CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 20/12/2019 Scarica PDF

Procedure unitarie "di gruppo" nel codice della crisi

Giorgio Meo e Luciano Panzani, Giorgio Meo, Avvocato in Roma. Luciano Panzani, già Presidente della Corte d'Appello di Roma


Sommario: 1. La trattazione unitaria della crisi nelle soluzioni concordate. – 2. Il ricorso unico per la liquidazione giudiziale di gruppo. – 3. Considerazioni sulla fattispecie della direzione e coordinamento descritta dal CCI. – 4. Dubbi sul perimetro prescelto dal legislatore. – 5. Le condizioni per l’apertura della procedura. – 6. Qualche considerazione sulle condizioni per l’accesso alla procedura “di gruppo”. – 7. Il “mantra” del miglior soddisfacimento dei creditori: il rischio del risanamento. – 8. Il “miglior soddisfacimento” in che senso? – 9. Il problema tipologico: continuità o liquidazione? – 10. I trasferimenti infragruppo.

     


1. La trattazione unitaria della crisi nelle soluzioni concordate.

(gm)

Il fenomeno della crisi dell’impresa articolata in più unità societarie ha faticato ad emergere nella disciplina positiva italiana. Se si escludono la previsione della possibilità di estendere l’amministrazione straordinaria ad altre società che si trovano in rapporto attivo o passivo di controllo rispetto all’impresa sottoposta per prima alla procedura (art. 81, d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270) e le speciali regole previste in tema di gruppo bancario e assicurativo dalla speciale disciplina di settore (art. 98 ss., TUB; art. 277 ss., Codice delle Assicurazioni), nessuna specifica regola di diritto concorsuale ha considerato i possibili riflessi, in termini di gestione della crisi, dell’appartenenza di un’impresa a un contesto più ampio, che “in vita” ne aveva condizionato decisioni e comportamenti e che aveva verosimilmente contribuito a generare la sua stessa crisi o comunque ad attribuirle i connotati con cui si presenta al concorso dei propri creditori.

Il Codice della crisi d’impresa (“CCI”) ha quindi meritoriamente aperto per la prima volta l’ordinamento italiano a una concezione più realistica e vicina alla concreta realtà dell’impresa appartenente a un gruppo introducendo una serie di disposizioni che, sul presupposto dell’esistenza di legami rilevanti tra più imprese, consentono loro di offrire ai rispettivi creditori una risposta congiunta.

L’art. 284 CCI, dedicato al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione, prevede che più imprese appartenenti a un medesimo “gruppo” che versino in uno stato di crisi o di insolvenza, aventi ciascuna il proprio centro dei principali interessi – il “COMI” di cui al Regolamento (UE) n. 2015/848 e alla Model Law Uncitral sull’insolvenza transnazionale – in Italia, possono proporre con un unico ricorso la domanda di accesso alla procedura accompagnandola con un piano unico per tutte ovvero con più piani reciprocamente collegati e interferenti.

La nozione di “gruppo” rilevante ai fini della disposizione in esame è stabilita dallo stesso CCI all’art. 2, comma 1, lett. h. Per tale si intende un insieme di società, imprese o enti (escluso lo Stato) sottoposti ai sensi degli artt. 2497 e 2545 septies cod. civ. a direzione e coordinamento di una società, di un ente o di una persona fisica in base a vincolo partecipativo o contrattuale.

Il CCI – in parte in modo difforme rispetto al diritto societario generale – stabilisce che si presume, salvo prova contraria, che la direzione e coordinamento sia esercitata da una società o un ente tenuto al consolidamento dei bilanci e che sia subita dalle società controllate direttamente o indirettamente da una società o da un ente e dalle società sottoposte a controllo congiunto.

Sembrerebbe non valere quindi, nel diritto della crisi, la presunzione di direzione e controllo attiva prevista dall’art. 2497 sexies, cod. civ., secondo cui si presume che vi sia direzione e coordinamento su un’impresa societaria quando una società o un ente “comunque le controlla ai sensi dell’articolo 2359”. La differenza rispetto al codice civile è però in realtà solo apparente perché la stessa presunzione è semplicemente vista “dal basso”: si presume la direzione e coordinamento legittimante alla presentazione di una procedura di crisi congiunta, cioè, quando vi siano società “controllate direttamente e indirettamente”, il che significa anche che, visto “dall’alto” come fa il codice civile, vi dev’essere chi le controlla.

La fattispecie “unificante” è dunque rinvenuta nella sussistenza di una situazione “verticale” di direzione e coordinamento, indipendentemente dal fatto che la fonte della soggezione sia partecipativa o contrattuale. Per questa ragione il richiamo all’art. 2545 septies, cod. civ., che si riferisce al gruppo cooperativo cd. “paritetico”, cioè orizzontale, senza un vertice di comando comune, è in realtà del tutto improprio: si tratta, certamente, di una situazione in cui la genesi del gruppo è di natura contrattuale, e tuttavia non in senso verticale.

 

(lp)

Con il Titolo VI del codice della crisi il legislatore ha dato attuazione al principio contenuto nell’art. 3, comma 1, lett. d) della legge delega prevedendo la possibilità per le imprese in crisi od insolventi di un gruppo sottoposte alla giurisdizione dello Stato italiano di proporre la domanda di concordato preventivo di gruppo, di omologazione dell’accordo di ristrutturazione di gruppo o la liquidazione giudiziale di gruppo.

Era ormai patrimonio acquisito che la grande maggioranza delle attività d’impresa si svolge attraverso la veste giuridica del gruppo di società, che meglio consente di differenziare l’investimento e di ridurre le responsabilità. Dottrina e giurisprudenza di legittimità hanno costantemente escluso, nel vigore della legge fallimentare del 1942, la configurabilità di un’insolvenza di gruppo e di una procedura di gruppo. La tradizione italiana, come del resto quella della maggior parte degli ordinamenti di diritto continentale, considera le società come soggetti di diritto autonomi e non consente di trattare il gruppo insolvente come un’entità unica. Tuttavia era avvertita l’esigenza di evitare che l’apertura di procedure concorsuali che investano una o più società del gruppo faccia venir meno l’unità di direzione e coordinamento che caratterizzava il gruppo finché le società erano in bonis. Se la necessità di garantire la piena tutela dei creditori di ogni società assicurando la separazione delle masse attive e passive rimane un punto fermo, occorre tuttavia che il progetto di ristrutturazione o il programma di liquidazione delle attività le investa in modo unitario, essendo evidente che altrimenti le possibilità di conservazione dell’impresa o di liquidazione in termini tali da assicurare la massimizzazione del valore degli asset risulterà gravemente compromessa, con conseguenze pregiudizievoli proprio per i creditori.

L’Italia è stata uno dei primi Paesi ad introdurre per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi con la c.d. legge Prodi ( l. 3 aprile 1979, n. 95) una disciplina dell’insolvenza di gruppo, poi estesa con principi sostanzialmente analoghi all’insolvenza delle imprese bancarie e assicurative. Tale disciplina partiva dall’esigenza di preservare l’autonomia patrimoniale di ogni società ed il diritto dei creditori di concorrere separatamente sulle relative masse ed affrontava proprio i temi che si sono ora indicati.

Pur antesignana nel registrare la necessità di una disciplina dell’insolvenza di gruppo e pur mantenendo tale disciplina nelle successive revisioni della legge Prodi (d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e d.l.  23 dicembre 2003, n. 347), l’Italia aveva poi ritardato nell’estendere queste regole alle procedure concorsuali ordinarie relative alle imprese commerciali. La riforma organica del diritto societario aveva già dettato, peraltro, una disciplina generale dei gruppi, tuttora in vigore, che, pur astenendosi da una definizione generale, riconosce il fenomeno dell’attività di direzione e coordinamento di più società, presupponendo in capo alla holding il potere di imprimere la direzione unitaria al gruppo, dettando principi generali a presidio del corretto esercizio – sul piano “societario e imprenditoriale” – di tale potere e prescrivendo specifiche regole sulla pubblicità della soggezione alla direzione e coordinamento, sulla motivazione delle decisioni  dalla stessa influenzate, sui finanziamenti infragruppo e sul diritto di recesso dei soci esterni al gruppo.

Nel frattempo non soltanto diversi Paesi europei si sono dotati di una disciplina in materia, ma è intervenuto il Regolamento 2015/848 dell’Unione Europea di revisione della disciplina dell’insolvenza transfrontaliera già regolata dal Regolamento 1346/2000.  Esso prevede una disciplina dell’insolvenza di gruppo, che presenta rilevanti differenze  rispetto alle regole previste dal nostro legislatore, a partire dalla nozione stessa di gruppo, che il codice della crisi detta tra le definizioni previste dall’art. 2 (lett. h) , differenze che si spiegano almeno in parte perché il Regolamento detta norme di diritto internazionale privato e si fonda essenzialmente sulla collaborazione tra gli organi delle procedure facenti capo alle diverse società del gruppo, ivi compresi gli organi giudiziari, mentre le norme interne in commento sono norme di diritto positivo, direttamente vincolanti sul piano nazionale. La nozione di gruppo adottata dal codice della crisi non coincide peraltro neppure con quella prevista dalla disciplina dell’amministrazione straordinaria (artt. 80 e ss. della legge 8.7.1999, n. 270).

Vanno sottolineati i limiti dell’approccio del legislatore. Gli artt. 284 e ss. del codice della crisi si riferiscono soltanto al gruppo di imprese che abbiano tutte il centro degli interessi principali in Italia. Manca quindi ogni disciplina del gruppo insolvente transnazionale, omissione che è evidentemente intenzionale e che comporta nel caso di crisi od insolvenza transfrontaliera relativa ad imprese che abbiano il proprio COMI nell’Unione Europea il rinvio implicito al Regolamento 848/2015. Nel caso tuttavia in cui si tratti di imprese che hanno il loro COMI al di fuori dell’Unione Europea, la disciplina del codice si presenta incompleta. Non si tratta però di un limite che riguardi soltanto la disciplina del gruppo in crisi od insolvente perché più in generale il legislatore ha rinunciato ad occuparsi del riconoscimento delle procedure aperte al di fuori dell’Unione, per le quali continueranno ad applicarsi, al di fuori dei pochi casi in cui sussistono trattati bilaterali, le norme interne di diritto internazionale privato, la cui applicazione soffre pure di limitazioni.

Va poi sottolineato che la disciplina dettata dal codice non si riferisce al gruppo come entità autonoma, ma alle imprese. Quindi non soltanto alle società, ma del resto l’art. 2497 c.c. considera l’attività di direzione o coordinamento posta in essere da “società o enti”, con l’esclusione, se non a livello di concorso nella responsabilità di chi esercita la direzione e il controllo, ai sensi del secondo comma della norma, della persona fisica. Il concordato o l’accordo di ristrutturazione ha ad oggetto pertanto un piano o, come si vedrà, un insieme di piani coordinati, riferiti alle imprese del gruppo, non al gruppo in quanto tale, la cui tutela è pertanto indiretta, anche se la Relazione governativa sottolinea che “…Quando si è in presenza di un gruppo di imprese …è frequente che la crisi investa tutte o molte delle imprese facenti parte del gruppo ed è indispensabile affrontarle in un’ottica unitaria, laddove la frammentazione delle diverse procedure si rivela disfunzionale” .

Ancora va notato che gli artt. 284 e 287 del codice conoscono il concordato di gruppo, l’accordo di ristrutturazione di gruppo, la liquidazione giudiziale di gruppo, ma non affrontano il quesito se possa essere proposto un piano di gruppo che preveda per talune imprese il ricorso al concordato o all’accordo e per altre la liquidazione giudiziale. L’art. 285 consente la presentazione di un concordato che sia in parte in continuità ed in parte liquidatorio, per talune imprese del gruppo. Non pare invece che sia possibile presentare, stando almeno alla lettera della legge, una domanda di apertura di una procedura che preveda per talune imprese il concordato o l’accordo di ristrutturazione e per altre la liquidazione giudiziale. Del pari il legislatore non ha preso in considerazione la possibilità che la domanda per talune imprese preveda il concordato e per altre preveda l’omologazione di accordi di ristrutturazione sulla base di piani connessi. Va però sottolineato sin d’ora che ove non si possa far luogo alla procedura di gruppo, rimarrà applicabile l’art. 288 relativo alle procedure autonome di gruppo, che prevede soltanto obblighi di collaborazione tra gli organi delle diverse procedure.

Un ultimo rilievo preliminare concerne il fatto che la disciplina della procedura di gruppo è unitaria nel senso che prevede alcuni requisiti sostanziali comuni alle imprese del gruppo, non soltanto in ordine all’esistenza del gruppo nei termini di cui alla nozione presa a riferimento dal codice, ma anche in termini di risultati previsti per ciascuna delle imprese coinvolte dall’unico piano o dai plurimi piani collegati. Essa è poi unitaria dal punto di vista procedimentale per gli specifici profili che sono considerati dal legislatore (ad esempio l’unicità della domanda, la deroga alle regole ordinarie in tema di competenza, la nomina di un unico organo della procedura). Per il resto però ciascuna procedura è autonoma e valgono, in quanto non derogati, i generali criteri previsti dalla disciplina ordinaria per ciascun tipo di procedura per così dire monistica. Il legislatore del resto ha cura nel terzo comma dell’art. 284 di ribadire, in conformità alla legge delega, che resta ferma l’autonomia delle rispettive masse attive e passive delle imprese coinvolte. Mutatis mutandis pertanto il procedimento di gruppo non rappresenta una novità assoluta per il nostro ordinamento, non soltanto perché vi sono i precedenti previsti dalla disciplina dell’amministrazione straordinaria, ma perché un altro punto di riferimento è rappresentato dal procedimento previsto per il fallimento dei soci illimitatamente responsabili dall’art. 147 l.fall. ed ora per la liquidazione giudiziale dei medesimi dall’art. 256 del codice. L’evoluzione giurisprudenziale ci dirà se conclusioni analoghe potranno essere assunte anche per le procedure familiari di risoluzione della crisi da sovraindebitamento aperte su istanza dei membri di una stessa famiglia ( art. 66 CCII). La scarna disciplina dettata dal legislatore non permette allo stato di raggiungere conclusioni certe, anche se pure in questo caso la domanda riguarda una pluralità di soggetti e prevede un unico progetto di ristrutturazione della crisi da sovraindebitamento.

   

2. Il ricorso unico per la liquidazione giudiziale di gruppo.

(gm)

Il CCI ha riguardo alle situazioni “di gruppo” anche quando si versi in situazione di insolvenza e debba aprirsi la liquidazione giudiziale.

L’art. 287 CCI prevede che più imprese, quando ricorre la fattispecie sopra descritta, possono essere assoggettate a una procedura giudiziale unitaria in accoglimento di un unico ricorso. Perché ciò avvenga non basta, tuttavia, che sussista una delle situazioni di direzione e coordinamento sopra descritte. Occorre anche che le imprese si offrano di propria iniziativa alla possibile procedura unitaria. Il regime non è obbligatorio ma volontario.

