CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 23/01/2020 Scarica PDF

I gruppi nel Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: notazioni generali

Alessandro Nigro, Già Professore ordinario di Diritto commerciale nell'Università di Roma La Sapienza


1. Una delle novità più rilevanti (e di maggiore interesse) recate dalla riforma delle procedure concorsuali avviata con la l. delega n. 155 del 2017 e realizzata con il d. lgs. n- 14 del 2019, contenente il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, è senza dubbio costituita dall’introduzione nel nostro sistema concorsuale generale della regolamentazione della crisi dei gruppi di imprese[1].

E’ opinione di chi scrive che quando si trovi di fronte ad innovazioni di questo genere l’interprete debba cercare di dare risposta a due interrogativi fondamentali:

- questa nuova disciplina era effettivamente necessaria o quanto meno opportuna?

- questa nuova disciplina risponde in modo adeguatoo almeno soddisfacentealle esigenze che la rendevano appunto necessaria o quanto meno opportuna?

   

2. Personalmente sono convinto che, con riguardo alla disciplina della crisi e dell’insolvenza dei gruppi contenuta nel nuovo Codice, alla prima domanda si debba dare senz’altro una risposta pienamente positiva.

a. Come tutti sappiamo, era mancata finora nel nostro ordinamento una regolamentazione generale della crisi dei gruppi di imprese. Esistevano (come tuttora esistono) regolamentazioni speciali sia nell’ambito di leggi che hanno disciplinato particolari procedure concorsuali (l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, nella doppia versione del 1999 e del 2003) e sia nell’ambito di leggi di settore (il testo unico bancario; il testo unico della finanza; il codice delle assicurazioni private; il d. l. n. 233 del 1986 in materia di società fiduciarie e di revisione): ma tali regolamentazioni non potevano trovare applicazione, se non per singoli profili, a procedure ed ambiti diversi rispetto a quelli per i quali erano state previste.

b. Era, questa, una lacuna molto grave, dal momento che i gruppi costituiscono la forma più evolutae“raffinata” di organizzazione dell’impresa, una forma sempre più utilizzata, anche per iniziative economiche di dimensioni non rilevantissime. Una lacuna tanto più grave ove si consideri, per un verso, che dal 2003 l’ordinamento italiano si è dotato di una disciplina civilistica dei gruppi (mi riferisco ovviamente agli artt. 2497 ss. c.c.), di cui la regolamentazione delle crisi dei medesimi costituisce, allora, un complemento indispensabile ai fini proprio di assicurarne la piena efficienza; e, dall’altro, che c’è ormai anche una disciplina comunitaria della crisi dei gruppi transfrontalieri (mi riferisco al Regolamento UE n. 848/2015 che ha modificato il Regolamento UE del 2000 sulle procedure di insolvenza, fra l’altro introducendo appunto tale disciplina: art. 56 ss.[2]).

A questo riguardo, è il caso di ricordare – anche se è noto a tutti - che il fenomeno “gruppo” si caratterizza per la scissione fra il profilo economico sostanziale, che vede l’esistenza di una unica impresa, ed il profilo giuridico formale, che vede l’esistenza di una pluralità di soggetti distinti. Questa scissione costituisce la chiave del successo di tale modello: essa consente, in generale, una flessibilitàorganizzativa sconosciuta all’impresa autonoma, o come sempre più spesso si usa dire “monade”, e, in particolare, permette di conseguire peculiari vantaggi in termini di frazionamento della responsabilità, e quindi del rischio, in termini di allocazione dei costi e dei benefici, ecc. Al tempo stesso è questa scissione la fonte dei problemi più rilevanti in tema di gruppi. Perché essa genera una serie di conflitti che hanno natura, potremmo dire, strutturale e che sono quindi inevitabili:

- quello fra l’interesse del gruppo e l’interesse delle singole componenti del medesimo;

- quello fra azionisti della società capogruppo e azionisti (solo) delle altre società del gruppo;

- quello fra creditori della società capogruppo e creditori (solo) delle altre società del gruppo.

Questi conflitti sono evidentemente destinati ad acuirsi nell’ipotesi dell’insolvenza e specificamente nell’ipotesi di un’insolvenza riferibile, in atto o in potenza, all’intero gruppo (quando l’insolvenza riguardi una singola società, diversa dalla capogruppo, e non abbia alcun riflesso significativo sul gruppo nel suo insieme, in effetti nessun problema particolare, in termini di necessità di meccanismi atti a gestire quei conflitti in un’ottica unitaria, si pone[3]).

c. Con specifico riferimento al concordato preventivo, la prassi aveva tentato – come si ricorderà - di colmare la lacuna o cercando di forzare le norme generali o inventando “tecniche” più o meno fantasiose. Quanto a queste ultime, mi riferisco, per esempio, al meccanismo imperniato sulla presentazione di una proposta di concordato preventivo da parte di una società in nome collettivo, costituita allo scopo, nella quale siano stati conferiti i complessi aziendali delle società del gruppo, con estensione dell’effetto esdebitatorio alle medesime, le quali dichiarino di agire anche in proprio e chiedano di essere ammesse tutte alla procedura[4]. La giurisprudenza di merito ha, in qualche raro caso, accolto questi tentativi[5]; ma la Cassazione li ha recisamente respinti[6], affermando la assoluta necessità di una disciplina positiva che preveda e regolamenti procedure concorsuali di gruppo[7].

Anche con riguardo al fallimento, la prassi ha cercato di colmare la lacuna, utilizzando talvolta il meccanismo previsto e disciplinato dall’art. 147 l. fall. nella particolare “versione” dell’estensione successiva della procedura aperta a carico di una società di capitali alla “supersocietà di fatto” asseritamente configurabile fra essa società ed altri soggetti (anche società di capitali) alla prima legati da vincoli partecipativi e quindi ai soci illimitatamente responsabili di tale supersocietà. Un meccanismo – al quale la giurisprudenza anche della Cassazione e della Corte costituzionale ha dato da ultimo ingresso[8]  e che è stato formalmente recepito nel Codice (art. 256, co. 5) - che consente di realizzare, come è stato giustamente evidenziato[9], una sorta di “consolidamento” sostanziale; un meccanismo che, da un lato, presenta molti e non irrilevanti limiti[10] e, dall’altro, può servire a completare, al limite, una disciplina normativa della crisi dei gruppi, non certo a surrogarla.

d. Al primo interrogativo, dunque, si deve a mio avviso dare senza esitazioni una risposta affermativa.

