Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 23/12/2021 Scarica PDF

È sostenibile la perdita del diritto di credito come conseguenza del suo abusivo esercizio?

Michelangelo Ortore, Avvocato in Bolzano


Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Sintesi della sentenza della Suprema Corte (prima parte). – 3. Sintesi della sentenza della Suprema Corte (seconda parte). – 4. Analisi critica della sentenza. – 5. Contributo per una diversa soluzione del caso.

 

 

1. Il caso trattato dalla sentenza in commento (apparsa su www.ilcaso.it del 9.12.2021) è il seguente.

Un socio di una s.r.l. a base ristretta e familiare riceve in locazione dalla stessa un immobile ad uso abitativo. Per sette anni il conduttore non paga il canone di locazione e la società non agisce in alcun modo per recuperare il credito, pur appostandolo costantemente a bilancio. A causa di vicende familiari, il conduttore perde la disponibilità dell’alloggio, assegnato alla ex moglie in sede di divorzio, e anche la titolarità della quota nella società locatrice, pignorata sempre dalla ex moglie a causa del mancato pagamento degli assegni alimentari e da quest’ultima poi venduta alla nuova compagna del padre del conduttore, anch’egli socio nella s.r.l. di famiglia.

Solo a seguito del conflitto familiare insorto a seguito di tali vicende personali, la società decide di agire per il recupero in unica soluzione di tutti i canoni scaduti.

Il conduttore, nell’opporsi alla pretesa, sostiene che il rapporto di locazione dissimulava un contratto di comodato a titolo gratuito e che, comunque, il padre si era impegnato personalmente con il figlio a consentirgli il godimento gratuito dell’immobile.

Il Tribunale ha accolto (per la quasi totalità) le pretese della società locatrice, mentre la Corte d’Appello, pur riconoscendo la sussistenza di un contratto di locazione a titolo oneroso e l’assenza di remissione di debito – stante la costante appostazione del credito a bilancio – ha dato rilievo all’inerzia della creditrice, particolarmente protratta nel tempo, qualificando il repentino cambiamento di rotta e, quindi, la successiva richiesta di pagamento in unica soluzione di sette anni di canoni arretrati alla stregua di un abuso del diritto, contrario al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. I Giudici di secondo grado, quindi, hanno riconosciuto il credito della società soltanto per il periodo successivo alla richiesta di pagamento e fino alla riconsegna del bene, negandolo per quello decorrente dalla conclusione del contratto fino alla prima richiesta di pagamento, giunta a sette anni di distanza, rimanendo così assorbito anche ogni rilievo in punto prescrizione.

 

2. Con la sentenza qui in commento, la Suprema Corte ha confermato la bontà della “peculiare applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di durata” operata dai Giudici di appello, dando rilievo alla “situazione di totale quiescienza” in cui era caduto l’obbligo di pagamento dei canoni, a seguito della prolungata inerzia del creditore, foriera di un affidamento degno di tutela, in capo al conduttore moroso, di non vedersi più richiedere il pagamento dei canoni scaduti antecedentemente alla “resurrezione” dell’obbligo stesso, avvenuta con la prima richiesta di pagamento operato dalla locatrice.

Il percorso argomentativo espresso in motivazione è particolarmente articolato e, a sommesso avviso di chi scrive, ad una prima parte chiara e lineare (punti da 9. a 22.), si aggiunge una seconda parte (punti da 23. a 35.) – foriera del risultato finale – a tratti opaca, avvinta in una sequenza di affermazioni di dubbia consequenzialità sul piano logico-giuridico e, alfine, in parziale disaccordo con quanto affermato all’ultimo paragrafo (§ 22.) della “prima parte”.

La Corte, dunque, inizia con il precisare che l’interesse del debitore che va salvaguardato, “non coincide con l’interesse a non adempiere nonostante il diritto non si sia estinto per prescrizione o non sia stato rinunciato”, quanto quello della parte “a non vedersi colpita da una pretesa divenuta, nel frattempo, esorbitante”, a seguito dell’inerzia protratta in modo anomalo dal creditore.

