11.1997 n. 11042.

[35] Essi possono essere attribuiti dal giudice anche quando l'avente diritto, omettendo di specificarne la natura, abbia genericamente domandato la corresponsione degli interessi (Cass. 25 febbraio 1980 n. 1322).

[36] Gli interessi sono anche ritenuti una quantità di cose fingibili al fine di poterli tenere distinti dai canoni delle locazioni e dell’enfiteusi, che seppur anch’essi intesi come frutti civili, si distinguono tuttavia dagli interessi poiché costituiscono il corrispettivo per il godimento di una cosa infungibile.

[37] La dottrina ha inteso distinguere, attraverso la combinazione della periodicità e della proporzionalità, gli interessi dai dividendi distribuiti dalle società di capitali giacché, questi ultimi, oltre ad essere solitamente qualificati frutti civili sono collegati con un'obbligazione principale, ovvero il conferimento, riconducibile alla restituzione di una certa quantità di cose fungibili.

[38] Pugliese, Usufrutto, uso e abitazione in Trattato di diritto civile italiano, pag. 302 ss. e pag. 340 ss.

[39] È l’opinione di Bigliazzi Geri, Usufrutto, uso e abitazione in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano 1979, pag. 122 ss.

[40] BARCELLONA, Attribuzione normativa e mercato nella teoria dei beni giuridici, in Quadrimestre, 1987, pag. 216

[41] C. Spagna, De beni in generale, Il codice civile Commentato fondato da Piero Schlesinger diretto da Francesco D. Busnelli, Milano, 2015, pagg. 341.

[42] Sono sempre parole di Barcellona, op. loc. ult. cit., che nel portare l'affermazione alle sue estreme conseguenze sottolinea come anche nel caso di riscossione anticipata, rappresentante pur sempre adempimento del credito contrattuale, sia possibile configurare un obbligo di restituzione della somma ricevuta in conseguenza dell’interruzione del godimento.

[43] C. Spagna, op. loc. ult. cit., pag. 342.

[44] G. Morini, IL CASO.it, https://opinioni.ilcaso.it/opinione/4073/30-03-21/Estinzione-anticipata-del-finanziamento-lammortamento-alla-francese-deve-fare-i-conti-con-la-sentenza-Lexitor

[45] C. Spagna, De beni in generale, Il codice civile Commentato fondato da Piero Schlesinger diretto da Francesco D. Busnelli, Milano, 2015, pagg. 341.

[46] Se l’ammortamento alla francese generi capitalizzazione o anatocismo è questione strettamente matematica, tuttavia dalla verità dell’una o dell’altro ne discendono conseguenze giuridiche diverse.

[47] V. FARINA, Interessi, finanziamento e piano di ammortamento alla francese: un rapporto problematico, in I Contratti, I, 2019, n. 4. Come è stato puntualmente affermato in dottrina capitalizzazione ed anatocismo sono due fenomeni distinti: “Capitalizzazione” significa che gli interessi scaduti vengono, con una certa periodicità, spostati dalla voce “interessi” alla voce “capitale”. L’anatocismo interviene solo nel successivo periodo di calcolo allorché “gli interessi vengono calcolati anche su interessi (che nel frattempo sono divenuti capitale)”. Ci si riferisce ovviamente alla c.d. capitalizzazione composta, la sola che potrebbe avere a che fare con l’anatocismo (produzione di interessi sugli interessi scaduti su una somma liquida), e non con la c.d. capitalizzazione semplice, che indica la mera contabilizzazione degli interessi primari maturati in un determinato periodo di tempo sul capitale iniziale (Così puntualmente Sangiovanni, Tasso fisso e tasso variabile nei piani di ammortamento alla francese, in Corr. giur., 2016, 345 ss.  Su capitalizzazione e anatocismo come lemmi che identificano fattispecie differenti si veda P. Ferro Luzzi, In cauda venenum, in Riv. dir. comm., 2011, II, 418 ss.; ma ancor prima Id., Una nuova fattispecie giurisprudenziale: “l’anatocismo bancario”; postulati e conseguenze, in Giur. comm., 2001, 5 ss. “... si parla infatti, correttamente, di interessi sugli interessi, mentre meno correttamente ricorre spesso l’espressione capitalizzazione; meno correttamente, dico, perché nel sistema dell’art. 1283, c. c., gli interessi, quand’anche eccezionalmente, ad esempio per ‘usi’, producano a loro volta interessi, non si trasformano in capitale, restando ad esempio applicabile l’art. 1194, c.c. ...”.).

[48] Mentre il concetto di capitalizzazione si riassume nel calcolo degli interessi sugli interessi, definizione prettamente matematica, il concetto di anatocismo, istituto esclusivamente giuridico, si definisce: In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. Perché sussista anatocismo è necessario che gli interessi siano scaduti; tale possibilità è tuttavia lecita a condizione che vi sia domanda giudiziale o in alternativa una convenzione tra le parti posteriore alla scadenza degli interessi, in entrambi i casi è necessario che gli interessi siano dovuto per almeno 6 mesi: al di fuori di questi casi la produzione degli interessi su interessi scaduti è comunque sempre illegittima, salvo gli usi contrari. Non mi dilungherò sul perché l’uso in materia di anatocismo sia commerciale e non normativo e pertanto non in grado di derogare al generale divieto di anatocismo (Nel codice civile possiamo rinvenire rinvio agli usi contrari, attribuendo ad essi funzione integrativa derogatoria della disciplina prevista dalla legge, alle art 1283, 1457, 1510, 1528, 1665, 1739, 1756, 2148 del codice civile. In cinque di queste norme – artt. 1457 1510 1528 1665 1756 – è usata la locuzione “in mancanza di patto o uso contrario” ovvero “salvo patto o uso contrario”), basti ricordare la storica sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite 04/11/2004, n.21095(In tal senso: Cass. Civ. 18 settembre 2003, n. 13739; Cassazione Civile, Sez. I, 1° ottobre 2002, n. 14091; Corte di Cassazione, Sezione I, 28 marzo 2002 n. 4498; Corte di Cassazione, Sezione I, 28 marzo 2002 n. 4490; Corte di Cassazione, Se-zione I, 1° febbraio 2002 n. 1281; Corte di Cassazione, Sezione I, 11 novembre 1999 n. 12507; Corte di Cassazione, Sezione III, 30 marzo 1999 n. 3096; Trib. Monza 21 febbraio 1999; Trib. Busto Arsizio, 15 giugno 1998; Trib. Vercelli 21 luglio 1994; Pret. Roma 11 novembre 1996, ecc.). Si può pertanto affermare che l’anatocismo è una ipotesi di capitalizzazione ma non il contrario, e che dunque la capitalizzazione è il genus e l’anatocismo la species. La riforma apportata all’art. 120 TUB dall’art. 25 D. Lgs. 342/1999 è stato il primo passo verso una diversificazione tra i due concetti. Infatti il 2° comma dell’art. 120 UB esordiva: Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità di conteggio degli interessi sia debitori sia creditori. La formulazione usata dal legislatore non lascia dubbi: ciò che si vuole disciplinare non è solamente il fenomeno dell’anatocismo nella materia bancaria, ma un fenomeno ben più vasto e complesso quello della capitalizzazione degli interessi. I passi chiave della norma sono sicuramente il fatto che il legislatore demanda al CICR il compito di disciplinare la modalità di calcolo degli interessi sugli interessi (e non degli interessi sugli interessi scaduti) e che non si tratta di una svista è dimostrato dalla parola seguente – maturati – dunque non scaduti – o quanto meno non necessariamente scaduti. Non deve sorprendere che il legislatore si sia voluto addentrare in un concetto così vasto come quello della capitalizzazione e non si sia limitato a disciplinare nel dettaglio l’anatocismo bancario specie all’indomani della sentenza Corte di Cassazione, Sezione I, 11 novembre 1999 n.2374. Il legislatore è ben consapevole che la questione è più complessa del solo anatocismo e che i contratti bancari non sono così trasparenti nella indicazione del reale costo dell’operazione finanziaria e in particolar modo sulla natura e operatività del tasso di interesse. Non a caso all’art. 6 della delibera CICR del 9.02.2000 viene disciplinata proprio la trasparenza consegnando nelle mani delle banche la chiave alla soluzione di ogni problema: è sufficiente che il contratto si esplicito nell’indicazione del fenomeno della capitalizzazione degli interessi e che faccia approvare specificatamente la relativa clausola. Da questo punto di vista mi sento di affermare che il CICR, in quanto organismo specializzato, avesse già in tempo non sospetto previsto che nel tempo sarebbero saltati fuori nuovi problemi in relazione a contratti bancari decisamente poco trasparenti e che il fenomeno dell’anatocismo, ma più in generale della capitalizzazione, necessitava di una particolare attenzione e disciplina. Le banche hanno evidentemente ignorato il “suggerimento” del CICR e la “scialuppa di salvataggio” messa a disposizione e non credo per-ché ignoravano il fatto che nell’ammortamento a.f. gli interessi operano in regime di capitalizzazione composta. La tesi appena espressa trova inoltre conferma nella recente ulteriore riforma dell’art. 120 c. 2 TUB operata dalla L. 27 dicembre 2013, n. 147 il cui art. 1, comma 629 norma entrata in vigore dal 1° gennaio 2014: 2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale. Adesso il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi, un mandato evidentemente più ampio rispetto al precedente; la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori non è più la condizione per poter derogare all’art. 1283, ma adesso viene formulata in un contesto ben diverso, e direi più opportuno, quello del sinallagma. È indiscutibilmente un elemento di equilibrio tra le prestazioni contrattuali prima ingiustificatamente sbilanciate in favore della banca che già percepiva e percepisce interessi esponenzialmente superiori agli interessi che pagano sui depositi. Ma è il punto b) ad aver suscitato il maggior interesse poiché sancisce in via definitiva il divieto di capitalizzazione degli interessi da molti tuttavia, ancora una volta, confuso con l’anatocismo. Intanto viene ribadito un principio consolidato dal 1971 Cass. 3479, (In tal senso anche Cass. 6 maggio 1977, n. 1724 e n. 2593 del 20 febbraio 2003) ovvero: il semplice fatto che nelle rate di mutuo vengono compresi sia una quota del capitale da estinguere sia gli interessi a scalare non opera un conglobamento è vale tanto meno a mutare la natura giuridica di questi ultimi, che conservano la loro autonomia anche dal punto di vista contabile Nel caso del mutuo, dunque, a carico del mutuatario di somme di denaro sono poste due distinte obbligazioni: l’una di restituire la somma ricevuta in prestito (art. 1813 c.c.), l’altra di corrispondere gli interessi al mutuante, salvo diversa pattuizione (art. 1815 c.c.). Le due obbligazioni distinte ontologicamente e rispondenti a finalità diverse (Cassazione Civile con la sentenza n. 2593 del 20 febbraio 2003). Il punto b) è in realtà ancor più stringente di quello che si pensa. Innanzi tutto è evidente da una prima lettura la contraddittorietà tra la prima parte gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori che nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale. In effetti nella prima parte il legislatore allude (almeno ad una prima) capitalizzazione, che porta alla mente l’ipotesi dell’interesse moratorio sull’interesse corrispettivo, e all’ipotesi della capitalizzazione degli interessi corrispettivi addebitati su conto corrente ed oggetto di successivo calcolo di ulteriori interessi, mentre nella seconda parte specifica che gli interessi devo-no essere calcolati esclusivamente sulla sorte capitale. Ad avviso di chi scrive il legislatore usa, nella prima parte il termine capitalizzazione in una accezione diversa: considera gli interessi già maturati come capitalizzati a cui pone poi nella seconda parte un divieto che indubbiamente ha carattere generale. Al di là della formulazione discutibile è al momento pacifico che non c’è modo alcuno, nel nostro ordinamento giuridico di calcolare interessi sugli interessi, condizione non derogabile dalle parti: ed è questa una differenza essenziale con la formulazione dell’art. 6 della delibera CICR 9.02.2000 che consentiva alle parti di pattuire la capitalizzazione degli interessi a condizione che la relativa clausola venisse specificatamente approvata.