   

3. Al secondo – molto più complesso – interrogativo si dovrebbe dare, ritengo, una risposta più articolata.

Sono convinto che meritino adesione alcune delle idee di fondo che sono alla base della nuova disciplina. Mi riferisco soprattutto all’idea del contemperamento fra le esigenze di cui le regole concorsuali sono espressione e le esigenze di cui le regole societarie sono espressione, contemperamento che poi si traduce nella conciliazione fra l’esigenza di preservare la distinta soggettività delle imprese del gruppo, con la conservazione dell’autonomia delle rispettive masse attive e passive, e l’esigenza di favorire tecniche di “governo” di gruppo delle crisi.

Credo che non si potesse dare per scontata l’adesione del legislatore della riforma a queste idee.

Ricordo che, in termini astratti, la soluzione ideale, nell’ipotesi di crisi patrimoniale dei gruppi, parrebbe essere quella di trattare il gruppo insolvente come impresa unica facendo prevalere, nella situazione di crisi, la sostanza economica sulla forma giuridica. Certo, è questa una soluzione che, in termini di politica del diritto, risulta assolutamente sconsigliabile: come giustamente è stato sottolineato, per esempio nella Guida legislativa Uncitral, la semplice prospettiva che, in caso di insolvenza, ogni distinzione fra le componenti del gruppo (in termini di patrimoni, di obbligazioni, di responsabilità) si azzeri finirebbe con il tradursi di un pesante handicap, inceppando la tranquilla utilizzazione dello strumento “gruppo”. Così come è sicuro che la maggior parte degli ordinamenti è orientata nel senso del mantenimento, anche in caso di insolvenza del gruppo, del principio della distinzione fra le diverse entità che il gruppo compongono, temperato però, eventualmente, da una più o meno articolata serie di correttivi ispirati alla logica opposta, quella cioè dell’impresa unica (correttivi che vanno da forme di collegamento fra le diverse procedure aperte a carico delle singole entità – in termini, per esempio, di un vero e proprio “consolidamento” processuale, ma anche, più semplicemente, di identità di organi – a particolari regimi delle operazioni “infragruppo”, in termini per esempio di revocatoria aggravata, o della responsabilità della capogruppo, ecc.); e che nello stesso senso sono del pari orientati sia le discipline speciali già presenti nel nostro ordinamento e alle quali facevo riferimento poc’anzi, sia il Regolamento comunitario del 2015 e la Guida legislativa dell’Uncitral anch’essi già ricordati.

Resta però, che la prospettiva del c.d. consolidamento patrimoniale – cioè la riunione in un’unica nassa attiva ed in un’unica massa passiva dei patrimoni delle singole società del gruppo -rimane, nella nostra materia, sempre sullo sfondo[11]. E non era affatto detto che il nostro legislatore – il quale sia nella riforma in atto sia precedentemente non sempre ha mostrato di essere particolarmente sensibile al profilo, o problema, di un adeguato bilanciamento, appunto, fra regole societarie e regole concorsuali: basta pensare, per un verso, all’art. 185, co. 6, l. fall., ripreso dall’art. 118, co. 6, Codice; o, per altro verso, all’art. 264 Codice[12] – avrebbe resistito alla tentazione di introdurre, vuoi in generale vuoi magari in relazione a particolari conformazioni dei legami di gruppo (come tipicamente quelle che vedano una integrazione fra le diverse entità talmente forte da determinare una sostanziale indistinzione dei rispettivi patrimoni e delle rispettive sfere di obbligazioni), “dosi” di quel tipo di consolidamento[13]. Non dimentichiamo che in un passato sia pur lontano ci sono stati tentativi di introdurre sul piano normativo quel tipo di meccanismi (mi riferisco ad una serie di d.l. risalenti agli anni ’80 e mai convertiti; e mi riferisco anche alla soluzione adottata nella liquidazione del gruppo EFIM, che fu trattato per molti aspetti proprio come impresa unica e che, attraverso diversi passaggi, si concluse con l’unificazione in una sola procedura di tutte le procedure di l. c. a. aperte a carico delle società interamente partecipate dall’EFIM[14]). E non era affatto detto che la storia non potesse ripetersi.

Il legislatore della riforma, invece, ha resistito a quella tentazione, saggiamente collocandosi nell’alveo ormai, diciamo, tradizionale, segnato dalle normative speciali più volte richiamate[15], alcune delle cui regole (in particolare quelle contenute negli art. 89 e 91 del d. lgs. n. 270/1999, in materia di amministrazione straordinaria), altrettanto saggiamente, ha ripreso. Una scelta, dunque, certamente condivisibile, così come è, sempre a mio avviso, condivisibile l’idea di escludere, in materia, ogni “automatismo” (nel senso della applicazione necessaria della medesima procedura concorsuale ad ogni impresa del gruppo che sia in crisi o insolvente) e di adottare un regime “flessibile”, basato sulla previsione di uno “zoccolo duro” rappresentato dall’obbligo (per gli organi gestionali) della cooperazione in ogni caso di coesistenza di più procedure concorsuali distinte a carico di imprese di un medesimo gruppo; e sulla previsione d una facoltà, per le imprese in crisi appartenenti ad un gruppo, di optare per la presentazione di un’unica domanda di accesso a procedure compositive o liquidative di gruppo[16].


4. Altro è, naturalmente, il discorso per quanto riguarda il modo in cui le suddette idee di fondo – ripeto: a mio avviso del tutto condivisibili – hanno trovato traduzione in norme. Qui, credo che la valutazione sia, non possa non essere, diversa

Inizierei rilevando che, a ben considerare, l’intero Codice è ricchissimo di imprecisioni, duplicazioni, errori, lacune, forzature, e così via, per non parlare dei numerosissimi e vistosissimi eccessi di delega: ed era ben difficile che la parte specificamente dedicata alla disciplina della crisi dei gruppi potesse sottrarsi alla stessasorte.