Non potrebbe condurre a una procedura unitaria neppure l’iniziativa del curatore di un’impresa dichiarata insolvente in via autonoma e assoggettata a liquidazione giudiziale, pur quando riscontri la sussistenza di legami “di gruppo”. Il comma 5 dell’art. 287 CCI prevede bensì la legittimazione del curatore di una società del gruppo a segnalare l’insolvenza agli organi societari di un’altra società del gruppo insolvente e poi, se questi restano inerti, a chiederne lui stesso la dichiarazione giudiziale. Questo, però, può accadere solo se già è aperta una procedura di liquidazione giudiziale di gruppo, che il curatore ritenga si debba estendere a un’altra società dello stesso gruppo insolvente rimasta fuori dal perimetro della procedura originaria. Il curatore di una procedura di liquidazione individuale (non nata, cioè, come “di gruppo” per effetto del ricorso unitario volontariamente presentato da più imprese) non potrebbe invece chiedere di trasformarla in procedura di gruppo.

E v’è da dubitare anche della stessa sussistenza, in capo al curatore di una procedura unitaria, del potere di chiedere l’accertamento dello stato di insolvenza di una diversa società (onde ottenerne l’apertura di una liquidazione giudiziale individuale) allegando la sussistenza dei legami di gruppo con quella già dichiarata insolvente e affidata alle sue cure. La previsione concernente la speciale legittimazione del curatore è inserita, infatti, entro l’art. 287 CCI, dedicato, appunto, alla liquidazione giudiziale di gruppo, il che sembra postulare che la prerogativa del curatore sia strettamente ancorata alla possibilità che essa possa sfociare in un’attrazione alla procedura di gruppo di un’altra società, in ragione delle possibili maggiori efficienze consentite dalla liquidazione di gruppo per i creditori sociali di ciascuna entità. Non sembra invece che al curatore possa essere riconosciuta in via generale, quasi si trattasse di un organo sovraordinato di polizia economica, la legittimazione alla denunzia dell’insolvenza di società diverse che non potrebbero essere attratte alla disciplina unitaria affidata alle sue cure.

La chiara previsione dell’art. 287 CCI limita la legittimazione alla presentazione di un ricorso unico alle imprese interessate da legami “di gruppo”. Ciò sembra escludere che la richiesta unitaria di dichiarazione di insolvenza di più imprese aventi legami di gruppo possa provenire dal creditore di una o più di esse o dal Pubblico Ministero. Il creditore può chiedere l’insolvenza dell’impresa sua debitrice, e in ipotesi di tutte, se verso tutte egli vanti dei crediti. Ma né il creditore né il Pubblico Ministero sono in grado di avere il quadro giustificativo dell’esigenza di una trattazione unitaria della crisi, la cui valutazione fa parte dell’area delle scelte d’impresa, quindi gestionali, che non possono essere sottratte agli organi competenti delle imprese coinvolte.

In sintesi, il sistema delineato dal CCI ha come perno che la richiesta di apertura di una procedura di gruppo è sempre discrezionale per il debitore. E qui si apre il tema, su cui torneremo, del perché al debitore dovrebbe convenire richiederla. Da questo punto di vista il riconoscimento di una legittimazione del curatore “del gruppo insolvente” a richiedere l’attrazione alla procedura unitaria anche di altre imprese del gruppo che non siano state incluse nel perimetro rappresenta, sicuramente, un importante deterrente.

 

(lp)

L’art. 3 della legge delega 155/2017 dà mandato al legislatore delegato di “prevedere per le imprese, in crisi o insolventi, del gruppo sottoposte alla giurisdizione dello Stato italiano la facoltà di proporre con unico ricorso… domanda …. di liquidazione giudiziale, ferma restando in ogni caso l'autonomia delle rispettive masse attive e passive, con predeterminazione del criterio attributivo della competenza, ai fini della gestione unitaria delle rispettive procedure concorsuali, ove le imprese abbiano la propria sede in circoscrizioni giudiziarie diverse”. Pare dunque evidente che la domanda di liquidazione giudiziale di gruppo possa essere proposta soltanto da società del gruppo medesimo nel ristretto ambito di quelle aventi sede in Italia e per le quali è radicata la giurisdizione dello Stato italiano. Il comma 4 dell’art. 287 regolando la competenza territoriale nel caso di domande presentate da più imprese appartenenti al gruppo contemporaneamente, prevede la competenza del tribunale ove si trova il COMI della società che esercita la direzione ed il coordinamento ovvero in mancanza del COMI dell’impresa che presenta la più elevata esposizione debitoria. Ne deriva che le domande di liquidazione giudiziale di gruppo possono essere presentate da qualsiasi società del gruppo e non necessariamente da quella che esercita la direzione ed il coordinamento.

In effetti il riferimento dell’art. 287 all’unico ricorso ed il chiaro tenore dell’art. 3 della legge delega escludono, come osserva Giorgio Meo, che la domanda possa essere proposta da un creditore o che la procedura di liquidazione giudiziale di gruppo possa risultare dalla plurima presentazione di istanze relative ad unica società da parte di una società del gruppo e di un creditore relativamente ad altra società. Non basterebbe infatti la possibilità di un procedimento unitario ai sensi dell’art. 7 CCII perché il legislatore richiede una specifica domanda che può emanare soltanto dai soggetti indicati come legittimati dall’art. 287.  La ragione di tale scelta del legislatore, che è opposta alla soluzione adottata in caso di amministrazione straordinaria, dipende probabilmente dal fatto che si è comunque previsto in caso di gruppo un generale obbligo di cooperazione tra gli organi di gestione di procedure individuali relative a imprese del medesimo gruppo (art. 288 CCII), anche quando non si faccia luogo alla procedura unitaria. 

Il criterio adottato vale anche per il concordato di gruppo e per l’accordo di ristrutturazione di gruppo, con la differenza che in questi ultimi casi, come ricorda Giorgio Meo, non vale neppure la possibilità del curatore della procedura di gruppo di “attrarre” nella liquidazione giudiziale un’impresa insolvente che non è stata oggetto della domanda unitaria (art. 287, co. 5). La domanda di concordato o di omologazione degli accordi di ristrutturazione deve essere proposta da tutte le imprese del gruppo e richiede pertanto che gli amministratori di ogni società od ente o la persona fisica che fa parte del gruppo manifestino una volontà in tal senso nelle forme previste dall’art. 40 CCII. Ne deriva che, a differenza di quanto è previsto per l’amministrazione straordinaria e per la liquidazione giudiziale di gruppo dall’art. 287, ultimo comma, CCII, non vi può essere un’estensione del concordato di gruppo ad altre imprese che non l’abbiano richiesto.

La premessa è doverosa per intendere la portata dell’art. 286, quarto comma, che dispone che “Il commissario giudiziale, con l'autorizzazione del giudice, puo' richiedere alla Commissione nazionale per le società e la borsa - Consob o a qualsiasi altra pubblica autorità informazioni utili ad accertare l'esistenza di collegamenti di gruppo e alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate. Le informazioni sono fornite entro quindici giorni dalla richiesta”.  Tale possibilità di richiedere informazioni sarà utile per gli accertamenti che il commissario giudiziale dovrà effettuare con riferimento ad eventuali atti infragruppo o ad atti in frode, o anche relativamente ai requisiti di ammissibilità della domanda ed alle ipotesi di conflitto d’interessi ed esclusione dei creditori dal voto. Non servirà invece per estendere il perimetro della procedura di gruppo.

La scelta di limitare la possibilità di procedura di gruppo alla domanda delle imprese di gruppo (nel caso di concordato tutte le imprese coinvolte), che va ricordato non è soltanto del legislatore delegato, ma della legge delega, pare ragionevole. Si è detto che per l’amministrazione straordinaria si è optato per soluzione diversa, ma essa risentiva dell’ottica dirigista ed interventista in economia che ha visto la genesi della legge Prodi e delle sue successive modificazioni. Anche nel caso del Regolamento UE 848/2015 in materia di insolvenza transfrontaliera la disciplina di gruppo porta soltanto ad obblighi di collaborazione ed informazione tra le Corti che hanno aperto le procedure negli Stati membri e gli organi gestori delle procedure. E’ ben vero che gli artt. 61 e ss. prevedono una procedura di coordinamento di gruppo, ma tale procedura porta soltanto alla nomina di un coordinatore da parte del giudice per primo adito che ha il compito essenziale di redigere un piano di coordinamento. L’art. 64 prevede inoltre che l’amministratore della procedura relativa ad una società del gruppo possa contestare, dopo essersi munito delle necessarie autorizzazioni previste dalla legge dello Stato in cui è stata aperta la sua procedura, l’inclusione della stessa nella procedura di coordinamento con il risultato automatico dell’esclusione dalla medesima. Ove si tenga conto di tale circostanza e del fatto che ai sensi dell’art. 63, comma 1, lett. b) del Regolamento nessun creditore di una società del gruppo deve essere svantaggiato dall’inclusione della società nella procedura di coordinamento, paiono evidenti anche in questo caso i limiti all’applicabilità della disciplina di gruppo.

Anche la Uncitral Model Law on Enterprise Group Insolvency prevede una disciplina dell’insolvenza di gruppo, ma il riconoscimento di un piano di gruppo, il c.d. planning proceeding, avviene sempre e soltanto in base alla legislazione dello Stato che effettua il riconoscimento. Il planning proceeding ha in ogni caso compiti di coordinamento ed organizzazione, anche se può portare all’emanazione di provvedimenti ricognitivi ed interdittivi ( relief) nello Stato in cui è chiesto il riconoscimento.

   

3. Considerazioni sulla fattispecie della direzione e coordinamento descritta dal CCI.

(gm)

Merita innanzitutto di essere segnalato il curioso utilizzo, da parte del legislatore del CCI, della tecnica di individuazione della fattispecie della direzione e coordinamento mediante l’introduzione di presunzioni di sussistenza.

Così, come noto, fa lo stesso codice civile. Senonché nel codice civile l’utilizzo dello strumento presuntivo riguarda l’affermazione della direzione e coordinamento che un terzo intenda invocare a proprio favore per conseguire l’applicazione della sanzione a sé favorevole (ad esempio, la responsabilità di chi esercita la direzione e coordinamento). Qui, invece, l’affermazione di una situazione di gruppo è resa dal soggetto che ne rivendica la sussistenza. L’uso della presunzione dovrebbe piuttosto servire per la negazione dell’esistenza della direzione e coordinamento da parte dell’Autorità Giudiziaria richiesta dell’apertura di una procedura unitaria oppure da parte degli opponenti che temano di avere dalla procedura di gruppo minori vantaggi che dall’apertura di una procedura individuale della specifica società loro debitrice.

Sotto quest’ultimo profilo sembra però ben poco realistico che si riesca a demolire l’autodichiarazione – avente natura confessoria – di sussistenza del vincolo di direzione e coordinamento effettuata dalle imprese istanti. L’uso del richiamo al meccanismo presuntivo sembra quindi piuttosto dovuto a una frettolosa necessità di ricercare un aggancio normativo in un istituto preesistente nel codice civile che a una scelta dotata di reale portata pratica.

Probabilmente è questa stessa la ragione per cui il CCI, nel porsi il problema della ricorrenza delle situazioni di direzione e coordinamento suscettibili di dar adito a una procedura unitaria, non attribuisce alcun rilievo all’eventuale dichiarazione pubblica dell’esistenza del vincolo che sia stata fatta in bonis. La valutazione dev’esser fatta ex novo, benché le risultanze del Registro delle Imprese possano offrire elementi di prova rilevanti (tanto che i ricorrenti ne debbono fornire gli estremi). Il fatto che i ricorrenti autodichiarino la situazione di direzione e coordinamento sembra eliminare una portata autonoma alla situazione pubblicitaria, la cui finalità appartiene piuttosto alla fase ordinaria della vita societaria che non ai presupposti sostanziali per poter essere assoggettati a una disciplina di crisi di gruppo.

Il fatto che il procedimento sia innescato da una autodichiarazione, con natura confessoria, dell’esistenza di una situazione di gruppo toglie rilevanza pratica anche al diverso problema se il vertice del gruppo – il soggetto cioè che esercita direzione e coordinamento – sia compreso nel gruppo e quindi possa essere assoggettato alla procedura unitaria a sua volta. Il problema dipende, in concreto, da come viene rappresentato il perimetro dell’impresa unitaria e della crisi. Nulla esclude che anche il vertice possa essere compreso all’interno del perimetro o ne resti fuori, a seconda dei casi.

Il problema potrebbe sussistere, in concreto, forse nei casi in cui l’entità di vertice non abbia autodichiarato la situazione di crisi e purtuttavia ne sia coinvolta.

Il riflesso pratico di ciò potrebbe essere, nel caso delle procedure di soluzione concordata della crisi, che il piano di gruppo potrebbe essere giudicato inefficiente o impraticabile e che i creditori delle imprese comprese nel perimetro dichiarato potrebbero non rendersi disponibili a una soluzione che mandi il vertice esente dalla procedura concorsuale. Non essendovi alcun obbligo di ritagliare il perimetro includendovelo, sembra invece da escludere che la mancata estensione della procedura al vertice del gruppo possa essere valutata dall’Autorità giudiziaria come ragione per non ammettere o per non omologare la soluzione concordata.

Nella liquidazione giudiziale, invece, uno spazio concreto di possibile ripresa del vertice insolvente dentro la procedura di gruppo potrebbe sussistere sulla base del già richiamato comma 5 dell’art. 287 CCI, in forza del quale il curatore delle imprese del gruppo potrebbe richiedere l’estensione della liquidazione anche al vertice, indipendentemente dalla volontà di questo.

Vale la pena di segnalare, poi, la tautologia in cui l’art. 2, co. 1, lett. h, CCI  incorre con riferimento alla fattispecie del controllo congiunto. La norma dice che, quando più imprese siano sottoposte a controllo congiunto, la direzione e coordinamento si presume, salvo prova contraria, “rispetto alla società o ente che esercita direzione e coordinamento”. Ma se si tratta di presumere la direzione e coordinamento dal controllo congiunto, e se questo lo si deve riguardare dal solo punto di vista dell’entità che, tra quelle che controllano congiuntamente, esercita la direzione e coordinamento, come fa la presunzione a individuarla? Si presume che eserciti direzione e coordinamento l’entità che la esercita. Come dire: per il controllo congiunto la presunzione non funziona. Perché prevederla, allora?

Altra questione degna di nota riguarda l’asimmetria interna alla definizione contenuta nell’art. 2, co. 1, lett. h, CCI.

Da un lato, la norma estende la direzione e coordinamento che può dar luogo a procedure di crisi unitarie alle situazioni in cui al vertice del gruppo sia una persona fisica, a differenza di quanto previsto dall’art. 2497, cod. civ.