Gli Ermellini, nel dare conto del percorso argomentativo seguito dalla Corte d’Appello, ricordano le difficoltà interpretative che ostacolano il pieno recepimento, nel nostro ordinamento, del principio di diritto tedesco della c.d. Verwirkung[1], ma aprono alla possibilità che un risultato ad esso “in quale misura approssimabile” possa essere ammesso, nei contratti a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata, nel caso si verifichi una “situazione riferibile a una contingente onerosità eccessiva”, che può derivare da fattori oggettivi - portando l’esempio dell’attuale crisi determinata dalla situazione pandemica –, ma che può ravvisarsi anche nel caso di specie, nel quale il debitore, a seguito della protratta inerzia del creditore, “si è trovato improvvisamente a dover fronteggiare una richiesta di pagamento per una somma che con il trascorrere del tempo è divenuta esorbitante rispetto alla misura periodica concordata”.

In tal senso, è la declinazione della clausola generale di buona fede nella prospettiva del divieto di abuso del diritto, che consentirebbe l’ingresso della Verwirkung nel nostro ordinamento.

Ma - ricorda la Corte, in conformità a consolidata giurisprudenza - la corretta e corrente interpretazione del principio di buona fede impone di considerare che l’obbligo di solidarietà che esso addossa all’una parte “trova tuttavia il suo limite precipuo nella misura in cui detto comportamento non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico”.

Il ritardo nell’esercizio di un diritto (nel caso di specie quello di credito), dunque, “può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, …, si traduca in un danno per la sola controparte”.

Il § 22. della sentenza chiude la “prima parte” della motivazione, considerando che, a livello di sistema, la prolungata inerzia del creditore nel tutelare il proprio diritto non si pone in termini di valutazione sotto il profilo della buona fede, quanto in termini di “di volontà del titolare di esercitare il diritto in modalità remittente rispetto alla quale poi il titolare stesso intenda effettuare a notevole distanza temporale un abusivo revirement, a parte l’ipotesi, naturalmente, che si sia nelle more maturata la prescrizione del diritto, la quale venga eccepita”.

 

3. A questo punto, la Corte passa in rassegna una serie di ipotesi – avulse dal caso concreto – nelle quali è stata ravvisata la sussistenza di un abuso del diritto (§ 23.), individuando quale tratto comune la riconducibilità dell’atto abusivo “in un ambito di conflittualità che faccia perdere di vista gli interessi regolati dal contratto”, e, quale “punto rilevante”, “quello della proporzionalità dei mezzi usati rispetto agli interessi regolati convenzionalmente” (§ 24.).

In difetto di tale contesto, che consentirebbe di ricavare una vera propria “volontà di nuocere la controparte” - salvo il ricorrere di una vera e propria rinuncia tacita, per facta concludentia (§§ 26. e 27.), da escludersi tuttavia nel caso di specie (§ 28. e, più oltre, § 33.) - non avrebbero alcuna rilevanza le personali convinzioni che il debitore possa aver tratto dall’indolenza del creditore.

Subito dopo (§ 29.), viene invece affermato che il comportamento di inerzia, ancorché non implicante rinuncia, “non può non assumere valore ai fini dell’estinzione/consumazione del diritto per il periodo de quo”, in quanto “può costituire esso stesso una violazione del principio di affidamento circa la oggettiva abdicazione”, sicché la successiva repentina richiesta di pagamento diviene esercizio abusivo del diritto (§ 31.).

Il tutto - viene rimarcato - in concomitanza con l’insorgere di una conflittualità tra le parti, esterna alla dinamica dello specifico rapporto (§§ 38., 34. e 35.).

All’esito di questo complesso percorso argomentativo, la Suprema Corte ha formulato il seguente principio di diritto (§ 36.):

il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. legittima in punto di diritto l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del neminem laedere; ne consegue che in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto”.