A questo riguardo, è tuttora difficile rendersi conto del perché un processo di riforma così lungo ed in cui si sono impegnati, a quanto risulta, stuoli di persone, abbia dovuto avere un esito così pieno di “ombre”, per usare un eufemismo. In particolare, non si può dire se questo sia il risultato della fretta che, inspiegabilmente, ha fin dall’inizio connotato i lavori; o di una scarsa chiarezza di idee sul modo in cui le nuove regole avrebbero dovuto essere declinate: o di una scarsa capacità tecnica; o di una combinazione, allora micidiale, di tutti questi fattori.

è certo, naturalmente, che: il compito dell’interprete non è quello di distruggere, ma quello di costruire o ricostruire. Talune volte, però, la distruzione è inevitabile, per poter poi ricostruire in termini più convincenti e soddisfacenti.

   

5. a. Restando al nostro tema specifico, è il caso di iniziare ricordando che la nuova disciplina si struttura, dal punto di vista contenutistico, in cinque parti: la nozione di gruppo (art. 2, lett. h); la regolamentazione delle c.d. “procedure di gruppo” (Tit. VI, capi I e II: art. 284-287) la regolamentazione delle procedure “autonome” ma contestuali (capo II: art. 288); la regolamentazione delle procedure “distinte” a carico di singole imprese appartenenti ad un gruppo (capo III, art. 289); i “correttivi” alla separatezza (capo IV: art. 289-292).

Orbene, la stessa sistematica adottata nel titolo dedicato, appunto, alle disposizioni che qui interessano fornisce plastica evidenza, sembra di poter affermare, quanto meno di una nettissima propensione alla “sciatteria”.

Il capo I e il capo II, a livello di rubriche, distinguono nettamente fra «regolazione della crisi o insolvenza del gruppo», che designerebbe il concordato di gruppo, gli accordi di ristrutturazione di gruppo ed il piano attestato di gruppo e la «procedura unitaria di liquidazione giudiziale», con ciò mostrando di ritenere, in contrasto con quanto emerge dalle altre disposizioni del Codice, che la liquidazione giudiziale non rientri nell’ambito della regolazione della crisi e dell’insolvenza. Non solo: il capo II comprende sia l’art. 287, che in effetti riguarda unicamente la liquidazione giudiziale, sia anche l’art. 288, che invece riguarda vuoi procedure di liquidazione giudiziale vuoi procedure di concordato preventivo.

Il capo III concerne la domanda di accesso presentata da un’impresa singola appartenente ad un gruppo.

Il capo IV è intitolato «Norme comuni»: contiene però solo disposizioni che riguardano la liquidazione giudiziale.

b. La stessa propensione di cui si è appena detto si riscontra talvolta anche a livello di singole disposizioni.

Si prenda ad esempio l’art. 285. I co. 1 e 2 di tale articolo concernono i (soli) piani “concordatari”, di cui precisano il contenuto. Il co. 3 stabilisce: «Gli effetti pregiudizievoli delle operazioni di cui al comma 1 possono essere contestati dai creditori dissenzienti appartenenti a una classe dissenziente o, nel caso di mancata formazione delle classi, dai creditori dissenzienti che rappresentano almeno il venti per cento dei crediti ammessi al voto con riguardo ad una singola società, attraverso l'opposizione all'omologazione del concordato di gruppo. I creditori non aderenti possono proporre opposizione all'omologazione degli accordi di ristrutturazione». Appare evidente la assoluta eterogeneità fra il primo ed il secondo periodo della disposizione. L’uno concerne la tutela, nel concordato, dei creditori dissenzienti rispetto alle specifiche operazioni di cui al co. 2 (e non al co. 1, come invece, per un refuso, si trova scritto); l’altro concerne il potere in generale spettante, nel quadro del procedimento di omologazione di accordi di ristrutturazione, ai creditori estranei di opporsi a quella omologazione[17].

c. Non mancano d’altra parte, pur in una normativa complessivamente non certo abbondante (meno di una decina di disposizioni) singolari duplicazioni. 

L’art. 284, co. 4, seconda parte stabilisce che la domanda – presentata da più imprese appartenenti a un gruppo – di accesso al concordato preventivo o al procedimento di omologazione di accordi di ristrutturazione «deve … fornire informazioni analitiche sulla struttura del gruppo e sui vincoli partecipativi o contrattuali esistenti tra le imprese e indicare il registro delle imprese o i registri delle imprese in cui è stata effettuata la pubblicità ai sensi dell'articolo 2497-bis del codice civile». Questa previsione è pressoché testualmente riprodotta nel successivo art. 289, per il quale «La domanda di accesso a procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza presentata da un'impresa appartenente ad un gruppo deve contenere informazioni analitiche sulla struttura del gruppo e sui vincoli partecipativi o contrattuali esistenti tra le società e imprese e indicare il registro delle imprese o i registri delle imprese in cui è stata effettuata la pubblicità ai sensi dell'articolo 2497-bis del codice civile». é vero che le due disposizioni si riferiscono a due ipotesi diverse: la presentazione di una domanda di gruppo e la presentazione di una domanda di impresa singola; ma esse devono considerarsi espressione di una logica unitaria. Altrimenti dovrebbe arrivarsi a ritenere che tale obbligo informativo non sussista ove la domanda sia di accesso alla liquidazione giudiziale di gruppo, visto che l’art. 287 non ne fa menzione[18].

Analogo discorso vale per la previsione dell’art. 286, che riguarda il procedimento di concordato di gruppo, per la quale (co. 4) «Il commissario giudiziale, con l'autorizzazione del giudice, può richiedere alla Commissione nazionale per le società e la borsa - Consob o a qualsiasi altra pubblica autorità informazioni utili ad accertare l'esistenza di collegamenti di gruppo e alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate. Le informazioni sono fornite entro quindici giorni dalla richiesta». E che anch’essa si trova pressoché testualmente riprodotta nel successivo art. 289, ultima parte, per il quale «In ogni caso il tribunale ovvero, successivamente, il curatore o il commissario giudiziale possono, al fine di accertare l'esistenza di collegamenti di gruppo, richiedere alla CONSOB o a qualsiasi altra pubblica autorità e alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate. Le informazioni sono fornite entro quindici giorni dalla richiesta.»[19].

d. Alcune disposizioni sono decisamente oscure.