Dall’altro, però, non vengono espressamente riferiti alle persone fisiche i meccanismi presuntivi. Non essendo la persona fisica tenuta al consolidamento dei conti, non può valere per essa la presunzione attiva di esercitare direzione e coordinamento. Testualmente, la persona fisica di vertice non viene compresa nemmeno nella presunzione passiva: le presunzioni di essere assoggettate a direzione e coordinamento vale per le imprese eterodirette da società o da enti, non da persone fisiche.

Ne consegue che il coinvolgimento di una persona fisica capogruppo in una procedura di insolvenza di gruppo sarà di norma possibile solo quando questa confessi l’esistenza di una situazione di direzione e coordinamento facente capo a sé. Salva tuttavia, come detto, la possibilità che il curatore delle imprese di gruppo chieda l’estensione della procedura alla persona fisica capogruppo, il che depone in senso fortemente contrario alla convenienza, per la persona fisica di vertice, di far accedere le proprie società controllate a una liquidazione di gruppo, confessando di esercitare un’attività d’impresa e così rischiando che anche il proprio patrimonio personale sia attratto alla procedura concorsuale su impulso del curatore.

Per converso, confessarsi titolare di direzione e coordinamento è indispensabile quando la crisi del gruppo non potrebbe altrimenti ricevere una trattazione unitaria, quando cioè non sussistano, tra le entità partecipate dalla persona fisica, rapporti qualificabili in termini di controllo o comunque quando né in via presuntiva né in via reale sia possibile far risalire la direzione e coordinamento a una di dette unità (gruppi rigorosamente concentrati di tipo personalistico).

Resta escluso dall’applicabilità della disciplina di gruppo, invece, il caso in cui più imprese siano oggettivamente controllate da una persona fisica (ma lo stesso vale se lo siano da una società o un ente), che però non eserciti su di loro quell’attività direttiva e di coordinamento che fa assurgere il novero indistinto delle controllate a “gruppo” ai fini della disciplina della crisi. La ratio cui è ispirata la disciplina della crisi di gruppo non ha riguardo, infatti, a situazioni di mero controllo formale (ad esempio, l’essere le diverse società partecipate maggioritariamente da una persona fisica) bensì al fatto che esse siano in concreto dirette e gestite come un’impresa unica, tanto da meritare di essere assoggettate in modo unitario alle procedure di risanamento concordato con i creditori o un trattamento concorsuale liquidatorio comune che possa apportare ai creditori di ciascuna unità migliori risultati in termini di riparto.

 

(lp)

Va osservato che la nozione di gruppo espressa dall’art. 2, comma 1, lett. h) CCII fa riferimento all’insieme delle società, delle imprese e degli enti, escluso lo Stato, che ai sensi degli artt. 2497 e 2545 septies c.c. sono sottoposti alla direzione e coordinamento di una società, di un ente o di una persona fisica, aggiungendo quindi un’ipotesi di direzione e coordinamento, quella operata dalla persona fisica, che il codice civile non considera, come ha già ricordato Giorgio Meo.

La scelta di limitare il concordato di gruppo o l’accordo di ristrutturazione di gruppo alle sole imprese che ne fanno domanda, senza prevederne l’estensione ad altre società o imprese o persone fisiche all’interno del gruppo, discende dalla logica del legislatore di prevedere che il procedimento sia unitario su base esclusivamente volontaria. La scelta si presta a comportamenti opportunistici delle imprese debitrici che potrebbero deliberatamente lasciare alcune imprese al di fuori del perimetro del concordato o dell’accordo. Come ricorda Giorgio Meo questa soluzione trova un correttivo nel fatto che il tribunale deve comunque valutare la fattibilità del piano o piani coordinati che debbono portare al miglior soddisfacimento dei creditori. Ove una o più imprese siano state lasciate fuori per salvare delle attività in favore del socio di controllo, il tribunale potrà ritenere leso il principio del miglior soddisfacimento dei creditori e in ogni caso i creditori potranno esprimersi negativamente in sede di votazione sottolineando che il piano o i piani coordinati non sono convenienti.

Il legislatore non si è preoccupato che la holding o la subholding siano al di fuori del piano di gruppo perché nel caso dell’insolvenza transfrontaliera dovranno applicarsi le regole del già ricordato regolamento UE 848/2015. Proprio la casistica giurisprudenziale europea mostra molti casi in cui il gruppo preso in considerazione ai fini di domande di apertura di procedimenti in un Paese membro è una parte soltanto, quella europea, di una realtà di maggiori dimensioni. In queste ipotesi la holding del gruppo non è la reale capogruppo, ma la società in Europa che raggruppa le imprese operanti nel nostro continente, vale a dire una subholding.

Più in generale va notato che non è nell’interesse al buon successo della procedura limitare artificiosamente il perimetro del gruppo perché, almeno nel caso di procedure transfrontaliere, ciò potrebbe ridurre le possibilità che la proposta di composizione della crisi possa avere successo. E non va dimenticato che in queste ipotesi la convenienza e fattibilità del piano o piani coordinati dovrebbe essere valutata anche con riguardo alla possibilità per un terzo di presentare una proposta di piano concorrente, ipotesi questa che la disciplina della procedura di gruppo, almeno per il concordato, non esclude.

   

4. Dubbi sul perimetro prescelto dal legislatore.

(gm)

La scelta del CCI è quindi netta. Non ogni situazione economicamente riconducibile al “gruppo di imprese” viene considerata idonea a dar adito a una procedura di crisi unitaria. Tali sono solo i gruppi verticali a cuspide unica o a controllo congiunto in cui sia possibile isolare, tra le entità congiuntamente controllanti, una società o un ente che esercita direzione e coordinamento.

Restano fuori sia le forme di gruppo orizzontale sia quelle in cui vi sia bensì un unico vertice controllante e però esso detenga il controllo “mero”, non attivo nel senso della eterodirezione delle società controllate. E, parrebbe – riferendosi espressamente la norma alla necessità che le varie imprese abbiano COMI in Italia – dover rimanere fuori dalla portata della disciplina del CCI anche il caso in cui un eventuale vertice, pur attivamente controllante, si trovi fuori dal territorio italiano, perfino nell’ipotesi in cui tutto il gruppo partecipato operi in Italia (soluzione che sembra peraltro in diretto contrasto con la diversa impostazione dei paragrafi 7 e 8 della Model Law Uncitral sulle insolvenze transfrontaliere, ed. 2010, parte III).

La disciplina del CCI non rappresenta quindi uno “statuto” per la gestione della crisi di un’impresa pluriarticolata ma solo di un certo tipo di impresa di tal genere. La logica sottostante a una simile scelta sembrerebbe quella di presupporre che attraverso la direzione e coordinamento si realizzi in concreto un “luogo giuridico” in cui assicurare, per la fase di crisi, una richiesta coordinata da parte delle varie imprese coinvolte fondata su un piano di azione unitario e che invece, in difetto di direzione e coordinamento, ciò non sia possibile.

A ciò deve però obiettarsi che le imprese possono coordinarsi, nella gestione ordinaria, anche per contratto, divenendo “gruppo”, il che esclude una valida ragione per non attribuire a ciò diretta rilevanza anche nella fase di crisi. È una contraddizione in termini ammettere, come fa l’art. 2, co. 1, lett. h, CCI, che il controllo (presuntivo di direzione e coordinamento) possa avvenire anche per contratto e ritenere che non possa avvenire per contratto un coordinamento fra le imprese la cui direzione sia organizzata tramite l’istituzione di organi comuni contrattuali o consortili.

Sembra quasi che il legislatore abbia frettolosamente cercato delle basi normative preesistenti cui agganciarsi, senza doversi impegnare in definizioni autonome, e che nel far ciò sia caduto in aperta contraddizione. Perché, da un lato, sembra voler unire sotto il vessillo della direzione e coordinamento, come se ne facesse anch’essa parte, la fattispecie del gruppo paritetico cooperativo (che invece riguarda situazioni orizzontali di tipo contrattuale e mutualistico) e, dall’altro, ha limitato l’accesso congiunto alla procedura concorsuale alle sole imprese cooperative collegate orizzontalmente tramite contratto e non anche tutte le altre situazioni di gruppo orizzontale. La scelta testuale – oltre tutto affidata a una norma di “definizione”, per la quale è già in astratto dubbio se possa predicarsene l’applicazione analogica o estensiva a casi non testualmente definiti – non sembra lasciare spazio per ritenere che possano trovare accesso alle procedure di crisi unitarie anche ipotesi, pur non espressamente contemplate, in cui tuttavia sussistano analoghe condizioni di unitarietà gestionale che potrebbero giustificare il raggiungimento di un più efficiente risultato per i creditori concorsuali attraverso un piano unitario o più piani reciprocamente collegati e interferenti.

Va detto, inoltre, che non ci troviamo, in realtà, di fronte a una disciplina della crisi di un gruppo in quanto tale (cd. substantial consolidation): quale riflesso del principio di autonomia delle masse anche la cd. procedura “di gruppo” è concepita come procedura unitaria di più imprese, non di un’impresa unica. E la scelta del perimetro delle imprese da ammettere a questo tipo di trattamento è una scelta di pura convenienza del legislatore, forse ispirata a sovrapporsi all’area della risalita della responsabilità per direttive scorrette pregiudizievoli segnata dall’art. 2497, cod. civ.

Il CCI non aspira a dettare una disciplina della crisi dell’impresa di gruppo se non nel limitato senso in cui, con riferimento alle soluzioni concordate, la gestione unitaria della fase di crisi di più imprese può essere ritenuta – ad iniziativa del ricorrente, non di altri – come la risposta gestionale a un problema comune, senza però neppure garantire che, vista dalle singole unità, esse escano dalla procedura così come vi sono entrate e che condividano le stesse sorti dell’intero compendio (per alcune, infatti, potrebbe essere disposta la continuità, per altre la liquidazione).

Tanto meno sussiste un rilievo “di gruppo” nella liquidazione giudiziale, dove il principio delle masse separate e l’assenza di una fase gestionale ulteriore (salvo i limiti della gestione interinale conservativa) escludono che venga in rilievo una “azione imprenditoriale” qualificabile come “di gruppo” e si innesca piuttosto il criterio di maggior efficienza nel processo liquidatorio unitario.

 

(lp)

I dubbi espressi da Giorgio Meo sulla scelta del perimetro mi paiono condivisibili soltanto in parte. Fermo restando che il richiamo alla disciplina dettata dall’art. 2497 c.c. pare infelice perché la norma è stata scritta ad altri fini e che il meccanismo delle presunzioni pare in contrasto con il principio per cui la procedura di gruppo si apre soltanto ad istanza di parte, nella sostanza la scelta di chiedere l’apertura di procedure di gruppo coordinate (questo in sintesi può ritenersi essere il concordato o l’accordo di ristrutturazione di gruppo, ma tale conclusione vale anche per la liquidazione giudiziale alla luce di quanto si è sin qui venuti osservando) è rimessa all’imprenditore. Essa ha un senso nel  caso di gruppo verticale, quando si tratta ai fini della ristrutturazione o della liquidazione, di ricreare l’unità di gestione che esisteva finché le imprese erano in bonis.  Nelle altre ipotesi indicate da Giorgio Meo (gruppo paritetico, gruppo orizzontale, ecc.) quest’esigenza non sussiste o non è così forte e può quindi bastare l’obbligo di cooperazione ed informazione reciproca).

La critica che si può invece muovere al legislatore è di non aver approfondito il tema dell’insolvenza transfrontaliera. In questo caso tutte le scelte sono rimesse alla disciplina del Regolamento 848/2015 che come si è visto prevede un coordinamento su base volontaria, con legami deboli, senza nulla prevedere per i casi in cui il perimetro del gruppo non si esaurisce in ambito UE, come avverrà con il Regno Unito dopo la Brexit e come può avvenire già oggi con buona parte degli Stati balcanici o con la Turchia, per citare soltanto i Paesi nostri vicini. I Paesi balcanici in buona misura hanno recepito la Model Law dell’Uncitral e sarebbe stato quindi possibile, ove anche l’Italia avesse fatto tale scelta, creare un ambiente giuridico più favorevole di quello attuale.

Un altro profilo di debolezza della disciplina di gruppo non riguarda il perimetro del gruppo, ma la mancata previsione della possibilità di aprire procedure coordinate sia di insolvenza che di conservazione relative alle diverse imprese del gruppo. Il legislatore non ha considerato l’ipotesi di un piano o di piani coordinati di concordato o di omologazione di accordi di ristrutturazione che contemplino per una o più società del gruppo la liquidazione giudiziale. Pur nel silenzio del legislatore, che non ha previsto questa ipotesi, ma soltanto il concordato di gruppo, gli accordi di ristrutturazione di gruppo e la liquidazione giudiziale di gruppo (art. 287 CCII), a prima vista essa non parrebbe in contrasto con la ratio legis. Lo stesso legislatore all’art. 285, comma 1, ha previsto che per taluna delle società del gruppo si possa prevedere il concordato liquidatorio e dunque un procedimento dissolutorio non è incompatibile con il concordato. La stessa conclusione, data l’uniformità di disciplina, vale evidentemente per gli accordi di ristrutturazione. E, come si è visto, il parametro del miglior soddisfacimento dei creditori è rapportato alla liquidazione giudiziale. Tuttavia manca nel codice della crisi la previsione di un procedimento unitario di gruppo che consideri espressamente imprese che debbono essere oggetto di liquidazione giudiziale. Ne deriva che tale soluzione non appare allo stato ammissibile, quantomeno in tutti i casi in cui vi è deroga alle regole ordinarie in materia di competenza. Ma anche le norme che prevedono la nomina di un unico commissario giudiziale nel concordato di gruppo (art. 286) non paiono applicabili al caso in cui sia questione di nominare un curatore. La conclusione pertanto è che in siffatta ipotesi si potrà soltanto far luogo a procedure separate per le quali potranno essere invocati gli obblighi di cooperazione previsti dall’art. 288 del codice della crisi.

   

5. Le condizioni per l’apertura della procedura.

(gm)

Il ricorso unitario può approdare a un trattamento unitario della crisi, solo però a certe condizioni.

Per la liquidazione giudiziale (art. 287, co.1, CCI) occorre che tutte le imprese ricorrenti versino in stato di insolvenza e che “risultino opportune forme di coordinamento nella liquidazione degli attivi, in funzione dell’obiettivo del migliore soddisfacimento dei creditori”. Ferma restando, comunque, l’autonomia delle rispettive masse attive e passive.

Per le soluzioni concordate (concordato preventivo e accordi di ristrutturazione) occorre che vi sia la possibilità di una pianificazione unitaria, che si esprima alternativamente o con un piano unico o con più piani “reciprocamente collegati e interferenti”. (art. 284, co. 1, CCI), e che questa sia idonea a consentire per “ciascuna impresa” (ivi, co. 5) il “risanamento dell’esposizione debitoria” e “il riequilibrio complessivo della situazione finanziaria” in modo tale che (art. 285, co. 4, CCI) i creditori di ciascuna impresa “possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale della singola società”.