 

4. Come anticipato, mentre la prima parte della motivazione appare impeccabile e rispettosa dei consolidati principi interpretativi in materia di buona fede nell’esecuzione del contratto, la seconda parte – oltre ad includere alcune contraddizioni argomentative già sopra evidenziate - apre ad una connotazione soggettivistica della buona fede c.d. oggettiva, senza tuttavia considerarne i limiti, e, soprattutto, conduce ad un risultato che pone seri dubbi di sostenibilità, in termini di giustizia sostanziale del caso concreto, e sul quale si intende concentrare la presente nota critica.

Il risultato è il seguente: il locatore-creditore, pur non avendo rimesso il debito (neppure tacitamente) e anche per il periodo in cui non è maturata la prescrizione, perde il proprio diritto di credito per aver troppo indugiato a pretenderlo, prevalendo l’interesse del conduttore-debitore a non vedersi escusso tardivamente e in unica soluzione, stante l’evidente maggiore onerosità della pretesa simultanea, rispetto al graduale maturare delle scadenze di pagamento lasciate inevase.

Per giungere a tale drastica conseguenza, ha precisato la Corte, non è sufficiente una inerzia prolungata da parte del creditore, ma è necessario che vi siano indici di un animus nocendi, ricavabile anche dalla sussistenza di una situazione di conflitto personale tra le parti, non riconducibile alla stretta esecuzione dello specifico rapporto.

Da qui, come detto, l’ingresso di una valutazione soggettivistica di quella che, tradizionalmente, si qualifica come buona fede oggettiva, perché la valutazione del comportamento leale nell’ambito dell’esecuzione del contratto prescinde dall’intenzionalità delle conseguenze dannose.

Il ragionamento della Suprema Corte, su questo aspetto, opera un raccordo tra i principi generali di buona fede e correttezza in executivis e quella particolare declinazione di essi comunemente annotata come “abuso del diritto”[2], che si caratterizza per il perseguimento di una finalità estranea od ulteriore, a danno dell’altra parte, rispetto a quella per la quale il diritto è stato conferito (del resto, la rilevanza dell’elemento soggettivo è espressamente prevista da una delle norme che fungono da base sistematica dell’elaborazione del concetto di abuso del diritto, ovvero l’art. 833 c.c.[3]).

E’, dunque, da condividere il ragionamento della Corte, nella misura in cui ammette che, in casi come quello in esame, la repentina e inattesa interruzione di una lungamente protratta inerzia rispetto all’esercizio del diritto di credito, soprattutto ove affiancata da una ulteriore (o addirittura principale) finalità di nuocere, possa configurare abuso del diritto di credito stesso.

Ma, come vedremo a breve, l’elemento soggettivo, se può servire a rendere più riconoscibile la violazione del principio di buona fede, non deve diventarne un elemento costitutivo, dovendo la valutazione conclusiva rivestire sempre carattere di oggettività[4].

Non è forse una svista, quindi, che la rilevanza dell’elemento soggettivo, ricavabile (anche) dall’accertamento di una situazione di conflittualità, pur ribadito ripetutamente come essenziale in motivazione, scompaia totalmente nell’enunciazione del principio di diritto.

E’, di contro, sorprendente e grave, che in tale enunciazione di principio difetti qualsiasi riferimento al secondo fondamentale requisito per ritenere integrata la violazione del principio di buona fede o l’abuso del diritto, ovvero “l’assenza di apprezzabile sacrificio” in capo alla parte, ove avesse serbato un comportamento leale a tutela dell’interesse dell’altra[5].

Laddove, infatti, il ricorso a tale clausola generale trova terreno fertile nelle “zone grigie” del contratto, nell’adempimento di obbligazioni accessorie, nell’individuazione e adempimento di obblighi di protezione pur non contrattualizzati, appare certamente più problematico – proprio in virtù del requisito dell’assenza dell’apprezzabile sacrificio – farne applicazione ai casi in cui una parte pretende dall’altra l’adempimento del principale ed essenziale obbligo contrattuale posto a suo carico[6].