Mi riferisco, per esempio, all’art. 290, co. 1. Questa disposizione stabilisce: «Nei confronti delle imprese appartenenti al medesimo gruppo possono essere promosse dal curatore, sia nel caso di apertura di una procedura unitaria, sia nel caso di apertura di una pluralità di procedure, azioni dirette a conseguire la dichiarazione di inefficacia di atti e contratti posti in essere nei cinque anni antecedenti il deposito dell'istanza di liquidazione giudiziale, che abbiano avuto l'effetto di spostare risorse a favore di un'altra impresa del gruppo con pregiudizio dei creditori, fatto salvo il disposto dell'articolo 2497, primo comma, del codice civile» (co. 1); e «Spetta alla società beneficiaria provare di non essere stata a conoscenza del carattere pregiudizievole dell'atto o del contratto» (co. 2).

Sicuro essendo che si tratta di azioni revocatorie non si riesce a comprendere quale ne sia esattamente la natura, anche in rapporto alla previsione del co. 3 di cui dirò subito appresso. Sembrerebbe doversi ritenere che si tratti di azioni revocatorie ordinarie di atti a titolo oneroso (la qualificabilità come revocatoria di atti a titolo gratuito sembrerebbe esclusa dal carattere relativo della presunzione di conoscenza posta a carico della società beneficiaria), azioni aggravate non tanto sotto il profilo del periodo sospetto, ma sotto quello della presunzione di conoscenza posta appunto a carico della società beneficiaria. Ma è una ricostruzione tutt’altro che certa[20].

Il co. 3 stabilisce: «Il curatore della procedura di liquidazione giudiziale aperta nei confronti di una società appartenente ad un gruppo può esercitare, nei confronti delle altre società del gruppo, l'azione revocatoria prevista dall'articolo 166 degli atti compiuti dopo il deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale o, nei casi di cui all'articolo 166, comma 1, lettere a) e b), nei due anni anteriori al deposito della domanda o nell'anno anteriore, nei casi di cui all'articolo 166, comma 1, lettere c) e d)».

In questa disposizione non è difficile rinvenire una singolare incongruenza ed una altrettanto singolare lacuna.

L’azione revocatoria concorsuale prevista dall’art. 166, co. 1 riguarda i c.d. atti anormali di gestione, rispetto ai quali il periodo sospetto è fissato in un anno per gli atti di cui alle lett. a), b) e c) ed in sei mesi per gli atti di cui alla lett. d). Con riferimento alla crisi dei gruppi il legislatore della riforma – seguendo la linea già adottata nella normativa sull’amministrazione straordinaria – ha previsto un aggravamento di quel regime, consistente in un raddoppio del periodo sospetto: un raddoppio che però ha riguardato solo gli atti di cui alle lett. a), b) e d), non anche gli atti di cui alla lett. c), per i quali è stato confermato il termine di un anno.

A questa incongruenza si aggiunge una vistosa lacuna. Il co. 3, infatti, ignora completamente la revocatoria concorsuale degli atti a titolo oneroso c.d. normali, quelli oggetto del co. 2 dell’art. 166 del Codice e considerati anche e proprio nella normativa sull’amministrazione straordinaria (in effetti: una volta entrati nell’ordine di idee di adottare un regime di revocatoria aggravata degli atti a titolo oneroso infragruppo, non c’è ragione di limitare il regime ai soli atti anormali)[21].

In sostanza, per concludere sul punto: il legislatore del Codice ha deciso, giustamente, di copiare per questa parte il sistema adottato dalla legge sull’amministrazione straordinaria, ma non è nemmeno riuscito a copiarlo bene!

e. Infine, non fanno difetto, neppure, autentici errori.

In base all’art. 284, co. 4, «La domanda proposta ai sensi dei commi 1 e 2 – cioè, rispettivamente, la domanda di accesso al concordato preventivo e quella di accesso al procedimento di omologazione di accordi di ristrutturazione - deve contenere l'illustrazione delle ragioni di maggiore convenienza, in funzione del migliore soddisfacimento dei creditori delle singole imprese, della scelta di presentare un piano unitario ovvero piani reciprocamente collegati e interferenti invece di un piano autonomo per ciascuna impresa». In base, poi, all’art. 285, co.4, il tribunale omologa il concordato o gli accordi di ristrutturazione «qualora ritenga, sulla base di una valutazione complessiva del piano o dei piani collegati, che i creditori possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale della singola società».

Queste previsioni certamente hanno un senso e si giustificano in relazione alla domanda di accesso ad un concordato di gruppo; non hanno alcun sensoinvece, altrettanto certamente, con riguardo alla domanda di accesso al procedimento di omologazione di accordi di ristrutturazione. E non hanno senso perché negli accordi di ristrutturazione non possono mai, in assoluto, trovare posto né il criterio del “migliore soddisfacimento dei creditori”, né quello della “maggiore convenienza” rispetto all’alternativa liquidatoria; e ciò per una semplicissima ragione, data dal fatto che, negli accordi, il grado di soddisfacimento dei creditori è già fissato ex ante (per i creditori aderenti all’accordo, dall’accordo medesimo; per i creditori non aderenti, dalla legge, che impone un soddisfacimento integrale e alla scadenza dei medesimi). A questo proposito, si deve, per incidens, ricordare che l’’intero meccanismo degli accordi – nella sua versione “tipica” - si fonda su due componenti essenziali: da un lato, l’esistenza di un accordo con una percentuale minima di creditori (il 60%), accordo il cui contenuto è lasciato alla assoluta libertà delle parti e, in particolare, non è vincolato alla regola della par condicio; dall’altro, l’idoneità dell’accordo ad assicurare il pagamento integrale e alla scadenza (salva una breve dilazione voluta dalla legge) dei creditori estranei all’accordo, idoneità che deve essere specificamente attestata dal professionista indipendente.

Le disposizioni in questione, nella parte in cui si riferiscono agli accordi di ristrutturazione, paiono quindi frutto di un autentico travisamento o, se si preferisce, di una totale incomprensione delle regole che governano gli accordi di ristrutturazione ed il relativo procedimento di omologazione[22]. Non sarebbe difficile arrivare ad affermare che l’art. 284, co. 4, e l’art. 285, co. 4, potrebbero essere sospettati addirittura di incostituzionalità, sotto il profilo della loro assoluta irragionevolezza.

