Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20314 - pubb. 02/08/2018

Onere di allegare e provare la titolarità attiva o passiva del rapporto controverso

Cassazione civile, sez. III, 27 Giugno 2018, n. 16904. Est. De Stefano.


Titolarità attiva o passiva del rapporto controverso - Natura giuridica - Allegazione e prova - Onere dell'attore - Limiti - Fattispecie in tema di titolarità del diritto di credito azionato in via esecutiva



La titolarità attiva o passiva della situazione soggettiva dedotta in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, così che grava sull'attore l'onere di allegarne e provarne i fatti costitutivi, salvo che il convenuto li riconosca o svolga difese incompatibili con la loro negazione, ovvero li contesti oltre il momento di maturazione delle preclusioni assertive o di merito. (Nella specie, la S.C. in un giudizio di opposizione all'esecuzione ha ritenuto insussistente l'onere, da parte del creditore, di provare la titolarità del credito azionato in via esecutiva, sul presupposto che il debitore ne aveva contestato i fatti costitutivi soltanto con la comparsa conclusionale). (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta - Presidente -

Dott. DE STEFANO Franco - rel. Consigliere -

Dott. RUBINO Lina - Consigliere -

Dott. TATANGELO Augusto - Consigliere -

Dott. D’ARRIGO Cosimo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

 

Svolgimento del processo

1. Il debitore esecutato C.A. si oppose al pignoramento immobiliare intentato ai suoi danni da Italfondiario spa - quale mandataria di Castello Finance spa - con atto notificato il 19/06/2008 e fondato su contratto di mutuo del 12/11/1993 stipulato con la dante causa della pignorante Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania spa: e tanto contestando la persistenza della titolarità del credito, deducendo l'incertezza del titolo azionato (se cioè fosse l'originario mutuo, oltretutto vista l'intervenuta transazione del 27/05/1999, ovvero la risoluzione del mutuo) ed eccependo la prescrizione e, in ogni caso, l'erroneità della quantificazione del dovuto.

2. Integrato - su eccezione dell'opposta, che comunque aveva negato valenza novativa alla transazione ex adverso dedotta ed invocato il credito recato dal contratto originario a causa della risoluzione della transazione in forza di comunicazione del marzo 2003 di avvilimento della clausola risolutiva espressa - il contraddittorio nei confronti di C.J., proprietaria dell'immobile pignorato, l'adito Tribunale di Roma rigettò l'opposizione e condannò l'opponente alle spese con sentenza n. 5851/13.

3. Questa fu gravata di appello da C.A., a mezzo della sua procuratrice generale C.P., con richiesta di declaratoria dell'illegittimità dell'opposto pignoramento: per difetto di legittimazione dell'appellato ad invocare clausole contrattuali dell'accordo transattivo in cui Castello Finance srl non era subentrata, riferendosi i crediti oggetto di cessione alle sole sofferenze e non anche alla transazione che aveva regolato il rapporto; per erroneità dell'esclusione del carattere novativo di quest'ultima; per mancata considerazione del carattere parziale dell'inadempimento del debitore; per erroneità della qualificazione quale clausola risolutiva espressa di quella che, nella detta transazione, aveva previsto la risoluzione per il caso di inadempimento anche di una sola delle obbligazioni ivi contenute; per estraneità dei crediti oggetto di transazione alla cessione dei crediti; per erroneità della sorta capitale residua richiesta - anche in dipendenza del riconosciuto intervenuto pagamento di almeno nove delle rate del piano di ammortamento - e, di conseguenza, degli accessori su di quella calcolati.

4. Anche nel grado di appello Italfondiario, nella detta qualità, contestò partitamente le ragioni dell'originario opponente e la Corte di appello capitolina, con sentenza 06/07/2016, n. 4296, rigettò il gravame, in particolare: qualificando tardiva la questione sulla titolarità del diritto azionato dalla creditrice, che non atteneva alla legitimatio ad causam e che quindi, dedotta analiticamente dalla stessa opposta ogni vicenda a dimostrazione di quella titolarità, male era stata sollevata per la prima volta con la comparsa conclusionale; escludendo il carattere novativo della intervenuta transazione, sulla base della disamina delle pattuizioni ivi contenute, sia pure negando rilevanza al richiamo, operato dal primo giudice, all'art. 1976 c.c.; qualificando come valida clausola risolutiva espressa quella contenuta nella transazione stessa, dovendo riferirsi il tenore letterale della relativa pattuizione soltanto a ben determinate od evincibili obbligazioni a carico del debitore; concludendo per la piena legittimazione ad agire in capo ad Italfondiario spa, quale mandataria di Castello Finance srl, quale conseguenza della qualificazione dell'accordo transattivo del 27/05/1999 e dell'inadempimento a quest'ultimo da parte del debitore, dal che era dipeso l'azionamento del credito originario oggetto della cessione; respingendo anche la doglianza sulla corretta entità del credito per la genericità delle repliche dell'opponente alle analitiche puntualizzazioni della precettante (per la presenza di valide quietanze riferibili a solo sei e non nove rate; per la produzione di un conteggio analitico relativo al mutuo fondiario n. 17296, oggetto di lite; per la negazione del carattere satisfattivo del versamento di Euro 4.251.665,83).

