CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 05/11/2019 Scarica PDF

Secondo la Cassazione le sanzioni non perdono il privilegio nel fallimento

Lorenzo Gambi, Dottore Commercialista in Firenze


Sommario: 1. Il caso sottoposto alla Corte di Cassazione.- 2. Lo spossessamento in capo al contribuente.- 3. La soggettività fiscale del fallimento.- 4. Le sanzioni fiscali nel concorso.- 5. Annotazione conclusiva.

     

1. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25854/2019, depositata il 14 ottobre 2019[1], ha preso posizione sulla questione se le sanzioni relative a violazioni tributarie poste in essere dal contribuente prima del fallimento mantengano, nel concorso, il privilegio generale ex art. 2752 cod. civ.

Questo il caso esaminato dal Supremo Collegio.

L’agente della riscossione presentava domanda d’insinuazione al passivo del fallimento del contribuente avanti al Tribunale di Firenze chiedendo di essere ammessa in privilegio (anche) per un credito sanzionatorio relativo a condotte omissive integrate dal debitore ante fallimento in materia di tributo IVA.

Il Giudice delegato accoglieva la domanda proposta dall’ente incaricato del servizio di riscossione, ammettendo al passivo – come richiesto – il credito sanzionatorio, con collocazione privilegiata ex art. 2752, comma 3, cod. civ.

La curatela proponeva opposizione ex art. 98 l. fall., eccependo che in caso di fallimento le sanzioni relative a condotte compiute dal contribuente prima dell’apertura del concorso non sono opponibili alla procedura, stante l’insussistenza dei presupposti su cui si fonda il sistema sanzionatorio (afflittività della pena).

Secondo la prospettazione della curatela fallimentare l’art. 2752 cod. civ. si porrebbe in contrasto con i principi di cui al D.Lgs. n. 472/1997, avuto particolare riguardo alla posizione di “terzietà” dell’ufficio concorsuale rispetto al contribuente.

Il Tribunale di Firenze rigettava il gravame, confermando quanto già accertato dal Giudice delegato in sede di formazione del passivo.

Le sanzioni relative a violazioni fiscali commesse dal contribuente ante fallimento in materia di tributo IVA sono “opponibili” alla curatela, partecipando al concorso secondo il grado di privilegio ex art. 2778, comma 1, n. 19) cod. civ.

Da ciò consegue anche la manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 2752 cod. civ., nella parte in cui attribuisce alle sanzioni erariali rango di credito privilegiato.

Secondo il Collegio territoriale, nonostante l’indubbio carattere afflittivo della sanzione, la stessa, in caso di fallimento, non va in realtà a colpire un soggetto terzo rispetto al contribuente.

Con l’apertura della procedura concorsuale non si determina infatti alcuna modifica in capo al debitore/contribuente sotto il profilo della soggettività fiscale.

La Corte di Cassazione, con la sopra richiamata ordinanza, ha confermato le due sentenze di merito del foro fiorentino, respingendo il ricorso proposto dalla curatela fallimentare.

Il Supremo Collegio ha statuito – sull’argomento – i seguenti principi di diritto.

L’assoggettamento del contribuente alla procedura fallimentare determina il mero “spossessamento” patrimoniale: non è così ravvisabile alcuna modifica e/o traslazione, sotto il profilo giuridico, del soggetto passivo d’imposta.

Il credito sanzionatorio relativo a condotte poste in essere dal contribuente prima della sentenza dichiarativa di fallimento deve partecipare al concorso secondo i principi generali, assieme agli altri creditori concorrenti.

D’altra parte, l’esigibilità della sanzione fiscale non può restare “congelata” (id est, sospesa) in costanza di fallimento, il che varrebbe a dire che l’Amministrazione finanziaria debba attendere il ritorno in bonis del contribuente.

Ammettere che il credito sanzionatorio possa essere “postergato” rispetto alla chiusura del concorso violerebbe la disciplina imperativa di cui all’art. 2752 cod. civ., divenendo un modo per eludere, nel concreto, l’applicazione delle sanzioni tributarie.