   

6. Un ultimo, importante profilo va considerato: quello dell’applicazione alla crisi dei gruppi delle regole generali, dettate dal Codice per le singole procedure e strumenti di regolazione. Manca, nel titolo dedicato ai gruppi, una disposizione di “raccordo” della disciplina particolare con la disciplina generale (risulta che, in una precedente versione, una disposizione del genere ci fosse: non è chiaro perché non sia stata mantenuta). Nonostante questo, non dovrebbero aversi dubbi su ciò che, là dove nulla sia stabilito nella disciplina particolare, debbano trovare applicazione appunto le regole generali.

Il fatto è che l’applicazione delle regole generali, nell’ipotesi di procedure di gruppo, prospetta problemi di non agevole soluzione, che avrebbero richiesto adeguata attenzione da parte del legislatore.

Si può certamente dire che, con riferimento per esempio alla liquidazione giudiziale di gruppo, un legislatore solo minimamente accorto avrebbe dovuto procedere ad una accurata analisi della disciplina generale di quella procedura per verificare fase per fase, profilo per profilo se certe regole avrebbero potuto trovare piena applicazione o avrebbero dovuto essere modificate o comunque adattate alla realtà di una procedura unitaria di gruppo.

Così, sempre per esemplificare, se il legislatore della riforma avesse proceduto a simili analisi e verifiche si sarebbe certamente reso conto che, in materia di programmadi liquidazione, non ci si poteva limitare alla scarna regoletta che è stata introdotta (art. 287, co. 3: «Nel programma di liquidazione il curatore illustra le modalità del coordinamento nella liquidazione degli attivi delle diverse imprese e ogni vantaggio rispetto alla liquidazione separata delle singole imprese. Le spese generali della procedura sono imputate alle imprese del gruppo in proporzione delle rispettive masse attive»), ma si sarebbe dovuto considerare, da un lato, il profilo procedimentale (che succede se uno dei comitati dei creditori – che debbono essere, ricordo, diversi per ognuna delle società del gruppo - non approvi il programma?) e, dall’altro, tutti i possibili contenuti di quel programma (l’art. 264 prevede la possibilità di inserire in esso l’attribuzione al curatore, per determinati atti od operazioni, dei poteri dell’assemblea dei soci: è possibile che siano attribuiti all’unico curatore nell’unico programma di liquidazione tutti i poteri deliberativi in ordine ad operazioni, per esempio, di fusione o di scissione fra tutte le società del gruppo o alcune di esse, modificando, quindi, la consistenza degli attivi e dei passivi delle società coinvolte; o si deve ritenere che costituiscano limiti a quella possibilità le previsioni dell’art. 287, co. 1, per il quale la procedura di gruppo è possibile quando risultino «opportune forme di coordinamento nella liquidazione degli attivi, in funzione dell’obiettivo del migliore soddisfacimento dei creditori delle diverse imprese del gruppo, ferma restando la reciproca autonomia delle loro rispettive masse attive e passive»?).

Il legislatore della riforma evidentemente non si è curato di quella analisi e di quella verifica. Con il risultato non solo e non tanto di porre le premesse per una serie infinita di incertezze e di problemi, ma anche e soprattutto di lasciare nella nuova normativa una serie infinita di lacune, la più gigantesca e impressionante delle quali è costituita dalla totale mancata considerazione (e quindi mancata regolamentazione) di un istituto fondamentale nella disciplina della liquidazione giudiziale, quale è il concordato liquidatorio giudiziale, che, assurdamente, risulta puramente e semplicemente ignorato dal Codice. Con una patente violazione anche della l. delega, la quale, all’art. 2, co. 3, lett. d), ha espressamente stabilito che debba essere prevista «la disciplina di eventuali proposte di concordato liquidatorio giudiziale, in conformità alla disposizione dell’art. 7 co. 10, lett. d)»[23].

La cosa singolare è che il primo schema di decreto delegato, risalente al dicembre 2017, conteneva un art. 292 (immediatamente successivo all’articolo dedicato alla liquidazione giudiziale di gruppo), recante la rubrica «Proposte di concordato liquidatorio giudiziale», nel quale si stabiliva : «Nel caso in cui pendano anche dinanzi a tribunali diversi, procedure di liquidazione giudiziale di imprese facenti parte di un medesimo gruppo possono essere presentate proposte di concordato liquidatorio giudiziale, fondate su di un unico piano o su piani reciprocamente collegati e interferenti, ai sensi degli art. 245 e seguenti. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni relative al concordato preventivo di grippo» (vale a dire, in quello schema, gli art. 288-290). Questa previsione – nella sua prima parte, per la verità, palesemente assurda, dal momento che il concordato (un tempo fallimentare, ora) liquidatorio giudiziale, pur se si atteggia, per certi versi, come procedura autonoma, è e resta semplicemente una fase di una procedura, quella (un  tempo, di fallimento e ora) di liquidazione giudiziale, in cui è saldamente embricata: talché non sarebbe neppure concepibile, e men che meno realizzabile, un concordato liquidatorio giudiziale di gruppo destinato ad innestarsi in procedure di liquidazione giudiziale pendenti magari dinanzi a tribunali diversi (laddove, è appena il caso di sottolinearlo, è perfettamente concepibile e realizzabile un concordato liquidatorio giudiziale di gruppo destinato a costituire la fase terminale di una liquidazione giudiziale di gruppo) – non è stata ripresa dal testo definitivo del decreto e non è dato sapere per quali ragioni. Con il risultato che la disciplina della liquidazione unitaria di gruppo è rimasta priva di un “tassello” essenziale, quello relativo, appunto, al concordato liquidatorio.

Si tratta, ad avviso di chi scrive, di una lacuna di enorme gravità[24], perché rischia di compromettere la stessa utilizzabilità dello strumento della liquidazione giudiziale di gruppo. Non va dimenticato sotto questo aspetto, da un lato, che il concordato fallimentare, come momento “compositivo” di una procedura liquidativa, nasce contemporaneamente allo stesso fallimento; e, dall’altro e coerentemente, che, nel nostro ordinamento, la disciplina di tutte le procedure liquidative anche diverse dal fallimento o liquidazione giudiziale prevede e regola il concordato come possibile (e, per certi versi, auspicabile[25]) esito delle medesime: così è per la liquidazione coatta amministrativa e così è per l’amministrazione straordinaria.