Qualche notazione di carattere testuale.

Tutta l’impalcatura è retta dalle “ragioni di maggiore convenienza, in funzione del miglior soddisfacimento dei creditori delle singole imprese, della scelta di presentare un piano unitario ovvero piani reciprocamente collegati e interferenti invece di un piano autonomo per ciascuna impresa” (art. 284, co. 4, CCI). Tali ragioni devono essere illustrate nella domanda di ammissione alla procedura “di gruppo” e quindi la loro assenza o la loro mancata illustrazione rappresentano presupposti di rigetto della domanda. Il senso di una procedura “di gruppo” è che ai creditori delle singole società ne venga qualcosa di meglio che correndo ciascuna società da sola.

Occorre chiarire, però.

Una cosa è dire che la soluzione concordata possa essere proposta con un piano unitario o con reciproca interferenza dei piani anziché proporre tante soluzioni concordatarie quante sono le società del gruppo, e consentire, come fa l’art. 284, co. 4, CCI, la prima via sul presupposto che essa migliori per i creditori di ciascuna società anche minimamente le aspettative consentite dalla seconda.

Una cosa è richiedere che i creditori di ciascuna impresa “possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale della singola società”, condizione cui l’art. 285, co. 4, CCI subordina la possibilità per il tribunale di omologare il concordato.

Le due disposizioni appena richiamate non sono allineate. Dal punto di vista dell’ammissione il tribunale deve valutare se il concordato di gruppo possa produrre effetti migliori di quello individuale. Da quello dell’omologazione deve confrontare soluzione concordataria di gruppo e riparto che ai creditori verrebbe dalla liquidazione giudiziale della singola impresa. La delibazione condotta al momento della presentazione della domanda dovrebbe aver già chiarito che l’impresa appartenente al gruppo è in una situazione di crisi suscettibile di ristrutturazione e non in una situazione di insolvenza che ne giustifica la sottoposizione alla liquidazione giudiziale. Che senso ha, allora, far fare al tribunale, molti mesi dopo, a valle dello stesso voto dei creditori, una diversa valutazione circa il miglior riparto che possa rivenire ai creditori dalla liquidazione giudiziale, quando l’impresa non ne presenta i presupposti e, per converso, il piano unitario – che pur potrebbe prevederne la liquidazione, ma non giudiziale – è stato ritenuto credibile, è stato attestato ed è stato approvato dai creditori?

Rimanendo al piano testuale, le espressioni “risanamento dell’esposizione debitoria” e “riequilibrio complessivo della situazione finanziaria” (già in uso in altri testi legislativi, come nel caso dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), con cui vogliono indicarsi gli obiettivi conseguibili dal piano perché la procedura sia ammessa, sono l’una impropria l’altra ambigua e tutte e due vogliono in realtà dire la stessa cosa.

L’esposizione debitoria non si “risana”. Non c’è un’esposizione “sana” e una “malata”. L’esposizione c’è o non c’è, e, se c’è, si estingue o non si estingue. Non vi sono meccanismi tali per i quali l’esposizione si “sani” in un modo diverso dall’estinzione (la quale può ovviamente avvenire in molti modi, non solo attraverso il pagamento né solo attraverso il pagamento da riparto).

Riequilibrio complessivo della situazione finanziaria” è, poi, espressione genericissima, che lascia aperta la possibilità di proporre ai creditori qualunque ipotesi. La parola “complessivo”, riferita al riequilibrio, in particolare, potrebbe essere letta in due sensi: come riequilibrio della situazione finanziaria delle singole società in un modo complessivo, cioè articolando gli interventi tra le varie aree di esposizione anche in modo asimmetrico, privilegiando le azioni che possano rendere più efficiente il risultato per un’area di creditori rispetto a un’altra (ad es.: alcuni verranno pagati prima altri dopo; alcuni verranno pagati in danaro alcuni riceveranno strumenti finanziari partecipativi o obbligazioni che implichino un allungamento delle scadenze); o come riequilibrio complessivo del gruppo di imprese che si presentano ai rispettivi creditori per la soluzione concordataria unitaria, e in questo caso le fattispecie di graduazione degli interventi potranno differire anche notevolmente tra una società e un’altra, con effetti potenzialmente molto diversi, in termini di quantità, rischio, tempi di attesa, ecc., tra i creditori compresa nell’una o nell’altra massa. Unico punto di tenuta (art. 284, co. 5,CCI) è che, anche minimo, un qualche vantaggio rispetto alla soluzione atomistica ai creditori della singola società deve venire. Altrimenti il piano non sodisfa i requisiti per l’ammissione alla procedura di gruppo.

Comunque, le due espressioni utilizzate dal legislatore vanno lette come un’endiadi: obiettivo della procedura è che i debiti scaduti, che oggi non possono essere estinti, trovino nel tempo segnato dal piano i presupposti, i procedimenti e gli atti che conducano alla loro estinzione. Il piano deve lasciar prevedere, cioè, la “ristrutturazione finanziaria”.

La legge sottolinea: “di ognuna” impresa. Ne restano fuori dunque i piani di gruppo di tipo “misto”, in forza dei quali il gruppo si riorganizzi restringendo la proposta di soluzione concordata (con l’alternativa possibile tra continuità e liquidazione per le varie unità del gruppo) a una parte soltanto delle società coinvolte e rimettendo quelle che versano in situazione più grave alla liquidazione giudiziale. Se si vuole conseguire questo obiettivo ciò dev’essere risolto in sede di definizione del perimetro concordatario. Per le società insolventi deve in via separata ricorrersi alla liquidazione giudiziale, con la già richiamata alternativa di instare per procedure separate o per una procedura liquidatoria “di gruppo” (in tal caso, però, con la pericolosa interferenza potenziale del curatore, il quale potrebbe esercitare la legittimazione a domandare l’accertamento dell’insolvenza anche di una o più delle unità sottoposte al piano concordatario di gruppo: il pericolo di una sua intromissione – per definizione autorevole – fungerà ragionevolmente da elemento dissuasore all’ora di decidere se ricorrere a procedure liquidatorie atomistiche o a una procedura unitaria).

Soddisfare le condizioni sopra richiamate non basta perché possa avere successo la proposta di concordato plurisoggettiva basata su un piano unico o su piani collegati e interferenti. La prospettiva del CCI (art. 285, co. 5) si sposta, al riguardo, dalla fase di ammissione a quella di omologazione. Il concordato potrebbe non essere omologato se i soci (evidentemente i soci estranei alla linea di controllo che ha progettato e voluto la soluzione concordataria) fanno valere il pregiudizio arrecato alle rispettive società dalle operazioni pianificate. Ciò può avvenire solo attraverso l’opposizione all’omologazione. Per scongiurarlo, occorre dimostrare l’insussistenza del paventato pregiudizio “in considerazione dei vantaggi compensativi derivanti alle singole società dal piano di gruppo”, situazione che obbliga il tribunale ad omologare il concordato nonostante l’opposizione.

 

(lp)

Giorgio Meo individua se non una contraddizione, una sfasatura e forse un inutile appesantimento nel richiedersi da parte del legislatore da una parte che la soluzione concordata possa essere proposta con un piano unitario o con reciproca interferenza dei piani avendo come obiettivo il miglior soddisfacimento dei creditori e dall’altra nel domandare, per di più con verifica da parte del tribunale soltanto in sede di omologazione, che i creditori di ciascuna impresa “possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale della singola società”, condizione cui l’art. 285, co. 4, CCI subordina la possibilità per il tribunale di omologare il concordato, anche quando, stando alla lettera della legge, non vi è l’opposizione dei creditori ai sensi del quarto comma della stessa norma.

In realtà non pare che vi sia contraddittorietà tra i due requisiti. L’unitarietà della procedura in deroga al principio generale per cui la procedura di composizione della crisi e dell’insolvenza riguarda la singola impresa, richiede che la trattazione unitaria di procedimenti che continuano ad avere una loro individualità, essendo separate le masse, sia di vantaggio per i creditori. Di qui la necessità che vi sia un piano unitario o piani reciprocamente collegati ed interferenti, come prevede l’art. 284, comma 1. Ed il punto di riferimento è rappresentato dal miglior soddisfacimento dei creditori, come ricorda il quarto comma della norma. Miglior soddisfacimento dei creditori che va verificato con riguardo ad ogni impresa, ad ogni singola massa. L’art. 285, quarto comma, chiarisce questo concetto dando del miglior soddisfacimento dei creditori una nozione riduttiva, nel senso che costoro non possono ricevere meno di quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale della singola società verso la quale vantano la loro ragione di credito.

Va ricordato che il secondo comma dell’art. 285 prevede che sono possibili trasferimenti di risorse infra gruppo, operazioni contrattuali e riorganizzative, a condizione che un professionista indipendente attesti che tali trasferimenti ed operazioni sono necessari per la continuità aziendale delle imprese per cui è prevista nel piano e coerenti con l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo. Si tratta di una deroga alla regola sancita dall’art. 2740 c.c. per cui il debitore risponde nei confronti dei creditori con tutto il proprio patrimonio, presente e futuro. Il legislatore ammette che risorse possano essere spostate da una società ad un’altra in considerazione del fatto che occorre, nei limiti del possibile e del rispetto dell’autonomia patrimoniale delle singole società del gruppo, garantire che anche in caso di crisi o di insolvenza il gruppo possa operare come una struttura unitaria. Il trasferimento di risorse deve essere indispensabile per assicurare la continuità aziendale delle società per cui è prevista dal piano e deve inoltre garantire il miglior soddisfacimento di tutti i creditori.

Ove si ammetta che il miglior soddisfacimento va valutato secondo la regola della convenienza del concordato cui si è prima accennato, ne deriva che il trasferimento di risorse è lecito con il solo limite che il piano di concordato preveda per le società che lo attuano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quanto previsto in caso di liquidazione giudiziale.

Non concordo con Giorgio Meo quando afferma che poiché il legislatore afferma all’art. 285, quinto comma, che il piano unitario o i piani reciprocamente coordinati debbono essere idonei ad assicurare il risanamento dell’esposizione debitoria ed il riequilibrio complessivo della situazione finanziaria di ciascuna impresa del gruppo, non potrebbe prevedersi nel piano la liquidazione di una o più imprese. Se è vero che la lettera della legge conduce a questa soluzione, fortunatamente l’art. 285 lo esclude laddove afferma, al primo comma, che il piano o i piani concordatari di gruppo possono prevedere la liquidazione di talune imprese e la continuazione di attività di altre. Il risanamento ed il riequilibrio vanno dunque intesi in senso molto relativo e non sono limitati alla continuità aziendale, con ricadute anche sui limiti del perimetro degli accordi di ristrutturazione. La medesima formula è infatti utilizzata dal legislatore, che l’ha mutuata dall’art. 182 bis l.fall., anche in tale sede nel testo dell’art. 56 CCII, con la conseguenza che anche l’accordo può avere carattere liquidatorio.

Tornando al tema del miglior soddisfacimento dei creditori nell’ipotesi di trasferimento di risorse infragruppo previsto dal piano unitario o dai piani coordinati, in caso di imprese che sono destinate alla liquidazione il realizzo delle attività non può in genere portare a risultati migliori di quelli che seguono appunto all’attività di liquidazione, con la conseguenza che il trasferimento di risorse in sede di concordato appare problematico. Ma il il trasferimento può avvenire tra società che sono destinate tutte alla continuità e qui vi è spazio per un sacrificio dei diritti dei creditori di una o più imprese del gruppo. Nel commento all’art. 87, che disciplina i requisiti del piano di concordato nel concordato individuale, la Relazione governativa precisa che la valutazione del miglior soddisfacimento dei creditori va fatta con riguardo all’alternativa liquidatoria. S’intende in questo caso far riferimento al concordato liquidatorio, ma, ove si consideri che nel concordato liquidatorio debbono essere applicate in linea di massima alla liquidazione dei beni le norme che regolano la liquidazione giudiziale (cfr. art. 114, comma 4), pare evidente che non si fa ricorso a regole diverse. E tali regole valgono evidentemente anche nel caso del concordato di gruppo.

Da queste premesse deriva che il piano di gruppo deve assicurare che ogni società possa darvi esecuzione per la sua parte garantendo il miglior soddisfacimento dei creditori avendo riguardo all’alternativa liquidatoria e deve assicurare la continuità aziendale per le società per cui essa è prevista.

In conclusione il trasferimento di ricchezza da un’impresa del gruppo ad un’altra è legittimo nei limiti del miglior soddisfacimento dei creditori, ma i creditori della società sacrificata non possono dolersi se non ricevono di meno di quanto essi potrebbero ottenere in caso di liquidazione giudiziale. Il legislatore riconosce la legittimità del depauperamento di una impresa ai danni di un’altra finché non vi è lesione dello zoccolo duro rappresentato da quanto il creditore potrebbe ottenere in sede di liquidazione giudiziale.

Nozioni di comune esperienza mostrano che la possibile lesione dell’interesse dei creditori debba essere verificata al momento dell’omologazione perché in quel momento sono più chiare le conseguenze dell’esecuzione del piano unitario o dei piani collegati. Tuttavia non mi pare che al tribunale sia interdetto affermare l’inammissibilità della proposta unitaria quando al momento della presentazione della domanda sia già evidente che il piano non consente ai creditori di un’impresa di ottenere quanto essi potrebbero ricevere in caso di liquidazione giudiziale. Si pensi al caso di una società nel cui attivo vi è un immobile il cui presumibile valore di realizzo in sede di liquidazione è superiore a quanto verrebbe riconosciuto ai creditori nel caso in cui il bene sia utilizzato per la prosecuzione dell’attività produttiva da parte delle società operative del gruppo. In questo caso il sacrificio richiesto ai creditori della prima società eccede i limiti di legge e ben potrebbe il tribunale ai sensi dell’art. 47, co. 1, ritenere il piano inammissibile.

Il discorso richiede una postilla per quanto concerne il trattamento dei soci della società o delle società in concordato di gruppo. L’ultimo comma dell’art. 285 del codice della crisi regola la tutela dei soci. Il legislatore ha inteso portare tale tutela all’interno della disciplina dell’opposizione all’omologazione del concordato, nelle forme processuali previste per l’opposizione, forme che in difetto di diversa disciplina specifica per il concordato di gruppo sono quelle previste dall’art. 48 del procedimento unitario.