[49] L’art. 49 del Regolamento ISVAP n. 35/2010, secondo cui: Nei contratti di assicurazione connessi a mutui e ad altri finanziamenti per i quali sia stato corrisposto un premio unico il cui onere è sostenuto dal debitore/assicurato le imprese, nel caso di estinzione anticipata o di trasferimento del mutuo o del finanziamento, restituiscono al debitore/assicurato la parte di premio pagato relativo al periodo residuo rispetto alla scadenza originaria. Essa è calcolata per il premio puro in funzione degli anni e frazione di anno mancanti alla scadenza della copertura nonché del capitale assicurato residuo; per i caricamenti in proporzione agli anni e frazione di anno mancanti alla scadenza della copertura. Le condizioni di assicurazione indicano i criteri e le modalità per la definizione del rimborso. Le imprese possono trattenere dall’importo dovuto le spese amministrative effettivamente sostenute per l’emissione del contratto e per il rimborso del premio, a condizione che le stesse siano indicate nella proposta, nella polizza ovvero nel modulo di adesione alla copertura assicurativa. Tali spese non devono essere tali da costituire un limite alla portabilità dei mutui/finanziamenti ovvero un onere ingiustificato in caso di rimborso.

[50] Comunicazione della Banca d’Italia del 7 aprile 2011alla lettera f) si legge il seguente invito: definire criteri rigorosi, legati a una stima ragionevole dei costi, per individuare eventuali somme da rimborsare ai clienti che abbiano in passato estinto anticipatamente le operazioni, valutando l’opportunità di utilizzare procedure informatiche per calcolare prontamente il quantum dovuto. In tale ambito, conformemente alle indicazioni fornite con la comunicazione del 10 novembre 2009, gli intermediari adottano procedure che consentano di soddisfare tempestivamente le richieste di rimborso e, nell’ambito delle relazioni in corso con la clientela che ha sostituito un contratto con un altro tuttora in essere, di procedere d’iniziativa alle restituzioni. Le richieste di restituzione della clientela sono in ogni caso trattate come reclami, anche ai fini del possibile ricorso all’Arbitro Bancario Finanziario.

[51] In realtà, l’esigenza di definire i contorni del diritto, perché il suo utilizzo non divenisse contrario ai principi dell’ordinamento, era presente già in Platone (Politico) e Aristotele (Etica Nicomachea) che individuarono nell’equità il correttivo del giusto legale, esperienza che nel diritto romano troveremo nel concetto di bona fides. In realtà il concetto di abuso del diritto non è entrato in modo evidente e marcato nel nostro codice civile, anzi, l’epoca illuministica ne ha compromesso, direi definitivamente la sua positivizzazione. Infatti nell’esperienza illuministica il giudice era bouche de la loi, ovvero strumento della volontà legislativa non lasciano dunque alcun spazio a strumenti correttivi extra ordinem. Nel codice del 1865 non troveremo quindi alcuna traccia dell’abuso del diritto; anzi vi fu chi definì l’abuso del diritto fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica, e ciò per le contraddizioni che non consente (M. ROTONDI, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 105 ss.).

[52] Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25160 - pubb. 21/04/2021.

[53] Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25173 - pubb. 22/04/2021

[54] Il Tribunale di Milano riconosce direttamente applicabile al caso concreto nella giurisdizione italiana: è noto che l’interpretazione fornita da CGUE è vincolante e che d’altra parte, come correttamente evidenziato dall’appellante, le direttive hanno una efficacia diretta solo verticale, di modo che esse non possono essere invocate nelle controversie tra privati. Tuttavia una efficacia orizzontale in via indiretta deriva dall’obbligo di operare una interpretazione conforme ai principi del diritto europeo: “nell’applicare il diritto nazionale, e in particolare la legge nazionale espressamente adottata per l’attuazione della direttiva [..], il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato” (Corte di giustizia UE 10.4.1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann e molte altre conformi).

[55] Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23622 - pubb. 22/05/2020.

[56] Si legge nella sentenza: Questi argomenti comportano il rifiuto della prima e della terza interpretazione, perché lasciano all’intermediario un eccessivo margine nella selezione dei costi ripetibili e non, e orientano la Corte verso la seconda che, riferendo l’attributo della “restante durata del contratto” alle modalità di calcolo del rimborso e non alla tipologia dei costi ammessi, implicitamente ammette la ripetizione di tutte le voci comprese nella nozione di “costo totale del credito” (art. 3 lett. g) dir. 2008/48), incluse quelle che non dipendono dalla durata del contratto. Ritiene infine la Corte, forse in modo sbrigativo, che questo sistema, mentre realizza una protezione elevata del consumatore, non penalizzi “in maniera sproporzionata il soggetto concedente il credito”, sia per la possibilità di reimpiegare immediatamente la somma rimborsata, e lucrare un’ulteriore commissione, sia perché gli interessi del finanziatore “vengono presi in considerazione, da un lato, tramite l’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2008/48, il quale prevede, a beneficio del mutuante, il diritto ad un indennizzo per gli eventuali costi direttamente collegati al rimborso anticipato del credito, e, dall’altro lato, tramite l’articolo 16, paragrafo 4, della medesima direttiva, che offre agli Stati membri una possibilità supplementare di provvedere affinché l’indennizzo sia adeguato alle condizioni del credito e del mercato al fine di tutelare gli interessi del mutuante” (punto 34). Evidentemente, quest’interpretazione, polarizzata sul “costo totale del credito” (vedi art. 3 lett. g) dir.), fa scemare il peso dell’inciso “dovuti per la restante durata ecc.” come criterio di selezione dei costi ammissibili a ripetizione in caso di estinzione anticipata e perciò fa cadere la stessa distinzione tra costi up front e recurring. L’interpretazione dell’art. 125-sexies TUB della Banca d’Italia, condivisa dall’ABF, rimettendo all’autonomia negoziale e in definitiva alle determinazioni dell’intermediario, alle quali aderisce il consumatore, la ripartizione dei costi in ripetibili per la residua durata (oneri recurring) e irripetibili (oneri up front), con l’unico limite dell’adeguata informazione e trasparenza, non appare dunque più sostenibile dopo la sentenza Lexitor, come ha riconosciuto la cit. decisione dell’ABF n. 26525/19.

[57] In un lavoro di Nepero, pubblicato postumo nel 1618, compare in appendice una tavola che riporta i logaritmi in base e di diversi numeri. La tavola non riporta però il nome dell’autore e potrebbe quindi non essere di Nepero. Nel 1624 ricompare il numero e in un lavoro di Briggs, il matematico amico di Nepero con il quale costruì le tavole dei logaritmi in base 10, compare il valore del logaritmo di e in base 10. È stato Leibniz, tra i primi, a riconoscere ufficialmente il numero e. In una lettera indirizzata a Huygens, del 1690, usa la lettera b per indicare questo numero che finalmente ottiene un nome, anche se non era ancora quello che noi usiamo oggi. L’uso della lettera e per il nostro numero risale invece a Leonhard Euler, italianizzato Eulero, che Maor definisce il “Mozart della matematica”. Compare per la prima volta in una sua lettera, del 1731, indirizzata a Goldbach. Lettera e come “esponenziale” o forse come “Eulero”.

[58] Il numero e è una costante matematica il cui valore approssimato a 12 cifre decimali è 2,718281828459. La natura del numero e un numero (irrazionale) trascendente. Si dicono infatti algebrici i numeri che sono soluzione di un’equazione polinomiale a coefficienti razionali; i numeri che non sono algebrici vengono detti trascendenti in quanto – come affermò Eulero – trascendono la potenza dei metodi algebrici. La trascendenza di e fu dimostrata nel 1873 dal matematico francese Charles Hermite che non riuscì però a provare la trascendenza di […]; quest’ultima dimostrazione fu ottenuta nel 1882 dal tedesco Ferdinand von Lindemann.

[59] A.A. Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari regole Zanichelli Bologna 2013

[60] Profili di operatività per il calcolo dell’ISC per i conti correnti

[61] Capobianco La determinazione del regolamento, Tr. Roppo, II, 304 ss. Quest'ultima opinione ha trovato riscontro in giurisprudenza. Il rapporto tra interpretazione e qualificazione è ormai pacifico. Si discute solo se il complessivo procedimento sia in due o in tre fasi [per la tesi delle due fasi, interpretazione prima, e qualificazione poi: Cass. 4.6.2007 n. 12936; Cass. 25.10.2006 n. 22889; Cass. 28.7.2005 n. 15798; per la tesi delle tre fasi, ricerca delle volontà, individuazione della fattispecie legale, giudizio di rilevanza giuridica qualificante degli elementi di fatto accertati: Cass. 5.7.2004 n. 12289; Cass. 10.2.2003 n. 1298). Altra questione rilevante è, poi, fino a qual punto le parti possano condizionare la qualificazione del contratto. L'opera di qualificazione è invero compiuta dal giudice trattandosi di una valutazione oggettiva di conformità ad un tipo legale. Ma può essere anticipata dalle parti come opinione o anche come intenzione di stipulare in conformità ad un tipo. Indagare questa opinione o intenzione soggettiva qualificatoria è parte dell'interpretazione, non ancora della qualificazione (Cass. 4.2.2009 n. 2720; Cass. 23.1.2009 n. 1717; Cass. 30.8.2007 n. 18303; Cass. 22.6.2005 n. 13399).

[62] Cass. 30.5.2007 n. 12721; Cass. 26.6.1996 n. 5893. L'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale Cass. 19.5.2010 n. 12249; Cass. 27.4.2010 n. 10009; Cass. 2.9.2009 n. 19104; Cass. 4.5.2009 n. 10232; Cass. 22.9.2008 n. 23949; Cass. 4.6.2008 n. 14784; Cass. 18.4.2008 n. 10218; Cass. 27.3.2007 n. 7500; Cass. 6.4.2006 n. 8011; Cass. 28.5.2001 n. 7242. L'interpretazione di un contratto, consistendo nell'accertamento di una realtà storica è assoggettata, ai fini del controllo di legittimità in cassazione, ai principi che governano i giudizi di fatto [Cass. 23.2.1998 n. 1940; Cass. 13.7.1993 n. 7745.