5. Per la cassazione di detta sentenza di appello hanno proposto ricorso, quali eredi accettanti con beneficio di inventario di C.A., M.A.M., C.J., C.P. e C.D., affidandosi a quattro gruppi di motivi; resiste con controricorso l'intimata; e, per la pubblica udienza del 18/04/2018, le parti depositano memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

1. Giova esaminare separatamente le censure mosse dalle ricorrenti in relazione a ciascuno dei quattro gruppi di motivi, ovvero a ciascuno dei motivi come articolati in separate doglianze.

2. Vanno così esaminate le doglianze ricondotte dalle ricorrenti ad un unitario primo motivo (da pag. 4 del ricorso), su cinque distinti profili riassumibili - in estrema sintesi - nella questione relativa alla carenza di titolarità ed esistenza del diritto ad agire in executivis ed alla necessità di una anche ufficiosa verifica di quelle da parte prima del g.e. e poi del giudice dell'opposizione esecutiva, con cui sono dedotte, tutte ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3: "violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 81 c.p.c. in relazione al processo di esecuzione, dove non è compatibile la dissociazione tra titolarità ed interesse ad agire e dove, quindi, il creditore procedente ha l'onere di dimostrare la titolarità del diritto azionato" (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3); "violazione e falsa applicazione dei principi e norme che disciplinano il potere dispositivo e probatorio nel processo di esecuzione, anche in relazione all'art. 2697 c.c. e art. 115 e 116 c.p.c." (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3); "violazione e falsa applicazione dell'art. 24 Cost., art. 81 c.p.c. e art. 2907 c.c. e più in generale dei principi e norme che disciplinano la rR titolarità del diritto sostanziale vantato in giudizio e la rilevabilità d'ufficio del difetto di detto requisito, in ogni stato e grado del giudizio, anche in relazione al processo di esecuzione ed alle caratteristiche e finalità di detto processo" (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3); "violazione e falsa applicazione dell'art. 167 c.p.c. e più in generale dei principi e norme che disciplinano le decadenze ed il potere dispositivo e probatorio della parte in relazione all'eccezione di difetto di titolarità del diritto fatto valere e la sua rilevabilità d'ufficio" (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3); "violazione e falsa applicazione dei principi e norme che disciplinano il processo di esecuzione ed il potere del giudice dell'esecuzione, chiamato a verificare, anche d'ufficio, l'esistenza e l'idoneità del titolo azionato, e ciò anche in relazione all'art. 112 c.p.c." (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3).

3. La corte di appello ha rilevato che la questione della titolarità attiva e passiva del rapporto sostanziale dedotto in giudizio non attiene alla legitimatio ad causam ma al merito della lite, risolvendosi nell'accertamento di una situazione di fatto favorevole all'accoglimento o al rigetto della pretesa azionata, con la conseguenza che essa era ormai preclusa per violazione dei termini previsti per la fissazione del thema decidendum, soprattutto una volta che l'opposta aveva dedotto e provato fin dall'atto di costituzione le ragioni della titolarità del diritto di agire in via esecutiva.

4. L'ampia e complessa argomentazione delle ricorrenti prende le mosse dal richiamo della propria originaria doglianza, in sede di appello, della mancata produzione degli atti di cessione (soprattutto di quello del 21/05/1999 e relativi allegati, essendo la pignorante cessionaria non del contratto di mutuo ma del solo credito che ne derivava), per invocare la permanenza della necessità di una anche ufficiosa verifica, da parte del giudice dell'esecuzione e perfino da parte del giudice della relativa opposizione, della titolarità, come della certezza, liquidità ed esigibilità del credito azionato; neppure mancando di invocare l'autorità di Cass. Sez. U. n. 2951/16, sull'ammissibilità della contestazione della titolarità del diritto anche oltre le decadenze dell'art. 167 c.p.c..