Problematico non vuol dire però impossibile, né sbagliato. Ma, per l’appunto, tale da porre un problema complesso, che necessita di maggiore approfondimento quanto alla soluzione del caso.

Come anticipato, infatti, e come vedremo anche nel successivo e conclusivo paragrafo, l’errata soluzione al problema non risiede nella qualificazione in termini di abuso del diritto e violazione del principio di buona fede dello specifico comportamento tenuto dal locatore, ma nella conseguenza che la Corte territoriale, prima, e la Cassazione, dopo, hanno fatto discendere da tale violazione: la perdita radicale (ovviamente limitata al periodo di inerzia) del diritto di credito (non prescritto e non rinunciato).

Come si può sostenere che non comporti “un apprezzabile sacrificio” per il creditore – che pure, per la protratta inerzia, possa aver ingenerato nel debitore la convinzione di una (in realtà inesistente) remissione del debito e che pure, nelle more, sia entrato in conflitto personale col debitore stesso - porlo nell’alternativa se continuare a non agire per il recupero dei canoni scaduti, protraendo l’inerzia fino al maturare della prescrizione, oppure agire per il recupero degli stessi, con la conseguenza di perdere ugualmente il proprio diritto, perché la sua condotta diverrebbe abusiva e contraria a buona fede?

La conseguenza indicata dalla Suprema Corte, in altre parole, pone il creditore in una situazione nella quale, qualsiasi scelta compia, perderà il proprio diritto di credito.

A tutto vantaggio del debitore, che pure ha beneficiato del godimento dell’immobile, senza nulla pagare.

Tale conseguenza si pone al di fuori del perimetro della solidarietà sociale[7], perché, di fatto, “condanna” il creditore alla totale e definitiva perdita del principale diritto e interesse tutelato dal contratto sinallagmatico: quello al corrispettivo!

Diritto, si ripete, non prescritto e non rinunciato.

La soluzione, quindi, manca totalmente di quella “proporzionalità” e “reciprocità” nella salvaguardia dei rispettivi interessi[8], che è alla base del principio di buona fede come attuazione di quello solidaristico incarnato nell’art. 2 Cost..

E, nel caso concreto, assume le forme di una vera e propria sanzione – peraltro rimessa al rilievo officioso del Giudice (§ 18. della motivazione) – che pretende di trovare legittimazione nella sopravvenienza di un conflitto personale tra le parti, non essendo ritenuta sufficiente, in assenza di questo, la mera e protratta inerzia, che non abbia condotto né alla prescrizione né a poter ritenere integrata una remissione tacita.

Tuttavia, il futuro conflitto non è prevedibile nel momento in cui – magari, al contrario, per benevolenza verso il conduttore – il locatore ha iniziato a tenere e ha protratto nel tempo un atteggiamento di inerzia.

Si arriva, per tale via, al paradosso per cui, laddove il creditore semplicemente inerte per lungo tempo potrebbe poi agire per il recupero degli arretrati, quello non solo inerte, ma che abbia successivamente litigato col debitore per altri motivi, non potrebbe procedere al recupero del proprio credito, perché il suo comportamento sarebbe qualificato abusivo in quanto connotato da animus nocendi!

Paradosso che mette in luce l’errore, poc’anzi anticipato, di dare valenza costitutiva (anziché, eventualmente, rafforzativa) all’elemento soggettivo, per ritenere integrata la violazione del principio di buona fede oggettiva, sub specie di abuso del diritto.

Gli elementi costitutivi della fattispecie, di contro, devono rimanere sul piano oggettivo e sono: da un lato, l’insorgenza di un legittimo e ragionevole (e per questo oggettivamente rilevabile) affidamento in una parte; dall’altro, l’assenza di apprezzabile sacrificio per la parte che, con l’esercizio del proprio diritto, tradirebbe tale ragionevole affidamento.