È manifestamente infondata l’eccezione d’illegittimità costituzionale della norma prevista dall’art. 2752, comma 3, cod. civ., nella parte in cui riconosce al credito sanzionatorio in materia di tributo IVA il privilegio generale.

Il legislatore ha piena discrezionalità nell’attribuire la qualifica di creditore privilegiato all’Erario per le sanzioni tributarie, attesa la particolare causa del credito – e ciò indipendentemente dal fatto che la sanzione abbia, come in effetti ha, una funzione tipicamente afflittiva.

   

2. Con il fallimento, il contribuente – così come ogni altro debitore – è privato della facoltà di amministrare e gestire il proprio patrimonio (art. 42, comma 1, l. fall.).

Egli subisce il cd spossessamento[2].

Nel fallimento, a differenza di quanto accada in sede di processo esecutivo individuale – nel quale gli effetti dell’indisponibilità sui singoli beni o diritti del debitore sono il frutto di una serie di atti progressivi che si concludono con la trascrizione del pignoramento – lo spossessamento si produce ex lege, con l’apertura del concorso.

Lo spossessamento non determina per il debitore la perdita del diritto di proprietà e/o degli altri diritti reali sul proprio patrimonio, bensì, unicamente, la perdita della facoltà di disporre ed amministrare i beni, diritti e rapporti giuridici dei quali tale patrimonio è composto.

Facoltà che, con l’apertura del concorso, viene attribuita alla curatela fallimentare (art. 31 l. fall.)[3].

Tale norma regola la funzione amministrativa del curatore, che si sostanzia nel potere/dovere d’amministrare, custodire e gestire il patrimonio fallimentare, sotto la vigilanza degli altri organi della procedura.

È opinione prevalente che la perdita in capo al fallito del potere d’amministrare il proprio patrimonio, con trasferimento in capo alla curatela di tale facoltà, determini una “scissione” tra titolarità e legittimazione.

Scissione che sarebbe riconducibile al fenomeno della sostituzione, operante ex lege [4].

Il fallito, dopo la sentenza di fallimento, può peraltro astrattamente compiere negozi che attengano al proprio patrimonio.

In tal caso, i relativi atti non sarebbero invalidi, bensì inefficaci rispetto ai creditori, ex art. 44, comma 1, l. fall.

L’art. 43 l. fall. integra poi, sotto il profilo processuale, gli effetti sostanziali dello spossessamento previsti dall’art. 42, comma 1, l. fall.

Secondo il richiamato art. 43, spetta al curatore la legittimazione processuale nelle controversie relative ai rapporti di natura patrimoniale del debitore compresi nel fallimento, ove anche pendenti al momento dell’apertura del concorso.

Il fallito può intervenire esclusivamente nei giudizi dai quali possa dipendere una fattispecie di bancarotta imputabile a proprio carico, ovvero quando il proprio intervento sia previsto dalla legge.

Il debitore, sotto il profilo tributario, resta peraltro titolare di un’autonoma legittimazione processuale, che potrà esercitare in caso d’eventuale inerzia da parte degli organi della procedura.

Quanto sopra al fine di prevenire che si formi un titolo (es. avviso d’accertamento definitivo) azionabile nei confronti del contribuente una volta che lo stesso sia tornato in bonis, potendo ciò incidere concretamente sulla propria sfera patrimoniale[5].

   

3. Lo spossessamento conseguente alla sentenza dichiarativa di fallimento non determina alcuna variazione circa il soggetto cui sia riferibile l’obbligazione tributaria.

Il venir meno con lo spossessamento della facoltà per il contribuente di disporre del proprio patrimonio non impedisce che il presupposto d’imposta si configuri in capo allo stesso debitore.

Egli – come visto – viene a perdere la sola disponibilità “materiale” dei propri beni, diritti e rapporti giuridici, non già la titolarità degli stessi.