D’altra parte, si tratta di una lacuna non rimediabile in via interpretativa. Non si può far ricorso direttamente alla disciplina generale del concordato liquidatorio giudiziale, dal momento che la Cassazione ha stabilito con estrema nettezza che le procedure concorsuali di gruppo richiedono una apposita disciplina in tutte le loro fasi. E neppure si può far ricorso all’applicazione analogica delle disposizioni relative al concordato preventivo di gruppo[26], magari raccogliendo lo spunto offerto dalla previsione dell’art. 292 del vecchio (e superato) schema di decreto. E ciò per almeno due (molto semplici) ragioni. Quanto alla prima: la disciplina del concordato liquidatorio di gruppo, per evitare gravi aporie sistematiche, dovrebbe essere direttamente complementare alle regole poste dalla disciplina generale del concordato liquidatorio e con esse direttamente sintonico; l’innesto sul tronco della disciplina generale del concordato liquidatorio delle regole del concordato preventivo di gruppo invece si tradurrebbe, stanti le rilevanti differenzestrutturali fra concordato preventivo e concordato liquidatorio giudiziale, nella creazione, da parte dell’interprete, di un “ibrido” totalmente distonico rispetto alla figura generale (è sufficiente considerare che, nella disciplina del concordato preventivo di gruppo, un ruolo fondamentale è rivestito dal piano e dall’attestazione del medesimo; mentre la disciplina del concordato liquidatorio nemmeno contempla un piano e men che meno una attestazione del medesimo). Quanto alla seconda ragione: l’innesto sul tronco della disciplina generale del concordato liquidatorio delle regole del concordato preventivo di gruppo non consentirebbe di dare risposta a taluni dei più elementari dei problemi che un concordato liquidatorio di gruppo inevitabilmente pone o porrebbe: basta pensare, per fare solo un esempio, al problema – denso di implicazioni - se il concordato debba necessariamente riguardare tutte le società sottoposte alla liquidazione unitaria o possa riguardare soltanto alcune di esse.

Dato tutto ciò, sembra veramente difficile negare l’indispensabilità di un intervento del legislatore.

   

7. Arrivando alle conclusioni.

Da tutto quanto fin qui detto emerge che, anche in materia di disciplina della crisi e dell’insolvenza dei gruppi, la riforma presenta luci, ma anche molte ombre: ed è difficile giudicare se prevalgano le une o le altre. Quel che sembra sicuro è che l’intero Codice, ma comunque la parte che qui interessa, necessita di una attenta rivisitazione e risistemazione, perché alla seconda delle domande inizialmente poste possa essere data una risposta pienamente affermativa.

Purtroppo, non pare che di una simile rivisitazione e risistemazione sussistano allo stato le premesse. é in fase di elaborazione un (primo?) decreto “correttivo”, che dovrebbe entrare in vigore contemporaneamente all’entrata in vigore del d. lgs. n. n. 14/2019: esso però, stando alla versione che ne circola, è ben lungi dal rappresentare un promettente avvio del processo di revisione qui auspicato. Lo è in generale e lo è per la materia che qui specificamente interessa Non solo, infatti, l’intervento sembra essere di portata assai limitata (si tratterebbe per la maggior parte di ritocchi meramente formali), mentre non sono stati neppure sfiorati i nodi critici più rilevanti (a cominciare dalla mancanza di una apposita disciplina del concordato liquidatorio giudiziale di gruppo). Ma addirittura talune delle innovazioni (modeste) previste paiono ancora una volta frutto di una “approssimazione” decisamente sconcertante.

Basteranno, al riguardo, due esempi.

Il primo. L’art. 284, co. 4, riguardante – come si è già visto – la domanda di accesso al concordato preventivo o alla procedura di omologazione degli accori di ristrutturazione è stato, nella versione di cui si sta parlando, modificato con l’inserimento della precisazione secondo la quale il piano o i piani da allegare alla domanda «quantificano il beneficio stimato per i creditori di ciascuna impresa del gruppo, anche per effetto della sussistenza di vantaggi compensativi conseguiti o fondatamente conseguibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo». La precisazione è, in sé, abbastanza bizzarra, posto che la dimostrazione del migliore soddisfacimento derivante ai creditori dalla scelta di presentare un piano unitario o piani collegati anziché piani autonomi per ogni singola impresa del gruppo implica necessariamente una qualche specificazione di ordine quantitativo. Comunque, di nuovo, essa precisazione può avere un qualche senso nell’ambito del concordato preventivo, non invece in quello dell’omologazione di accordi di ristrutturazione.

Il secondo esempio. L’art. 286, che disciplina il procedimento di concordato di gruppo, è stato integrato, sempre nella versione di decreto correttivo di cui si sta parlando, con un nuovo co. 7, per il quale «Il tribunale, con il decreto di omologazione, nomina un comitato dei creditori per ciascuna impresa del gruppo e, quando il concordato prevede la cessione dei beni, un unico liquidatore giudiziale per tutte le imprese del gruppo». La disposizione è abbastanza singolare. Nell’ambito della disciplina generale del concordato preventivo, la nomina di un comitato dei creditori è prevista solo nell’ipotesi in cui il concordato consista nella cessione dei beni (art. 114 Codice); nel caso di un concordato preventivo di gruppo tale nomina, invece, dovrebbe aversi sempre, non si sa – né si comprende – per quale ragione.

In un passato non troppo vicino, con riferimento ad una delle disposizioni più “infelici” della riforma del 2005-2007, quella riguardante la revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente (art. 67, co. 3, lett. b), chi scrive aveva parlato di «insipienza del legislatore»versus«fantasia dei giudici»[27]: alla luce di quanto è accaduto e sta accadendo sul fronte della odierna riforma, è forte il timore che ci aspetti una lunga stagione in cui dovremo continuare a dibatterci fra, ed a combattere contro, queste due nuove Scilla e Cariddi.