 

5. La corretta soluzione del caso, alla luce di quanto precede, richiede anzitutto la definizione della condotta che viene assunta come illecita violazione del principio di buona fede; quindi, e anche in ragione di essa, la precisa individuazione dell’affidamento legittimamente insorto in capo al soggetto che si assume leso da tale condotta; infine, la valutazione dell’entità del sacrificio che una condotta conforme a buona fede avrebbe imposto alla parte; per arrivare così a determinare il corretto assetto di interessi tra le due parti, in virtù di quella proporzionalità e reciprocità, che sole garantiscono l’effettiva estrinsecazione della solidarietà sociale.

E’ lapalissiano affermare, che la condotta ritenuta illecita non può essere il mero esercizio del diritto di credito, neppure se ritardato ma entro i limiti della prescrizione. L’esercizio di un diritto, nei limiti (anche temporali) indicati dall’ordinamento, anche in virtù del principio di non contraddizione, non costituisce mai un illecito[9].

Infatti, la Suprema Corte non individua l’illecito nell’esercizio del diritto di credito, ma, correttamente, nel suo esercizio repentino e nella richiesta in unica soluzione del pagamento di rate accumulatesi in virtù di una particolarmente protratta attesa nell’escuterle.

Ebbene, se l’illecito non può essere integrato dalla richiesta di pagamento (esercizio del diritto) in se stessa, ma solo dalle predette modalità esecutive, è evidente che il contrapposto legittimo affidamento del debitore, in (pacifica) assenza dei presupposti per il verificarsi di una remissione tacita, non può essere quello di vedersi liberato definitivamente del debito arretrato, come conseguenza della inerzia del creditore, nella misura in cui, pur lungamente protratta, non ha ecceduto i termini di prescrizione.

Ciò, se non altro, per l’elementare rilievo che i termini di prescrizione sono sottratti alla disponibilità delle parti (art. 2936 c.c.), sicché non può ritenersi legittimo, ragionevole e oggettivamente apprezzabile un affidamento che abbia quale oggetto il verificarsi di una situazione analoga a quella che, ove tradotta espressamente nel contratto, sarebbe stata da considerare nulla: ossia l’estinzione del diritto di credito o della relativa azione, in virtù dell’inerzia serbata dal creditore per un periodo di tempo diverso da quello previsto dalla legge come limite prescrizionale.

Di contro, individuato il comportamento illecito del creditore, all’indomani di un’inerzia lungamente protratta, nella richiesta di pagamento “repentina e in unica soluzione”, l’affidamento che può legittimamente e ragionevolmente ritenersi insorto nel debitore è, precisamente, che la richiesta del creditore non contenga quegli elementi che la rendono, appunto, contraria a buona fede, ossia la subitaneità e la contestuale integralità.

Simmetricamente, se abbiamo visto essere – innegabilmente – “apprezzabile” e, quindi, non richiedibile al creditore, un sacrificio corrispondente alla perdita tout court degli arretrati scaduti e non corrisposti e, al contempo, non caduti in prescrizione, va considerato sacrificio sostenibile, in corrispondenza all’accertato affidamento creatosi nel debitore, quello di chiedere il pagamento degli arretrati in maniera non repentina e in unica soluzione.

In sostanza, non può venire in discussione l’an della pretesa creditoria, ma – essendo la condotta che ha creato l’affidamento legata all’inerzia protratta nel tempo – il quando.

Si ritiene, quindi, che la corretta soluzione del caso possa – addirittura agevolmente – individuarsi nella disciplina codicistica sui termini di adempimento e, segnatamente, nell’art. 1183, comma 2, c.c..