Non vi è alcuna norma né all’interno delle singole leggi tributarie, né all’interno della legge fallimentare che induca a ritenere che il debitore, con l’apertura del concorso, perda la veste di “contribuente”.

Né vi è, al pari, alcuna disposizione di legge che qualifichi la procedura concorsuale quale autonomo soggetto passivo d’imposta rispetto al debitore.

Il contribuente dichiarato fallito non è, così, “privato a seguito della dichiarazione di fallimento della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario[6].

D’altra parte, la completezza del ciclo impositivo presuppone una “unicità del soggetto al quale va riferita la ricchezza prodotta. Sicché, per quanto riguarda il fallimento, l’imputazione al medesimo e non al fallito dei risultati fiscali della liquidazione concorsuale spezzerebbe automaticamente tale unità, alterando la omogeneità del prelievo[7].

Ciò che muta, con il fallimento, non è dunque il soggetto passivo d’imposta, bensì, esclusivamente, il soggetto legittimato – ed insieme obbligato – a compiere gli adempimenti fiscali previsti dalla legge.

Tale soggetto è il curatore.

Egli rispetto al fallito assume una funzione sostanzialmente surrogatoria circa gli obblighi tributari inerenti la procedura, nei limiti stabiliti dalla legge ed in funzione della rilevanza pubblicistica del concorso.

La curatela fallimentare non acquisisce dunque alcuna diversa né autonoma posizione fiscale rispetto all’imprenditore, operando nell’ambito delle operazioni liquidatorie con la stessa partita IVA del contribuente.

D’altra parte, la dichiarazione di fallimento non determina alcun trasferimento del domicilio fiscale dell’impresa debitrice, rimanendo competente l’ufficio della circoscrizione nell’ambito della quale ha sede il debitore, indipendentemente dalla competenza del foro che abbia dichiarato l’apertura della procedura concorsuale[8].


4. Come ricordato dalla Cassazione con l’ordinanza n. 25854/2019, il regime delle sanzioni tributarie ex D.Lgs. n. 472/1997 è informato a principi di stampo penalistico (afflittività della “pena”).

Attesa tale impostazione, le sanzioni relative a condotte poste in essere dal debitore ante fallimento possono partecipare al concorso, mantenendo il privilegio generale che l’art. 2752 cod. civ. accorda loro?

I principi di stampo penalistico che informano il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 possono essere così sintetizzati:

- principio di legalità: nessuno può essere assoggettato ad una sanzione amministrativa tributaria se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione;

- il principio di favor rei: salvo diversa previsione normativa, nessuno può essere assoggettato a sanzione per un fatto considerato non punibile da una legge posteriore;

- il principio di personalità: la sanzione è riferibile alla persona fisica che abbia commesso la violazione ovvero che abbia concorso a commetterla;

- il principio d’imputabilità: non può essere assoggettato a sanzione chi al momento della commissione del fatto non avesse la capacità d’intendere e volere;

- il principio di colpevolezza: ciascuno risponde della propria condotta, cosciente e/o volontaria, sia essa dolosa o colposa.

Il credito fiscale sanzionatorio ha natura concorsuale – nella specifica prospettiva della formazione del passivo – qualora si riferisca ad una violazione posta in essere prima del fallimento.

Il tema è quindi se le sanzioni aventi natura concorsuale siano comminabili in sede fallimentare e se, una volta contestate dall’ente impositore, il relativo credito possa essere ammesso al passivo, concorrendo così alle ripartizioni dell’attivo.

La questione presuppone una risposta alla preliminare domanda se il nostro ordinamento preveda una causa d’“esclusione” di applicabilità delle sanzioni nel caso in cui il contribuente sia sottoposto a fallimento.

La risposta è negativa[9].

Ferma la mancanza di un’espressa causa d’esclusione della sanzione, è stato rilevato come pur contrasti con le regole sostanziali del concorso la circostanza che l’ufficio fiscale faccia valere il credito sanzionatorio in sede fallimentare.