[63] Cass. 18.1.1978 n. 23710. Una clausola contrattuale, anche non valida e perciò inidonea a produrre effetti giuridici, negoziali, può e deve essere utilizzata per la ricostruzione dell'esatto contenuto in altre clausole non affette da nullità Cass. 2.10.1998 n. 9789.

[64] Cass. 27.5.2003 n. 8411; Cass. 8.3.2001 n. 3392; Cass. 13.5.1998 n. 4815; Cass. 12.11.1992 n. 12165; Cass. 23.11.1988 n. 6303; Cass. 5.4.1984 n. 2209.

[65] Messineo, Il contratto in genere, Tr. Cicu-Messineo, Milano 1968, 380. ; Cass. 2.4.2002 n. 4680, contra Cass. 6.10.2008 n. 24652; Cass. 14.4.2008 n. 9813

[66] Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Tr. VAS., Torino 1952, 334.

[67] Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano 1969.

[68] Bianca C.M., Diritto civile, Il contratto, III, Milano 1987.

[69] Grassetti, Interpretazione dei negozi giuridici inter vivos, NsDI, VIII, Torino 1962

[70] Cass. 22.2.2008 n. 4600; Cass. 27.5.2005 n. 11278; Cass. 2.4.2002 n. 4680; Cass. 10.3.1998 n. 2636; Cass. 17.7.1995 n. 7763; Cass. 11.6.1991 n. 6610; Cass. 13.2.1980 n. 1028

[71] Carresi, L'interpretazione del contratto, RTDPC 1964, 568; Alpa, Condizioni generali di contratto, interpretatio contra proferentem e delimitazione del rischio assicurato, DM 1972, 612; Roppo, Contratti standard. Autonomia e controlli nella disciplina delle attività negoziali di impresa, Milano 1975.

[72] Osti, Contratto, NsDI, IV, Torino 1959, 524; Mirabelli, Dei contratti in generale, Com. UTET, IV, II, Torino 1980; Scognamiglio, (sub artt. 1321-1352), Contratti in generale, Delle obbligazioni, Com. S.B., IV, Bologna-Roma 1970, 150;

[73] Cass. 27.5.2003 n. 8411; Cass. 8.3.2001 n. 3392; Cass. 2.10.1998 n. 9786; Cass. 26.6.1987 n. 5621.

[74] Casella, Negozio giuridico (interpretazione del), EdD, XXVIII, Milano 1978; Grassetti, Interpretazione dei negozi giuridici inter vivos (diritto civile), NsDI, VIII, Torino 1962, 906

[75] Cass. 22.12.2011 n. 28357; Cass. 20.12.2011 n. 27564; Cass. 30.3.2007 n. 7972; Cass. 29.1.2003 n. 1318; Cass. 20.11.1997 n. 11547; Cass. 21.3.1989 n. 1402; Cass. 16.11.1983 n. 6806; Cass. 16.3.1981 n. 1468

[76] Cass. 9.2.1979 n. 899.

[77] Oppo, Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna 1943; Scognamiglio, Contratti in generale, Tr. Grosso-Santoro Passarelli, VI, 1975, 187; Carresi, L'interpretazione del contratto, RTDPC 1964, 562; Casella, Negozio giuridico (interpretazione del), EdD, XXVIII, Milano 1978.

[78] Cass. 27.1.2009 n. 1950; Cass. 17.4.1997 n. 3293.

[79] Carresi, op cit., 562.

[80] Cass. 15.9.1995 n. 9737; Cass. 19.1.1995 n. 565; Cass. 4.7.1987 n. 5862.

[81] Cass. 1.9.1997 n. 8301.

[82] Cass. 22.4.1981 n. 2356.

[83] Cass. 28.7.2000 n. 9921; Cass. 4.1.1995 n. 74; Cass. 3.9.1994 n. 7641; Cass. 11.6.1991 n. 6610; Cass. 16.1.1988 n. 303; Cass. 9.11.1984 n. 5663.

[84] Cass. 3.3.1979 n. 1891.

[85] Tribunale Udine, 04 Gennaio 2021. Est. Massarelli. Qualora non vengano precisate in contratto, e pertanto restino indeterminati e indeterminabili, i criteri che disciplinano le modalità di rimborso del prestito rateale, quali il cd. days count convention con la considerazione o meno dell'anno civile (365 gg.) o commerciale (360 gg.), come pure l’indicazione del metodo di ammortamento, ovvero ancora il criterio di rideterminazione della quota capitale al variare del tasso di interesse, tenendo conto del postulato iniziale della invariabilità della rata se si tratta di ammortamento alla francese, si dà luogo a un vizio di nullità che attiene all'oggetto dell'accordo (e non al modo in cui le parti lo hanno eseguito) con conseguente applicazione dell'art. 117 commi 4 e 7 TUB e applicazione del tasso sostitutivo minimo BOT. In IL CASO.IT https://www.ilcaso.it/sentenze/ultime/25109

[86] Cass. 7.02.1979 n. 820; Cass. 13.07.1967 n. 1742; Cass. 9.06.1988 n. 5659; Cass. 10.10.1998 n. 10067 – quest’ultima parla di interessi meritevoli di tutela.

[87] Cass. 13.01.1993 n. 343, ex plurimis: Cass. N. 72 del 8.01.1997; Cass. 07.06.1999 n. 5562.

[88] Cass. 13.01.1993 n. 343. La sentenza prosegue: sebbene nel nostro ordinamento non esista un generale dovere, a carico di ciascun consociato, di attivarsi al fine di impedire eventi di danno, tuttavia vi sono molteplici situazioni da cui possono nascere, per i soggetti che vi sono coinvolti, doveri e regole di azione, la cui inosservanza integra la nozione di omissione imputabile e la conseguente responsabilità civile. In particolare, come è stato rilevato (Cass. 13.1.1993 n. 343) dalla normativa che regola il sistema bancario vengono imposti, "a tutela del sistema stesso, e dei soggetti che vi sono inseriti, comportamenti, in arte tipizzati, in parte enucleabili caso per caso", la cui violazione può costituire culpa in omittendo. (Cass. N. 72 del 8.01.1997). Questa Corte ha affermato, con precedenti (Cass. 13 gennaio 1993, n. 343; Cass. 8 gennaio 1997, n. 72) implicitamente richiamati dalla ricorrente, che sebbene nel nostro ordinamento giuridico non esista un dovere generale di attivarsi al fine di impedire eventi di danno, vi sono molteplici situazioni dalle quali possono nascere, per i soggetti che vi sono coinvolti, doveri e regole d'azione, la cui inosservanza integra gli estremi di una omissione imputabile e la conseguente responsabilità civile. In particolare, dalla normativa che regola il sistema bancario vengono imposti, a tutela del sistema stesso e dei soggetti che vi sono inseriti, comportamenti in parte tipizzati, in parte enucleabili caso per caso, la cui violazione può costituire culpa in omittendo. Il dovere primario dei soggetti dell'ordinamento bancario, informato alla tutela dell'interesse pubblico collegato alla raccolta del risparmio ed alla erogazione del credito (come si desumeva dall'art. 1 del r.d.l. n. 375 del 1936, vigente all'epoca dei fatti, secondo cui "la raccolta del risparmio... e l'esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico" e come si desume oggi dall'art. 5 del d.lgs. n. 385 del 1993, secondo cui "le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza... avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all'efficienza ed alla competitività del sistema finanziario"), consiste "in una corretta erogazione del credito, nel rispetto non soltanto delle ragioni dell'utenza, ma di quelle delle altre imprese inserite nel sistema, con privilegio per le comunicazioni e le informazioni reciproche". In tal senso anche Cass. 07.06.1999 n. 5562.

[89] R. Caratozzolo, La responsabilità delle banche per la violazione degli obblighi contrattuali in nota n. 12 pag. 12 – Università di Messina, Milano Giuffré 2007.

[90] G. Pettarin, La responsabilità civile in materia di contratti bancari, in La responsabilità civile Vol. V a cura di P. Cendon, UTET 2002.

[91] E. Minervini in Contratti, 2011 pag. 977.

[92] Assumono particolare rilievo: a) l’art. 1 d.l. 3 maggio 1991 n. 143 pubb. G.U. 8 maggio 1991 n. 106 conv. in l. 5 luglio 1991 n. 197 che ha sancito a decorrere dal 9 maggio 1991 (al 31 dicembre 2001) il divieto di trasferimento di denaro contante e libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in lire o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, del valore complessivo superiore a lire venti milioni; dal 1° gennaio 2002 al 25 dicembre 2002 con la conversione degli importi dalle lire in euro la soglia è divenuta di euro 10.329,14. b) Il D.M. 17 ottobre 2002, pubb. sulla G.U. dell’11 dicembre 2002, rimasto in vigore sino al 26 dicembre 2002 ovvero all’entrata in vigore dell’art. art. 49 del d.lgs. 21 novembre 2007 n.231, la soglia oltre la quale non è consentito l’utilizzo di denaro contante è di euro 12.500. c) Il l’art. unico della L. 27 dicembre 2006 n. 296 comma 49 (legge finanziaria 2007) toglie l’obbligo di tracciamento, dei i pagamenti nelle cessioni immobiliari, anteriori al 4 luglio 2006.  d) l’art. 49 (prima versione) del d.lgs. 21 novembre 2007 n. 231 in vigore dal 30 aprile 2008 al 24 giugno 2008 che sancisce in euro 5.000 la soglia oltre la quale non è consentito l’utilizzo di denaro contante. e) Il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in L. 6 agosto 2008, n. 133 - pubb. Sul S.O. 196 della G. U. n. 195 del 21 agosto 2008 vigente dal 25 giugno 2008 al 3 novembre 2009 pone il divieto di utilizzo di denaro contante e di titoli al portatore di importi pari o superiori ad euro 12.500[92]. f) Il d.lgs. 25 settembre 2009 n. 151 che modifica l’art. 49 di cui sopra, a decorrere dal 4 novembre 2009 al 30 maggio 2010, che consente l’utilizzo di denaro contante per i pagamenti frazionati inferiori alla soglia consentita salvo che i pagamenti non appaiano artificiosamente frazionati. g) L’art. 20 del d.l. 31 maggio 2010 n. 78 vigente dal 31 maggio 2010 pone il divieto di utilizzo di denaro contante e di titoli al portatore per gli importi pari o superiori ad euro 5.000. h) L’art. 36 del d.l. 31 maggio 2010 n. 78 pone una presunzione legale al ricorso frequente o ingiustificato a operazioni in contante, ancorché non in violazione dei limiti di cui all’articolo 49, sono un esempio: il prelievo o il versamento in contante con intermediari finanziari di importo pari o superiore ad euro 15.000. i) il D.L. n. 38/2011 decorrente dal 13 agosto, riduce il limite di uso contante da € 5.000,00 a € 2.500. l) il D.L. n. 201/2011 decorrente dal 6.12.2011 stabilisce che, se l'importo da pagare è superiore a 999,99 euro, deve avvenire con assegno, bonifico o carta di credito, cioè passare attraverso le banche o le poste. m) Legge stabilità 2016 innalza a decorrere 1° gennaio 2017 l’uso del contante ad € 3.000,00. Da notare che nell’Unione Europea 11 paesi non hanno alcun limite all’utilizzo del contante, mentre altri paesi hanno limiti per utilizzo contante più alti: Francia € 3.000,00, Spahna € 2.500,00, Grecia € 1.500,00; solo il Portogallo ha il limite di € 1.000,00. A seguito della citata normativa, l’applicazione di quella codicistica è diventata marginale.