Nell’affermare che i soci possono far valere il pregiudizio arrecato alle rispettive società dalle operazioni previste dal primo comma della norma, in altri termini dal piano o dai piani di concordato di gruppo, il legislatore esclude che possa essere invocata altra forma di tutela e quindi l’azione di nullità o annullamento delle delibere assembleari che abbiano approvato operazioni straordinarie sul capitale. In questo senso del resto già si poneva l’art. 3, comma 2, lett. f) della legge delega prevedendo nella procedura unitaria che fosse “fatta salva la tutela in sede concorsuale per i soci e per i creditori delle singole imprese nonché' per ogni altro controinteressato”. In questo senso si esprime anche la Relazione governativa che osserva che “è previsto di concentrare nel giudizio di omologazione anche la tutela dei soci eventualmente dissenzienti rispetto ad operazioni straordinarie previste nel piano di concordato”, citando espressamente il principio di delega.

L’ultimo comma dell’art. 285 precisa ancora che il tribunale omologa il piano di gruppo “se esclude la sussistenza di un pregiudizio in ragione dei vantaggi compensativi derivanti alle singole società dal piano di gruppo”.  I soci sono dunque trattati come creditori, sia pur postergati, e il pregiudizio che essi possono lamentare è esclusivamente quello che può derivare dal depauperamento che il piano di gruppo può portare al patrimonio della singola società, pregiudizio che rimane escluso nel caso in cui il piano abbia previsto e comportato vantaggi compensativi per il depauperamento subito dalla società. In proposito è evidente il richiamo all’ultima parte del primo comma dell’art. 2497 c.c. che, com’è noto, dispone che non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento. Va sottolineato che l’art. 2497 prevede che la responsabilità della società che esercita l’attività di direzione e coordinamento nei confronti dei soci riguarda il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale. L’art. 285 fa riferimento ai vantaggi che compensano il depauperamento subito dalla società per effetto del piano e sembra quindi guardare al pregiudizio subito dal patrimonio della società, senza indagare se tale pregiudizio si sia riverberato sulla partecipazione. Come si è detto, i soci sono trattati come creditori, con la conseguenza che non vi è pregiudizio anche nell’ipotesi, statisticamente frequente, che essi non abbiano ragione di dolersi perché il patrimonio della società è comunque insufficiente a far fronte ai creditori, sì che nessun danno ne potrebbe derivare ai soci. Tale conclusione tuttavia, mentre è certamente valida nel caso di concordato liquidatorio, va valutata con attenzione maggiore nel caso di concordato in continuità, ove i soci possano mantenere un’utilità dalla prosecuzione dell’attività d’impresa avuto riguardo al possibile residuo valore della partecipazione.

E sotto tale profilo bisognerà attendere anche di sapere se l’Italia recepirà la Direttiva UE del 20 giugno 2019 sugli early restructuring frameworks anche per quel che concerne la relative priority rule In deroga al principio seguito ordinariamente dell’absolute priority rule per cui non è possibile effettuare pagamenti in favore dei creditori di rango inferiore nell’ambito delle cause di prelazione fino a quando i creditori di rango poziore non sono stati interamente soddisfatti, è prevista come soluzione alternativa, rimessa alla scelta discrezionale degli Stati membri, la relative priority rule. L’art. 11, par. 1, lett. c) prevede infatti che il piano in caso di cross class cram down per essere approvato dal giudice debba assicurare che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori. In alternativa il secondo paragrafo dispone che in deroga al paragrafo 1, lettera c), gli Stati membri possono prevedere che i diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente siano pienamente, e quindi integralmente, soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione.

Il dibattito sull’opportunità di inserire la relative priority rule è vivace. In suo favore si osserva che essa consente di predisporre piani con maggior flessibilità, che possono lasciare spazio ad una parziale tutela degli interessi degli azionisti o di talune categorie di creditori strategici altrimenti destinati a nulla ricevere, come possono essere certi fornitori (cfr. Considerando 56). Sarebbe quindi più facile raggiungere un accordo ed anche convincere i soci di riferimento ad investire ulteriormente nella società oggetto della ristrutturazione o mantenere fornitori strategici.

È evidente che la scelta di introdurre nel nostro sistema la relative priority rule consentirebbe in un numero maggiore di casi ai soci della società che partecipa ad un concordato di gruppo di lamentare una lesione del valore della partecipazione in funzione della lesione del patrimonio sociale per effetto del piano di concordato.

   

6. Qualche considerazione sulle condizioni per l’accesso alla procedura “di gruppo”.

(gm)

Le condizioni poste dal CCI sono tali da accentuare i rischi di dissuasione nell’utilizzo dello strumento.

Nella liquidazione giudiziale il meccanismo delineato dal legislatore non consente agli organi della procedura concorsuale di “vedere” e di costruire la soluzione unitaria (neanche quando le procedure relative a diverse società dello stesso gruppo pendono dinanzi alla stessa Autorità giudiziaria: non è consentita la riunione dei procedimenti di liquidazione giudiziale).

L’unitarietà della procedura dipende sempre dal ricorso. È compito dei ricorrenti allegare e dimostrare la sussistenza delle opportunità di coordinamento nella liquidazione degli attivi in funzione del miglior interesse dei creditori.

E questa è senz’altro una curiosa novità del sistema. Al ricorrente per la dichiarazione di insolvenza, infatti, è sottratta, di norma, qualunque possibilità di interferire con la fase di liquidazione e di interloquire sul trattamento dei creditori. L’insolvenza esige lo spossessamento e quest’ultimo elimina dal gioco l’imprenditore insolvente. La cura degli interessi dei creditori e la ricerca e l’attuazione delle modalità più efficienti per realizzarlo appartengono in via esclusiva all’organo concorsuale. La disposizione del CCI, invece, imbriglia il curatore nel percorso delineato dal ricorrente. La miglior utilità per i creditori e le condizioni per il suo raggiungimento attraverso un coordinamento della liquidazione degli attivi costituiscono presupposto stesso per l’accoglimento della richiesta di apertura della procedura. Il curatore entra in scena dopo, quando la procedura è stata assentita e, quindi, a giochi fatti.

Più di un dubbio è legittimo nutrire sulla coerenza di questo meccanismo, in considerazione della tendenziale scarsa propensione del ricorrente a interessarsi della fase concorsuale successiva allo spossessamento (benché egli possa conseguire effetti favorevoli da una liquidazione efficiente) ma soprattutto in considerazione del fatto che non sarà al ricorrente che competerà l’azione di liquidazione, nella quale il curatore è integralmente libero e che anzi è suo compito programmare in autonomia, prima ancora che di eseguire.

Per offrire una visione circa gli scenari liquidatori attendibile, del resto, al debitore mancano rilevanti elementi, di cui dispone invece il curatore. Il debitore non è in grado, infatti, di effettuare una prognosi circa gli atti ripristinatori dell’attivo prodromici a quelli liquidatori di competenza del curatore, atti i cui presupposti solo quest’ultimo può valutare, e solo in concreto una volta prese in mano le redini della procedura: si pensi all’azione di responsabilità ex artt. 2392 e 2394, cod. civ., all’azione di danni per l’esercizio di direttive scorrette ex art. 2497, cod. civ., alle azioni revocatorie (che nel caso di procedura di gruppo godono di un’area più estesa che nei casi ordinari ex  art. 290, CCI), e così via.

Il debitore dovrebbe essere non soltanto in grado di valutare tutti questi aspetti, per i quali non ha i poteri né può stimare il bagaglio documentale e probatorio che il curatore potrà utilizzare per esercitare efficacemente le relative prerogative. Dovrebbe anche essere in grado di compararne l’efficacia con l’uso degli strumenti che il curatore avrebbe nel diverso caso di procedura unitaria, cosa alquanto impraticabile.

Infine, non si vede quale sarebbe l’incentivo per il debitore nell’effettuare ponderazioni, analisi, simulazioni e prognosi (spesso nel brevissimo tempo che ha a disposizione per portare i libri in tribunale) per offrirsi alla procedura unitaria anziché a quelle individuali. Anzi, gli inconvenienti che gliene potrebbero derivare non sono pochi: non solo quelli, già richiamati, del consegnare al curatore spazi che altrimenti questi non potrebbe occupare, che potrebbero condurre a un’estensione della procedura a parti del gruppo che si preferirebbe proteggere. Ma anche per quelli che vengono dai rafforzati strumenti di recupero che vengono riconosciuti al curatore in presenza di un gruppo di società (non solo nel caso di gruppo assoggettato a procedure coordinate ma anche di procedura individuale nel cui ambito il curatore ravveda l’esistenza di legai di gruppo tra la società insolvente e altre imprese): si pensi alla revocatoria aggravata (art. 290, CCI), alla denuncia di gravi irregolarità nei confronti di altre società del gruppo (art. 291, co. 2, CCI) e all’azione di danni da direttive scorrette (art. 291, co. 1, CCI), azioni per le quali il curatore si troverebbe bell’e pronta la prova dell’appartenenza al gruppo, confessata addirittura in sede di ricorso.

Nelle procedure concordatarie, ovviamente, a comandare è l’interesse alla ristrutturazione. Se un’azione di risanamento coinvolgente più entità del gruppo prelude a migliori e più sicuri risultati, nonostante tutto il gruppo debitore ragionevolmente si avventurerà per la strada segnata dalla disciplina unitaria del CCI.

Anche in questo caso, però, non pochi sono i fattori dissuasivi, che ragionevolmente comporteranno per gli operatori un’attenta ponderazione preliminare volta a verificare se, nel contesto dato, gli obiettivi auspicati non possano essere comunque raggiunti senza aprire il fianco a complicazioni che, originando magari dall’area di una delle società coinvolte, rischino di pregiudicare l’intera operazione.

Ci si riferisce, in particolare, ai presupposti per la soluzione unitaria la cui contestazione, se accolta, potrebbe mettere a repentaglio l’intero disegno, vale a dire il miglior soddisfacimento dei creditori di ciascuna società e l’assenza di vantaggi compensativi per gli azionisti esterni. In assenza di uno di questi requisiti, come detto, il meccanismo è destinato a incepparsi. Se non vi sia neppure una minima utilità aggiuntiva per i creditori, la procedura non dovrebbe neppure essere ammessa. Se la singola società rischia di essere penalizzata dall’assoggettamento al piano unitario o dall’interferenza col piano delle altre, i soci esterni possono opporsi all’omologazione, e questa dev’essere rifiutata. E in questi casi a risentirne – almeno quando l’interferenza sia tale che l’eliminazione di una società dal perimetro della soluzione unitaria possa pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi comuni – può essere l’intera impalcatura, con gravi rischi per tutte le unità del gruppo.

 

(lp)

Concordo con Giorgio Meo nell’osservare che la scelta del legislatore di limitare la legittimazione all’apertura della procedura di liquidazione giudiziale di gruppo alle sole imprese del gruppo toglie la maggior parte degli incentivi a tale soluzione.

È vero che la redazione del programma di liquidazione o dei programmi coordinati e l’individuazione delle opportunità relative spetta ad un curatore che quando viene presentata la domanda non è stato ancora nominato. E d’altra parte è dubbia la convenienza e l’interesse a concepire una soluzione di gruppo da parte di un imprenditore o di managers che sono destinati a passare la mano al curatore.

Va però sottolineato che un residuo interesse della vecchia proprietà potrebbe sussistere in vista di un concordato postfallimentare che il codice della crisi non esclude. Vi può inoltre essere un interesse della vecchia proprietà ad assicurare la gestione unitaria della procedura per non precludere soluzioni di gruppo che possono ridurre l’incidenza del dissesto e dunque anche di eventuali profili di responsabilità per atti di mala gestio.

Giorgio Meo sottolinea la necessità nel caso di soluzioni dirette alla ristrutturazione di garantire vantaggi compensativi per gli azionisti esterni. Nel caso di concordato in continuità infatti può accadere che i soci possano mantenere un’utilità dalla prosecuzione dell’attività d’impresa avuto riguardo al possibile residuo valore della partecipazione. In questo caso l’interesse dei creditori e quello degli azionisti, quantomeno degli azionisti di riferimento, può parzialmente coincidere. Parzialmente, non integralmente perché l’interesse degli azionisti contrasta con quello dei creditori al massimo soddisfacimento dei loro crediti, massimo soddisfacimento che di regola non lascia spazio agli azionisti per una remunerazione, anche limitata del capitale o comunque del controllo dell’impresa o del gruppo al termine della ristrutturazione.

Sotto tale profilo bisognerà attendere di sapere se l’Italia recepirà la Direttiva UE del 20 giugno 2019 sugli early restructuring frameworks anche per quel che concerne la relative priority rule In deroga al principio seguito ordinariamente dell’absolute priority rule per cui non è possibile effettuare pagamenti in favore dei creditori di rango inferiore nell’ambito delle cause di prelazione fino a quando i creditori di rango poziore non sono stati interamente soddisfatti, è prevista come soluzione alternativa, rimessa alla scelta discrezionale degli Stati membri, la relative priority rule. L’art. 11, par. 1, lett. c) prevede infatti che il piano in caso di cross class cram down per essere approvato dal giudice debba assicurare che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori. In alternativa il secondo paragrafo dispone che in deroga al paragrafo 1, lettera c), gli Stati membri possono prevedere che i diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente siano pienamente, e quindi integralmente, soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione.

Il dibattito sull’opportunità di inserire la relative priority rule è vivace. In suo favore si osserva che essa consente di predisporre piani con maggior flessibilità, che possono lasciare spazio ad una parziale tutela degli interessi degli azionisti o di talune categorie di creditori strategici altrimenti destinati a nulla ricevere, come possono essere certi fornitori (cfr. Considerando 56). Sarebbe quindi più facile raggiungere un accordo ed anche convincere i soci di riferimento ad investire ulteriormente nella società oggetto della ristrutturazione o mantenere fornitori strategici.

È evidente che la scelta di introdurre nel nostro sistema la relative priority rule consentirebbe in un numero maggiore di casi ai soci della società che partecipa ad un concordato di gruppo di lamentare una lesione del valore della partecipazione in funzione della lesione del patrimonio sociale per effetto del piano di concordato.

   

7. Il “mantra” del miglior soddisfacimento dei creditori: il rischio del risanamento.

(gm)

È la costante di tutta la disciplina della continuità in fase di crisi, già prima dell’adozione del CCI.

Per comprenderne correttamente la portata non è inutile richiamare la premessa che i creditori di fronte a un’ipotesi di risanamento rischiano!

O si ammette che essi debbono poter rischiare nella prospettiva di ricevere di più ma senza averne alcuna certezza o viene meno tutta la disciplina del risanamento d’impresa, che si è fatta faticosamente largo nel tessuto normativo italiano, e la si rigetta indietro di anni-luce, quando il risanamento ognuno doveva farselo a suo rischio e pericolo, a spese del debitore e di chi lo supportava (banche, professionisti, amministratori dedicati, ecc.).

Se questa premessa è vera, va rigettato a priori un canone interpretativo del miglior soddisfacimento dei creditori che confronti quanto essi potrebbero prendere oggi fermando le macchine (e quindi mandando l’impresa alla liquidazione giudiziale) con quanto potrebbero aspirare a ricevere domani ma non è detto che riceveranno.