5. Preso atto che la controricorrente ribatte invocando il principio di non contestazione di cui all'art. 115 c.p.c., la sua applicabilità derivando dalla concreta condotta processuale dell'opponente, fatta salva appunto dalla stessa pronunzia delle Sezioni Unite richiamata da controparte, va rilevato che il complesso motivo è infondato, se non quanto alla necessità di ufficiosi rilievi del giudice anche dell'opposizione ad esecuzione, quanto meno e in concreto circa la legittimità della contestazione della titolarità del rapporto dedotto in giudizio, successiva o meno alla maturazione delle preclusioni assertive o di merito.

6. Ora, è certo vero che il giudice dell'opposizione ad esecuzione può sempre rilevare il venir meno del titolo, la sua sussistenza costituendo una condizione dell'azione esecutiva (da ultimo: Cass. ord. 06/09/2017, n. 20868; in precedenza: Cass. 13/03/2012, n. 3977; Cass. ord. 03/02/2015, n. 1925; Cass. 28/07/2011, n. 16610, citata dalle ricorrenti), mentre il giudice dell'esecuzione può sempre compiere anche di ufficio (Cass. 27/01/2017, n. 2043) quegli accertamenti sulla sussistenza delle imprescindibili condizioni dell'azione esecutiva e dei presupposti del processo esecutivo, quelli cioè in mancanza - anche sopravvenuta - dei quali quest'ultimo non può con ogni evidenza proseguire o raggiungere alcuno dei suoi fini istituzionali (e va chiuso anticipatamente, al di là e a prescindere di ogni espressa previsione normativa di estinzione: così definite le ipotesi di chiusura anticipata già da Cass. ord. 10/05/2016, n. 9501).

7. E tuttavia - a prescindere dal rilievo che la giurisprudenza invocata dalle ricorrenti si riferisce ai casi di carenza originaria o di sopravvenuta caducazione del titolo - la questione dell'estensione dei poteri di verifica anche ufficiosa da parte del giudice dell'esecuzione delle condizioni dell'azione esecutiva e relativi presupposti processuali indispensabili al raggiungimento di un utile risultato è irrilevante nella presente fattispecie, cui va applicata, ma in modo corretto, la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte sui tempi e modi di contestazione della titolarità del diritto vantato ex adverso.

8. Infatti: da un lato, la peculiarità del rapporto tra processo esecutivo e relativa opposizione implica che detta contestazione debba avvenire per via di azione ad opera di parte opponente e cioè del debitore, sicchè deve necessariamente essere esplicita; dall'altro lato, anche in forza dei principi affermati da Cass. Sez. U. 16/02/2016, n. 2951, in tema di ufficiosa rilevabilità della carenza di titolarità del rapporto dedotto in giudizio, la relativa verifica può compiersi in base agli elementi a disposizione del giudicante, tra i quali rientra la considerazione delle prove dirette - documentali o meno - e di quelle indirette, desumibili dal contegno delle parti, tra le quali rientra la condotta processuale dello stesso debitore - unico legittimato alle opposizioni ad esecuzione volte a fare valere quelle carenze e quindi onerato di farlo in via di azione - la quale sia incompatibile con la contestazione di quella titolarità.

9. Ora, da un lato tanto è accaduto nella fattispecie, come si evidenzia dallo sviluppo della causa stessa e dalla pacifica circostanza del dispiegamento della questione soltanto dopo il termine di maturazione delle preclusioni istruttorie; dall'altro lato, la stessa corte territoriale è stata in grado di ricostruire minuziosamente i singoli passaggi in base ai quali la titolarità del credito azionato si era trasferita in capo a parte opposta (p. 5 e seguente della gravata sentenza), espressamente qualificandoli come abbisognevoli di analitica, ma in quanto tale evidentemente mancata, contestazione ad opera delle controparti.

10. E neppure rileva la lamentata carenza di produzione di elenchi od altri documenti da cui ricavare con immediatezza la riconduzione del singolo credito azionato al coacervo di quelli oggetto delle cessioni o degli altri trasferimenti cumulativi o in blocco: infatti, tale riconduzione si è operata in base ai criteri descrittivi degli oggetti di quei trasferimenti, esplicitati dalla stessa corte territoriale nella motivazione della sentenza e quindi, evidentemente, ritraibili dai documenti messi a disposizione della controparte e dell'ufficio dall'opposta. In tale contesto, correttamente è stata ritenuta provata la titolarità del credito azionato, contestata oltre il termine di maturazione delle preclusioni assertive o di merito, con esclusione di ulteriori oneri assertivi o probatori in capo al creditore opposto.