La pretesa erariale è infatti riconducibile ad una condotta imputabile, in via personale e diretta, al solo soggetto passivo d’imposta: il giudice delegato avrebbe così il potere di escludere dal passivo il credito sanzionatorio[10].

Tale tesi ha attribuito peculiare enfasi agli aspetti “personalistici” della sanzione fiscale amministrativa, riconducendo l’inadempimento tributario a canoni sostanzialmente patrimoniali, tipici del diritto civile.

La violazione della norma tributaria, a motivo della “terzietà” della procedura rispetto all’autore dell’illecito, genererebbe, così, solo un diritto di credito a titolo d’interessi, secondo le misure fissate dalle singole leggi d’imposta, e non anche un diritto di credito a titolo di sanzioni, le quali – pertanto – sarebbero inopponibili alla massa[11].

Sotto questo profilo, attingere all’attivo fallimentare per adempiere un’obbligazione riconducibile ad un soggetto “diverso” rispetto al curatore contrasterebbe con la funzione tipica della sanzione.

Essa finirebbe dunque con il “punire non più il soggetto autore della violazione, bensì i creditori, a decremento dei cui diritti soltanto va la pretesa avanzata da parte dell’Erario: la sanzione, allora, non assolve più a nessuna reale funzione afflittiva ma colpisce (del tutto irrazionalmente) soggetti assolutamente estranei alla condotta che si ritiene illecita[12].

Di talché, gli organi della procedura – ed il giudice delegato, in particolare – dovrebbero “prendere posizione su quello che si profila come un possibile contrasto tra norme e (prassi) procedimentali e principi di diritto”, regolando di conseguenza i vari interessi in giuoco[13].

In realtà, per il principio di esclusività della giurisdizione tributaria, gli organi della procedura non avrebbero alcuna possibilità di decidere, nel merito, in ordine alla debenza e/o alla opponibilità alla massa del credito erariale sanzionatorio[14].

Qualora l’ente impositore agisca in sede di formazione del passivo sulla base di un titolo non più contestabile avanti al giudice tributario, il credito sanzionatorio è ammesso al passivo in via definitiva.

Ove, al contrario, l’ufficio agisca in base ad un titolo non definitivo, la domanda è ammessa al passivo con riserva, ex art. 88, comma 2, D.P.R. n. 602/1973, riserva che sarà sciolta all’esito definitivo del procedimento tributario, ove anche introdotto dalla stessa curatela fallimentare.

È dunque solo in sede di contenzioso fiscale che potrà, in ipotesi, essere mossa ogni contestazione circa l’insussistenza del diritto al tributo, valutata la natura della sanzione in funzione delle regole del concorso (afflittività della pena, mancanza dei requisiti di personalità, suitas, ecc.).

D’altra parte, per quanto attiene alla partecipazione al concorso del credito sanzionatorio, il principio di par condicio è assicurato dalla stessa legge, con la graduazione delle singole cause di prelazione, nell’ambito delle quali il diritto alla sanzione trova espressa collocazione, nonché dalle regole che disciplinano il concorso, soggettivo e oggettivo, cui pure si uniforma l’azione erariale.

Sotto questo profilo, è stato rilevato come la composizione tra tutti gli interessi dei creditori sia assicurata “da un complesso di regole volte a determinare l’ammontare del credito secondo principi comuni e, in questo secondo ambito, si collocano le questioni dovute all’esigenza di coordinare razionalmente le norme tributarie e quelle fallimentari nei casi in cui le rispettive indicazioni siano incompatibili[15].

   

5. Un’ultima annotazione – che si pone peraltro nel solco dei condivisibili principi statuiti dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 25854/2019 – è la seguente.

La procedura non determina il venir meno dell’attività economica d’impresa: la “gestione” svolta dalla curatela fallimentare è idonea a generare flussi finanziari rilevanti sotto il profilo fiscale[16].

Vi è dunque piena “continuità”, anche sotto il profilo tributario, fra attività d’impresa ante e post fallimento.

