Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 06/07/2021 Scarica PDF

aTECNICA legislativa e conflitti culturali nel "D.D.L. ZAN"

Gioacchino La Rocca, Professore ordinario di diritto civile nell'Università di Milano Bicocca


Sommario: 1. Diritto e scienze sociali. – 2. Le definizioni nel “d.d.l. Zan”. – 3. “Libertà di scelta e “atti di discriminazione” nella giurisprudenza. – 4. Il problema dell’identità di genere. – 5. L’art. 4 e le “condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee”. – 6. D.d.l. Zan e certezza del diritto. – 7. Genere, “ideologia gender” e organizzazione della società: la “convivenza di diverse visioni” ed il beneficio del dubbio

 

 

1. – Diritto e scienze sociali.

È ampiamente noto che è all’esame del Senato della Repubblica il c.d. “d.d.l. Zan”, vale a dire il disegno di legge dal titolo “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, già approvato dalla Camera dei deputati il 4 novembre 2020 ([1]). Nel momento in cui vengono scritte queste note non è dato sapere quale potrà essere il prosieguo del suo iter parlamentare, le cui difficoltà, peraltro, sembrano riflettere le fratture che esso sembra determinare all’interno della società.

Di qui la necessità di un esame del profili a mio parere maggiormente significativi dell’impianto licenziato dalla Camera, atteso che, benché tale disegno di legge abbia – ma solo a prima vista - ricadute essenzialmente in ambito penale, esso suscita un particolare interesse in quanto costituisce l’ennesima conferma dell’intima connessione delle scienze sociali tra loro e della specificità in esse assunte dal diritto: il diritto, infatti, traduce il dato culturale e politico, ossia non già l’ “essere”, ma una percezione dell’“essere”, in un “dover essere”, con un evidente effetto conformativo della società e dei suoi valori. In questo senso milita una definizione della parola “diritto”, che – pur tra mille polemiche e distinguo – sembra conservare un fondo di oggettività e di buon senso: il “diritto” - è stato autorevolmente scritto – “è la tecnica sociale che consiste nell’ottenere la desiderata condotta sociale degli uomini mediante la minaccia di una misura di coercizione da applicarsi in caso di condotta contraria” ([2]).

È noto che l’autore di questa definizione superasse qualsiasi questione di “valore” contentandosi di una rassicurante concezione formale del diritto, che considerava come sistema completamente avulso dalla c.d. “realtà empirica”: il “D.D.L. Zan” offre l’ennesima smentita di una concezione di questo tipo, confermando l’intrinseca valenza assiologica della norma giuridica.

 

2. – Le definizioni nel c.d. d.d.l. Zan.

Affinché il discorso che qui si intende svolgere sia comprensibile, è necessario sintetizzare, per quanto possibile, il disegno di legge all’esame del Senato.

Con l’art. 1 si dettano quattro definizioni, che riguardano i c.d. “parametri di differenziazione psicosessuale”: sesso (“per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico”), genere (“per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”), orientamento sessuale (“per orientamento sessuale si intende l'attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi”) identità di genere (“per identità di genere si intende l'identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall' aver concluso un percorso di transizione”).

Sulla base di queste definizioni l’art. 2 costruisce le seguenti norme penali.

Il primo comma, lett. a, dell’art. 604 bis c.p. – attualmente recante la rubrica Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa” - viene modificato come indicato dalle parole di seguito riportate in grassetto e corsivo: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito:
a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità”.

La lett. b della stessa disposizione è modificata come segue: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito: … b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità”.

Un’ulteriore modifica dell’art. 604 bis riguarda il secondo comma, che avrebbe il seguente tenore letterale: “È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità”.

Altro articolo del codice penale di cui si propone la modifica è l’art. 604-ter. In particolare, il primo comma dovrebbe disporre che “Per i reati punibili con pena diversa da quella dell'ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, oppure fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità la pena è aumentata fino alla metà”.

 

3. – “Libertà di scelta e “atti di discriminazione” nella giurisprudenza

Un primo momento problematico è costituito dalla modifica progettata per l’art. 604-bis, lett. a. Come si ricorderà, a seguito di detta modifica l’art. 604-bis punirebbe “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità”.

Si intravedono immediatamente delicate questioni esegetiche. Invero, la prima questione che si pone, è stabilire se i motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale ecc. rendono punibile anche la propaganda di idee, oppure solo la istigazione a commettere/commissione di atti di discriminazione. Al riguardo, si potrebbe dirimere il dubbio osservando che il maschile plurale della parola “fondati” sembra riferirsi agli atti di discriminazione, piuttosto che alle idee.

Con lo stesso metro esegetico si potrebbe, tuttavia, obiettare che la parola “fondati” potrebbe riferirsi, non già al sostantivo “atti”, ma al sostantivo “motivi”. Questa seconda possibile lettura potrebbe indurre taluno a ritenere che l’inciso aggiunto all’art. 604-bis c.p. dal disegno di legge in esame dovrebbe essere riferito al complesso della disposizione, tenuto anche conto che non sempre potrebbe essere in concreto definibile il confine tra idee e atti di discriminazione. In altre parole, occorre porsi il problema del se, e fino a che punto, la disciplina in esame si configuri come potenzialmente idonea ad attrarre idee ed opinioni in una fattispecie penalmente rilevante.

