Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6924 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 08 Novembre 2005, n. 21641. Est. Rordorf.


Società - Di capitali - Società per azioni - Costituzione - Modi di formazione del capitale - Conferimenti - In genere - Capitale sociale e altre poste del patrimonio netto - Natura di debiti - Esclusione - Iscrizione al passivo del bilancio - Finalità - Eventi incidenti negativamente sul capitale o sulle riserve - Danno per la società - Sussistenza - Corrispondente venir meno dell'obbligo di restituire i conferimenti ai soci in sede di liquidazione - Irrilevanza.



Il fatto che il capitale sociale, non diversamente dalle riserve e da tutte le altre poste che concorrono a formare il patrimonio netto della società, debba essere iscritto al passivo del bilancio (art. 2424 cod. civ.) non vale a farlo considerare alla stregua di una posta debitoria, il cui annullamento o la cui riduzione comporti un vantaggio patrimoniale della società, giacché quelle poste non costituiscono passività, ma identificano l'eccedenza delle attività rispetto alle vere e proprie passività - rappresentando, quindi, il "valore netto" del patrimonio di cui la società può disporre - e la loro iscrizione nella colonna del passivo risponde unicamente alla finalità contabile di far coincidere il totale del passivo con quello dell'attivo. Ne consegue che gli eventi destinati ad incidere negativamente sul capitale o sulle riserve (quale, nella specie, il rimborso delle azioni a favore di soci che abbiano esercitato il diritto di recesso in difetto dei relativi presupposti) per ciò stesso implicano un decremento di valore della società e, quindi, costituiscono per essa un danno, senza che possa assumere rilievo, in senso contrario, il venir meno dell'obbligo di restituzione dei conferimenti ai soci in sede di futura liquidazione della società, giacché il rapporto che intercorre tra la società ed i propri soci non può essere assimilato ad un rapporto di credito e debito, anche solo potenziale, né il socio, in quanto tale, è qualificabile come creditore della società, non avendo alcuna pretesa che possa far valere direttamente sul patrimonio sociale e divenendo titolare di un diritto alla quota di liquidazione soltanto allorché si verifica una causa di scioglimento del rapporto di società. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 23125/2002
Dott. OLLA Giovanni - Presidente - 4840/2004
Dott. PLENTEDA Donato - Consigliere - 8541/2004
Dott. CELENTANO Walter - Consigliere - 10955/2004
Dott. RORDORF Renato - Consigliere -
Dott. CECCHERINI Aldo rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GEREMIA Orio, FRANCESCO ORIO, ELENA ORIO, GIOVANNA SEVAROLI ORIO, elettivamente domiciliati in ROMA, lungotevere Michelangelo 9, presso l'avv. BIAMONTI Luigi che li rappresenta e difende, unitamente agli avv. Adriano VANZETTI e Cesare GALLI, giuste procure speciali allegate al ricorso;
- ricorrenti -
nonché
CREDITO VALTELLINESE SOC. COOP. A.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, via Gavinana 1, presso l'avv. PECORA Francesco che lo rappresenta e difende unitamente all'avv. Giovanni COLOMBO, giusta procura speciale in margine al ricorso,
- controricorrente e ricorrente incidentale -
e
BANCA POPOLARE DI SONDRIO S.C.A.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, via Ennio Quirino Visconti 20, presso l'avv. Antonio PACIFICO, che la rappresenta e difende unitamente agli avv. Piero SCHLESINGER e Marco BONOMO, giusta procura speciale allegata al controricorso, e dall'avv.to Anelli Franco Proc. Notaio Surace F. del 29/6/05 rep. 175333 e 175334;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
SMI - SOCIETÀ METTALLURGICA ITALIANA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, via Condotti 91, presso l'avv. Berardino LIBONATI, che la rappresenta e difende unitamente agli avv. Giuseppe GUIZZI e Carlo D'URSO, giusta procura speciale in margine al controricorso;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
avverso le sentenze della Corte d'appello di Milano, rispettivamente depositate in data 12 marzo 2002 e 19 dicembre 2003;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza dal Consigliere Dott. Renato RORDORF;
uditi gli avv. VANZETTI e BIAMONTI, PECORA, nonché l'avv. Anelli, per delega dell'avv. PACIFICO, che hanno chiesto l'accoglimento dei ricorsi proposti per conto dei rispettivi assistiti;
uditi gli avv. LIBONATI e GUIZZI, che hanno chiesto il rigetto degli avversi ricorsi;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. UCCELLA Fulvio che ha concluso per il rigetto di tutti i ricorsi, salvo quello incidentale della SMI - Società Metallurgica Italiana s.p.a., da ritenersi assorbito.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 4 dicembre 1997 la SMI - Società Metallurgica Italiana s.p.a. (in prosieguo indicata col solo nome SMI) citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Lecco i sigg. Francesca, Elena e Geremia Orio e la sig.ra Giovanna Sevaroli Orio (ai quali in prosieguo ci si riferirà cumulativamente come ai sigg. Orio), nonché il Credito Valtellinese soc. coop. a r. l. (in prosieguo Credito Valtellinese) e la Banca Popolare di Sondrio soc. coop. a r.l. (in proseguo Popolare di Sondrio).