[93] B. Inzitari, voce Interessi, op. cit. pag. 569; Natoli e Bigliazzi Geri, Mora accipiendi e mora debendi, Milano, 1975, 223 ss.

[94] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, ed. 22, Milano, 2015, 402.

[95] Quadri, in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, vol. 9, Torino, 2005, 644. Anche, Breccia, Le Obbligazioni, 351.

[96] Si legge in Cass., 18-02-2008, n. 3954 - lo scioglimento dell’accordo contrattuale, quando non opera di diritto, consegue ad una pronuncia costitutiva che presuppone da parte del giudicante la valutazione della non scarsa importanza dell’inadempimento stesso, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte; tale valutazione viene operata alla stregua di un duplice criterio: in primo luogo, il giudice, applicando un parametro oggettivo, deve verificare che l’inadempimento abbia inciso in misura apprezzabile nell’economia complessiva del rapporto (in astratto, per la sua entità e, in concreto, in relazione al pregiudizio effettivamente causato all’altro contraente), sì da creare uno squilibrio sensibile del sinallagma contrattuale; nell’applicare il criterio soggettivo, invece, il giudicante deve considerare il comportamento di entrambe le parti (un atteggiamento incolpevole o una tempestiva riparazione ad opera dell’una, un reciproco inadempimento o una protratta tolleranza dell’altra) che può, in relazione alla particolarità del caso, attenuare il giudizio di gravità nonostante la rilevanza della prestazione mancata o ritardata”. Orbene, considerando l’oggetto del contratto stipulato tra fornitore e ricorrente ed i documenti versati in atti, deve rilevarsi che il fornitore non ha dato alcuna prova di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione, al fine di contrastare la prova offerta dalla ricorrente con riguardo al pregiudizio subito. Sotto questa luce, l’inadempimento del fornitore appare integrare il carattere di non scarsa importanza, previsto dall’art. 1455 cod. civ. La Decisione N. 2111 del 08 aprile 2014 del collegio di Milano, si rileva che: Fra le norme sottratte al potere dispositivo dell’autonomia privata rientrano certamente gli art. 120-bis e 125-quater, comma 1, T.U.B., che accordano al consumatore il diritto di recedere dal contratto senza penali né spese (tranne quelle che l’intermediario provi di avere sostenuto per fornire un servizio aggiuntivo, richiesto dallo stesso cliente). A parere del Collegio l’espressione “né penali né spese” ha un senso più ampio di quello che si attribuisce alla clausola penale ex art. 1382 c.c. o alla caparra penitenziale ex art. 1386 c.c.. Tale disposizione deve collegarsi in linea sistematica a tutte le norme che vietano l’applicazione di oneri economici per il mero esercizio del diritto di recesso in difetto di un concreto sinallagma rispetto a prestazioni o servizi effettivamente resi al cliente. Ne discende un principio generale di ripetizione delle somme corrisposte dal cliente e non giustificate da una controprestazione effettiva. La Decisione N. 1333 del 06 marzo 2014 del Collegio di Milano, in relazione ad un credito al consumo finalizzato (mutuo di scopo), premesso che: È dato ormai pacifico, sia in dottrina sia in giurisprudenza, che sussista un collegamento negoziale tra il contratto di finanziamento e il contratto di vendita del bene al mutuatario, con la conseguenza che i due distinti contratti (mutuo e compravendita), pur mantenendo la loro autonomia causale, appaiono tra loro coordinati al fine di realizzare un risultato economico unitario. Ora, nel caso di specie, non può dubitarsi che ricorra il collegamento negoziale tra il contratto di fornitura di servizi ed il contratto di finanziamento, essendo pacifico che il secondo è stato proposto dal fornitore di servizi ed accettato dalla ricorrente in occasione della stipulazione del contratto di fornitura. Né può avere particolare rilievo che il rapporto tra il fornitore e il finanziatore fosse o meno “esclusivo”, in quanto, come già si è avuto modo di rilevare in altre occasioni, partendo dalla considerazione che la direttiva 102/87/CE e la conseguente normativa interna di attuazione hanno un intento volutamente protettivo nei confronti del consumatore, deve concludersi che “il rapporto di esclusiva” tra fornitore e consumatore non può essere considerato un presupposto la cui mancanza determinerebbe una modifica in peius della posizione del consumatore, come la Sentenza della Corte di giustizia CE n. 509 del 2009 ha già chiaramente sancito. È ritenuta applicabile al caso di specie, ….  l’art. 125-quinquies (Inadempimento del fornitore) del TUB, introdotto dal Decreto Legislativo 13 agosto 2010, n. 141 – Attuazione della direttiva 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori, nonché modifiche del titolo VI del testo unico bancario (decreto legislativo n. 385 del 1993) in merito alla disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario, degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi, pubblicato sulla G.U. n. 207 del 4.9.2010 ed in vigore dal 19.9.2010. Secondo quanto dispone il menzionato art. 125-quinquies del TUB, infatti, “Nei contratti di credito collegati, in caso di inadempimento da parte del fornitore dei beni o dei servizi il consumatore, dopo aver inutilmente effettuato la costituzione in mora del fornitore, ha diritto alla risoluzione del contratto di credito, se con riferimento al contratto di fornitura di beni o servizi ricorrono le condizioni di cui all'articolo 1455 del codice civile. La risoluzione del contratto di credito comporta l'obbligo del finanziatore di rimborsare al consumatore le rate già pagate, nonché ogni altro onere eventualmente applicato. La risoluzione del contratto di credito non comporta l'obbligo del consumatore di rimborsare al finanziatore l'importo che sia stato già versato al fornitore dei beni o dei servizi. Il finanziatore ha il diritto di ripetere detto importo nei confronti del fornitore stesso […]”.

Cfr. anche Cass. Sentenze n. 1773 del 2001, n. 14034 del 01/07/2005, n. 7083 del 28/03/2006). Il collegio di Milano conclude dunque: che l’inadempimento del fornitore, integrando gli estremi della non scarsa importanza contemplati dall’art. 1455 cod. civ., determina in capo al ricorrente il diritto alla risoluzione del contratto di credito ed il conseguente obbligo del finanziatore alla restituzione delle rate già pagate, nonché di ogni altro onere eventualmente applicato, così come sancisce la normativa in materia.

[97] Bianca, Diritto Civile, vol. 4, Milano, 1990, 180 – 188.

[98] Cass. Civ. 24 febbraio 2001 n. 5913; ex multis: Cass. Civ. 29 gennaio 2003 n. 1265. Cass. Civ. 12 aprile 2011 n. 8298; Cass. 14 maggio 2003 n. 7371, cfr. nello stesso senso già Cass. 21 aprile 1999 n. 3944. Cass. Civ. 12 aprile 2011 n. 8298: una volta che la sentenza o il provvedimento abbiano acquistato efficacia esecutiva, il credito, nella somma globale liquidata dal giudice con riferimento alla data in cui il provvedimento è pronunciato, divenuto esigibile, produce interessi da sé. E siccome li produce, sino al momento in cui il credito non è estinto, in misura predeterminata, come effetto che la legge ricollega direttamente al fatto della condanna dal momento in cui diviene esecutiva, non c'è bisogno che il giudice pronunci condanna. Al pagamento di tali interessi perché essi siano da considerare non solo dovuti, ma. coperti dalla, efficacia esecutiva del titolo

[99] La caratteristica della accessorietà, trova una resistenza naturale negli articoli 983 comma 2, 1005 comma 3, 1009 comma 1, 1010 comma 3 c.c. che disciplinano gli obblighi dell’usufruttuario, trattano l'obbligazione di interessi calcolata rispetto ad una somma capitale, che non è un'obbligazione dell'usufruttuario: in questi casi la legge prescinde dall’esistenza di una obbligazione restitutoria principale.

[100] Scozzafava, Gli interessi dei capitali, Milano, 2001.

[101] R. Marcelli, La prescrizione nei rapporti di credito: quella del debitore per le rimesse ultradecennali e quella del creditore per le annotazioni ultraquinquennali. Il Caso.it, Articoli, pubb. 12 Gennaio 202;G. Morini, La prescrizione utilizzo extra fido: atto, fatto o negozio giuridico? Il Caso.it Pubblicato il 16/04/21 08:00 [Doc.4080].

[102] È da escludere che costituisca riconoscimento del debito accessorio, idoneo ex art. 2944 c.c. ad interrompere la prescrizione, l’intervenuto pagamento del debito capitale in quanto interessi legali e rivalutazione monetaria, pur costituendo parte integrante e componenti essenziali del credito base pagato con ritardo, conservano tuttavia la loro autonomia causale; il che porta a escludere che dall’avvenuto pagamento della sorte capitale possa desumersi la sicura intenzione del solvens di riconoscere il proprio debito anche per la parte accessoria (TAR Puglia, Sez. I, 21 marzo 2003 n. 1352).

[103] Libertini, voce Interessi, Enc. Del Diritto, vol. XXII, Milano, 1972.

[104] Cass. Civ. 14 marzo 2007 n. 5954; Cass. Civ. 2 ottobre 1980 n. 5343.

[105] Cass. Civ. 27 novembre 2009 n. 25047.

[106] Ex multis: Cass. civ., sez. 5, sent. 14 marzo 2007, n. 5954; Cass. civ., sez. 2, sent. 30 marzo 2001, n. 4704.

[107] Cass. Civ. 30 dicembre 1997 n. 13097

[108] LIBERTINI, op. cit., 136.

[109] FRAGALI, Del mutuo, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca, 1966

[110] V. FARINA, Interessi, finanziamento e piano di ammortamento alla francese: un rapporto problematico, in I Contratti, I, 2019, n. 4.

[111] Trib. Roma, 29.05.1981.

[112] M. DE FELICE, F. MORICONI, La teoria dell'immunizzazione Inanziaria: Modelli e strategie, Il Mulino, Bologna, 1991, cap. 3 e 4; F. CACCIAFESTA, Lezioni di matematica Inanziaria classica e moderna, Giappichelli, Torino, terza ed.,1997, cap. 10.