Questo principio di continuità (anche la liquidazione è attività d’impresa), fa sì che la procedura subisca una sorta di “trascinamento” in seno al patrimonio fallimentare del debito sanzionatorio consolidatosi in capo al contribuente in bonis.

Il relativo credito può pertanto partecipare alla procedura secondo i criteri generali del concorso, fra i quali assume rilevanza il rispetto delle cause di prelazione accordate dalla legge alle sanzioni erariali.

 

* * *

 

CASSAZIONE CIVILE, SEZ I, 14 OTTOBRE 2019, N. 25854 (ord.)

Pres. Genovese, Rel. Federico

 

L’assoggettamento del contribuente alla procedura fallimentare non determina alcuna modifica né traslazione, sotto il profilo giuridico, del soggetto passivo d’imposta.

Il credito sanzionatorio relativo a condotte poste in essere dal contribuente prima del fallimento deve partecipare al concorso secondo i principi generali, assieme agli altri creditori concorrenti.

L’esigibilità della sanzione non può restare sospesa in costanza di fallimento, in attesa che il contribuente ritorni in bonis, considerata disciplina imperativa di cui all’art. 2752 cod. civ.

È manifestamente infondata l’eccezione d’illegittimità costituzionale dell’art. 2752, comma 3, cod. civ., là dove attribuisce il privilegio generale alle sanzioni IVA, avendo il legislatore piena discrezionalità nella valutazione della causa del credito.

 

(Omissis)

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Firenze, con ordinanza n. 4486/14, pubblicata il 30 ottobre 2014, ha rigettato l’impugnazione proposta dalla curatela fallimentare avverso l’ammissione in via privilegiata di Equitalia al passivo del fallimento della (Omissis), relativamente all’importo di euro 287.625,13, a titolo di sanzioni tributarie.

La Corte territoriale, in particolare, rilevava che secondo lo steso tenore letterale dell’art. 2752 c.c. le sanzioni dovute in materia di tributo IVA erano assistite da privilegio generale e che l’eccezione di illegittimità costituzionale di tale disposizione doveva ritenersi manifestamente infondata, nonostante l’indubbio carattere afflittivo della stessa: la sanzione, infatti, non colpisce un soggetto terzo, non potendo attribuirsi tale qualifica al fallimento, che integra una procedura concorsuale di gestione dell’insolvenza, posto che dalla dichiarazione di fallimento non deriva la successione del fallimento alla debitrice, ma il mero spossessamento della medesima.

Avverso detto decreto propone ricorso, con due motivi, la curatela del fallimento (Omissis); Equitalia resiste con controricorso.

 

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denuncia violazione di legge, censurando la statuizione della sentenza impugnata con la quale è stata respinta l’eccezione della curatela fallimentare, sul rilievo che la natura afflittiva del credito sanzionatorio non varrebbe a sottrarre detto credito all’ammissione allo stato passivo fallimentare.

La ricorrente deduce che dall’afflittività che caratterizza il sistema delle sanzioni tributarie discenderebbe il carattere strettamente personale delle stesse, che impedirebbe di trasferirne il peso su un soggetto diverso dall’autore dell’illecito.

Ad avviso della ricorrente, tali argomenti non sarebbero contraddetti dalla disposizione dell’art. 2752 c.c. (nella formulazione successiva alle modifiche apportate dal D.L. n. 98/2011), che opererebbe su un piano distinto da quello concernente la formazione dello stato passivo fallimentare, in quanto essa opererebbe nell’ambito delle sole procedure esecutive di carattere non concorsuale, nelle quali non si dà luogo alla liquidazione dell’intero patrimonio del debitore.

Il motivo è inammissibile, in quanto non attinge la ratio della statuizione impugnata.

La Corte territoriale ha rilevato che il carattere afflittivo della sanzione non è incompatibile con l’operatività del privilegio generale, espressamente sancita dall’art. 2752 c.c..