[1] La letteratura su questa “porzione” della nuova (rispetto a quella del 2005-2007) riforma organica delle procedure concorsuali non è ancora particolarmente ricca. Comunque, con riguardo alla prima “tappa” del lungo iter del processo riformatore costituita dalla l. delega e dal relativo progetto si possono ricordare i contributi di R. Santagata, Il concordato di gruppo nel Progetto di riforma Rordorf: prime impressioni, in Riv. dir. impr., 2016, p. 681 ss.; Panzani, La disciplina delle crisi di gruppo tra proposte di riforma e modelli internazionali, in Fallimento, 2016, p. 1153 ss.; G. Scognamiglio, La disciplina del gruppo societario in crisi o insolvente, Prime riflessioni a valle del recente disegno di legge delega per la riforma organica della legge fallimentare, in Arato e Domenichini (a cura di), Le proposte per una riforma della legge fallimentare. Un dibattito dedicato a Franco Bonelli, Milano, 2017, p. 21 ss.; C. Pasquariello, La crisi del gruppo: consolidation o autonomia?, in Calvosa (a cura di), Crisi di impresa e insolvenza Prospettive di riforma, Pisa, 2017, p. 299 ss.. Con riguardo alla seconda “tappa”, costituita dal Codice, si possono ricordare i contributi di Guerrera, La regolazione negoziale della crisi e dell’insolvenza dei gruppi di imprese nel nuovo CCII, in Il codice della crisi e dell’insolvenza: idee ed istituti, in Questione giustizia, 2019, fasc. 2, p. 169 ss.; G. Scognamiglio, I gruppi di imprese nel CCII: fra unità e pluralità, in Società, 2019 p. 413 ss.; D’Attorre, I concordati di gruppo nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Fallimento, 2019, p. 277 ss.; Spiotta, La disciplina dei gruppi, in Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Giur. it., 2019, p. 1943 ss.; Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2019, p. 213 ss.; con riferimento a profili particolari, ma con attenzione alla disciplina in generale, v. anche Miola, Crisi dei gruppi e finanziamenti infragruppo nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, p. 440 ss.

[2] Sulle linee di fondo del nuovo Regolamento v., per tutti, Latella, La crisi dei gruppi di società nella riforma dell’insolvenza transfrontaliera: spunti di riflessione, in Crisi e insolvenza. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, p. 436 ss., ove tutti i necessari riferimenti.

Alla luce dell’atteggiamento assunto sul tema dei gruppi dal legislatore comunitario in materia di insolvenza transfrontaliera appare certamente singolare il silenzio mantenuto dallo stesso legislatore sul quel tema in materia di ristrutturazione precoce: la recentissima direttiva n. 1023 del 2019, infatti, non contiene il benché minimo riferimento alla ristrutturazione dei gruppi (per Miola, Crisi dei gruppi, cit., p. 445, nt. 17, tale silenzio avrebbe costituito ossequio alla scelta dell’armonizzazione minima: ma non sembra che questa possa considerarsi una giustificazione appagante).

[3] Questo non significa ovviamente che sia destinata a rimanere totalmente irrilevante, in relazione alla gestione della crisi di una singola impresa la circostanza dell’appartenenza della medesima ad un gruppo. Al contrario: tale circostanza potrà rilevare sotto molti profili, da quello della necessità che tale appartenenza sia resa nota agli organi della procedura (è il profilo disciplinato dall’art. 289 del Codice) a quello della possibilità per gli organi della procedura di far valere la responsabilità della capogruppo ai sensi dell’art. 2497 c. c.

[4] Su questo meccanismo v., specificamente, Panzani, La disciplina, cit., p. 1158; Arato, Regolazione della crisi e dell’insolvenza dei gruppi di imprese, in Il Caso 10.4.2018.

[5] Cfr., fra le altre, Trib. Benevento, 18 gennaio 2012, in Dir. banc., 2012, I, p. 371, con nota di Vattermoli, che ha ritenuto  ammissibile la proposta di concordato presentata da un gruppo di società che preveda la riunione in un'unica massa attiva e in un'unica massa passiva dei patrimoni delle singole società del gruppo; App. Genova, 23 dicembre 2011, in Fallimento, 2012, p. 437, che ha ritenuto ammissibile la proposta di concordato strutturata sulla base del meccanismo di cui si è detto nel testo.

é il caso di ricordare che una parte della dottrina aveva cercato di trarre argomenti a favore della ammissibilità di concordati preventivi di gruppo dalla formulazione dell’art. 160 l. fall. e precisamente dalla lett. b) di tale disposizione, dove si prevede «l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore» (v. per tutti M. Sandulli, Art. 160, in Nigro e M. Sandulli (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, p. 984).

[6] Cfr. Cass, 17 ottobre 2018, n. 26005, in Fallimento, 2019, p. 489, con nota di L. Benedetti; 31 luglio 2017, n. 19014, in Società, 2017, p. 1386, con nota di Fauceglia; 13 ottobre 2015, n. 20559, in Giur. comm., 2016, II, p. 114, con nota di Fauceglia.

[7] Per un quadro completo ed aggiornato degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali in materia di procedure di gruppo v. per tutti Abriani e Panzani, Crisi e insolvenza nei gruppi di società, in Crisi di impresa e procedure concorsuali, diretto da Cagnasso e Panzani, Torino, 2016, II, p. 3048 ss., ove i necessari riferimenti.

[8] V. Corte cost., 6 dicembre 2017, n. 255, in Foro it., 2018, I, c. 758; Cass., 12 gennaio 2016, n. 1095, in Fallimento, 2016, p. 453, con nota di Fimmanò; Cass., 13 giugno 2016, n. 12120, in Giur. comm., 2017, II, 637, con nota di Jorio. In argomento v. anche Montalenti, Abuso della personalità giuridica, socio tiranno, responsabilità di gruppo, in Crisi di impresa, cit., II, p. 2950 ss.

[9] Da Miola, Crisi dei gruppi, cit., p. 443.

[10] Esso infatti comporta la necessità di identificare non solo un “nuovo” soggetto (la società di fatto), ma anche una “nuova” impresa, distinta da quella facente capo alla società di capitali destinataria della pronunzia originaria; e ancora di un nuovo “soggetto” (“nuova” impresa) che si sia esteriorizzato come tale e che sia anch’esso caduto, distintamente, in stato di insolvenza.