Sul punto i dubbi sono comprensibili se si tiene conto che per “atto di discriminazione” può intendersi qualsiasi condotta che - a seconda del contesto oggettivo o soggettivo nel quale abbia luogo - abbia (o sia percepita come avente) un contenuto differente rispetto ad altre condotte poste in essere in contesti non coincidenti. Un riscontro di tale struttura della discriminazione si ricava dallo stesso art. 4 del d.d.l., nella parte in cui accenna a “condotte riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, che – come si dirà – sarebbero “fatte salve” dal testo in esame dunque lecite: si allude, in altre parole, a condotte, che – pur diverse da altre precedentemente tenute – non sarebbero atti di discriminazione.

Di qui la questione - che è già stata ritenuta irrisolta dal d.d.l. in esame ([3]) - su cosa debba intendersi per discriminazione penalmente rilevante.

Il dato, che sembra confermato dall’art. 4 e comunque di non agevole confutazione, è che ciascuno modula le proprie condotte sulla base delle proprie idee ed esprime la sua libertà attraverso scelte comportamentali che possono essere diverse a seconda delle persone e delle situazioni con le quali in concreto si misura. Il già richiamato art. 4, d.d.l. in esame, collega le condotte poste in essere dagli individui alla loro libertà di autodeterminarsi.

La giurisprudenza ha già proposto esempi non privi di interesse. Negli Stati Uniti ed in Europa sono stati denunciati quali “atti di discriminazione” il rifiuto di un pasticcere di confezionare una torta per un matrimonio omosessuale e il rifiuto opposto da un’organizzazione cattolica che gestisce servizi sociali per i minori, di accettare coppie omosessuali quali possibili candidate all’adozione di bambini. Analoghi rifiuti hanno avuto come protagonisti personale alberghiero, fotografi e pubblici ufficiali richiesti di celebrare unioni civili ([4]).

La risposta di queste corti è stata in larga maggioranza nel senso di escludere la discriminazione in nome della libertà di scelta dei convenuti.

In Italia vi è stato il caso deciso dalla Corte di Giustizia UE, con sentenza 23 aprile 2020, C-507/18. La Corte di giustizia ha ravvisato un atto discriminatorio nelle affermazioni fatte in una trasmissione radiofonica da un avvocato, il quale ha dichiarato che in linea generale non avrebbe mai assunto un omosessuale nel suo studio perché avrebbe “turbato l’ambiente” ([5]).

La dottrina ha ritenuto che quest’ultima sentenza si distingua dalle altre per essere di particolare favore nei confronti dei soggetti che lamentavano di essere vittime di discriminazioni. In realtà, è possibile intravedere una chiave di lettura unitaria di tutta questa giurisprudenza. Al pasticcere, al fotografo, al pubblico ufficiale venivano richieste condotte positive volte a consentire che le scelte degli attori, ossia i soggetti LGBTI interessati, fossero portate a compimento. I convenuti avrebbero dovuto porre in essere un’attività in qualche modo, anche marginalmente, funzionale alla realizzazione di un progetto di vita evidentemente improntato a visioni da loro non condivise ([6]).

È netta, a questo punto, la diversità di questi casi rispetto a quello risolto dalla Corte di Giustizia: l’avvocato non era chiamato a compiere attività anche minimamente ancillari all’orientamento sessuale degli eventuali aspiranti all’assunzione; la sua dichiarazione di principio, secondo la quale avrebbe comunque escluso dall’assunzione persone di un dato orientamento sessuale, era di tutta evidenza discriminatoria attesa l’irrilevanza dell’orientamento sessuale a svolgere un determinato lavoro. Di qui la prevalenza dell’interesse alla non discriminazione rispetto ad un non identificato interesse contrario del convenuto.

 

4. – Il problema dell’identità di genere.

Le difficoltà esegetiche esibite dal disegno di legge in esame – particolarmente gravi già di per sé, trattandosi di disposizioni di natura penale – si complicano a causa del riferimento alla “identità di genere”. Alla stregua dell’art. 1, lett. d, “per identità di genere si intende l'identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall' aver concluso un percorso di transizione”.

La nozione di “identità di genere” è particolarmente complessa: essa “si riferisce alla percezione che ogni individuo ha del proprio se, in quanto uomo o in quanto donna; se nella maggioranza degli individui il genere è allineato al sesso biologico assegnato alla nascita per cui chi nasce "maschio" si sente "uomo" e chi nasce "femmina" si sente "donna", per alcune persone questo non accade: si tratta delle persone transgender, termine "ombrello', che include una molteplicità di esperienze umane. In primo luogo, rientrano in questa definizione coloro che si sono sottoposti ad un trattamento medico (ormonale) e chirurgico (riattribuzione chirurgica del sesso, in sigla RCS) per adeguare il proprio corpo al genere percepito e che, al termine del percorso, modificano il nome e il sesso anagrafico. Queste persone vengono indicate come transessuali MtF (male to female) se, nate maschio, vogliono diventare femmina, e FtM (female to male), se, nate femmina, vogliono diventare maschio. Nel termine transgender sono altresì inclusi coloro che non hanno ancora compiuto il passaggio medico-chirurgico e sono "in transito" verso il genere percepito, così come chi non intenda affrontare il trattamento chirurgico, per ragioni di carattere medico (ad esempio, per condizioni di salute precarie) o per scelta. Da ultimo, si considerano incluse in senso lato nell'ampia categoria del transessualismo anche le persone cross-dresser (o travestiti) e queer, cioè coloro che, a vario titolo, mettono in discussione le norme sociali e culturali legate al genere” ([7]).