L’assoggettamento del debitore a procedura concorsuale non implica successione nella titolarità delle relative situazioni giuridiche, ma mero spossessamento del debitore, onde non è ravvisabile alcuna modifica o traslazione del soggetto passivo del tributo, attuandosi unicamente il concorso del credito per sanzioni, secondo i principi generali, con gli altri crediti nei confronti della debitrice.

Tale statuizione è conforme a diritto.

Come questa Corte ha già rilevato, le sanzioni pecuniarie per la violazione di leggi tributarie commesse in data antecedente al fallimento del contribuente, costituiscono un credito che soggiace all’applicazione di tutte le regole civilistiche, sia che si verta in una fase fisiologica del rapporto obbligatorio, sia che si verta nell’ambito di una procedura concorsuale, dovendo l’Amministrazione soddisfarsi secondo le regole del concorso, nei modi stabiliti dalla legge.

Pertanto, è infondata l’eccezione per la quale, in costanza di fallimento, l’esigibilità delle sanzioni tributarie dovrebbe essere “congelata”, potendo l’Amministrazione finanziaria farle valere esclusivamente una volta che il fallito sia tornato in bonis, sia perché il fallimento non equivale alla morte dell’imprenditore, tanto che con esso il contribuente non viene privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, sia perché la postergazione del pagamento dei crediti derivanti dalle sanzioni pecuniarie violerebbe la disciplina imperativa di cui all’art. 2752 c.c. e diverrebbe un modo per sfuggire al pagamento delle sanzioni amministrative in danno dell’Erario (Cass. n. 23322/2018).

Va altresì rilevata la manifesta infondatezza dell’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 2752 c.c., che prevede espressamente il privilegio generale del credito per sanzioni derivanti da violazioni IVA, attesa la discrezionalità del legislatore nell’attribuzione di qualifica privilegiata in ragione della particolare causa del credito, cui non osta, evidentemente, il carattere afflittivo della sanzione (Omissis).

Il ricorso va dunque respinto e le spese, regolate secondo soccombenza, si liquidano come da dispositivo.


P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso (Omissis).



[1] Cass., civ. sez. I, 14 ottobre 2019, n. 25854 (ord.), pubblicata su www.ilcaso.it.

[2] Cfr., fra gli altri, A. Bonsignori, Il fallimento, in F. Galgano (a cura di), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Padova, 1988, p. 294; E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, Padova, 2016, p. 223; S. Pacchi, Sub Art. 42. Beni del fallito., in A. Nigro-M. Sandulli-V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, I, Torino, 2010, p. 575.

[3] Per una rassegna sugli effetti della perdita del potere di amministrazione in capo al fallito, sotto il profilo della sostituzione ex lege del curatore: C. Costa, Gli effetti del fallimento sul fallito, in G. Ragusa Maggiore-C. Costa, Le procedure concorsuali. Il fallimento, Torino, 1997, p. 3 ss.

[4] Cass., civ. sez. II, 23 aprile 1993, n. 4776; in dottrina, in senso conforme: R. Rosapepe, Effetti nei confronti del fallito, in V. Buonocore-A. Bassi (a cura di), Trattato di diritto fallimentare, I, Padova, 2010, p. 236.

[5] La permanenza in capo al fallito di una legittimazione processuale “suppletiva” fa sì che gli atti impositivi relativi a crediti tributari i cui presupposti si siano verificati ante fallimento devono essere notificati non solo al curatore, ma anche al fallito, il quale dev’essere posto in condizione d’esercitare il proprio diritto di difesa nella competente sede giurisdizionale tributaria, rimanendo esposto alle conseguenze patrimoniali scaturenti dalla possibile definitività della pretesa tributaria (Cass., civ. sez. V, 14 settembre 2016, n. 18002).

[6] Cass., civ. sez. V, 24 febbraio 2006, n. 4235.