Un criterio di questo tipo può risolvere solo dei casi-limite, cioè di piani di risanamento che, all’uscita dal piano, anche nella situazione ottimistica di conseguimento degli obiettivi prefissi prevedano un riparto ai creditori inferiore – in valore attuale – a quanto essi prenderebbero oggi dall’immediata liquidazione. Ma un piano così concepito non si è mai visto e, se lo fosse, non meriterebbe alcuna chance da giocare.

Piuttosto il canone del miglior soddisfacimento, da applicare al fine di

- giustificare da parte dell’istante (art. 284, co. 4, CCI),

- valutare da parte del tribunale in sede di ammissione e di omologa (art. 285, co. 4, CCI),

- contestare da parte dei creditori che si oppongano all’omologa,

dovrebbe riguardare la diversa soddisfazione dei creditori che può derivare dal fatto che la società sia inclusa in piano di gruppo ovvero in uno autonomo. Si è già segnalato sopra, a questo riguardo, che questo è appunto il modo di concepire il raffronto che, ai fini dell’ammissione, fa proprio l’art. 284, co. 4, CCI e che però la disposizione non è allineata con quella dell’art. 285, co. 4, CCI, che impone al tribunale di rifiutare l’omologa quando risulti che dal piano unitario i creditori riceverebbero un trattamento deteriore rispetto a quello che avrebbero in caso di liquidazione giudiziale dell’impresa.

Questo iato normativo sembrerebbe far emergere allora il principio che non è possibile “tirare il collo” a una società decotta in nome di un possibile interesse “di gruppo” a ricercare una soluzione unitaria che la coinvolga, onde supportare un comune concordato. Se la società è decotta, deve andare in liquidazione giudiziale e non può partecipare al concordato, e ciò è segnato dallo stesso piano concordatario nella parte in cui sia costretto a riconoscere che, pur all’esito dell’operazione di ristrutturazione, ai creditori dell’impresa decotta riverrebbe meno di quanto potrebbero aspirare a ricevere attraverso la sua immediata sottoposizione a liquidazione giudiziale.

Ma se così non è, se cioè il piano – oltretutto attestato da un terzo esperto indipendente sotto la propria responsabilità – dichiara fattibile l’aspettativa di ricevere un riparto migliore, anche se ciò è soggetto a un severo rischio d’impresa, il tribunale non dovrebbe essere autorizzato a impedire la via concordataria di gruppo.

 

(lp)

È indubbio che la prosecuzione dell’attività d’impresa implica un rischio che viene addossato ai creditori. La conseguenza più evidente di tale rischio, quando o i criteri adottati dal legislatore siano insoddisfacenti, come nell’amministrazione straordinaria che non adotta soluzioni efficienti per porre termine con celerità alla prosecuzione dell’impresa quando le prospettive di risanamento non si realizzano, o quando la gestione in concreto dagli organi della procedura incorra in errori, sta nell’accumularsi dei debiti in prededuzione, che possono arrivare a coprire l’intero attivo. La riforma Rordorf ha cercato di porre limiti a questo fenomeno intervenendo non a monte, sulle cause che possono condurre all’adozione di piani di ristrutturazione in assenza delle condizioni di mercato, ma a valle, limitando i crediti in prededuzione (art. 2, co. 1, lett. l), legge delega n. 155/2014.

Il criterio del miglior soddisfacimento dei creditori costituisce il costante punto di riferimento della disciplina della continuità aziendale sia nella legge fallimentare che nel codice della crisi. L’art. 186 bis, l. fall. prevede che il piano concordatario debba contenere un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi e di altri elementi finanziari, unitamente alla relazione del professionista che attesti che la prosecuzione dell’attività d’impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. In questo modo adotta criteri molto differenti da quelli cui il legislatore aveva fatto ricorso nella procedura di amministrazione straordinaria, ove l’art. 63, legge n. 270/1990, prevede che nella vendita di aziende in esercizio il prezzo della vendita deve tener conto della redditività, anche se negativa,  non soltanto all’epoca della stima, ma anche nel biennio successivo, sancendo, in tal modo, la prevalenza degli interessi alla continuazione dell’attività d’impresa rispetto agli interessi dei creditori. La legge delega, all’art. 3, comma 2, lett. f) proprio con riferimento ai gruppi di imprese, stabilisce che i criteri per la formulazione del piano   unitario   di risoluzione della crisi del gruppo,  eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative intragruppo debbano essere funzionali alla continuità aziendale e al migliore  soddisfacimento  dei  creditori. Il principio del miglior soddisfacimento dei creditori è recepito per il concordato individuale dall’art. l’art. 87, comma i, lett. f), CCII che subordina la continuità aziendale al miglior soddisfacimento dei creditori. Si sono già visti i richiami al principio del miglior soddisfacimento nella disciplina che il codice detta del concordato di gruppo.

L’art. 112, con norma di carattere generale, relativa al concordato individuale, non contraddetta però, come già si è detto, dalla disciplina del concordato di gruppo (arg. ex art. 285, co. 4) limita il miglior soddisfacimento a quanto i creditori possono ottenere in sede di liquidazione giudiziale. Non si tratta di un limite come sostiene Giorgio Meo, ma di una disposizione che è orientata a favorire la ristrutturazione. Può anche essere vero che il confronto dovrebbe essere tra quanto il creditore può prendere tramite il piano di gruppo e quanto può percepire da una procedura autonoma riferita alla sola impresa di cui è creditore. Ma va subito aggiunto che è verosimile che il piano autonomo non possa che portare alla liquidazione, perché vengono meno tutte quelle sinergie infragruppo che possono assicurare la prosecuzione dell’attività. Di regola pertanto il piano di gruppo è più favorevole ai creditori di ogni singola impresa, salvo il caso in cui si tratti di impresa nella quale vi sono cespiti il cui valore in caso di liquidazione rimane immutato oppure aumenta. Si tratta peraltro di ipotesi che si verifica oggi, quando le imprese sono fatte soprattutto di intangibles, meno frequentemente che in passato. In pratica l’ipotesi che può realizzarsi è che la singola impresa abbia in pancia un immobile industriale che grazie ad una operazione di riqualificazione edilizia può valere di più di quanto si otterrebbe dal mantenimento della originaria destinazione industriale. È accaduto in passato, potrebbe ancora accadere anche se oggi pare ipotesi non frequente.

In generale la limitazione della nozione di miglior soddisfacimento a quanto i creditori ricaverebbero dalla liquidazione è di vantaggio per l’ipotesi di continuità aziendale perché si tratta in genere di meno di quanto essi possono ottenere dalla ristrutturazione, ove naturalmente si tratti di piano serio ed affidabile. Per le stesse ragioni, come si è già detto, consente di realizzare più facilmente le operazioni infragruppo, lasciando margini maggiori per uno spostamento stabile di risorse.

Il dubbio che sorge è se la scelta del legislatore di tutelare i creditori nei limiti di quanto essi possono percepire in sede di liquidazione della singola impresa sia costituzionalmente legittima. Com’è noto la Corte EDU ha ammesso che i diritti di credito possano trovare tutela ai sensi del primo paragrafo, parte prima, dell’art. 1, Prot. addizionale n. 1, CEDU, secondo il quale «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni». La Corte ha affermato che un “credito” può costituire un “bene” a mente della norma in parola a condizione che sia sufficientemente accertato per essere esigibile. Ove si voglia ritenere che il principio in parola abbia portata generale esso potrebbe portare ad una declaratoria di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost., delle norme che vincolano la valutazione dell’interesse del creditore a quanto egli potrebbe ottenere in sede di liquidazione giudiziale anziché in ipotesi di realizzazione di un diverso piano di ristrutturazione (le alternative concretamente praticabili cui fa riferimento l’art. 181, co. 4, l. fall.).

   

8. Il “miglior soddisfacimento” in che senso?

(gm)

Si è già detto che il CCI risolve testualmente il problema se il piano unitario o i piani collegati e interferenti debbano essere tali da assicurare il miglior soddisfacimento dei creditori delle imprese del gruppo riguardati nel loro complesso o singolarmente, imponendo di aver riguardo ai creditori di ciascuna società. In forza della separazione delle masse, pur in presenza dei vincoli di gruppo, ciascuna società è un mondo a parte dal punto di vista concorsuale. Non occorre che i creditori di tutte le società abbiano un miglioramento uguale dalla partecipazione al piano comune ma la “loro” società intanto può essere assoggettata al rischio di un piano “di gruppo” in quanto ai propri creditori possa venir da ciò qualcosa di meglio rispetto a una soluzione individuale.

Occorre però non trascurare che la norma lascia del tutto impregiudicato, e non regola, il problema del diverso livello di rischio che potrebbe ricadere sui creditori di un’impresa per raggiungere un miglioramento nelle proprie chances di riparto, rispetto al rischio connesso con la conduzione di un piano individuale, in ipotesi anche meramente liquidatorio. È di tutta evidenza che il rapporto rischio-chance può modificare in modo rilevante la funzione di probabilità di conseguimento del trattamento migliore. Per guadagnare un euro in più potrebbe disegnarsi un piano che incrementi a dismisura il rischio non solo che il miglioramento non avvenga ma anche che si disperdano riparti già solo inerzialmente conseguibili ad un livello di rischio più accettabile.

Per converso, il piano unitario o i piani collegati e interferenti potrebbero migliorare le chances di recupero per i creditori sul piano qualitativo senza miglioramenti quantitativi. O potrebbero implicare flessione nelle aspettative di recupero, che però diverrebbero più certe. Il miglioramento potrebbe riguardare i tempi di attesa per il pagamento, le garanzie, le modalità di estinzione o, semplicemente, potrebbe consistere nel rafforzare le probabilità di successo grazie alla maggior massa critica oggetto della negoziazione con i creditori, alla centralizzazione delle decisioni, alla semplificazione dei procedimenti, alla maggiore elasticità nella costruzione di strumenti di finanza esterna e assicurativi, all’opportuno utilizzo a servizio del piano comune delle risorse ubicate entro le singole società, e così via. Tutto ciò può incrementare le aspettative di buon esito dell’operazione unitaria, rispetto alle soluzioni di tipo individuale, anche se non dovesse essere in grado di assicurare ai creditori un maggior ricavo in termini quantitativi o migliori condizioni temporali o garanzie rafforzate.

Il legislatore, nello stabilire il rigido principio del miglior trattamento, e nel ragguardarlo alle “singole” società, non ha tenuto adeguatamente conto di questi casi. Sembra piuttosto aver rinunciato ad attribuire rilievo all’intrinseca rischiosità della chance e alla possibilità che il piano di gruppo, senza altri miglioramenti, raffini il profilo di rischio, restringendolo a beneficio delle aspettative comuni. Pare che il CCI senta piuttosto il bisogno di un “numero” da confrontare, nella ristretta ottica delle singole società, senza considerare che un numero “da continuità aziendale” non è un “numero primo”! Ad ispirare il disegno del CCI sembra sia sempre la logica delle masse separate, che distrae e confonde, quasi fosse possibile stimare oggi il valore attuale della massa attiva destinabile domani alla compagine dei creditori, all’esito di una fase gestionale programmabile sì, ma totalmente imprevedibile in concreto.

Impostato in questi termini il tema, gran parte dei concordati “di gruppo” rischierebbe di non avere buon esito. Se un senso vi è a postulare un’azione unitaria è perché dentro il gruppo vi sono risorse e condizioni che amplificano le opportunità di ristrutturazione rispetto a soluzioni stand alone. Risorse che, opportunamente dislocate all’interno del gruppo e volte al processo di risanamento, possono conseguire (anche se non è detto che vi riescano) risultati migliorativi in termini complessivi, cui è necessario subordinare una certa compressione della sfera altrimenti libera delle singole società. Si pensi alla società che possiede l’impianto produttivo o quella che possiede i segni distintivi. Se anziché vendere il proprio cespite, ottenendo provvista immediata per il riparto ai propri creditori, lo affitterà per anni a servizio del tentativo comune di ristrutturazione di gruppo, magari a prezzo di favore proprio perché il gruppo non potrebbe permettersi altrimenti per raggiungere l’obiettivo di risanamento, la prospettiva del CCI imporrebbe di riguardare l’operazione come peggiorativa rispetto alla singola società anziché migliorativa. Invece in casi del genere il miglioramento, in termini di chance, può risultare rilevante anche per la singola unità, che godrebbe di una stabilità del proprio gruppo di appartenenza in vista sia del risanamento sia di futuri successivi traguardi comuni.

Un’emersione di questo “valore”, in realtà, non manca nella disciplina positiva. L’art. 285, co. 2, CCI prevede espressamente che le risorse possono muoversi da un’unità all’altra infragruppo a servizio delle imprese destinate alla continuità aziendale. La norma sembrerebbe non consentire che le risorse provengano da società del gruppo destinate a una definizione liquidatoria dell’esposizione, presupponendo probabilmente che il drenaggio di risorse, in questi casi, sia necessariamente penalizzante per i creditori della società in liquidazione. Questa prospettiva però è eccessivamente riduttiva, perché anche la liquidazione può richiedere il completamento di processi che potrebbero essere più efficienti se, grazie all’utilizzo di risorse finanziarie della società in liquidazione, il gruppo sia messo in condizione di assolvere prima e meglio alle prestazioni dovute o promesse alla controllata destinata alla liquidazione.

Comunque, anche questa norma subordina la possibilità di una mobilità infragruppo di risorse al miglior soddisfacimento dei creditori di ciascuna società. E si torna allora al punto di partenza. O si accoglie la prospettiva sostanziale che, trattandosi di misurare non un miglioramento quantitativo ma una funzione rischio-opportunità, occorre confrontare il piano “comune” con quello stand alone non solo dal punto di vista dei potenziali riparti, dei loro tempi e delle garanzie esterne ma anche delle condizioni complessive di sostenibilità e delle chances ragionevolmente attendibili anche a ristrutturazione completata, o gran parte dell’utilità che potrebbe avere la gestione “di gruppo” della crisi vengono vanificate, e ciò è sicuramente una ragione non incentivante all’uso dello strumento.

La norma sul miglior soddisfacimento misurato dal lato di ciascuna società è posta in modo rigido, ossessivo. Nessuna fessura normativa sembra aprirsi al tribunale per estendere alla verifica di “miglior soddisfacimento” anche un giudizio sul rischio del suo conseguimento. La valutazione in termini di rischiosità è, del resto, una valutazione di merito, di tipo strettamente imprenditoriale, che postula la configurazione di una sequenza gestionale rispetto a un obiettivo economico su cui il tribunale non dovrebbe poter entrare a meno di costruire l’intero sistema – a partire dal come dev’essere strutturata e motivata la relazione dell’esperto indipendente attestatore – in modo tale da attribuire meritevolezza di tutela alle situazioni in cui il riparto atteso può essere anche semplicemente uguale o perfino leggermente inferiore rispetto al concordato individuale ma in condizioni di maggiore certezza e salvaguardando l’obiettivo di continuità del gruppo nel suo complesso.

