Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 7218 - pubb. 23/05/2012

Perdita del frutto del concepimento e risarcimento del danno; nascita e atto respiratorio quale requisito della vitalità; regola probatoria del “più probabile che non”

Tribunale Varese, 14 Marzo 2012. Est. Buffone.


Perdita del frutto del concepimento in conseguenza del fatto illecito – Danno risarcibile – Sussiste – Risarcibilità – Criteri liquidatori – Tabelle giurisprudenziali – Danno da perdita del congiunto – Applicabilità – Esclusione – Differenza tra perdita del concepito non ancora persona e perdita del parente già persona – Sussiste.

Nascita – Soggetto nato in vita – Criteri di accertamento – Differenze tra soggetto nato vivo e poi morto e soggetto nato già morto – Conseguenza.

Giudizio civile – Accertamento del nesso causale – Criterio del “più probabile che non” – Principio del “favor victimae” – Diversità rispetto al giudizio penale – Sussiste – Responsabilità per Omissione.



La perdita del frutto del concepimento causa una lesione del diritto alla genitorialità. Da qui la risarcibilità del danno sia in capo a madre che padre. Trattandosi, tuttavia, di perdita di una speranza di vita e non di una vita, le tabelle milanesi giurisprudenziali sul danno parentale, elaborate per la perdita della persona viva, non sono direttamente utilizzabili, se non come parametro orientativo. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)

La nascita del feto corrisponde alla completa fuoriuscita dal corpo materno. La fuoriuscita del feto (per espulsione [parto naturale] o estrazione [parto cesareo]) non è, tuttavia, requisito sufficiente per considerare il soggetto nato (ed eventualmente poi morto). E’, infatti, necessario l’ulteriore requisito dell’atto respiratorio: il feto, fuoriuscito dall’alveo materno, deve respirare (cd. fase apnoica della vita extrauterina), anche senza essere, poi, vitale (cd. requisito della vitalità: attitudine a vivere di vita autonoma). L’accertamento della nascita, passa per prove scientifiche (cd. prove docimasiche) che sono note per la credibilità oggettiva e riconosciuta dalla letteratura scientifica: in particolare, il feto che, all’esito dell’esame autoptico, non abbia aria nei polmoni, non può definirsi nato vivo, proprio perché sussiste la prova che non ha respirato. E’ nato, cioè, morto. Quanto sin qui osservato non appaia irrilevante: e, infatti, da un punto di vista giuridico, un conto è la perdita del frutto del concepimento (il feto), un conto è la perdita del figlio (il bambino nato vivo): il nato morto non può considerarsi persona poiché il feto, pur essendo senz’altro un soggetto titolare di interessi meritevoli di protezione non è persona fisica in senso tecnico-giuridico, non essendo nato (perché venuto alla luce morto). (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)

La regola probatoria nel giudizio civile non può essere considerata quella dell'alto grado di probabilità logica e di credenza razionale, bensì quella del “più probabile che non”. Il nesso di causalità, dunque, in ambito civilistico, consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del «più probabile che non», in linea con il modello legale statunitense che applica, ai fini della causalità, il principio "preponderance of the evidence", risultando conforme al favor victimae che qualifica la funzione sociale della responsabilità civile da illecito, in relazione al diverso principio del favor rei, che concernendo il valore della libertà, esige maggiori garanzie nel campo della repressione penale. Alla luce dei principi sin qui richiamati, nella responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano (ad una valutazione ex ante) del tutto inverosimili. Per quanto riguarda, in particolare, l’illecito omissivo, nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto: rilievo che si traduce a volte nell'affermazione dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.  Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


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