[7] Così, M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, p. 55. Per l’isolata tesi secondo cui la procedura assumerebbe soggettività tributaria: A.E. Granelli, Pretesa soggettività passiva del fallito per l’imposizione di plusvalenze realizzate in fase liquidatoria, in Boll. trib., 1983, p. 863; critico sulla permanenza in capo al fallito di una soggettività ai fini delle imposte dirette, muovendo da un’assimilazione del presupposto del possesso del reddito a concetti civilistici: M.A. Galeotti Flori, Il possesso del reddito nell’ordinamento dei tributi diretti. Aspetti particolari, Padova, 1983, p. 122 ss.

[8] Così, Cass., pen. sez. III, 19 gennaio 2011, n. 1549.

[9] Ricorda come non siano stati previsti “opportuni correttivi legati all’esigenza tributaria di proporzionalità tra imposta e sanzione nel caso in cui il trasgressore non fosse coinciso con il soggetto che avrebbe beneficiato della violazione, traducendo così la riforma del 1997, pur valida sotto altri profili, in un eccessivo inasprimento punitivo originato dalla incondizionata fedeltà ad un dato modello concettuale”, M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, Torino, 2011, p. 40.

[10] Cfr. G. Selicato, L’applicazione delle sanzioni tributarie nelle procedure concorsuali di tipo liquidatorio, in F. Paparella(a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, p. 445 ss.; F. Dami, Alcune riflessioni sull’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie nelle procedure concorsuali, in Rass. trib., 2002, p. 1288 ss.

 

[11] V., sul punto, G. Selicato, L’applicazione delle sanzioni tributarie nelle procedure concorsuali di tipo liquidatorio, cit., p. 457, secondo il quale la sanzione si è spogliata “di qualsiasi funzione risarcitoria dell’omesso o tardivo versamento dei tributi, restando quest’ultima confinata al recupero dei tributi medesimi e alle collegate “sanzioni civili”, ovvero agli interessi moratori maturati in ragione della violazione del pensiero normativo. Alla stregua di qualsiasi altra obbligazione di carattere patrimoniale, infatti, anche quella tributaria va onorata nei termini stabiliti. Il loro eventuale superamento determina l’onere di corrispondere un interesse di mora variabile in funzione della somma tardivamente versata, dell’entità del ritardo e del criterio di calcolo che, in materia fiscale, è stabilito dal legislatore”.

[12] Così, F. Dami, Alcune riflessioni sull’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie nelle procedure concorsuali, cit., p. 1288.

[13] G. Selicato, ibid., p. 463, secondo il quale la curatela potrebbe prendere posizione sull’inopponibilità alla massa della pretesa sanzionatoria, d’altra parte, rileva l’Autore: “la necessaria tensione tra interesse fiscale e par condicio creditorum valorizza […] il ruolo del giudice del fallimento cui compete, in considerazione delle circostanze concrete e delle conseguenze dell’azionamento di ciascun diritto realizzare una sintesi degli interessi in gioco”.

[14] Sotto questo profilo, la giurisdizione del foro fallimentare è circoscritta alla verifica del requisito di concorsualità (anteriorità al fallimento del presupposto di legge), del titolo (onere della prova), della collocazione (cause di prelazione), della tempestività della domanda erariale (eventuale ultra-tardività).

[15] Così, F. Paparella, La partecipazione delle sanzioni amministrative tributarie al riparto nelle procedure concorsuali, in Rass. trib., 2015, p. 598 ss.

[16] Rileva, sull’argomento, M. Mauro, ibid., p. 25, che “il connotato qualificante dell’impresa in senso tributario è costituito dalla permanenza dell’apparato organizzativo–patrimoniale a prescindere dalle interruzioni o dalla definitiva cessazione dell’esercizio dell’attività d’impresa, per cui lo statuto fiscale dell’imprenditore trova applicazione anche nella fase temporale finalizzata alla disgregazione coattiva del patrimonio aziendale, potendosi ritenere cessata l’impresa soltanto al termine della liquidazione dell’azienda del fallito che impedisca la ripresa dell’attività produttiva”; in senso conforme: D. Stevanato, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, p. 233.


Scarica Articolo PDF