La sensazione è che il CCI non riesca a far quadrare il cerchio da questo punto di vista perché non ha veramente operato un passaggio alla realtà di gruppo  istituendo una disciplina del gruppo in crisi e stabilendo criteri per la ristrutturazione del gruppo e i criteri per la successiva distribuzione, tra le singole società coinvolte, del valore generato dalla ristrutturazione comune, per modo che il miglioramento delle chances possa misurarsi, per ciascuna società, in termini di “redistribuzione delle utilità” generate dalla gestione comune all’intero gruppo quale contropartita dell’“aspirare” l’intero compendio patrimoniale delle singole società a una gestione centralizzata della crisi più efficiente e meno rischiosa.

 

(lp)

Giorgio Meo manifesta il dubbio che il criterio offerto dal legislatore per valutare la convenienza del piano, nei limiti in cui essa è sindacabile da parte del giudice, e cioè con riguardo alla possibile lesione del diritto del creditore rispetto a quanto potrebbe ottenere in sede di liquidazione individuale della singola impresa del gruppo sua debitrice, sia insufficiente. Tale criterio, infatti, meramente quantitativo non considera a suo avviso la prospettiva del rischio, maggiore o minore, che può riguardare l’attuazione del piano di gruppo o dei piani coordinati, che possono consentire un risultato maggiormente positivo per i creditori.

Le considerazioni che Giorgio Meo svolge sono condivisibili quanto all’analisi, non alle conclusioni. È certamente vero che il piano di gruppo consente economie di scala e che, se sacrifica magari gli interessi di una società quanto al ricavo del creditore di quest’ultima, garantisce un risultato complessivamente più favorevole che, in ultima analisi, tutela anche quel creditore che può ottenere in termini di certezza maggior tutela che nell’ipotesi di liquidazione individuale. Qui però siamo nell’area della valutazione della fattibilità del piano che spetta certamente al giudice che dovrà appunto considerare, sulla scorta delle valutazioni dell’attestatore e del commissario giudiziale, se il piano è realizzabile e se l’alea che incontrano i creditori è accettabile o se siamo di fronte ad ipotesi scarsamente ragionevoli. Una volta pervenuto ad una valutazione positiva il tribunale dovrà poi porsi, ai sensi dell’art. 285, il problema se i creditori della singola società possano ottenere di più nel caso di liquidazione individuale di quella società ed in tale sede dovrà anche considerare i termini di effettiva realizzabilità dell’ipotesi alternativa al piano di gruppo. In altri termini il giudizio di fattibilità, ancorché la legge nulla dica in proposito, riguarda non soltanto il piano di gruppo, ma anche l’ipotesi alternativa prospettata dal creditore della singola impresa o considerata d’ufficio da parte del giudice. Ove infatti, ad esempio, l’immobile di proprietà della singola impresa abbia un valore che determinerebbe un maggior pagamento in favore del creditore di tale impresa, puramente teorico perché in realtà si tratta di un bene fuori mercato od ove si debba immaginare un lungo periodo di attesa prima di poter esitare il bene, il giudice dovrà considerare l’effettiva attuabilità dell’ipotesi alternativa al piano di gruppo o “scontare” i più lunghi tempi di realizzo per confrontare questa soluzione con quella offerta dal piano di gruppo a valori attuali.

   

9. Il problema tipologico: continuità o liquidazione?

(gm)

Secondo l’art. 285 CCI il piano unitario o i piani collegati e interferenti possono prevedere la liquidazione per alcune società e la continuazione per altre. In tal caso il concordato è in continuità o liquidatorio?

La domanda ha importanti riflessi pratici.

Ad esempio, dal punto di vista dell’ammissibilità, per i soli concordati di tipo liquidatorio, e non per quelli in continuità, sussiste il vincolo (art. 84, co. 4, CCI) a ricorrere a risorse esterne idonee ad incrementare di almeno il 10% il riparto al chirografo rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale e di offrire ai creditori di questa classe almeno il 20% dell’importo dei rispettivi crediti. Da quello della disciplina, il concordato in continuità consente la moratoria biennale dei crediti privilegiati (art. 86 CCI), la possibilità di essere autorizzati a sciogliersi dai contratti pendenti non coerenti con le previsioni del piano né funzionali alla sua esecuzione (art. 97, co. 1, CCI), nonché assicura la stabilità dei rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, per i quali l’apertura della procedura concordataria non può essere causa di risoluzione, anche contro l’espressa clausola contrattuale (art. 95, co. 1, CCI).

In via generale, con riferimento ai concordati individuali, l’art. 84 CCI definisce la continuità prevedendo che essa possa essere diretta (lo stesso imprenditore continua ad esercitare la propria impresa sotto l’ombrello concordatario) e indiretta (l’azienda viene affittata a un imprenditore terzo, il quale prosegue nella gestione dell’impresa). Nei casi di confine la norma dispone che il concordato deve considerarsi in continuità quando nella soddisfazione dei creditori vi sia prevalenza delle risorse rivenienti dal “ricavato” prodotto dalla continuità. La nozione è manifestamente errata. Il “ricavato” è solo una delle due componenti del conto economico. La norma ignora il “costo” di quel ricavato. “Ricavato”, inoltre, è nozione contabile, che rappresenta la somma di tutti i componenti positivi di reddito, gran parte dei quali non ha alcun contenuto finanziario e non può pertanto alimentare alcun riparto. Il legislatore voleva forse riferirsi alle somme disponibili per il riparto?

Questo impiego alquanto atecnico delle grandezze contabili permane nella definizione tipologica circa la natura liquidatoria o di continuità da riconoscere al concordato di gruppo. L’art. 285, co. 1, CCI prevede che, in presenza di concordati compositi, si applichi la sola disciplina della continuità quando, confrontando i “flussi” complessivi derivanti dalla continuazione dell’attività con i “flussi” complessivi derivanti dalla liquidazione risulta che i creditori delle imprese del gruppo sono soddisfatti in misura prevalente dal “ricavato” prodotto dalla continuità aziendale, diretta e indiretta, incluso quello derivante dalla cessione del magazzino.

L’espressione è in primo luogo oscura nella sua portata generale. Non è chiaro se s’intenda doversi suddividere l’area del gruppo, ai fini del calcolo, tra le imprese che continuano e quelle che vanno in liquidazione e confrontare il “ricavato” che il piano preveda possa esser generato dalle une e dalle altre, onde stabilire se a quel “ricavato” complessivo concorra maggioritariamente quello proveniente dalle imprese in continuità o dalle imprese in liquidazione. O se invece il “ricavato” prodotto dalla continuità aziendale, diretta e indiretta, incluso quello derivante dalla cessione del magazzino (in ipotesi anche quello derivante dalla temporanea prosecuzione di attività indispensabile per poter liquidare le imprese destinate alla chiusura) debba essere confrontato con il complessivo “ricavato” derivante dalla liquidazione di asset, ivi inclusi quelli che dovessero essere dismessi dalle imprese destinate alla continuità al fine di razionalizzare e snellire il processo produttivo.

Il dubbio si aggiunge a quello derivante dall’utilizzo dell’ulteriore espressione atecnica “flussi”, sulla cui base il legislatore vuole venga fatto il confronto per stabilire la prevalenza di quelli “da liquidazione” o di quelli “da continuità”. Si tratta dei flussi di cassa disponibili, nell’un caso riferiti a tutte le imprese che continuano o a qualunque atto gestionale di prosecuzione, anche temporanea, dell’attività?

Ma una nozione del genere non sarebbe direttamente utilizzabile per definire la ricaduta finanziaria in termini di riparto e quindi per confrontare se, a questo riguardo, prevalgano i flussi derivanti dalla liquidazione rispetto a quelli derivanti dalla continuità. La continuità, infatti, è per sua natura un’evoluzione di flussi. Il cash flow non è un concetto “liquidatorio”, è un concetto “di funzionamento”, cioè di continuità, così come quello di situazione finanziaria e di posizione finanziaria netta. Si tratta di grandezze contabili, non monetarie, che sono in continua evoluzione proprio a causa del fatto che l’impresa è in continuità.

Perché la formula abbia un senso si dovrebbe ragionare forse sul piano concordatario e confrontare l’“ultima riga”, quella dei riparti. L’espressione potrebbe allora forse interpretarsi nel senso che, se i flussi di pagamenti diretti ai creditori delle società da liquidare sono maggiori degli altri, allora il concordato di gruppo è in liquidazione e non in continuità.

Ma – a parte l’osservazione che una simile interpretazione mal si concilierebbe con l’espressione normativa che vuole che vengano confrontati i “flussi complessivi” derivanti rispettivamente da liquidazione e continuità, non i riparti finali – sembra innanzitutto illogico parlare dei valori numerici nudi e crudi: dovrebbe quanto meno parlarsi di “valori attuali”, confrontando i piani di riparto nel loro profilo temporale.

E forse il confronto andrebbe effettuato non in valori assoluti ma di percentuale di riparto. E comunque andrebbe raffrontata la percentuale di riparto consentita dalla mera liquidazione per le imprese destinate ad essere liquidate e la percentuale di riparto incrementativa del riparto consentito dalla continuità di quelle che proseguono. Insomma, sembra ragionevole e sensato ponderare i risultati di un progetto di continuità in termini di miglioramento piuttosto che considerare il numero statico del riparto prevedibile, pena distruggere il valore di quelle che potrebbero andare in continuità e sarebbero invece costrette a soggiacere ai vincoli stringenti dei concordati liquidatori oppure indurre i gruppi a rinunciare a presentare concordati fondati su piani unici o collegati e interferenti, depotenziando l’istituto che invece meritoriamente e non senza fatica il legislatore ha introdotto nel sistema concorsuale.

Rimanendo ancorati alle ambigue espressioni normative dei “flussi” e del “ricavato” (anche sperando che, magari con una precisazione normativa, si riuscirà prima o poi a capire cosa il legislatore abbia inteso con tale espressione), in sintesi, l’effetto negativo più grave che sembra prospettarsi è che in questo modo si impedirebbe di qualificare come “in continuità” anche la parte “ristrutturabile” del gruppo, con le importanti conseguenze che ne derivano sia in termini di prosecuzione dei contratti sia di assenza di un vincolo a pagare almeno il 20% ai creditori chirografari, solo perché dello stesso fa parte una rilevante componente “non salvabile” e da mandare piuttosto in liquidazione. Il che accade spesso ed è anzi in molti casi la ragione stessa per tentare un salvataggio di gruppo, anche attraverso operazioni di “scorporo” della parte sana da far proseguire e la concentrazione talora nella società di vertice, talora in una scatola appositamente costituita dei cespiti “non funzionali” onde farli liquidare.

Ciò potrà avere un effetto fortemente disincentivante a ricorrere a soluzioni unitarie in casi del genere, il che è un peccato perché non consente di trattare con lo strumentario utile e ragionevole della gestione comune della crisi le situazioni forse più bisognose di un simile approccio, al qual le imprese faranno meglio a rinunciare ritagliando due sfere concordatarie (tanto è il ricorrente, come detto, a stabilire il perimetro), l’una per le società che vanno in continuità l’altra per quelle che vanno in liquidazione, rinunciando però alla intercomunicabilità tra i due vasi e a valersi, oltre che di una pianificazione e di una vigilanza comune, anche delle utili previsioni che consentono l’utilizzo infragruppo di flussi a servizio della miglior soddisfazione dei creditori.

 

(lp)

Giorgio Meo con un’analisi impietosa ha messo il dito sulla piaga della scarsa tecnicità delle espressioni utilizzate dal legislatore. Occorre ricordare che la prevalenza delle risorse derivanti dalla continuità aziendale è requisito previsto dall’art. 6, comma 1, lett. i, n. 2)  della legge delega che dispone che la disciplina del concordato in continuità si applichi anche alla proposta di concordato che preveda la continuità aziendale e nel contempo la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, a condizione che possa ritenersi, a seguito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale.

La norma non si occupa del concordato di gruppo e l’art. 3 della legge delega nulla dice in proposito. Il legislatore delegato ha pertanto dovuto estendere la nozione di prevalenza al concordato di gruppo, dettando norme parzialmente derogatorie rispetto a quelle previste per il concordato individuale.

Ancora va aggiunto che il requisito della prevalenza è stato previsto per evitare, con soluzione discutibile, che sotto lo schermo della continuità potessero passare soluzioni in cui la stragrande maggioranza degli asset venissero liquidati, senza vantaggio per i creditori, ma aggirando in tal modo il requisito del soddisfacimento dei creditori chirografari almeno nella misura del 20% previsto per il concordato liquidatorio, oltre che la necessità di apporto di ulteriori  risorse esterne idonee a soddisfare i creditori chirografari nella misura di un ulteriore 10%.  Ne deriva che a mio avviso la nozione di prevalenza va interpretata sempre nel senso più favorevole all’ammissibilità del concordato in continuità, trattandosi di un vincolo che intende sostanzialmente evitare ipotesi di abuso del diritto.

Va poi aggiunto che il diverso regime della prevalenza previsto per il concordato di gruppo dall’art. 285 va inteso come regola di maggior favore rispetto alla soluzione prevista dal legislatore per il concordato individuale. Nel concordato relativo ad una singola impresa la disciplina del concordato in continuità richiede che vengano rispettate le regole previste dall’art. 84, comma 3, e quindi che i creditori siano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato dalla continuità diretta o indiretta, salva la presunzione di legge nel caso in cui il piano preveda che per i due anni successivi alla presentazione del ricorso all’impresa siano addetti lavoratori in misura pari alla metà di quelli in forza nel biennio antecedente. In difetto il concordato è liquidatorio e di conseguenza i creditori chirografari debbono essere soddisfatti in misura non inferiore al 20% ed il concordato è ammissibile a condizione soltanto che vengano previste risorse aggiuntive idonee a garantire il soddisfacimento dei medesimi creditori nella misura del 10% in più rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale (art. 84, co. 4). Al contrario nel concordato di gruppo si guarda ai flussi complessivi derivanti dalle società in continuità che non debbono essere necessariamente superiori ai flussi derivanti dalla liquidazione, richiedendosi invece che i creditori siano soddisfatti prevalentemente dal ricavato derivante dalla continuità aziendale. Se dunque i creditori delle società destinate alla liquidazione sono pochi o comunque di minor ammontare, il concordato rimane un concordato in continuità perché la maggioranza dei creditori è soddisfatta dal ricavato della continuità, sia essa diretta o indiretta, ivi compresa come nel caso del concordato di una singola impresa la cessione del magazzino.