La troppo a lungo protratta inattività del creditore, nella misura in cui non oltrepassa i limiti della prescrizione, non comporta la perdita del diritto di credito, ma, avendo fatto insorgere nel debitore l’affidamento legittimo e ragionevole nell’abbandono (se) non del diritto, (quantomeno) della cogenza dei termini contrattuali di adempimento, conduce ad una situazione analoga a quella disciplinata dal citato art. 1183, comma 2, c.c., quando il termine di adempimento è rimesso al debitore: in parole semplici, se non è maturata la prescrizione (e non c’è stata remissione tacita), il debitore non può legittimamente ritenere di non dover più pagare (e un eventuale convincimento in tal senso non può ricevere tutela), ma può legittimamente e oggettivamente contare di poterlo fare “con comodo”.

Il che non significa “mai” o “sine die”, altrimenti le posizioni si ribalterebbero e sarebbe il debitore a comportarsi in modo contrario al dovere di buona fede.

Infatti, la norma indicata detta una soluzione semplice ed efficace, per evitare che tale potestà del debitore non si trasformi in arbitrio: il potere del giudice di stabilire il termine di adempimento.

Ed è proprio mediante l’impiego di tale potere, esercitabile anche d’ufficio, che il caso concreto avrebbe trovato legittima e idonea soluzione giurisdizionale, piuttosto che con l’ablazione draconiana del diritto di credito.

Tanto più che il potere di cui all’art. 1183, comma 2, c.c. va esercitato dal giudice “secondo le circostanze” e, quindi, si presta ad essere ampiamente modulato a seconda, ad esempio, delle condizioni economiche delle parti. Sia del debitore (che, magari, potrebbe non avere alcuna difficoltà materiale a pagare in tempi rapidi), sia del creditore (che, al contrario, potrebbe essere stato indotto ad una richiesta repentina per sopravvenute esigenze economiche)[10].

A sommesso avviso di chi scrive, quindi, il principio di diritto che la Suprema Corte avrebbe dovuto formulare è il seguente[11]:

il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. legittima in punto di diritto l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del neminem laedere; ne consegue che in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, ove non si ravvisino i presupposti della remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia e nella misura in cui lo stesso non sia caduto in prescrizione, può fare insorgere nel conduttore il legittimo affidamento del venire meno, per il periodo anteriore al cessare dell’inerzia, della cogenza dei termini contrattuali di pagamento e, quindi, che gli stessi ricadano nella sua potestà; in tale situazione, la improvvisa richiesta di integrale pagamento da parte del locatore costituisce esercizio abusivo del diritto e il giudice, in applicazione dell’art. 1183, comma 2, c.c., in virtù dell’affidamento di cui sopra, può, anche d’ufficio, stabilire i termini di pagamento del debito scaduto, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto”.



[1] Per la giurisprudenza tedesca, l’inammissibilità di rivendicare un diritto, dopo che il titolare abbia lasciato trascorrere un congruo periodo di tempo senza compiere atti di esercizio o senza reagire a violazioni, qualora ciò abbia determinato un affidamento nella controparte, nonostante non sia ancora maturato il termine di prescrizione; su cui, per tutti, RANIERI, Rinuncia tacita e Verwirkung. Tutela dell’affidamento e decadenza da un diritto.Padova, 1971.

[2] La letteratura in materia è sterminata. Ai limitati fini del presente lavoro, basterà segnalare, quanto alle monografie dedicate e alle voci enciclopediche, RESCIGNO, L’abuso del diritto, Bologna 1998; SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in AA.VV., Il diritto soggettivo, Torino, 2001; PATTI, Abuso del diritto, in Dig.Disc.Priv., Torino, 1987; MESSINETTI, Abuso del diritto, in Enc. del diritto, II Aggiorn., Milano, 1998; SALVI, Abuso del diritt. I) Diritto civile, in Enc.giuridica, I, Roma, 1988.

[3] Giova ricordare, che nonostante fosse presente nel progetto preliminare al Codice Civile, ove, all’art. 7, si prevedeva che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto”, il legislatore ha poi scelto non di dare corso alla codificazione di tale figura. Del pari, come insegna autorevole dottrina – GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, p.57, “il principio è rinvenibile allo stato diffuso a tutti i livelli”, a partire proprio dall’art. 833 c.c. (ma si vedano anche gli artt. 330, 1015, 2793), ma con rimando diretto anche ai doveri di correttezza e buona fede e alla solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost..