11. Se del caso così reputando integrata la relativa motivazione in dipendenza del sopravvenuto arresto di Cass. Sez. U. n. 2951/16, è allora legittima la reiezione della doglianza sulla carenza di titolarità in capo alla procedente, in applicazione del seguente principio di diritto: "in materia di verifica della titolarità del diritto di credito azionato in via esecutiva, la proposizione di un'opposizione ad esecuzione da parte del debitore e la condotta processuale di mancata contestazione di quella titolarità da questi tenuta fino al momento di maturazione delle preclusioni assertive o di merito esclude la necessità per il creditore di provare la relativa circostanza". E ne discende il rigetto della complessiva doglianza.

12. Può ora esaminarsi il gruppo di doglianze ricondotte dalle ricorrenti ad un unitario secondo motivo (da pag. 13 del ricorso), su tre profili separatamente indicati ed in estrema sintesi relativi al carattere novativo del negozio transattivo intercorso tra i rispettivi danti causa, con cui si deducono, in ogni caso ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3: "violazione e falsa applicazione dell'art. 1230 c.c. e dei principi e norme che disciplinano la novazione anche in relazione al negozio transattivo"; "violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. e più in generale dei principi e norme che disciplinano l'interpretazione del contratto anche in relazione al negozio transattivo e agli artt. 1230 e 1232 c.c."; "violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. e più in generale dei principi e norme che disciplinano l'interpretazione del contratto anche in relazione alla clausola che ha previsto che le "condizioni" della transazione non integrassero novazione dei rapporti originari, nonchè in relazione all'art. 1186 c.c. ed in relazione all'art. 116 c.p.c."; ma tali doglianze sono infondate.

13. Al riguardo, giova premettere che (tra le ultime, Cass. 22/02/2018, n. 4314) è possibile distinguere, con riferimento all'efficacia dell'atto sul rapporto preesistente, tra una transazione semplice ed una transazione novativa: con la specificazione che si ha transazione semplice nelle ipotesi in cui le parti si limitano a modificare alcuni aspetti del rapporto preesistente, il quale, per quanto non ha formato oggetto di considerazione, permane immutato (Cass. 13/06/1980, n. 3769); si ha, invece, transazione novativa nell'ipotesi in cui le parti conseguono invece l'estinzione integrale del precedente rapporto, il quale viene sostituito con quanto scaturisce dall'accordo transattivo (Cass. n. 4008 del 2006).

14. Più in particolare (Cass. 11/11/2016, n. 23064), l'efficacia novativa della transazione presuppone una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall'accordo transattivo, in virtù della quale le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti devono ritenersi oggettivamente diverse da quelle preesistenti, con la conseguenza che, al di fuori dell'ipotesi in cui sussista un'espressa manifestazione di volontà delle parti in tal senso, il giudice di merito deve accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni, ovvero (Cass. 14/07/2011, n. 15444) se esse si siano limitate ad apportare modifiche alle obbligazioni preesistenti senza elidere il collegamento con il precedente contratto, il quale si pone come causa dell'accordo transattivo che, di regola, non è volto a trasformare il rapporto controverso.

15. A tale premessa va soggiunta l'altra, sulla consolidata giurisprudenza di legittimità in base alla quale, in materia di ermeneutica contrattuale (tra molte: Cass. ord. 29/03/18, n. 7794):

- l'interpretazione delle clausole contrattuali rientra tra i compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, potendo il sindacato di legittimità avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, bensì solo l'individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (tra le molte, v. Cass. 31/03/2006, n. 7597; Cass. 01/04/2011, n. 7557; Cass. 14/02/2012, n. 2109; Cass. 29/07/2016, n. 15763);

- pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 09/10/2012, n. 17168; Cass. 11/03/2014, n. 5595; Cass. 27/02/2015, n. 3980; Cass. 19/07/2016, n. 14715);

- di conseguenza, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l'interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un'altra (Cass. 22/02/2007, n. 4178; Cass. 03/09/2010, n. 19044).