[113] Il Teorema di Fisher-Weil non garantisce l'immunizzazione di portafogli formati anche da componenti liquidi (denaro)

[114] L’accessorietà dell'obbligazione di interessi, si riflette inevitabilmente sul piano processuale in primo luogo in merito alla necessità o meno di una domanda espressa relativa agli interessi e secondo luogo l'ammissibilità di un'azione separata relativa ai soli interessi.  Dalla giurisprudenza è possibile rilevare due corollari dell’autonomia delle obbligazioni: l’uno è il principio processuale per cui il pagamento degli interessi deve formare oggetto di apposita domanda che deve necessariamente indicare sia il titolo che la misura del credito, quindi che gli interessi siano corrispettivi  o compensativi, hanno fondamento autonomo rispetto al debito al quale accedono sicché possono essere attribuiti solo su espressa domanda della parte interessata, contrariamente a quanto avviene nell'ipotesi di somma di danaro dovuta a titolo di risarcimento del danno di cui essi integrano una componente necessaria, L'autonomia della domanda comporta che la decisione in merito al debito degli interessi è altrettanto autonoma soprattutto quando il giudice ne abbia determinato il tasso e la decorrenza iniziale e finale, fissandone, in tal modo, anche l'entità quantitativa, la cui determinazione ha solo bisogno di una operazione di calcolo (Cass. Civ. Sez. II, 25 novembre 2005, n. 24858; ex multis: Cass. Civ. 12 ottobre 1979 n. 5333; Cass. Civ. sez. II  30 luglio 1983 n. 5242; Cass. Civ. 9 febbraio 1993 n. 1561. Principio ribadito da Cass. Civ. 18 gennaio 2007 n. 1087).Il principio esposto, non si applica tuttavia, all’ipotesi di interessi dovuti su una somma a titolo risarcitorio in quanto, gli interessi, oltre ad essere una componente del danno stesso, poiché trovano la loro fonte nel medesimo fatto generatore dell’obbligazione risarcitoria,  nell'ipotesi di somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, gli interessi costituiscono una componente del danno stesso e nascono dal medesimo fatto generatore dell'obbligazione risarcitoria; possono essere perciò attribuiti al danneggiato anche senza una sua espressa domanda. Nel caso in cui sia dedotta in obbligazione una somma di danaro, gli interessi hanno fondamento autonomo; possono perciò essere attribuiti solo su espressa domanda di parte, che ne indichi la fonte e la misura (Cass. Civ. 13 febbraio 1982 n. 894; ex multis Cass. Civ. sez. III  16 luglio 2003 n. 11151). Inoltre gli interessi, qualora la fonte dell’obbligazione sia il risarcimento, hanno la funzione di scongiurare il pregiudizio che deriva al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente monetario del danno: Infatti quando il credito è di valore, gli interessi, mirando a scongiurare il pregiudizio che deriva al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente monetario del danno, costituiscono una componente del danno stesso e nascono dal medesimo fatto generatore dell'obbligazione risarcitoria, contemporaneamente e inscindibilmente; in tutti gli altri casi, invece, gli interessi, siano essi moratori, corrispettivi o compensativi, avendo un fondamento autonomo rispetto a quello dell'obbligazione pecuniaria, possono essere attribuiti solo su espressa domanda dell'avente diritto (Cass. Civ. 4 febbraio 1999 n. 977; ex multis: Cass. Civ. sez. II, 12 ottobre 1979 n. 5333; sez. II, 30 luglio 1983 n. 5242; sez. II, 28 giugno 1989 n. 3154). Trattandosi di debito di valore, l’adeguamento dell’effettivo valore monetario al momento della decisione non esige alcuna richiesta specifica della parte essendo dunque rilevabile e concessa d’ufficio; sulla somma liquidata potranno poi essere riconosciuti gli interessi compensativi, che come detto sono componenti del danno anche in assenza di domanda. L’obbligazione del risarcimento del danno da fatto illecito integra un debito di valore, in quanto tenuto alla reintegrazione del patrimonio della parte lesa nella situazione in cui si sarebbe trovata se non si fosse verificato l'evento dannoso con la conseguenza che l'adeguamento dell'effettivo valore monetario al momento della decisione non esige alcuna richiesta specifica della parte potendo essere accordato anche di ufficio. Sulla somma come liquidata vanno, poi, accordati gli interessi compensativi che costituiscono una componente della obbligazione risarcitoria accordabili, anche in assenza di espressa domanda, sulla somma via via rivalutata (Cass. Civ. 6 novembre 1998 n. 11190. Ex multis: Cass. Civ. 8717-96, 3072-95). L’altro corollario attiene al principio processuale della improponibilità della domanda di pagamento degli interessi, per la prima volta in appello. Principio che non si estende alla richiesta di pagamento degli interessi per il periodo successivo alla sentenza di primo grado – art. 345 cpc. Sul se è possibile domandare gli interessi, frutti e accessori maturati dopo la sentenza impugnata, oltre il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza, la giurisprudenza di legittimità non ha assunto da subito una posizione univoca per quanto concerne i presupposti e le condizioni che debbono ricorrere per l'applicazione della disposizione derogatoria della seconda parte del co. 1 dell'art. 345 c.p.c.  Secondo l’indirizzo maggioritario, la domanda proposta in appello dal creditore intesa ad ottenere gli interessi, i frutti e gli accessori in generale, maturati dopo l'impugnata sentenza di primo grado, oltre il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza, è ammissibile esclusivamente se nel giudizio di primo grado sia stata dal creditore spiegata una domanda analoga per interessi, frutti ed accessori, maturati in precedenza, ovvero per i danni sofferti anteriormente alla sentenza di primo grado (Cass. 16.9.1992 n. 10597; 26.6.1990 n. 6466; 5.4.1990 n. 2801; 13.7.1988 n. 6775, relativamente agli interessi tra deliberazione e deposito della sentenza di primo grado; 27.6.1985 n. 3853; 28.7.1983 n. 5205; 18.1.1982 n. 329; 26.3.1981 n. 1772; 3.10.1979 n. 5070). Un secondo indirizzo, emerso in particolare intorno agli anni novanta, basandosi sul carattere derogatorio della disposizione, sosteneva che la domanda di interessi, frutti ed accessori maturati dopo l'impugnata sentenza di prime cure, ovvero di risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa, è ammissibile anche nel caso in cui nel giudizio di primo grado non sia stata dal creditore spiegata un’analoga domanda per gli interessi o i danni sofferti in precedenza (Cass. 18.11.1994 n. 9763; 12.5.1992 n. 5641; 26.4.1990 n. 3483; 29.6.1989 n. 3154). La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza del 11 marzo 1996 n. 1955 ha chiarito che la deroga a proporre domande nuove in appello si basa sulla natura accessoria delle domande che possono essere proposte dopo la sentenza impugnata, in quanto costituiscono lo sviluppo logico e cronologico, la continuazione anche implicita delle domande originariamente proposte. Più di recente la Corte di Cassazione ha ribadito che si ritiene inammissibile la domanda con cui si chieda per la prima volta in appello l'attribuzione di interessi non richiesti in primo grado; ciò in quanto può ritenersi ammissibile la deroga al divieto del novum in secondo grado, coerentemente con la ratio giustificativa della stessa (fondata su profili equitativi e di economia dei giudizi, per consentire al creditore di evitare ulteriori spese per la proposizione di una nuova causa per gli interessi sorti dopo la sentenza di primo grado), solo in quanto non si tratti di una domanda totalmente nuova. La deroga è pertanto consentita unicamente con riferimento ad interessi che non avrebbero potuto essere precedentemente richiesti. Inammissibili sono, poi, il primo motivo del ricorso principale e l'unico motivo del ricorso incidentale (Cass. Civ. Sez. I, 2 febbraio 2006 n. 2331). La giurisprudenza chiarisce inoltre che la rivalutazione monetaria e gli interessi possono essere riconosciuti dal giudice anche d'ufficio ed in grado d'appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi nello originario "petitum" della domanda risarcitoria ove non ne siano stati espressamente esclusi (Cass. Civ. 2 dicembre 1998 n. 12234).  Gli interessi (compensativi) applicati sulla somma liquidata a titolo di risarcimento danni che, in quanto debito di valore, operano dunque di diritto concorrendo con la rivalutazione monetaria in modo da compensare la svalutazione verificatasi fino alla decisione, poiché solo in questo modo può essere conseguita la reintegrazione del danneggiato nella situazione, in cui si sarebbe trovato, se l'evento dannoso non si fosse verificato (Cass. Civ. 27 marzo 1997 n. 2745; cfr. Cass. 16.3.1995, 3072; Cass. 1.2.1995, 3072; Cass. 1.2.1995, 1136). Deve essere segnalato altro orientamento che afferma che gli interessi moratori e corrispettivi, da un lato, e gli interessi compensativi, dall'altro, hanno un diverso regime processuale. Infatti mentre gli interessi moratori e corrispettivi possono essere attribuiti soltanto se la parte li domanda, gli altri debbono essere riconosciuti anche di ufficio, essendo la loro richiesta implicita nella domanda di integrale risarcimento del danno. Tale orientamento puntualizza inoltre, che incorre nel vizio di ultrapetita il giudice dell'appello il quale liquidi gli interessi compensativi, nell'ipotesi in cui non sia stato proposto motivo di gravame contro la sentenza di primo grado che abbia omesso tale liquidazione (Cass. Civ. 10 ottobre 1979 n. 5260). Con sentenza del 18 marzo 2010 n. 6538 la Corte di cassazione a Sezioni Unite, ha ribadito (Sentenza confermata da Cass. Civ. 24 novembre 2010 n. 23843) che: a) che gli interessi sulla somma da restituirsi da parte del soccombente decorrono dalla data della domanda giudiziale e che il risarcimento del maggior danno conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma di denaro oggetto della revocatoria spetta solo ove l'attore alleghi specificamente tale danno e dimostri di averlo subito (Ex Multis: Cass. 14896/2009; 6991/2007; 887/2006; Sez. Un. 437/2000);  b) che fuori dell'ipotesi di interessi su una somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, i quali ne integrano una componente nascente dal medesimo fatto generatore, gli interessi stessi, siano moratori, corrispettivi o compensativi, hanno un fondamento autonomo rispetto all'obbligazione pecuniaria cui accedono; e, pertanto, possono essere attribuiti solo su espressa domanda della parte, che ne indichi la fonte e la misura, in applicazione dei principi previsti negli artt. 99 e 112 c.p.c.(Cass. 4423/2004); c) che la relativa domanda non può essere avanzata per la prima volta nella comparsa conclusionale; e che non può neppure ipotizzarsi un'accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, consentito soltanto fino al momento della rimessione della causa al collegio per la discussione.

[115] G. Morini, Autonomia contrattuale: i confini delineati dalla giurisprudenza Articolo, 29/07/2015 https://www.altalex.com/documents/news/2015/09/16/i-confini-dell-autonomia-contrattuale

[116] G. Morini, Abuso del diritto: i recenti orientamenti giurisprudenziali, Articolo, 06/10/2015  https://www.altalex.com/documents/news/2015/09/29/abuso-del-diritto

[117] G. Morini, IL CASO.it, Estinzione anticipata del finanziamento: l'ammortamento alla francese deve fare i conti con la sentenza "Lexitor" Pubblicato il 30/03/21 08:00 [Doc.4073] https://opinioni.ilcaso.it/opinione/4073/30-03-21/Estinzione-anticipata-del-finanziamento-lammortamento-alla-francese-deve-fare-i-conti-con-la-sentenza-Lexitor

[118] G. Morini, IL CASO.it Ammortamento alla francese: l'altra faccia della medaglia. Il capitale. Pubblicato il 23/03/21 08:00 [Doc.4071],

https://opinioni.ilcaso.it/opinione/4071/23-03-21/Ammortamento-alla-francese-laltra-faccia-della-medaglia-Il-capitale

[119] La ragione fondamentale individuata dai Giudici è: …. fondato sull'osservazione che l'esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 cod. civ.). …… In proposito è sufficiente ricordare ciò che accade in tema di nullità del contratto, che il giudice può dichiarare d'ufficio purché risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima (Cass. n. 4062/87), senza che per l'accertamento della nullità occorrano indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/86, 4955/85, 985/81), e più di recente Cass. n. 1552/04, secondo cui «La rilevabilità d'ufficio della nullità di un contratto prevista dall'art. 1421 cod. civ. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare "ex actis", ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante su di essa», nonché da ultimo Cass. sez. un. 4 novembre 2004 n. 21095.