Inoltre, la tecnica della supersocietà di fatto fra o con società di capitali si scontra con un ostacolo insuperabile, quello rappresentato dalla previsione dell’art. 2361, co. 2, c.c., per il quale «L’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea». La Cassazione ha ritenuto di potersi liberare della questione, degradando la deliberazione assembleare al rango di semplice “autorizzazione”, destinata a costituire un limite al potere di rappresentanza generale degli amministratori e come tale soggetta al regime di inopponibilità ai terzi previsto dall’art. 2384, co. 2. In realtà, da un lato, la disposizione in questione si colloca sul versante della ripartizione delle competenze fra amministratori ed assemblea e si traduce in una attribuzione a quest’ultima del potere di deliberare, con effetto vincolante per gli amministratori, in ordine a quello specifico segmento di attività: con la conseguenza che, se manca quella deliberazione, non può aversi assunzione di partecipazioni da parte della società. Dall’altro, anche a voler ragionare in termini di limiti al potere rappresentativo degli amministratori, sembra sicuro che il regime della inopponibilità di cui all’art. 2384, co. 2, non possa riguardare i limiti posti direttamente – come sarebbe in questo caso – dalla legge: con la conseguenza, anche qui, della non riferibilità alla società dell’attività posta in essere dagli amministratori in ipotesi idonea a fondare un rapporto societario di fatto.

[11] Come è rimasto sullo sfondo, per esempio, del dibattito che ha preceduto la riforma poi sfociata nel Regolamento comunitario del 2015: sul punto v. Latella, La crisi, cit., p. 437.

[12] Su entrambe queste disposizioni v. Nigro, Le riorganizzazioni societarie nel diritto italiano delle crisi: notazioni generali, in Riv. dir. comm., 2019, I, p. 387 ss.

[13] Sul quale v., per tutti, Vattermoli, Gruppi insolventi e consolidamenti di patrimoni (sbstantive consolidation), in Riv. dir. soc., 2010, p. 586 ss.

[14] Sugli uni e sull’altra v. Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, Torino, 2012, rispettivamente p. 206, nt. 188 e p. 130 ss.; con riguardo ai primi v. anche G. Scognamiglio, La disciplina, cit., p. 23.

[15] Una piccola, ma non marginale, deviazione dalla logica di fondo adottata potrebbe, peraltro, considerarsi la previsione – in effetti criticata sotto molti profili - della possibilità, nell’ambito del piano unitario o dei piani collegati e interferenti, di «operazioni contrattuali e riorganizzative, ivi inclusi trasferimenti di risorse infragruppo» (art. 285, co. 2 del Codice), che potrebbe riguardarsi come un “frammento” di consolidamento patrimoniale (sul tema v., fra gli altri, D’Attorre, I concordati, cit., p. 288 ss.; G. Scognamiglio, I gruppi, cit., p. 427.

[16] Questa linea pone naturalmente un problema di fondo, quello di stabilire se il modello adottato si concreti in una semplice “concentrazione di procedure”, destinate a rimanere distinte, o in un vero e proprio “consolidamento”, cioè nella costruzione di una autentica procedura unica. I dati normativi sono univoci in quest’ultimo senso per quanto riguarda la liquidazione giudiziale; lo sono meno per la procedura di concordato e per quella di omologazione degli accordi di ristrutturazione (sul tema v. specificamente D’Attorre, I concordati, cit., p. 286 ss.). Sembra comunque da ritenere corretta la seconda soluzione: il che, per un verso, segna una notevole differenza fra il modello adottato dal Codice e quello adottato, per esempio, nella disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi; e, per altro verso, ha evidenti ricadute applicative assai rilevanti.

[17] L’accostamento fra le due previsioni potrebbe favorire interpretazioni distorte e fuorvianti in ordine alle prerogative dei creditori estranei, la cui posizione è radicalmente diversa da quella dei creditori dissenzienti nel concordato preventivo.

[18] Degrada questa ripetizione al rango di semplice “inestetismo” G. Scognamiglio, I gruppi, cit., p. 419.

[19] Conviene sull’inutilità di questa ripetizione G. Scognamiglio, I gruppi, cit., p. 420.

[20] Si esprimono per la qualificabilità del meccanismo in questione come azione revocatoria ordinaria G. Scognamiglio, I gruppi, cit., p. 421 s.; Spiotta, La disciplina, cit., p. 14 (dell’estratto).

é il caso di segnalare che anche la disposizione della l. delega su cui dovrebbe poggiare la previsione che stiamo considerando non brilla certamente per chiarezza. L’art. 2, co. 3, lett. c) stabilisce infatti che si debba prevedere l’attribuzione al curatore del potere di «azionare rimedi contro operazioni antecedenti l’accertamento dello stato di insolvenza dirette a spostare risorse a un’altra impresa del gruppo, in danno dei creditori».

[21] Qualifica l’incongruenza e la lacuna di cui si è appena detto come “sviste redazionali” G. Scognamiglio, I gruppi, cit., p. 422, che vi aggiunge anche l’omesso richiamo all’art. 163 del Codice concernente l’inefficacia degli atti a titolo gratuito.

[22] Né potrebbe farsi valere, in senso contrario, la previsione contenuta nella disciplina degli accordi con efficacia estesa, per la quale deve risultare che i creditori della medesima categoria cui vengano estesi gli effetti dell’accordo possano risultare soddisfatti in base all’accordo stesso in misura non inferiore rispetto ad una eventuale liquidazione giudiziale (art. 61, co. 2, lett. d)): perché nel caso specifico si tratta di una ipotesi di soddisfacimento non integrale imposto a creditori estranei contro la loro volontà ed è quindi logico il ricorso al criterio del confronto con quanto quei creditori riceverebbero in una eventuale liquidazione giudiziale.

[23] Il quale art. 7, co. 10, lett. d) stabilisce, nel quadro della liquidazione giudiziale in generale, che debbano essere adottate misure dirette a «disciplinare e incentivare le proposte di concordato liquidatorio giudiziale da parte di creditori e di terzi, nonché dello stesso debitore ove questo apporti risorse che incrementino in modo apprezzabile l’attivo».

[24] Di cui però, abbastanza singolarmente, i commentatori del Codice non sembrano, almeno finora, essersi accorti. Fa eccezione la sola Spiotta, La disciplina, cit., p. 17 (dell’estratto).

[25] Si pensi alla disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, nella versione “speciale”, costruita inizialmente dal legislatore come procedura mirante proprio ad approdare ad un concordato (come in effetti avvenne nella prima applicazione, al dissesto Parmalat, di quella disciplina).

[26] Un’applicazione, peraltro, che parrebbe preclusa in principio dalla previsione della legge delega prima ricordata.

[27] Nigro La revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente fra insipienza del legislatore e fantasia dei giudici, in Dir. banc., 2009, I, pp. 103-110


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