L’estesa ricognizione della nozione di “identità di genere” qui riprodotta è utile per almeno due aspetti. Essa, infatti, evidenzia la connotazione decisamente soggettiva, per non dire intima o comunque correlata con l’intimità, della nozione medesima: “l’identità di genere” – si ribadisce – “è la percezione sessuata di sé e del proprio comportamento”; l’identità di genere si acquista, si sviluppa ed eventualmente si modifica nel corso degli anni ([8]).

È pacifica, dunque, la connotazione soggettiva ed intima dell’identità di genere. Ciò significa che il metro per la qualificazione della condotta penalmente rilevante è rimesso alla percezione soggettiva che il potenziale offeso dal reato ha del suo orientamento sessuale, con la conseguenza di rendere assolutamente incerta la determinazione della condotta sanzionata ([9]): perspicuamente si è sottolineata la “dimensione relazionale dell’identità di genere” ([10]). Senonché, proprio tale “dimensione relazionale” rende la nozione di non univoca determinazione nei rapporti con i terzi, che non sempre possono essere in grado di percepirla. Nel caso dell’identità di genere, infatti, l’atto discriminatorio si qualifica per tale sulla base della percezione che la potenziale vittima abbia di sé in rapporto al concreto atteggiarsi dell’altrui condotta.

Non è un caso, a questo punto, se l’identità di genere non è presa in considerazione dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000 ([11]), quando, nel vietare “qualsiasi discriminazione”, assegna “particolare riferimento”, tra le altre, alle discriminazioni fondate sul sesso e sull’orientamento sessuale, mentre tace a proposito dell’identità di genere. Non diversamente, l’art. 19 del Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea autorizza il Consiglio europeo ad adottare “i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione e le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”. Come si vede, il legislatore europeo prende espressamente in considerazione i criteri del sesso e dell’orientamento sessuale, mentre tace sulla più evanescente identità di genere quale elemento qualificante di una possibile condotta discriminatoria ([12]).

 

5. - L’art. 4 e le “condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee”.

Nei precedenti paragrafi è emersa in vario modo la connessione tra le condotte vietate dal disegno di legge in esame e le idee e le opinioni riconducibili al sesso, all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Nei prossimi paragrafi vi sarà occasione di accennare all’acceso dibattito che da anni divide quanti ritengono che il sesso sia un dato riconducibile solo ad una marginale “fattualità biologica”, ovvero rappresenti un elemento naturale ineludibile al fine di costruire la persona umana in sé e nei rapporti sociali, ossia – per utilizzare reminiscenze kantiane – un elemento utile per penetrare la “cosa in sé” dell’essere umano, un elemento naturale in grado di transitare dal “fenomeno” al “noumeno”. Questo accenno è funzionale alla comprensione dello spessore delle discussioni e delle contese sottintese nelle parole “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale”, “identità di genere”, sulle quali interviene il disegno di legge de quo. L’anticipazione, peraltro, è utile per approcciare correttamente un tema, che sembra aver occupato uno spazio ragguardevole nelle dispute esibite dai mezzi comunicazione sul d.d.l. in esame, nelle quali generalmente si tende a negare che il disegno di legge in esame introduca reati d’opinione.

In senso contrario, può osservarsi che il timore che la novella in esame si risolva in una potenziale repressione di opinioni ed idee (un esempio delle quali si è riportato sopra) è ben presente al legislatore, tanto è vero che esso sembra voler scongiurare tale rischio con l’art. 4 del disegno di legge. Questo articolo prevede che “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni, nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

Ancora una volta, è necessario richiamare l’attenzione sulla scarsa precisione tecnica dell’enunciato in esame. Infatti, l’espressione posta in apertura dell’art. 4, secondo la quale “ai fini della presente legge, sono fatte salve …” sembra voler introdurre a suo modo una scriminante, che tuttavia non sembra di facile comprensione nella sua esatta portata.

È necessario procedere ad un esame analitico.

La disposizione, innanzi tutto, fa “salva … la libera espressione di convincimenti od opinioni”. Per tale via, come si è in qualche modo anticipato, il legislatore (o aspirante tale) legittima il serio dubbio che la modifica della lett. a dell’art. 604-bis c.p. effettivamente possa leggersi come estesa anche alla propaganda di idee sul sesso, sulla famiglia, sui rapporti di coppia e sull’orientamento sessuale tendenti, ad esempio, a ribadire la centralità del dualismo maschio/femmina e le conseguenti ricadute di tale dualismo su aspetti non di secondo piano dell’organizzazione sociale. La formula di apertura dell’art. 4 del disegno di legge sarebbe, dunque, finalizzata a neutralizzare il reato di opinione, anche in coerenza con una serie di norme di rango costituzionale ed europeo, che è superfluo ricordare qui.

Il problema del possibile reato di opinione, tuttavia, non è affatto risolto. Per comprenderne la portata è necessario fare un ulteriore passo nell’esame dell’art. 4.