[120] D. Provenzano, Alla ricerca di una sintesi tra matematica e diritto nell’analisi del fenomeno anatocistico nel contratto di mutuo con ammortamento alla francese stilato secondo il regime finanziario della capitalizzazione composta. (nota a Trib. Torino 30 maggio 2019). Il CASO.IT Pubblicato il 21/11/19 02:00 [Articolo 833].

[121] La Corte prosegue ricordando che: Vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di una disposizione di legge che ne limita l'autonomia e che sostituisce alla volontà delle parti quella della legge (in tali casi l'accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto dalla legge, non viene dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione automatica della disciplina legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non è possibile perché non può essere determinata in anticipo la prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per evitare che le parti utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo che l'ordinamento non consente ovvero non ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che non solo sia eccessiva, ma che lo sia «manifestamente», ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria determinazione, per effetto del parziale adempimento dell'obbligazione.

[122] Anche prima dell’intervento delle Sezioni Unite la Cass. 24 aprile 1980 n. 2749, pur non accogliendo la tesi della rilevabilità d’ufficio, affermava che il potere conferito al giudice dall'art. 1384 cod. civ. di ridurre la penale manifestamente eccessiva è fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riducendolo nei limiti in cui opera il riconoscimento di essa, mediante l'esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un congruo contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l'interesse del creditore all'adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell'effettiva incidenza di esso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale.

[123] Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476

[124] A tal fine individua gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto che sono:

1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;

2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;

3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extra giuridico;

4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

[125] È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

[126] Principio ribadito in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838.

[127] Cass. 12.12.2005 n. 27387.

[128] F. DI MARZIO, Teoria dell’abuso e contratti del consumatore, pag., 701 ss.

[129] Scialoja – Branca – Galgano, op. cit. pag. 1518

[130] La Sentenza n. 103 del 1989 della Corte Costituzionaleafferma: risulta notevolmente diminuito lo ius variandi del datore di lavoro, mentre proprio in virtù del precetto costituzionale di cui all'art. 41 Cost., il potere di iniziativa economica dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento ed in specie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.

[131] Di rilievo appare il contenuto attribuito da Rescigno, alla «Trasparenza» bancaria, che ritiene essere diritto «comune» dei contratti: «. . . le regole sulla trasparenza bancaria si collocano nell’area delle norme di tutela del contraente debole, quale è per definizione il cliente della banca» (Banca, borsa, ecc., 1990, I, 298, spec. 301). È il d.d.l. presentato dall’on. Minervini (il n. 3617 del 24 marzo 1986) a tener conto dei principi informatori della direttiva del consiglio delle Comunità europee n. 87/102 del 22 novembre 1986, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo. Successivamente con disegno n. 467 del 2 luglio 1987 d’iniziativa dell’on. Piro, del disegno n. 520 presentato in pari data ed avente come primo firmatario l’on. Visco, del disegno n. 627 presentato in data 7 luglio 1987 (primo firmatario l’on. Fiandrotti), del disegno n. 698 presentato in data 9 luglio 1987 (primo firmatario l’on. Tassi) e del disegno n. 2798 presentato in data 2 giugno 1988 (primo firmatario l’on. Bordato). Tutti i citati lavori parlamentari hanno portato al varo della legge n. 154 del 17 febbraio 1992 (Le leggi, 1992, I, 836), volta alla disciplina della trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Da precisarsi che la direttiva era stata recepita dal nostro legislatore con l. 19 luglio 1992 n. 142, agli art. 18 ss.; in precedenza, per l’attuazione della direttiva, era stata presentata il 14 luglio 1988 una proposta di legge (la n. 3015 avente come primo firmatario l’on. Bellocchio). Per «trasparenza» va intesa la «. . . conoscibilità, da parte del consumatore, dei termini dell’operazione» (Banca, borsa, ecc., 1990, I, 298, spec. 301). Da un lato sta l’esigenza del singolo contraente di poter sapere quali oneri o quali benefici si connettono all’effettuazione dell’operazione bancaria che lo concerne, dall’altro v’è quella di accertarsi che tali oneri o benefici si collochino in sintonia con il trattamento praticato ad altri contraenti in situazioni analoghe. In questa seconda direzione si affermerebbe l’esistenza di un obbligo di parità di trattamento a carico del sistema bancario: al riguardo un supporto normativo potrebbe rinvenirsi nell’art. 8 l. n. 64 del 1° marzo 1986 sull’intervento straordinario del Mezzogiorno (c.d. emendamento Minervini) che fa obbligo alle aziende e agli istituti di credito di «praticare in tutte le proprie sedi principali e secondarie, filiali, agenzie e dipendenze, per ciascun tipo di operazione bancaria principale o accessoria, tassi e condizioni uniformi, assicurando integrale parità di trattamento nei confronti dei clienti della stessa azienda o istituto, a parità di condizioni soggettive dei clienti, ma esclusa, in ogni caso, la rilevanza della loro località di insediamento e della sfera di operatività territoriale» (MARTORANO, op. cit., 702, SALANITRO, Tassi e condizioni nei contratti bancari: vincoli di trasparenza e di uniformità, in Banca, borsa, ecc., 1989, I, 489; NIVARRA, La banca fra obblighi di contrarre e regole di trasparenza, in Contratto e impresa, 1988, 145, spec. 150 ss). La ratio di questa norma è quella di evitare ingiustificate disparità soggettive di trattamento nei confronti della clientela bancaria, segnatamente quella del meridione del nostro paese, che può vedersi gravata di condizioni più onerose (sul versante del costo del denaro) o meno vantaggiose (dal lato della remunerazione dei depositi) di quelle fissate per gli utenti di tali servizi collocati in altre aree geografiche (BUSSOLETTI, Norme e progetti in tema di parità di trattamento e trasparenza nelle operazioni bancarie, in Dir. banc., 1989, I, 229, spec. 231 ss.). Non facile però si è rivelato il compito di interpretare e di dare attuazione a questa norma: dubbi sono sorti con riferimento all’individuazione dei rapporti sui quali è destinato ad incidere l’obbligo sancito dalla legge, al contenuto dell’obbligo stesso e, soprattutto, in ordine alla concreta operatività del meccanismo dell’obbligo di praticare tassi e condizioni uniformi in certi tipi di operazioni bancarie, quali i contratti di concessione di credito, la cui onerosità è connessa, non solo alle situazioni di mercato, ma anche al grado di rischiosità delle singole fattispecie. Una lacuna è stata altresì rilevata nella omessa sanzione della violazione, da parte dell’ente creditizio, dell’obbligo imposto dall’art. 8 (A. NIGRO, Operazioni bancarie e parità di trattamento, in Dir. banc., 1987, I, 3, spec. 11 e 17; CASTALDI, Trasparenza delle condizioni di finanziamento nei rapporti di credito al consumo, in La disciplina comunitaria del credito al consumo a cura di CAPRIGLIONE, in Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, 1987, n. 15, 90, spec. 92. ). Relativamente alla disciplina interna del credito al consumo, va segnalato, inoltre, che con il d.lgs. 63/00 (Le leggi, 2000, I, 1062, emanato in virtù della delega conferita dalla l. 25/99 [legge comunitaria 1998]), è stata data attuazione alla direttiva 98/7/Ce, che modifica la direttiva 87/102/Cee, demandando al comitato interministeriale per il credito e il risparmio il compito di provvedere ai necessari adeguamenti della normativa italiana, con particolare riguardo alla previsione di indicare il tasso annuo effettivo globale (Taeg) mediante un esempio tipico (Corte Di Giustizia Delle Comunità Europee; sezione V; sentenza, 23-03-2000, n. causa C-208/98). Immediatamente dopo l’entrata in vigore della l. n. 64 del 1986, è stata presentata la proposta di legge Minervini, contenente norme sulla «trasparenza» nelle operazioni bancarie, che, come si è detto precedentemente, ha aperto la via alla promulgazione della nuova legge, sia pure attraverso un iter durato quasi sei anni. Il progetto Minervini riguardava sia le operazioni bancarie principali, attive e passive, sia quelle accessorie, e conteneva, nella parte conclusiva, disposizioni finali e comuni con le quali si imponevano alle banche obblighi di pubblicità e di informazione per determinati servizi resi. Al d.d.l. Minervini, che si segnalava per la sua forte incisività, in quanto abbinava all’obiettivo dell’informazione quello dell’intervento autoritativo del legislatore in materia di tassi ed altre condizioni bancarie, faceva seguito un d.d.l. di fonte governativa dai contenuti normativi più attenuati rispetto al precedente progetto per la tutela del «contraente debole» nel rapporto bancario. Nessuno dei due disegni di legge aveva un seguito ma, nello stesso tempo, interveniva la direttiva Cee sopracitata, il cui fine era quello di favorire la creazione di una disciplina uniforme del credito al consumo, alla quale gli Stati membri avrebbero dovuto adeguarsi entro il 1° gennaio 1990. Tale direttiva prevedeva, in particolare, per quanto attiene al profilo dell’informazione del consumatore sulle effettive condizioni dell’operazione, l’adozione della forma scritta per i contratti di credito, l’indicazione in essi del tasso annuo effettivo globale e delle modalità secondo cui detto tasso potesse essere variato (TIDU, La direttiva comunitaria sul credito al consumo e inadempimento dell’obbligazione contrattuale, in Quadrimestre, 1987, 289). Successivamente, all’inizio della legislatura che si è appena conclusa, venivano presentati i nuovi progetti di legge sopra menzionati e, mentre questi erano in discussione, gli istituti di credito aderenti all’Albi davano vita (il 30 novembre 1988) all’accordo interbancario per «la pubblicità e la trasparenza delle condizioni praticate alla clientela» (Il testo è pubblicato in Dir. banc., 1989, II, 229. Per un commento v. PORZIO, L’accordo interbancario sulla trasparenza, id., 1990,374.). L’intesa si sostanziava in una forma di autodisciplina delle aziende sottoscrittrici, riferita a obblighi di informazione – assolti tramite esposizione di avvisi nelle relative dipendenze recanti le condizioni praticate per le principali operazioni bancarie –, di adozione di un unico metodo di calcolo degli interessi, di impostazione uniforme degli estratti conto nonché di comunicazione alla clientela di ogni variazione dei tassi praticati, sia per operazioni attive che passive. I limiti derivanti dalla natura volontaristica dell’accordo e dall’insufficienza dei contenuti dello stesso hanno indotto il legislatore ad intervenire ugualmente per disciplinare la materia. Occorreva individuare una soluzione che componesse «. . . la cogenza del quadro normativo con l’esercizio dell’autodisciplina da parte del sistema bancario . . .».