16. Su queste premesse, l'accertamento relativo alla natura ed alla portata dell'accordo transattivo integra un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se la relativa motivazione sia immune da vizi logici e giuridici (per tutte: Cass. 13/05/2010, n. 11632): e deve qualificarsi come effettivamente incensurabile allora la ricostruzione della corte territoriale di esclusione del carattere novativo della transazione, sulla base di elementi univoci e, francamente, nella presente fattispecie tutt'altro che implausibili, a sostegno della persistenza di una fonte originaria accanto ad altra integrativa, quali appunto la stretta correlazione con le obbligazioni originarie desunta dai quattro elementi riportati dalla gravata sentenza (pag. 7, con richiamo a quelli esaminati dal tribunale), specificamente esaminati e ribaditi anche alla luce delle contestazioni dell'appellante C., ritenuti i primi di gran lunga prevalenti su quelli in contrario addotti da questi.

17. Può ora esaminarsi il gruppo di doglianze ricondotte dalle ricorrenti ad un unitario terzo motivo (da pag. 25 del ricorso), su quattro profili separatamente indicati ed in estrema sintesi vertenti sull'invalidità per genericità della clausola risolutiva espressa e sulla non invocabilità di quella da parte della cessionaria, con cui si deducono, sempre ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3: "violazione e falsa applicazione dell'art. 1456 c.c. e più in generale dei principi secondo cui resta estranea alla citata norma la clausola redatta con generico riferimento a tutte le obbligazioni contenute nel contratto"; "violazione e falsa applicazione dell'art. 1456 c.c. in relazione ai principi e norme che disciplinano l'interpretazione del contratto"; "violazione e falsa applicazione dell'art. 1456 c.c. in relazione al comportamento successivo della parte contraente non inadempiente e, quindi, in relazione ad un comportamento con il quale la parte non inadempiente ha manifestato la sua volontà di rinunciare agli effetti della risoluzione"; "violazione e falsa applicazione dell'art. 1456 c.c., anche in relazione all'art. 2697 c.c. ed agli artt. 115 e 116 c.p.c.".

18. In via preliminare, sono inammissibili le denunzie riferite a tali ultime norme (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598, che riprende Cass. 11892 del 2016): la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull'onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l'onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell'art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell'art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato "valutazione delle prove". Infine, quanto a questa, la prospettazione di una violazione dell'art. 116 c.p.c. non può mai abilitare la parte a dolersi della concreta valutazione degli elementi probatori: ciò che invece è sempre precluso in sede di legittimità, a maggior ragione dopo la novella dell'art. 360 c.p.c., n. 5 che ha ridotto al minimo costituzionale il controllo in sede di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. nn. 8053, 8054 e 19881 del 2014), rimanendo comunque gli apprezzamenti di fatto - se scevri, come lo sono nella specie, da quei soli ed evidenti vizi logici o giuridici ammessi dalle or ora richiamate pronunzie delle Sezioni Unite istituzionalmente riservati al giudice del merito (tanto corrispondendo a consolidato insegnamento, su cui, per tutte, v. Cass. Sez. U., n. 20412 del 2015, ove ulteriori riferimenti).

19. Ciò posto e riscontrata la non corrispondenza del gruppo di motivi al paradigma appena ricostruito, va rilevato come, in linea di principio, la giurisprudenza di questa Corte sia ferma (da ultimo, v. Cass. ord. 11/03/2016, n. 4796) nel ritenere che la clausola risolutiva espressa presuppone che le parti abbiano previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell'inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate, sicchè va qualificata nulla per indeterminatezza dell'oggetto la clausola che attribuisca ad uno dei contraenti la facoltà di dichiarare risolto il contratto per "gravi e reiterate violazioni" dell'altro contraente "a tutti gli obblighi" da esso discendenti, in quanto detta locuzione nulla aggiunge in termini di determinazione delle obbligazioni il cui inadempimento può dar luogo alla risoluzione del contratto e rimette in via esclusiva ad una delle parti la valutazione dell'importanza dell'inadempimento dell'altra.

20. E tuttavia la corte territoriale, anche in questo caso interpretando l'accordo tra le parti, ha concluso nel senso della chiara identificabilità delle obbligazioni oggetto di quella clausola e, a stretto rigore, le ricorrenti non si sono dolute - se non altro in modo inidoneo nel ricorso e non valendo alcuna puntualizzazione successiva dell'erroneità di tale interpretazione secondo i canoni richiamati sopra, al secondo alinea del paragrafo 15, non adducendo quale specifica violazione delle regole in tema di ermeneutica contrattuale sia stata violata, mentre comunque la conclusione della corte non può - con ogni evidenza - considerarsi implausibile: di conseguenza, la sua interpretazione della clausola qualificata come idoneamente risolutiva espressa, risulta incensurabile in questa sede.