La seconda parte dell’art. 4, infatti, ha ad oggetto quelle condotte diversificate a seconda dei contesti e delle persone cui si è accennato nei precedenti paragrafi. In particolare, si dice che sono “salve … le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”.

Questo segmento dell’art. 4 è importante innanzi tutto perché conferma quanto si è prima affermato a proposito degli “atti di discriminazione” e del loro stretto rapporto di conseguenzialità con idee ed opinioni: mette conto qui ribadire che, dietro le parole “atti di discriminazione”, possono celarsi condotte concrete che assai spesso recano a coerente compimento idee ed opinioni. Questo rapporto di continuità tra idee e condotte, nonché il recepimento di tali condotte all’interno della “libertà di pensiero di coscienza e di religione”, sono espressi in particolare dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali UE, che per l’appunto attrae all’interno della libertà di pensiero e di religione le “pratiche” (ossia le condotte) conseguenti a tali libertà.

Tutto ciò sembrerebbe autorizzare una prima conclusione con riguardo all’art. 4: non dovrebbe essere reato l’atto discriminatorio in concreto consistente in “condotte … riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, che – come tali - dunque dovrebbero sempre ritenersi in linea di principio “legittime” (così letteralmente lo stesso art. 4).

In realtà non è così o non è così semplice.

Una difficoltà è rappresentata proprio dalla parola ”legittime”: infatti, o si ritiene che possano esservi condotte, le quali, pur “riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, non siano ciò malgrado “legittime” e dunque integrino il reato ([13], oppure si ritiene che all’interno della disposizione la parola “legittime” sia priva di una concreta rilevanza normativa.

V’è un secondo aspetto: l’art. 4 aggiunge che la condotta, pur legittima nel senso che si è appena detto, cessa di essere tale quando sia ritenuta “idonea a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. È di tutta evidenza che questa parte finale dell’art. 4 ha un impatto devastante: per effetto dell’art. 4, non solo l’“atto discriminatorio”, ossia il comportamento difforme a seconda del contesto, è sempre vietato quali che possano essere le sue giustificazioni ed il suo concreto contenuto, ma anche il pericolo del suo compimento è vietato ed attratto nella fattispecie sanzionata. Questa surrettizia trasformazione del reato di cui all’art. 604-bis in reato di pericolo, riporta in primo piano la questione dell’inerenza dell’impianto del disegno di legge in discorso al reato di opinione, che nella fattispecie in concreto si realizzerebbe nella diffusione di tesi ed idee potenzialmente così efficaci nel contestare la “teoria del gender” fino al punto da “rischiare” di convincere qualcuno a porre in essere condotte divergenti rispetto a tale teoria, tenuto conto del contesto oggettivo e/o soggettivo. Viene in altre parole sanzionato penalmente l’opera di diffusione di idee efficaci a contrastare l’ideologia gender (sul punto v. anche infra par. 7).

 

6. – D.d.l. Zan e certezza del diritto.

L’esame fin qui condotto del “d.d.l. Zan” impone talune considerazioni sulla tecnica legislativa utilizzata. Essa propone un duplice ordine di criticità che, sommate tra loro, proiettano ombre non di secondo piano sul disegno di legge.

Tali criticità in concreto consistono nelle rilevate difficoltà di coordinamento tra loro delle parole che compongono il discorso normativo svolto nel “d.d.l. Zan”. Più precisamente, le rilevate difficoltà di coordinamento si traducono in oggettive difficoltà di interpretazione del testo, atteso che, per l’art. 12 disp. Prel c.c., “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. Ne segue che, al di là delle discussioni sulla effettiva portata da riconoscersi all’art. 12 cit. ([14]), certamente dalle parole utilizzate dal legislatore, dal loro coordinamento e dai loro possibili significati – insomma: dall’esegesi del testo - non può davvero prescindersi; e si è visto quanta difficoltà le parole contenute nel testo in esame pongano all’interprete, ciascuna in sé e nella connessione tra loro.

A questa prima criticità se ne aggiunge una seconda. Sul punto è sufficiente ripercorrere la normativa in esame per aver conferma che essa si compone quasi esclusivamente di parole e sintagmi particolarmente ambigui ed indeterminati. Non è inutile rammentare ancora una volta gli interrogativi che sembrano non trovare risposta nel disegno di legge in analisi: quando una condotta differenziata a seconda del contesto e degli interlocutori integra un “atto discriminatorio fondato sul sesso ecc.” ? il rifiuto di scrivere una particolare formula su una torta è atto discriminatorio o condotta conseguente ad una libera scelta? a quali e quante indagini sono tenuti i terzi per identificare l’identità di genere di un individuo ?

Nell’art. 4 i dubbi si moltiplicano. Agli interrogativi elencati in nota 13 possono aggiungersi almeno i seguenti: quando si è in presenza di “condotte riconducibili al pluralismo delle idee”, che sono, pertanto, “fatte salve” dal testo in esame? Quando, di contro, tali “condotte riconducibili al pluralismo delle idee” sconfinano nella creazione di un “pericolo del compimento di atti discriminatori ecc.”? e quando detto “pericolo” diventa concreto?

Non è chi non veda come tutti questi interrogativi (e gli altri che si potrebbero aggiungere) siano cruciali nell’applicazione della disposizione in esame ed esitino in consistenti dubbi circa il rispetto del principio di determinazione della legge penale ([15]). Infatti, la risposta ai predetti interrogativi implica ampi spazi per valutazioni discrezionali da parte dei singoli magistrati chiamati a stabilire la rilevanza penale delle “condotte riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte” (v. ancora art. 4, d.d.l. in esame).