Il quesito che pone Giorgio Meo è se, dato che il legislatore ha fatto riferimento ad una nozione atecnica richiedendo la comparazione dei flussi occorra guardare ai flussi generati dalle imprese per cui si procede alla liquidazione per compararli con quelli generati dalle imprese per cui è invece prevista la continuità o se invece occorra scomporre i flussi in ragione della loro causa genetica e quindi se essi derivino dalla prosecuzione dell’attività anche sotto forma di liquidazione del magazzino ovvero dalla liquidazione di asset e ciò anche se, per avventura, si tratti di attività liquidate facenti capo ad una società per cui il piano unitario o i piani coordinati prevedano la prosecuzione dell’attività. L’art. 285 non fa riferimento alle società, ma ai “flussi complessivi” generati rispettivamente dalla continuità o dalla liquidazione. Non mi pare pertanto dubbio che occorra scorporare i flussi dell’uno o dell’altro tipo per poi effettuare la comparazione indipendentemente dal fatto che essi possano ritenersi far capo a una società per cui il piano di concordato prevede la continuità o meno. È indubbio che l’espressione “ricavato” impiegata dal legislatore nell’art. 285, co. 1, ultima parte, e nell’art. 85, è imprecisa per le ragioni che Giorgio Meo ha indicato. Trattandosi peraltro nella specie di comparazione all’interno di un gruppo occorrerà sommare tutto ciò che deriva dalla continuità aziendale per confrontarlo con ciò che deriva dalla liquidazione, ancorché si tratti di cespiti che fanno capo a società diverse. Ci si può domandare se il ricavato dalla continuità debba essere considerato al netto dei costi incontrati per realizzarlo. La risposta a mio avviso è negativa perché, come si è già detto, si tratta di evitare che il concordato in continuità venga utilizzato in chiave strumentale per aggirare i vincoli posti all’accesso al concordato liquidatorio. Ne deriva che si tratta soltanto di verificare che effettivamente la causa di prosecuzione dell’attività d’impresa sia prevalente rispetto alla causa liquidatoria, con la conseguenza che a tal fine la considerazione dei costi è irrilevante.

   

10. I trasferimenti infragruppo.

(gm)

È sicuramente una delle più rilevanti innovazioni normative e uno degli aspetti maggiormente incentivanti a presentare soluzioni concordatarie di gruppo, razionalizzando l’impiego di risorse dislocate in diverse unità del gruppo a servizio della comune ristrutturazione.

L’art. 285, co. 2, CCI dispone che nel piano unico o nei piani collegati e interferenti possono prevedersi operazioni contrattuali e riorganizzative, inclusi i trasferimenti di risorse infragruppo, purché un professionista indipendente attesti la loro necessità per la continuità delle imprese per le quali è prevista la continuazione, nonché la loro coerenza con l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo. I “trasferimenti” cui la norma allude sembrano doversi intendere quelli che avvengono “a titolo definitivo”, con o senza corrispettivo diretto, e non anche quelli “temporanei” con vincolo di restituzione, fattispecie che sembra invece doversi ricondurre alla disposizione contenuta nell’art.  292 CCI (finanziamenti infragruppo con vincolo di postergazione).

La norma rappresenta una specificazione del principio contenuto nell’art. 284, co. 5, CCI in tema di contenuto e finalità del piano di gruppo: le operazioni straordinarie infragruppo, senza limiti quantitativi, vengono ammesse sotto il solito vincolo (la cui portata si è analizzata sopra) del miglior soddisfacimento degli interessi dei creditori di tutte le società coinvolte, e inoltre sotto l’ulteriore condizione che esse siano funzionali a salvaguardare la continuità di una parte delle imprese appartenenti al gruppo.

La disposizione non può essere interpretata nel senso di vietare possibili trasferimenti anche a beneficio di società destinate alla liquidazione, né trasferimenti provenienti dalle società da liquidare a servizio della continuità delle altre. I trasferimenti sono sempre consentiti purché ciò serva alla continuità di una porzione almeno del gruppo e al miglior soddisfacimento dei creditori anche delle società che vanno a chiudersi.

La norma non impone che, per operarsi un trasferimento di risorse infragruppo a carico di una società debba migliorarsi il trattamento dei creditori di quella società in modo almeno pari rispetto al miglioramento arrecato al trattamento dei creditori della società beneficiaria del trasferimento (o la cui continuità sia agevolata dal trasferimento, anche se avvenuto in favore di un’altra). Il criterio generale è sempre quello dell’art. 284, co. 4, CCI, nulla di diverso. Sempre lo stesso è il controllo demandato al tribunale sulla convenienza dei creditori (con la stessa aporia sopra segnalata derivante dal raffronto, imposto al tribunale in sede di omologa, non tra il risultato attendibile dal piano comune – inclusivo del trasferimento di risorse – e il piano individuale della singola impresa bensì tra il riparto attendibile dalla soluzione concordataria e quello attendibile dall’immediata sottoposizione dell’impresa a liquidazione giudiziale).

Neppure questa norma apre a una substantial consolidation dell’impresa di gruppo ai fini del trattamento della crisi. Non soltanto, infatti, il principio-cardine resta quello dell’autonomia delle masse attive e passive (art. 284, co. 3, CCI) ma permane il severo criterio di convenienza individuale più volte richiamato, in assenza, oltretutto, di un’adeguata disciplina che consenta di ponderare il rischio della prosecuzione dei processi in funzione del miglioramento del trattamento dei creditori (anche in questo specifico caso, se pur fosse astrattamente misurabile, da parte dell’attestatore, che dall’operazione infragruppo possa rivenire ai creditori un euro in più, come deve valutarsi il possibile diverso grado di rischio connesso con il trasferimento infragruppo?).

Il vincolo di autonomia delle masse solleva un problema specifico: come debbono trattarsi, sia dal punto di vista della misurazione del riparto sia da quello del rischio, le operazioni straordinarie infragruppo che producano una confusione delle masse (es. fusioni e scissioni, scorpori a beneficio di altre unità) o una riarticolazione interna delle stesse (es. costituzione di patrimoni separati a fronte dell’emissione di strumenti finanziari partecipativi, costituzione di asset in trust, costituzione disocietà-veicolo, e simili). Le operazioni prefigurate dovranno sempre consentire di isolare, all’interno delle masse riaggregate, i creditori che prima dell’operazione facevano parte di una massa e all’esito dell’operazione si ritroveranno in un’altra, onde stabilire sia la parità di trattamento rispetto ai creditori originariamente appartenenti insieme a loro alla stessa massa sia il miglioramento (tenuto conto anche del rischio dei processi) rispetto alle condizioni originariamente prospettabili per tutti.

Un dubbio di fondo: la disposizione dell’art. 285, co. 2, CCI  va forse interpretata nel senso che, al di fuori di una procedura “di gruppo”, operazioni infragruppo di tal genere sarebbero da ritenere vietate a causa del fatto che in una “sommatoria” di concordati singoli non potrebbero soddisfarsene le indispensabili condizioni, non potendosi giuridicamente instaurare il vincolo di funzionalità alla continuità “di una parte” delle imprese facenti parte di un gruppo (che non avrebbe ricevuto emersione e visibilità attraverso l’istanza unica), né potendosi misurare l’incremento delle chances dei creditori?

In realtà una ragione testuale per un’interpretazione così severa non è rinvenibile nel CCI. Né si vede ragione per escludere che operazioni coinvolgenti società appartenenti allo stesso gruppo possano trovare spazio anche nei concordati individuali, benché ciò escluda che vengano in gioco, per legittimarle, le condizioni specifiche di utilità alle sorti di una parte del gruppo e valutazioni concernenti il trattamento di creditori diversi da quelli della specifica impresa soggetta alla procedura atomistica. Certamente la complessità dei condizionamenti reciproci che, in un contesto di piano non unitario, sarebbe necessario disciplinare e attuare, non agevola, ma questo non è un motivo per escludere la legittimità dello strumento. Quel che discrimina l’area del legittimo dall’area interclusa è, in ogni caso, l’incremento di utilità per i creditori della società cui si richiede di partecipare a un’operazione o a un trasferimento infragruppo. Da questo punto di vista, non dovrebbe rilevare che la si possa conseguire attraverso un’operazione proceduralmente unitaria o invece separata in più filoni autonomi ma contestuali e reciprocamente condizionati.

Certamente, in una soluzione “polverizzata” verrebbe meno la possibilità di una valutazione unitaria e contestuale, una competenza giudiziaria unica e una vigilanza comune sulla realizzazione degli atti, con complessiva perdita di efficienza, anche in termini temporali, del processo di ristrutturazione e quindi di sua appetibilità per i creditori chiamati al voto.

Ed è forse questa la ragione più rilevante per la quale potrebbe risultare conveniente la presentazione di un piano unico o di piani collegati e interferenti a servizio di un concordato “di gruppo”, nonostante le non poche controindicazioni che ciò pone in termini di libertà del gruppo debitore e di rischio derivante per il tentativo di ristrutturazione comune dall’incremento delle condizioni, dei limiti, dei controlli e delle forme di opposizione che potrebbero ostacolarne il successo.

 

(lp)

La disciplina in materia di trasferimenti infragruppo costituisce una deroga alla regola sancita dall’art. 2740, c.c. per cui il debitore risponde nei confronti dei creditori con tutto il proprio patrimonio, presente e futuro. Il legislatore ammette che risorse possano essere spostate da una società ad un’altra in considerazione del fatto che occorre, nei limiti del possibile e del rispetto dell’autonomia patrimoniale delle singole società del gruppo, garantire che anche in caso di crisi o di insolvenza il gruppo possa operare come una struttura unitaria, realizzando quelle economie di scala che sono possibili quando il gruppo è in bonis. L’art. 3, comma 2, lett. f) della legge delega ha previsto che il piano di gruppo potesse essere attuato “eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative intragruppo funzionali alla continuità aziendale e al migliore soddisfacimento dei creditori, fatta salva la tutela in sede concorsuale per i soci e per i creditori delle singole imprese nonché per ogni altro controinteressato”. Si tratta quindi di un principio fondamentale della riforma. Si prevede però che il trasferimento di risorse debba essere indispensabile per assicurare la continuità aziendale delle società per cui è prevista dal piano e debba inoltre garantire il miglior soddisfacimento di tutti i creditori.

Quest’ultimo non è un requisito richiesto soltanto dal legislatore italiano. Anche il Regolamento UE 848/2015 prevede una disciplina analoga. Il piano redatto dal coordinatore del gruppo deve tutelare gli interessi di tutti i creditori. L’art. 63, par. 1, lett. b) prevede che il giudice adito disponga la comunicazione della domanda di apertura della procedura di coordinamento di gruppo se ritiene che “nessun creditore di una società del gruppo di cui si prevede la partecipazione alla procedura possa essere svantaggiato finanziariamente dall'inclusione di tale società nella procedura in questione”.

Il trasferimento di risorse è lecito con il solo limite che il piano di concordato preveda per le società che lo attuano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quanto previsto in caso di liquidazione giudiziale. Se si tratta di un trasferimento temporaneo troverà applicazione, come afferma Giorgio Meo, la disciplina dettata dall’art. 292 che rinviando all’art. 102 CCII prevede la prededuzione. Si tratterà infatti di un finanziamento o di un’operazione riconducibile ad un finanziamento. Il trasferimento in genere sarà attuato a favore di società destinate alla prosecuzione dell’attività produttiva, ma non si può escludere che invece avvenga a vantaggio di società da liquidare, ad esempio nel caso in cui il miglior realizzo degli asset richieda che un unico soggetto abbia la disponibilità di un complesso produttivo da alienare in blocco.

Ed ha ragione Giorgio Meo quando osserva che il trasferimento di risorse non intende realizzare una substantial consolidation. Questa comporta il venir meno della separatezza delle masse e presuppone in genere nel nostro ordinamento una situazione di interconnessione tale tra patrimoni diversi da rendere impossibile la ricostruzione della separatezza originaria. Del resto anche in altri ordinamenti il consolidamento presuppone la situazione ora descritta o l’abuso e la frode nell’avvalersi della personalità giuridica. E’ evidente che la fattispecie in esame è del tutto diversa. Si tratta della convenienza economica di un piano unitario o di piani coordinati che considerano determinati asset come un tutto organico.

Giorgio Meo si pone il quesito del possibile esito di operazioni straordinarie di capitale (fusioni e scissioni in primo luogo) che fanno venire meno la separatezza delle masse e che richiederebbero, per consentire la verifica del rispetto dei vincoli previsti per le operazioni infragruppo (in primis il soddisfacimento dei creditori delle società sacrificate nei limiti del ricavato dalla liquidazione giudiziale) la ricostruzione delle sorti dei singoli rapporti creditori e del loro esito nel caso si fosse fatto luogo alla soluzione liquidatoria considerata dal legislatore come tertium comparationis. Mi pare che in realtà fusioni e scissioni di regola sono oggetto del piano, sia esso piano individuale o piano di gruppo, e non trovano pertanto attuazione prima della omologazione. In tale ipotesi la valutazione di convenienza per il creditore pregiudicato sarà già stata attuata dal tribunale, sì che il problema potrà ritenersi superato quando il piano avrà esecuzione. Giorgio Meo ha però ragione nel dire che la comparazione richiede una valutazione riferita all’ipotesi che non si faccia luogo all’operazione straordinaria e si liquidi invece la società i cui creditori si assume che potrebbero essere pregiudicati.

Certamente più delicato, ma proprio per questa ragione altrettanto certamente eccezionale, sarebbe il caso in cui si intendesse attuare la fusione o la scissione prima dell’omologazione. In tale ipotesi posto che si tratterebbe di operazione che non potrebbe essere successivamente revocata, il tribunale nell’autorizzare l’atto urgente, dovrebbe dare conto del rispetto anche della condizione del soddisfacimento minimo dei creditori potenzialmente pregiudicati guardando all’ipotesi della liquidazione giudiziale.

Sono possibili operazioni infragruppo al di fuori del concordato di gruppo? La risposta deve ritenersi affermativa, anche se l’art. 285, comma 2, non potrebbe trovare applicazione riguardando il concordato di gruppo. Il debitore in concordato può infatti porre in essere operazioni straordinarie, soggette al correlativo regime di autorizzazione, e tali operazioni possono essere autorizzate quando vengano rispettati i vincoli previsti dall’art. 94. Occorre l’autorizzazione del giudice delegato e l’atto deve essere funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Nel caso di cessioni di azienda o di altri beni occorre specifica pubblicità e il rispetto di una procedura competitiva. Inoltre in caso di urgenza l’autorizzazione può essere data dal tribunale, non dal giudice delegato, senza la prevista pubblicità e il rispetto della procedura competitiva, quando sia compromesso l’interesse dei creditori al migliore soddisfacimento, fermo restando l’obbligo di pubblicità del provvedimento autorizzatorio e del compimento dell’atto. La convenienza dell’operazione andrà valutata in sé e quindi a prescindere dal fatto che il trasferimento di beni avvenga tra società che facevano parte del medesimo gruppo, salvo per il rilievo che eventuali sinergie derivanti dalla comune origine possano incidere sul risultato o sulle modalità di realizzazione dell’operazione.


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