21. Quanto invece alla carenza di utile invocabilità della clausola risolutiva da parte della cessionaria, va osservato che l'eccezione si basa esclusivamente sulla nota del 9/10/00 di tale "Intesa" (non meglio specificata negli atti utilmente esaminabili delle ricorrenti), addotta come succeditrice della cedente Cassa di Risparmio Salernitana, ove si darebbe conto di eventi idonei a dar conto della volontà di quella di non avvalersi della clausola risolutiva in esame: ma al riguardo si rileva che non è indicato in ricorso quando e con quali espressioni tale tesi sarebbe stata - evidentemente invano sottoposta ai giudici del merito.

22. Eppure, il ricorrente che proponga in sede di legittimità una determinata questione giuridica, la quale implichi accertamenti di fatto, ha l'onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (per l'ipotesi di questione non esaminata dal giudice del merito: Cass. 02/04/2004, n. 6542; Cass. 10/05/2005, n. 9765; Cass. 12/07/2005, n. 14599; Cass. 11/01/2006, n. 230; Cass. 20/10/2006, n. 22540; Cass. 27/05/2010, n. 12992; Cass. 25/05/2011, n. 11471; Cass. 11/05/2012, n. 7295; Cass. 05/06/2012, n. 8992; Cass. 22/01/2013, n. 1435; Cass. Sez. U. 06/05/2016, n. 9138). Poichè tali indicazioni difettano in ricorso e la lacuna è inemendabile con atti successivi - la relativa doglianza è anch'essa inammissibile e, con essa, l'intero terzo gruppo di censure.

23. Può infine esaminarsi il gruppo di doglianze ricondotte dalle ricorrenti ad un unitario quarto motivo (da pag. 36 del ricorso), su quattro profili separatamente indicati ed in estrema sintesi riguardanti la prova della corretta ed effettiva imputazione dei pagamenti comunque intervenuti, con cui si deducono, per ognuno ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3: "violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. e più in generale dei principi e norme che disciplinano l'onere della prova e la valutazione delle prove acquisite"; "violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e più in generale dei principi e norme che disciplinano l'onere della prova in relazione agli artt. 342, 345 e 346 c.p.c."; "violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e più in generale dei principi e norme che disciplinano l'onere della prova in relazione al giudizio di esecuzione e, quindi, in relazione ai presupposti per l'attuazione coattiva della pretesa creditoria in sede esecutiva"; "violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e più in generale dei principi e norme che disciplinano l'onere della prova in relazione all'imputazione del pagamento di cui all'art. 1193 c.c.".

24. Ribadita ed applicata per analoghe ragioni la conclusione di inammissibilità delle censure formulate ai sensi dell'art. 2697 c.c. e 115 e artt. 116 c.p.c., secondo quanto indicato sopra al punto 18, le censure sono inammissibili, perchè non colgono la ratio decidendi della gravata sentenza, che definisce privi di specificità i motivi di appello in relazione al tema effettivamente controverso quale risultante dai conteggi e dal rilievo di insussistenza di prova di tutte le rate dedotte dall'opponente, tanto da rivelarsi inidoneo a censurare la pronuncia di rigetto del tribunale.

25. Al fine dell'utile contrasto di tale ratio decidendi della corte territoriale sarebbe stato onere delle ricorrenti dimostrare, con la trascrizione delle parti salienti dell'atto di appello e dei passaggi della sentenza di primo grado che si intendevano impugnare con quello, che tale contestazione fosse invece specifica e ben riferita alla ratio decidendi del primo giudice (sommariamente ricordata dalla corte territoriale come incentrata sulla valutazione di esaustività dei conteggi prodotti dall'opposta e di correttezza della somma precettata alla luce di quanto risultante effettivamente pagato dal debitore); cosa che invece non è, con ogni evidenza, accaduta nel ricorso in esame, inemendabile - come è noto, per giurisprudenza consolidata con alcun atto successivo.

26. Pertanto, inammissibili gli ultimi due gruppi di motivi ed infondati i primi due, il ricorso va rigettato, con condanna delle soccombenti ricorrenti - tra loro in solido, per l'evidente identità di posizione processuale e sulla quale non può riverberare effetti la circostanza della loro qualità di eredi e per di più accettanti con beneficio di inventario, avendo esse congiuntamente dato corso al giudizio di legittimità in cui sono rimaste soccombenti - al pagamento delle spese di legittimità in favore della controparte.

27. Va infine dato atto - mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra moltissime altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) - della sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 13, co. 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti, tra loro in solido, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso da loro proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2018.