Il punto è particolarmente delicato e su di esso bisogna intendersi.

Il mito del giudice che si limita ad essere “bocca della legge” è periodicamente invocato (sia pure non sempre in questi termini) fin dal diritto romano classico ([16]). Esso è, tuttavia per l’appunto solo un mito: le leggi sono fatte di parole e le parole sono caratterizzate da una intrinseca ambiguità ([17]), ossia da un’intrinseca idoneità ad avere una pluralità di significati. Questa affermazione è confermata dal già ricordato art. 12 cit., il quale, nel dettare i criteri per l’interpretazione della legge, chiaramente tiene conto del fatto che ciascuna parola può avere un significato “proprio”, ma al tempo stesso può anche avere un significato diverso che potremmo dire meno “proprio”. L’art. 12 aggiunge, inoltre, che il significato “proprio” della parola non è una qualità intrinseca della stessa, ma è cangiante, contingente, in quanto di volta in volta individuabile in base alla connessione di tale parola con le altre presenti nel testo oggetto di interpretazione.

Con ciò l’art. 12 prel. conferma un dato che dovrebbe essere autoevidente, vale a dire che l’interpretazione della legge è il frutto di un’attività intellettiva e valutativa del giudice; è un’attività dello spirito sostanzialmente libera ([18]), anche se necessariamente soggetta a controllo di legittimità e ragionevolezza da parte dell’ordinamento.

Tutte queste considerazioni, che non fanno che riproporre riflessioni note e condivise, convergono verso un’ulteriore grave criticità del disegno di legge in esame. Da tempo la migliore dottrina ha posto il problema delle “forme di espressione legislativa, per le quali colui che applica la legge acquista autonomia nei confronti di essa” ed ha individuato tali forme nei concetti indeterminati, nelle clausole generali, nelle formule particolarmente vaghe ([19]). Orbene, se l’utilizzazione da parte del legislatore di clausole generali (es. “buona fede”, “danno ingiusto”) e concetti indeterminati (es. “normale tollerabilità”) può essere di qualche utilità in sede civile per adattare la legge alle sempre mutevoli esigenze del mercato, essa deve essere ridotta al massimo in sede penale, dove l’aspirazione di “ottenere, mediante una formulazione precisa delle norme, chiarezza e certezza piena” ([20]) è assolutamente giustificata dal drammatico conflitto che si determina tra condotte umane, libertà di pensiero e libertà personale.

Affiora così una sorta di ever green della scienza e della pratica del diritto: l’esigenza di certezza del diritto. Su tale nozione, sui suoi tanti possibili significati si sono sviluppate riflessioni tra loro variamente collegate e tutte in qualche modo suggerite dalla sempre maggiore complessità della società: esse investono, ad esempio, la crisi dello Stato moderno, il moltiplicarsi delle fonti, il conflitto tra un (ritenuto) ammaliante giusrealismo e un meno fascinoso giuspositivismo, la configurabilità della giurisprudenza come fonte del diritto alternativa alla legge ecc. ([21]). Qui non è davvero il caso di riproporre sentieri tanto scoscesi. Piuttosto, mette conto rammentare l’ammonimento secondo il quale il ricorso a concetti così “evocativi”, quale è la certezza del diritto, è sempre funzionale alle esigenze concrete che emergono storicamente all’interno dell’ordinamento giuridico ([22]). Orbene, oggigiorno, in un momento connotato da una crisi profonda della credibilità della magistratura causata da questa stessa ([23]), occorre domandarsi fino a che punto è opportuno affidarle questo sindacato. Sul punto occorre chiedersi fino a che punto l’attuale crisi della magistratura non veda la corresponsabilità di un legislatore che le rimette le scelte concrete su valori di fondo: la claudicante tecnica legislativa che caratterizza il provvedimento in gestazione, di fatto demanda la soluzione in chiave penale di conflitti culturali tanto delicati quali quelli sottesi al sesso, alla sessualità, al genere ecc.

È assolutamente giustificata, a questo punto, la particolare urgenza con la quale in questa vicenda si ripropongono i temi nei quali è tradizionalmente declinata la certezza del diritto: la prevedibilità degli esiti degli interventi degli “organi per l’applicazione della legge” ([24]), della quale primo presupposto è la sicura e netta tecnica legislativa.

 

7. – Genere, “ideologia gender” e organizzazione della società: la “convivenza di diverse visioni” ed il beneficio del dubbio.

Più volte nelle pagine precedenti si è accennato ai conflitti che dilaniano le riflessioni dottrinali ed il corpo sociale in ordine alle ricadute sociopolitiche del sesso, della sessualità, del genere.

Queste implicazioni non sono ignorate dal c.d. “d.d.l. Zan”: infatti, nella definizione di genere si dà conto che il sesso di una persona determina “aspettative sociali” nei confronti della persona stessa. Tali aspettative sociali, che a loro volta hanno ovviamente radici di natura antropologico-culturale, sono, a ben vedere, il reale obiettivo dell’art. 7, che prevede la giornata contro l’omofobia ecc. In questa giornata sono previste dal comma 3 “cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile per la realizzazione delle finalità di cui al comma 1”, vale a dire “promuovere la cultura del rispetto e dell'inclusione, nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione”.