[4] Sulla compenetrazione tra buona fede e abuso del diritto, nonché sulla connotazione oggettiva di quest’ultimo, si veda, tra le altre, Cass. civ., sez. III, 18.9.2009, n. 20106, la quale ha così individuato i tratti caratterizzanti della figura dell’abuso: “Sono elementi costitutivi dell'abuso del diritto: 1) la titolarità di un diritto soggettivo; 2) la possibilità di plurime modalità di esercizio non predeterminate; 3) un esercizio concreto censurabile rispetto ad un criterio di valutazione giuridico o extragiuridico; 4) una conseguente sproporzione ingiustificata tra il vantaggio ulteriore e diverso da quello indicato dal legislatore da parte del titolare, ed il sacrificio della controparte. Non è invece elemento costitutivo dell'abuso il dolo o una specifica volontà di nuocere”.

Parte della dottrina – CHINE’, FRATINI, ZOPPINI, Manuale di diritto civile, Molfetta, 2017, p. 795 - onde evitare di generalizzare una figura ritenuta dai contorni troppo incerti e dotata di una enorme vis expansiva, ritiene invece fondamentale la valorizzazione dell’elemento soggettivo, ricavabile dall’art. 833 c.c., della finalità esclusiva di recare nocumento ad altri, con totale assenza di qualsivoglia diversa giustificazione economica e sociale del comportamento.

[5] Requisito affermato costantemente in giurisprudenza; cfr., per tutte, Cass. civ., ss.uu., 13.10.2009, n. 21658.

[6] In quanto “Il dovere di buona fede, imponendo alle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, nei limiti del proprio sacrificio, non comporta che, ove una di esse sia inadempiente, l'altra non possa avvalersi di tutti gli strumenti apprestati dall'ordinamento per porre rimedio all'inadempimento stesso”, così Cass. n. 21658/2009 indicata alla nota precedente.

[7] Ormai costante in giurisprudenza il raccordo tra il dovere di buona fede oggettiva in executivis e il principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.; si veda, tra le più recenti, Cass. civ., sez. III, 2.4.2021, n. 9200, “il principio di correttezza e buona fede - il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore" - deve essere inteso in senso oggettivo in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 della Costituzione”.

[8]La clausola di buona fede nell'esecuzione del contratto opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra”, Cass. civ., sez. II, 21.1.2014, n. 1179.

[9] Tanto che la stessa locuzione di “abuso del diritto” rasenta l’ossimoro; cfr. RESCIGNO, op.cit., p. 13.

[10] E’ opportuno precisare, che non si tratta di un’applicazione diretta dell’art. 1183, comma 2, c.c., ma di un’applicazione mediata dal previo riconoscimento giudiziale di una violazione della buona fede e conseguente abuso del diritto, che conduce a ritenere non più cogente per il debitore un termine che, di contro, era contrattualmente previsto. Ciò non comporta, pertanto, la sopravvenuta inesigibilità del diritto di credito; con la conseguenza, da un lato che la prescrizione continuerà a decorrere, dall’altro che il creditore potrà comunque esercitare il diritto e l’intervento del giudice sui termini di pagamento avverrà solo qualora, a seguito del contenzioso insorto a causa del mancato pagamento del debitore, venga accertato che il creditore lo abbia esercitato in violazione dei predetti principi (il creditore, invero, potrebbe anche diligentemente chiedere un pagamento dilazionato, che tenga conto dell’affidamento creato dalla sua protratta indolenza). Senza tralasciare di ricordare, quindi, che, ove il debitore, pur sentendosi tradito nel proprio affidamento, pagasse spontaneamente tutto e subito, certamente “pagherebbe bene” e non potrebbe agire successivamente in ripetizione di indebito.

[11] Il carattere grassetto evidenza le modifiche rispetto al principio enunciato dalla Cassazione.


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