L'attrice riferì che il 16 giugno 1995 le assemblee della Europa Metalli s.p.a. e della SMI - entrambe società quotate in borsa - avevano deliberato la fusione per incorporazione della prima società nella seconda e che, stante la parziale diversità degli oggetti sociali di dette società, ne era derivato il diritto di recesso in favore dei soci assenti o dissenzienti della Europa Metalli. La deliberazione assembleare di quest'ultima società era stata iscritta nel registro delle imprese il 1 settembre 1995 ed, il successivo 5 settembre, i sigg. Orio avevano comunicato l'intenzione di esercitare il diritto di recesso ed avevano quindi fatto pervenire, tramite il Credito Valtellinese (depositario in quel momento delle azioni di loro proprietà), una certificazione rilasciata dalla Popolare di Sondrio (depositario precedente) da cui risultava che essi avevano acquistato azioni della Europa Metalli entro la data del 16 giugno 1995. Le azioni erano state in effetti rimborsate, con il versamento in favore dei sigg. Orio della complessiva somma di L. 4.808.342.400, ma successivi controlli, effettuati dai funzionali della SMI dopo il perfezionamento della fusione, avevano evidenziato l'ambiguità della documentazione bancaria sopra menzionata ed avevano condotto alla conclusione che i medesimi sigg. Orio erano divenuti titolari delle azioni anzidette in epoca successiva a quella nella quale era stata deliberata la fusione societaria.
Ciò premesso, la SMI chiese che fosse accertata l'inesistenza del diritto di recesso esercitato dai sigg. Orio e l'illiceità del rimborso delle azioni da essi ottenuto, con conseguente condanna al risarcimento dei danni in misura pari all'importo delle azioni rimborsate; condanna da estendersi in via solidale anche al Credito Valtellinese ed alla Popolare di Sondrio, il cui scorretto comportamento aveva contribuito a determinare l'equivoco in base al quale il rimborso delle azioni era potuto avvenire.
Tutti i convenuti si costituirono sostenendo l'infondatezza della pretesa avanzata dall'attrice, ed il tribunale, con sentenza emessa il 1 dicembre 2000, rigettò la domanda della SMI.
Tale decisione tu però impugnata e la Corte d'appello di Milano, con sentenza non definitiva depositata il 12 marzo 2002, dichiarò l'illiceità del rimborso delle azioni ottenuto dai sigg. Orio. Con contemporanea ordinanza dispose poi farsi luogo ad ulteriore attività istruttoria per decidere sulla domanda di risarcimento dei danni ed, in particolare, per la determinazione dell'entità del pregiudizio lamentato dalla SMI in conseguenza dell'illecito rimborso azionario.
Con successiva sentenza definitiva, emessa il 19 dicembre 2003, la medesima corte d'appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, condannò quindi i sigg. Orio al risarcimento dei danni in favore della società attrice, specificamente determinando in euro 439.007, 21 per ciascuno gli importi dovuti a questo titolo alla SMI dai sigg. Geremia Orio e Giovanna Sevaroli Orio, in euro 436.040, 95 l'importo dovuto dal sig. Francesco Orio ed in euro 441.973, 48 quello dovuto dalla sig.ra Elena Orio (oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi). Estese tali condanne in solido alla Popolare di Sondrio, ma confermò invece - sia pure con diversa motivazione - il rigetto della domanda proposta nei riguardi del Credito Valtellinese.
Avverso la sentenza non definitiva hanno proposto ricorso per Cassazione sia i sigg. Orio, prospettando cinque motivi di censura (R.G. n 17873/02), sia il Credito Valtellinese, deducendo sei motivi di doglianza (R.G. n 21005/02). Ha resistito con controricorso la SMI, a propria volta proponendo ricorso incidentale condizionato (R.G. n 22686/02). Un altro controricorso, contenente anche sette motivi di ricorso incidentale, è stato depositato dalla Popolare di Sondrio (R.G. n 23125/02), e la SMI vi ha replicato con un ulteriore controricorso.