Probabilmente ci troviamo di fronte alla disposizione maggiormente caratterizzante e delicata del d.d.l. in esame.

È evidente, infatti, che attraverso di essa si mira ad incidere sulle premesse culturali del genere e delle costruzioni sociali ad esso connesse nell’odierna società ([25]). Questo intento è perseguito – come si è detto – con “cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile a … promuovere la cultura del rispetto e dell'inclusione, nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere”.

In particolare, l’attenzione va focalizzata sulla parola “pregiudizi”. Ancora una volta l’insoddisfacente tecnica legislativa non gioca a favore del d.d.l. La parola “pregiudizio”, infatti, non appartiene al solo linguaggio comune e quindi è assai insidiosa nelle sue potenziali ricadute applicative. In particolare, in psicologia sociale essa è usata per designare le “distorsioni cognitive”, ossia quelle falle che intervengono nei processi di conoscenza falsificandone le conclusioni a causa di rappresentazioni stereotipiche e a causa della mancata attenzione verso tutti gli elementi rilevanti nel caso concreto ([26]).

Qui interessa sottolineare quanto sia oggettivamente arduo distinguere i c.d. pregiudizi” da opinioni divergenti da quelle accettate in questo o quel settore della società: chi, e sulla base di quali criteri, stabilisce cosa è “pregiudizio” e cosa è “idea”, “opinione”, cui si aderisce perché frutto di un meditato processo di conoscenza?

In questo interrogativo si confermano i profili di estrema delicatezza posti dalla norma in esame, cui si è già accennato: è evidente che la norma si presta ad essere utilizzata come strumento di penetrazione culturale in opposizione a tesi contrarie, le quali sicuramente sono dotate di pari dignità, come si legge anche in una delle sentenze della Corte Suprema USA sopra ricordate, e pertanto devono essere parimenti tutelate. E ciò a maggiore ragione in quanto il tema del sesso, del genere e del rapporto tra loro è particolarmente carico di implicazione sociopolitiche, dal momento che “ogni società umana modifica le condizioni della propria perpetuazione fisica con un complesso insieme di regole quali il divieto di incesto, l'endogamia, l'esogamia, il matrimonio preferenziale con un certo tipo di parenti, la poligamia o la monogamia, o con l'applicazione più o meno sistematica di norme sociali, morali, economiche o estetiche” ([27]).

Su queste premesse ben si comprende quanto la letteratura, le tesi, le opinioni in materia di “genere” possano essere solcate da profonde divisioni: si confrontano, come è stato detto, diverse visioni del mondo ([28]). A chi non esita ad affermare senza mezzi termini che “la polemica della Chiesa cattolica contro ‘il gender’ è una difesa del patriarcato e dell’eterosessualità obbligatoria in reazione alle rivendicazioni e alle conquiste del femminismo e dei movimenti LGBTQI” ([29]), si è replicato che la “ideologia del gender” non è che un “esito del capitalismo neoliberale”, aggiungendo che se il “comunismo non è riuscito a realizzare la società senza classi, l’odierno monoteismo del mercato sta invece riuscendo, per ironia della storia, a realizzare la società senza sessi: la società asociale degli atomi unisex interscambiabili, dotati di una sola identità, quella del consumo” ([30]). Altri ha aggiunto che a seguito delle teoriche gender “la differenza sessuale si avvi[erebbe] ad essere esclusa dalle cose umane, per essere sostituita da un travestitismo generalizzato senza ricerca soggettiva di sé, disegnato dalle mode e funzionale ai rapporti dipotere. Insomma: l’insignificanza della differenza e l’indifferenza verso i soggetti in carne e ossa. Ma a questo esito, piuttosto congeniale alla cultura dell’economia finanziaria, non si arriva senza passare sopra il movimento delle donne cominciato con il femminismo degli anni Sessanta-Settanta, il che non è accaduto, la partita è ancora aperta” ([31]).

Come si vede, le premesse di fondo delineate da C. Lévi-Strauss sono confermate: si muove dal “genere” o dalla “ideologia gender” per pervenire a raffigurazioni complessive della società, imputando la tesi di volta in volta non gradita – a seconda delle personali convinzioni del singolo autore – ora al “mercato”, ora alla “cultura finanziaria”, che sono entrambe conclusioni assai opinabili. Invero, sul piano del buon senso sfugge il collegamento tra il genere e la “cultura finanziaria”: dopo la Mifid II l’impianto valoriale della disciplina del mercato finanziario si articola saldamente sul bene primario della tutela del risparmio e del risparmiatore ([32]). Si tratta, dunque, di un contesto che presenta un collegamento non evidente con l’orientamento sessuale del singolo individuo.

Meno estraneo all’ideologia gender potrebbe essere il riferimento al “neocapitalismo liberale”, ma solo a patto di riformulare il riferimento spostandolo su uno dei presupposti culturali più o meno remoti di quest’ultimo, vale a dire la centralità delle scelte individuali. Nell’ideologia gender, più precisamente, tale centralità investe l’organizzazione della società nel suo complesso, che vede prevalere una tutela assoluta delle scelte personali in tema di orientamento sessuale e identità di genere con una regressiva considerazione verso le implicazioni sulla collettività.