[132] RESCIGNO, voce Contratto, in Enc. giur., IX, Roma, 1988, p. 10 ss.; Corte cost., 11 febbraio 1988, n. 159; PACE, Libertà « del » mercato e « nel » mercato, in Pol. dir., 1993, p. 327 ss.. Diversamente, è espressa come nella Costituzione di Weimar (art. 152), e implicitamente nella Costituzione di Bonn (art. 2, Abs. 1)

[133] Cerri, Doveri Pubblici, in Enc. Giur., XII, Torino, 1989

[134] Alpa, Solidarietà, Nuova Giur. Comm., 1994, pag. 365.

[135] Nella sentenza della Corte Cost. 75/1992 si legge: Esso è, in altre parole, la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale, per il quale la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un'autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa. Si tratta di un principio che, comportando l'originaria connotazione dell'uomo uti socius, è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell'ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell'uomo, dall'art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente. Della natura di tali diritti fondamentali il volontariato partecipa: e vi partecipa come istanza dialettica volta al superamento del limite atomistico della libertà individuale, nel senso che di tale libertà è una manifestazione che conduce il singolo sulla via della costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra gli uomini, al di là di vincoli derivanti da doveri pubblici o da comandi dell'autorità.

[136] Queste sono: la libertà di matrimonio, libertà di associazione garantite dagli artt. 18 e 29, ai quali va aggiunto l’art. 39, sulla  libertà sindacale, sia come libertà individuale dei lavoratori e dei datori di lavoro di associarsi per la tutela dei rispettivi interessi professionali collettivi, sia come libertà del sindacato di darsi uno statuto, nel rispetto  del requisito di democraticità interna, sia infine come libertà di azione sindacale, tra le cui forme primeggia  la contrattazione collettiva delle condizioni di lavoro.

[137] Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, l'autonomia contrattuale dei singoli è tutelata a livello di Costituzione solo indirettamente, in quanto strumento di esercizio di libertà costituzionalmente garantite (Corte cost., 30 giugno 1994, n. 268).

[138] L’Italia ha adottato una disciplina antitrust soltanto nel 1990.

[139] L’orientamento ideologico dominante nell’Assemblea costituente eletta nel 1946 non era in senso liberistico.

[140] All'art. 41 della Costituzione è riconducibile all'art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea intitolato alla libertà d'impresa. Entrambe le disposizioni, garantiscono la libertà degli individui di avviare e svolgere attività economiche in un'economia di mercato libera e concorrenziale.

[141] Cass. SSUU N. 14828 del 4 settembre 2012

[142] Prosegue la sentenza: Il potere del giudice di rilevare la nullità, anche in tali casi, è essenziale al perseguimento di interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l'uguaglianza quantomeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.: si pensi alla disciplina antitrust, alle norme sulla subfornitura che sanzionano con la nullità i contratti stipulati con abuso di dipendenza economica, alle disposizioni sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, che stabiliscono la nullità di ogni accordo sulla data del pagamento che risulti gravemente iniquo in danno del creditore, ex D. Lgs. n. 231 del 2002), poiché lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell'autonomia negoziale, ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese. La pretesa contraddizione fra legittimazione riservata e rilevabilità d'ufficio risulta soltanto apparente, se l'analisi resta circoscritta al profilo della rilevazione della causa di nullità.

[143] «dall’art. 41, comma 2, non discende un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare quella astratta tutela» Cass., Sez. un., 29 maggio 1993, n. 6031. La massima è consolidata: cfr. pure Cass., Sez. un., 1ottobre 1993, n. 9801; Cass., Sez. un., 17 maggio 1996, n. 4570.

[144] Conclude la sentenza che: "è demandato al giudice l'accertamento e il controllo dell'inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi in base alle mansioni effettivamente svolte, con osservanza della regolamentazione apprestata sia dalla legge, sia dalla contrattazione collettiva ed aziendale, e con il rispetto dei richiamati precetti costituzionali e dei principi posti in via generale dall'ordinamento giuridico vigente, ispirato, come si è detto, anche ai principi contenuti nelle convenzioni e negli atti internazionali regolarmente ratificati. Il giudice deve provvedere alle necessarie verifiche ed ha il potere di correggere eventuali errori, più o meno volontari, perché il lavoratore riceva l'inquadramento che gli spetta nella categoria o nel livello cui ha diritto". Nella Carta Costituzionale è rinvenibili una norma, l’art. 47, che recita: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.”. I primi commentatori attribuirono all’art. 47 la cristallizzazione nella Costituzione della Legge Bancaria del 1936-38, sopravvissuta al crollo del regime: leggendo il commento di Massimo Severo Giannini l’art. 47 è “un’enunciativa generica dei principi della legge bancaria”. La citata interpretazione, che ha mantenuto ancora molti sostenitori ha avuto una evoluzione al livello di Costituzione materiale rinvenibile nella giurisprudenza costituzionale. In particolare, quanto all’incoraggiamento e tutela del risparmio in tutte le sue forme è da annotare la seguente giurisprudenza della Corte Costituzionale: sent. 29/1975 che circoscrive l’ambito operativo del precetto a “principio politico cui dovrà ispirarsi la futura normativa”; sent.  143/1982 in cui si legge “principio programmatico al quale deve ispirarsi il legislatore ordinario” (ex plurimis: Corte Cost. 143/1995; 126/79; 143/1982; 60/1980; 29/2002). Quanto al precetto Tutela del credito la Corte Costituzionale ha ritenuto l’art. 47 fondamento dell’interesse pubblico al normale e regolare esercizio del credito tanto da quanto da ritenere il reato di aggiotaggio bancario più grave del reato di aggiotaggio comune (Corte Cost.  73/1983). Sulla tutela del risparmio popolare   la Corte Cost. con sentenza 66/1965 rileva che: “… Secondo l'ordinanza, la legge istitutiva dell'E.N.E.L. ed i successivi decreti presidenziali non hanno tutelato l'investimento che i risparmiatori hanno fatto nelle azioni elettriche, perché hanno scoraggiato il risparmio nella formazione dei capitali azionari e perché hanno trasformato gli azionisti in obbligazionisti, cioè in semplici creditori estranei alla gestione sociale. Se con questa censura si volesse sostenere che il Parlamento non potrebbe mai applicare l'art. 43 della Costituzione tutte le volte in cui si tratti di imprese con capitale azionario, la tesi sarebbe manifestamente arbitraria. Un divieto di tal genere non è desumibile dall'art. 47 sotto nessun aspetto, né esegetico, né storico, né sistematico. …”. Anche la giurisprudenza ordinaria si è in più occasioni pronunciata sul ruolo della banca d’Italia e delle banche in generale. Fondamentali sono i passaggi storici che hanno attribuito al sistema bancario funzione pubblicistica. Prima tra tutte la Cass. SS.UU. 21.10.1952 n. 3042 che per prima definisce la Banca Centrale ente di diritto pubblico ed afferma la sua funzione nell’interesse generale per l’economia dello stato”. Anche la Cass. SS.UU. 5.03.1979 n. 1353, da un lato riconosce alla banca d’Italia funzioni pubbliche nel settore valutario e dall’altro una funzione pubblicistica di “attività di direzione e vigilanza nel settore creditizio e di regolamentazione del mercato monetario e della circolazione monetaria, fra cui preminente quello di difesa del valore internazionale e interno della moneta e la polizia della valuta”. Negli anni ’80 la Cassazione definirà pubblico servizio “ogni attività “Ogni attività bancaria, essendo volta alla raccolta del risparmio e all'esercizio del credito, è contrassegnata da un interesse pubblico immanente in virtù del quale essa è inserita in un'organizzazione unitaria del relativo settore economico, costituita, regolata, diretta e controllata da pubblici poteri anche per la realizzazione di pubbliche finalità e pertanto essa acquista la qualità di servizio pubblico in senso oggettivo, valevole, ai sensi dell'art. 358 n. 2 c.p., per la qualificazione dei soggetti privati legittimati a compierla come incaricati di servizio pubblico; con la conseguenza che essi, quando si appropriano di denaro, di cose mobili appartenenti a un'azienda o un istituto di credito privati, rispondono di malversazione, mentre rispondono di peculato se l'attività bancaria sia svolta da un ente pubblico. “(Cass. SS.UU. 10.10.1981). Gli anni 1987 e 1989 rappresentano una svolta epocale nella identificazione del ruolo del sistema bancario: Banca d’Italia, cessa di essere ente di diritto pubblico (Cass. Pen. SS.UU. 23.05.1987, coordinamento tra art. 47 e 41 Cost.); crolla la teoria del pubblico servizio e l’attività bancaria si definisce attività imprenditoriale di natura privata, in regime concorrenziale (Cass. SS.UU. 28.02.1989).

[145] In tal senso Consiglio di Stato sez. III  02 settembre 2013 n. 4364   Il meccanismo dell'eterointegrazione ha origine e trova la sua collocazione sistematica e il suo terreno d'elezione nel diritto privato, che contempla, accanto alla fonte principale dell'autonomia contrattuale, la volontà delle parti, quelle che la più autorevole dottrina civilistica ha chiamato le cc.dd. fonti eteronome da individuarsi, secondo la definizione dell'art. 1374 c.c., nella legge o, in mancanza, negli usi e nell'equità. L'autonomia privata, che certo assume un ruolo centrale e propulsivo in tutto il diritto delle obbligazioni e dei contratti, non è in altri termini fonte esclusiva e assoluta del regolamento negoziale, essendo pur essa soggetta ai limiti previsti dalla legge (e dalle altre fonti del diritto privato), sicché il regolamento negoziale, quale regola obiettiva del concreto assetto di interessi divisato dalle parti, è costituito e integrato anche da tutte quelle regole cogenti, esterne alla volontà dei contraenti ed eventualmente da questa difformi, dettate dalla legge o dalle altre fonti.

[146] Ad esempio, stabilire i limiti della disponibilità pattizia di un diritto fondamentale, come l’integrità fisica mediante atti di disposizione del proprio corpo, ovvero art. 5 c.c. e le leggi speciali; il patto di non concorrenza inserito in un contratto di lavoro o in un contratto di cessione di azienda (Artt. 2125, 2557 c.c.); il divieto di alienazione (Art. 1379 c.c.); i limiti del vincolo di subordinazione accettato dal lavoratore - l. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori). Ci sono poi dei limiti costituzionali: nel titolo III della parte I della Costituzione: artt. 36 che garantisce ai lavoratori subordinati il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa; l’art. 37 sul diritto di parità di trattamento, a parità di lavoro, delle donne e dei minori; e l’art. 40 sul diritto di sciopero. Alcune interpretazioni giurisprudenziali che riconoscono al Giudice il potere di controllo sul contenuto del contratto, ovvero di c.d.  concetto di Drittwirkung, sono rimaste isolate. Si ricorda il tentativo compiuto negli anni ’50 da una parte della giurisprudenza, di ricondurre all’art. 36 Cost., il potere di sindacare la sufficienza delle tariffe dei contratti collettivi. Il potere (da parte del Giudice) di modificare il contenuto del contratto secondo il principio di equità non è ammissibile se non nei casi espressamente previsti dalla legge.