Tuttavia, anche prospettazioni di segno opposto potrebbero avanzarsi: se davvero la sessualità umana è contraddistinta da toni chiaroscurali, non è forse più saggio attenersi al fatto naturale incontrovertibile, secondo il quale donna è quell’essere umano fisiologicamente strutturato sul concorso di tre elementi: il ciclo mestruale, l’idoneità a generare, l’idoneità a dispensare il nutrimento. Su questa premessa ci si potrebbe chiedere se tale incontrovertibile dimensione fenomenologica sia solo una “fattualità biologica” o rechi in sé il valore insopprimibile proprio di ogni organismo vivente, ossia l’aspirazione alla continuità della specie; valore intorno al quale il dualismo femmina/maschio conserverebbe una sua intrinseca positività quale nucleo costitutivo della collettività umana e della società.

Sono tuttavia discorsi che travalicano il recinto del giurista, il quale può solo prospettare le molteplici “visioni del mondo” ([33]e chiedere che a ciascuna di esse sia almeno riconosciuto il beneficio del dubbio e della pari dignità. Ne segue che riesce non di immediata evidenza come temi così complessi e delicati, che in definitiva ruotano sulle implicazioni sociali ed antropologiche connesse alla perpetuazione fisica dell’umanità, possano essere affidati a estemporanei dibattiti di una giornata, senza alcuna garanzia di un pari spazio per le diverse opinioni.



[1] ) V. in proposito Liberali, Schillaci, Dodaro, Goisis, L’omotransfobia diventa reato: la Camera da il via libera, in www.giustiziainsieme.it.

[2] ) Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), sesta edizione it. con prefazione di E. Gallo e introd. di G. Pecora, Milano, 1994, 19.

[3] ) V. infatti Dodaro, in www.giustiziainsieme.it.

[4] ) I riferimenti possono leggersi in Sperti, Il diritto della comunità LGBTI ad una tutela “non illusoria”: recenti sviluppi giurisprudenziali sul conflitto tra libertà di espressione e il divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale, in Giust. Cost., 2020, 2250; Carapezza Figlia, in Il Giornale di Sicilia, 27 giugno 2021.

[5] ) Sulla sentenza v. Sperti, op, cit., 2253 ss.; Tanzanella, Il caso Taormina e la Corte di giustizia. Dalla libera espressione alla discriminazione, in www.medialaws.eu, Riv. Dir. media, 2/2020.

[6] ) Cosa si sarebbe detto se, ad esempio, il fotografo si fosse rifiutato di riprendere una manifestazione politica di un partito di cui egli non avesse condiviso le idee.

[7] Lorenzetti, Identità di genere e operazione di bilanciamento: modalità e limiti nella giurisprudenza delle corti nazionali e sovranazionali, in Bocconi Legal Papers (97), 2013, 97 ss.

[8] ) V. anche per riferimenti Zucher, Il disturbo dell’identità di genere in età evolutiva, in Valerio (cur.), Figure dell’identità di genere: uno sguardo tra psicologia, clinica e discorso sociale, Milano, 2013, 17 ss., 18; Priulla, C’è differenza, identità di genere e linguaggi: storie, corpi, immagini e parole, Milano, 2013, 18.

[9] ) Non è inutile riportare i dati forniti dall’Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, istituito presso la Polizia di Stato del Ministero dell'Interno) a proposito dei c.d. “crimini d’odio”: sono stati registrati in Italia fra il 10 settembre 2010 e il 31 dicembre 2018, 2.532 segnalazioni, di cui solo una parte costituenti reato, per le quali vi sono stati arresti e denunce. In particolare, per il 59,3% (897) sono reati d'odio etnico/razziale, per il 18,9% (286) si tratta di reati d'odio religioso, per il 13% (197) di reati d'odio omofobico, per il 7,8% (118) di reati contro disabili, per 1'1,0% (15) di reati d'odio basati sull'identità di genere (così Goisis, Sulla riforma dei delitti contro l’eguaglianza, in Riv. It. di dir. proc. Pen., 2020, 1519 ss.: lo scritto costituisce il testo della audizione dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, tenuta dalla Autrice in data 18 febbraio 2020 nella fase antecedente l’approvazione alla Camera de disegno di legge qui esaminato).

[10] ) Schillaci, A metà del guado: la proposta di legge Zan, tra riconoscimento e solidarietà, in www.giustiziainsieme.it.

[11] ) La Carta dei diritti fondamentali UE fa parte integrante dell’apparato normativo apicale dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (il c.d. Trattato di Maastricht): si legge, infatti, nell’art. 6 cit. che la Carta dei diritti fondamentali del 2000 “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”.

[12] ) L’identità di genere è invece presa in considerazione dalla dir. 2012/29/UE. La direttiva non prevede figure di reato, ma ha come scopo la protezione delle vittime dei reati, nel senso che queste ultime devono essere trattate in maniera rispettosa, senza che, tra l’altro, il genere, l’identità di genere, l’orientamento sessuale possano giustificare trattamenti deteriori da parte delle autorità inquirenti (v. considerando n. 9).

[13] ) In altre parole, secondo l’art. 4, non tutte le condotte riconducibili alle idee sarebbe “salve”, ma solo quelle “legittime”: ne segue la domanda: quali sono le condotte riconducibili ad idee ecc. che sarebbero “legittime” . e quali condotte sarebbero, invece, illegittime, pur essendo riconducibili a idee ecc.

[14] ) Sulla problematicità dell’art. 12 prel. v. almeno VELLUZZI, Commento artt. 12– 14 prel., in BARBA, PAGLIANTINI (cur.), Commentario c.c., I, Milano, 2012, 237 ss.; POGGI, Contesto e significato letterale, in Analisi e diritto, 2006, 169 ss.; PASTORE, La funzione dell’interpretazione letterale, in Ann.Univ.Ferrara –Sc.giur., 2002, 37 ss.

[15] ) In senso contrario Liberali, Sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere nei nuovi artt. 604-bis e 604-ter, www.giustiziainsieme.it., secondo la quale il principio di determinazione della legge penale sarebbe rispettato in forza della circostanza che “non solo l’omosessualità e la transessualità sono termini ormai entrati nel linguaggio comune, ma anche e soprattutto che la Corte Costituzionale ha avuto occasione per riconoscerne e valorizzarne il fondamento costituzionale”. Con ciò probabilmente si vuol dire che omosessualità e transessualità sono caratteristiche della persona che, in quanto tali, godono del riconoscimento dei diritti della persona e della personalità presente in Costituzione. Senonché, non è chiaro come il fatto che sessualità e transessualità contribuiscano a definire l’identità personale di un individuo contribuisca alla determinazione dei reati che il d.d.l. Zan intende introdurre.

[16] ) Già la Constitutio tanta vietava in generale l’interpretazione del Corpus juris, e la Corte di Cassazione rinviene le sue origini nel ricorrente tentativo del legislatore di imbrigliare i giudici: cfr. Calamandrei, La cassazione civile (1920), in Opere giuridiche, VI, Napoli, 1976, spec. 377 ss.; Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Milano, 2007, 128 ss.

[17] ) Sulla intrinseca vaghezza delle parole v. almeno Barberis, Manuale di filosofia del diritto, Torino, 2011, 53 ss., 72 ss.; LUZZATI, La vaghezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, 1990.

[18] ) In proposito è sufficiente rinviare a Betti, Teoria generale dell’interpretazione (1955), edizione corretta e ampliata da G. Crifò, 2 voll., Milano, 1990.

[19] ) Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, ed it. Milano, 1970, 167 ss.

[20] ) Sono ancora parole di Engisch, op. cit., 168.

[21] ) Per qualche riferimento v. Vogliotti (cur.), Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Torino, 2008; Fuller, Scritti sulla certezza, tra teoria e prassi del diritto, a cura di A. Porciello, Pisa, 2016; Alpa, La certezza del diritto nell’età dell’incertezza, Napoli, 2006; Pinelli, Certezza del diritto e compito dei giuristi, in Diritto pubblico, 2019, 2, 549 ss.; Pardolesi, Pino, Post-diritto e giudice legislatore, in Foro it., 2017, I, 113 e ss.

[22] ) Alpa, op. cit., 17.

[23] ) In proposito è sufficiente rinviare a Palamara, Sallusti, Il sistema. Potere, politica e affari: storia segreta della magistratura italiana, Milano, 2021.

[24] ) V. sul punto soprattutto Cesarini Sforza, voce Diritto (principio e concetto), in Enc. Dir., XII, Milano, 1964, 630 ss., 634; e v. anche nella letteraturta recente Alpa, op. cit., 37; Gianformaggio, Certezza del diritto, voce del Dig. priv., Sez. Civ., II, Torino, 1988 274 ss.; Praduroux, Certezza del diritto, voce del Dig. Disc. Privat., Sez. Civ.-Agg., Torino, 2014, 65 ss.

[25] ) Dove per “cultura” deve intendersi “quel complesso che comprende conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costumi, e ogni altra capacità e consuetudine acquisite dall’uomo quale membro di una società” (V. anche per riferimenti Lévi-Strauss, voce Antropologia, in Enciclopedia del Novecento, Roma, 1975, I, 202 ss.)

[26] ) V. anche per riferimenti Castelli, Psicologia sociale cognitiva, Roma-Bari, 2019, 57 ss.

[27] ) Lévi-Strauss, op. cit.

[28] ) Schillaci, op. cit.

[29] ) Così Bernini, La “teoria del gender”, i “negazionisti” e la “fine della differenza sessuale”, in AG AboutGender, Internatiol journal of gender studies, 2016, 5, 10, 367 ss.

[30] ) Così Fusaro, Quella del gender è un’ideologia o no?, in «L’intellettuale dissidente», 18 marzo 2015.

[31] ) Muraro, La differenza sessuale c’è. È dentro di noi, in «La ventisettesima ora», 28 marzo 2015, http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-differenza-sessuale-ce-e-dentro-di-noi/.

[32] ) Rinvio per le coordinate di riferimento a La Rocca, Buona fede e tutela dell'investitore tra la sentenza delle Sezioni Unite sulle «nullità selettive» e il sistema della Mifid II, in Riv. dir. banc., 2020, II, 53 ss., spec. 70 ss.; La Rocca, Introduzione alla product governance. premesse sistematiche; obblighi e responsabilità dei «produttori», in corso di stampa in Banca, borsa, tit. credito 2021, I.

[33] ) Vedine una sintesi in Monção, Gender and sexuality. A literature analysis, in www.academia.edu.


Scarica Articolo PDF