[147] In tal senso si è espresso il Tribunale Torre Annunziata sez. II  04 settembre 2014 n. 2328 (in tal senso anche Corte Appello Napoli sez. I 29 gennaio 2014 n. 360) in relazione al potere di riduzione ad equità, ex art. 1384 c.c.: In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità ex art. 1384 c.c. è posto a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento e può essere esercitato d'ufficio per ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avviene perché l'obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest'ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.

[148] Trattandosi di sentenza interpretativa di rigetto, vincolante solo per il giudice a quo.

[149] Non è infatti contestabile che la garanzia posta nel primo comma di quest'articolo nell'ambito circoscritto dai successivi due capoversi riguarda non soltanto la fase iniziale di scelta dell'attività, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento; ed è ugualmente certo che, poiché l'autonomia contrattuale in materia commerciale è strumentale rispetto all'iniziativa economica, ogni limite posto alla prima si risolve in un limite della seconda, ed è legittimo, perciò, solo se preordinato al raggiungimento degli scopi previsti o consentiti dalla Costituzione. Ciò posto, è da rilevare che l'unico quesito dedotto nell'ordinanza riguarda la sussistenza nel presente caso di quel fine di utilità sociale che, alla stregua della richiamata norma costituzionale, condiziona il potere del legislatore ordinario. Si appalesa, pertanto, superfluo indagare, a questi limitati effetti, se la legge impugnata debba inquadrarsi nella previsione del secondo o del terzo comma dell'art. 41: si tratti, infatti, di limitazioni imposte dal secondo o di indirizzo, coordinamento e controlli consentiti dal terzo, l'utilità sociale deve pur sempre presiedere alle une ed agli altri.

[150] Non ritiene possibile la Corte una correzione del contratto volta a generalizzare il trattamento più favorevole)

[151] I diritti fondamentali, costituiscono poi strumenti ineludibili per una corretta interpretazione dei precetti normativi in materia di autonomia negoziale che sono rinvenibili:

a. nell’obbligo di correttezza tra debitore e creditore (art. 1175 c.c.), che si traduce nella collaborazione reciproca dei contraenti in ogni fase del rapporto per la salvaguardia degli interessi di ciascuna parte (art. 1206 c.c.); b. nel principio della buona fede precontrattuale, che regola il comportamento delle parti nelle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.), così come nei contratti standardizzati, ove non avviene nessuna trattativa, e nei contratti concluso da soggetti consumatori, il controllo di ragionevolezza delle condizioni che «determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» (art. 33 cod. Cons. ex art. 1469-bis c.c.); c. nel principio della buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto (artt. 1366, 1375, 1440, comma 2, c.c.); d. nelle clausole dell’ordine pubblico e del buon costume (artt. 5, 634, 1343, 1354, comma 2, 2035 c.c.), che pongono un ulteriore limite agli atti di autonomia privata.

[152] Cass. S.U. 15 novembre 2007 n. 23726; Cass. S.U. 24 novembre 2007 n. 28056; Cass. 22 gennaio 2009 n. 1618; Cass. 5 maggio 2009 n. 5348; Cass. 29 maggio 2007 n. 12644.

[153] Obblighi di correttezza, corrispondenti alle Schutzpflichten della dottrina tedesca.

[154] Cass. 18 ottobre 2004 n. 20399; 5 marzo 2009 n. 5348; 31 maggio 2010 n. 13208.

[155] Tale lettura, largamente diffusa in dottrina e giurisprudenza, ha tuttavia trovato alcune eccezioni: Occorre premettere che, nel sistema attuale, l'attività interpretativa dei contratti è legalmente guidata. Essa è conforme a diritto non già quando ricostruisce con precisione la volontà delle parti, ma quando si adegui alle regole legali. Queste, in generale, non sono norme integrative, dispositive o suppletive del contenuto del contratto; piuttosto, sono strumento di ricostruzione della comune volontà delle parti al momento della stipulazione del contratto, e, quindi, della sostanza dell'accordo, senza che la volontà pattizia possa essere integrata con elementi ad essa estranei (Cass. 26 marzo 2003, n. 6053), anche quando sia invocata la buona fede come fattore d'interpretazione del contratto. La buona fede, infatti, è fattore d'integrazione del contratto non già sul piano dell'interpretazione di questo, ma su quello della determinazione delle rispettive obbligazioni come indicato dall'art. 1375 cod. civ.; in questo senso. Cassazione civile sez. III  12 aprile 2006 n. 8619.

[156] Così, anche Cass. 20 aprile 1994, n. 3775.

[157] Cassazione civile sez. lav.  06 ottobre 2005 n. 19415; Cassazione civile sez. lav.  05 ottobre 1998 n. 9867  

[158] Nel codice del 1865 non troveremo quindi alcuna traccia dell’abuso del diritto; anzi vi fu chi definì l’abuso del diritto fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica, e ciò per le contraddizioni che non consente (M. ROTONDI, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 105 ss.). Anche nel codice civile del 1942 è rimasto assente l’espressione di un principio generale di abuso del diritto. Pur essendoci stata discussione sul punto, i codificatori, al fine di non indebolire il principio della certezza del diritto con una clausola generale come quella dell’abuso del diritto, hanno deciso di non inserire, nella stesura definitiva del Codice civile del 1942, l’art. 7 del progetto preliminare secondo il quale nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto. La questione non fu però ignorata, il legislatore ha preferito inserire nel codice vigente disposizioni specifiche con cui sanzionare l’abuso in relazione a determinate categorie di diritti: l’abuso della potestà genitoriale - art. 330; abuso dell’usufruttuario - art. 1015; abuso della cosa data in pegno da parte del creditore pignoratizio - art. 2793. Ci sono poi disposizioni di maggior portata applicativa quali l’art. 833, concernente il divieto di atti emulativi, impiegato come norma di repressione dell’abuso dei diritti reali in genere e gli artt. 1175 e 1375 che hanno consentito di disciplinare l’abuso di diritti relativi o di credito. Queste ultime norme consentono di porre un sindacato sulle scelte e sulle azioni del titolare del diritto relativo, ampliando, la buona fede, l’area della valutazione dei rapporti obbligatori.

[159] Massimo Bianca, Diritto Civile, 4 l’Obbligazione, pag. 380, 1993 Milano.

[160] Massimo Bianca, op. cit. pag. 380.

[161] Cfr. Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 20/2/2006, n. 3651. E già Cass., 5/1/1966, n. 89.

[162] R. Marcelli. Rimborso anticipato nel credito ai consumatori, Il Caso.it, Articoli, pubb. 14 Dicembre 2019.

[163] Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 20/5/2004, n. 9628.

[164] P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, pag., 13ss.; U. BRECCIA, L’abuso del diritto, in AA.VV., L’abuso del diritto, pag. 71

[165] U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 37 ss.; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 13 ss.; S. ROMANO, Abuso del diritto, in Enc. del diritto, I, Milano, 1958, 168 ss.; S. PATTI, Abuso del diritto, in Dig. Disc. Priv., Torino, 1987, 2 ss.; D. MESSINETTI, Abuso del diritto, in Enc. del diritto, Aggiorn. II, Milano,1998, 1 ss.; C. SALVI, Abuso del diritto. I) Diritto civile, in Enc. giur., I, Roma, 1988; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, Le obbligazioni e i contratti, I, Obbligazioni in generale. Contratti in generale, Padova, 1999, 143 ss

[166] (P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, pag., 13ss.; U. BRECCIA, L’abuso del diritto, in AA.VV., L’abuso del diritto, pag. 71)

[167] F. DI MARZIO, Deroga al diritto dispositivo, nullità e sostituzione di clausole del consumatore, in Contr. e impr., 2006, 704 ss.

[168] Commentario del Codice Civile e codici collegati, Scialoja – Branca – Galgano a cura di Giorgio De Nova, carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea a cura di pasquale Gianniti I diritti fondamentali nell’Unione Europea, la carta di Nizza dopo il Trattato di Lisbona, Zanichelli Roma 2013 pag. 1515.

[169] (Scialoja – Branca – Galgano, op. cit. pag. 1515).

[170] U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano.

[171] C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, pag., 85 ss.

[172] F. DI MARZIO, Abuso nella concessione del credito, Napoli, 2004, 122 ss.

[173] F. DI MARZIO, Teoria dell’abuso e contratti del consumatore, pag., 701 ss.

[174] Scialoja – Branca – Galgano, op. cit. pag. 1518.

[175] Scialoja – Branca – Galgano, op. cit. pag. 1518.

[176] Cassazione civile sez. lav.  08 luglio 1994 n. 6448 - Ex multis: Cass. 9 marzo 1991 n. 2503; Cass. 18 luglio 1989 n. 3362.

[177] Il governatore della Banca d’Italia Ciampi, in un’audizione avanti al comitato ristretto della commissione finanze della camera (29 settembre 1988), si era espresso così (v. p. 3): «. . . la conoscenza delle condizioni effettive dei rapporti bancari e la leggibilità del contenuto dei contratti stipulati con le aziende di credito restano insufficienti . . .», con particolare riferimento (p. 4) alla mancanza di specifiche regole di chiarezza per le diverse operazioni bancarie, alla predisposizione unilaterale di contratti per adesione che la controparte può solo accettare o rifiutare in blocco e al rinvio agli usi praticati sulla piazza anche per la determinazione degli aspetti negoziali economicamente più rilevanti.  È dunque il governatore che ha il merito di aver tracciato le linee essenziali della nuova normativa. All’assemblea della Cipa del 5 marzo 1992 (v. al riguardo Il Corriere della Sera del 6 marzo 1992), Il Governatore, tornava sull’argomento invitando il sistema bancario a mutare rotta in quanto «non è infrequente che la clientela lamenti la non sufficiente trasparenza nei prezzi e nelle condizioni praticate». Vedi nota 130.

[178] R. Marcelli, Ammortamento alla francese. Semplicismi e pregiudizi ostacolano l’evidenza. La sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 731 del 30 gennaio 2020. Il Caso.it, Articoli, pubb. 08 Aprile 2020.

[179] C. Spagna, De beni in generale, Il codice civile Commentato fondato da Piero Schlesinger diretto da Francesco D. Busnelli, Milano, 2015, pagg. 341.

[180] BARCELLONA, Attribuzione normativa e mercato nella teoria dei beni giuridici, in Quadrimestre, 1987, pag. 216

[181] Sono sempre parole di Barcellona, op. loc. ult. cit., che nel portare l'affermazione alle sue estreme conseguenze sottolinea come anche nel caso di riscossione anticipata, rappresentante pur sempre adempimento del credito contrattuale, sia possibile configurare un obbligo di restituzione della somma ricevuta in conseguenza dell’interruzione del godimento.

[182] C. Spagna, op. loc. ult. cit., pag. 342.


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