Contro la sentenza definitiva hanno in seguito proposto un altro ricorso i medesimi sigg. Orio, deducendo quattro motivi di doglianza (R.G. n. 4840/04), al cui accoglimento si sono opposti con distinti controricorsi la SMI e la Popolare di Sondrio. Quest'ultima ha anche prospettato un ricorso incidentale, articolato in cinque motivi (R.G. n. 8541/04), al quale hanno replicato con altri controricorsi sia il Credito Valtellinese sia la SMI (al cui controricorso è stato peraltro erroneamente assegnato un autonomo numero di ruolo: R.G. n. 10955/04).
Tutte le parti hanno depositato memorie, ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Con ordinanza pronunciata in udienza i ricorsi sopra menzionati sono stati riuniti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Si è provveduto in udienza, come già detto, alla riunione di tutti i ricorsi per Cassazione proposti sia contro la sentenza non definitiva sia contro quella definitiva, trattandosi di un caso assimilabile a quello - previsto dall'art. 335 c.p.c. - della proposizione di più impugnazioni contro una medesima sentenza (si veda, in tal senso, Cass. 10 luglio 2001, n. 9377).
Per evidenti ragioni di ordine logico e per maggior chiarezza espositiva converrà peraltro esaminare separatamente prima le diverse censure che sono state indirizzate nei riguardi della sentenza non definitiva pronunciata dalla corte d'appello (infra, punto 2) e poi quelle concernenti la successiva sentenza definitiva (infra, punto 3).
Può anche subito anticiparsi che molti dei motivi di doglianza contenuti nei diversi ricorsi di cui s'è detto sono sostanzialmente coincidenti, onde, di volta in volta, li si prenderà in considerazione congiuntamente.
2. La sentenza non definitiva della corte d'appello, come già segnalato in narrativa, ha operato un ribaltamento della decisione con la quale il tribunale aveva rigettato la domanda proposta della SMI nei confronti dei sigg. Orio e delle due banche convenute. Infatti la corte d'appello, contrariamente al tribunale, ha ritenuto che non sussistessero nella specie le condizioni per l'esercizio del recesso dei sigg. Orio dalla società Europa Metalli, poi incorporata nella SMI, e che, pertanto, detti sigg. Orio avessero ottenuto il rimborso delle loro azioni senza averne il diritto.
2.1. Prima di esaminare le doglianze concernenti il fondamento giuridico di tale decisione, giova sgombrare il campo da una questione processuale sollevata dal Credito Valtellinese e dalla Popolare di Sondrio, le quali già dinanzi alla corte territoriale avevano sostenuto l'inammissibilità, nei loro confronti, del gravame proposto dalla SMI, siccome non sorretto da motivi specificamente riferiti alla posizione di dette banche.
L'eccezione è stata ritenuta priva di fondamento dalla corte d'appello, la quale ha osservato che il giudice di primo grado non aveva in realtà affatto proceduto ad esaminare la pretesa responsabilità in cui le banche
sarebbero incorse per aver favorito l'indebito recesso dei sigg. Uno, giacche aveva preliminarmente escluso che quel recesso fosse indebito. Correttamente, perciò, l'appellante si era limitato a riproporre nell'atto di gravame gli elementi fattuali dedotti a fondamento dell'originaria domanda.
Le due banche ricorrenti, lamentando la violazione art. 342, comma 1, c.p.c., insistono ora nel sostenere che l'appello proposto contro la sentenza di primo grado non conteneva alcun motivo specificamente riferibile alla loro posizione ed avrebbe perciò dovuto esser dichiarato inammissibile per difetto di specificità. Aggiungono che sarebbe insufficiente la motivazione della sentenza di secondo grado nella parte in cui afferma, senza ulteriori precisazioni, che l'atto d'appello reiterava comunque anche le argomentazioni sulle quali era basata la domanda proposta in citazione contro dette banche. 2.1.1. Si tratta di doglianze manifestamente infondate. A fronte di questioni sulle quali il giudice di primo grado non si sia espressamente pronunciato, avendole ritenute assorbite da un'altra decisione di carattere logicamente preliminare, l'appellante che questa preliminare decisione impugni non ha l'onere di proporre anche uno specifico motivo di gravame concernente le questioni assorbite. Un siffatto motivo di gravame risulterebbe in realtà privo d'oggetto, proprio perché fa difetto una statuizione contro cui appuntare specifiche doglianze; sicché, in simili casi, l'appellante che intenda tener ferme anche le domande in ordine alle quali non v'è stata pronuncia non ha altro onere che quello di riproporre dette domande all'attenzione del giudice di secondo grado, nel rispetto dell'art. 346 c.p.c.: ciò che la corte milanese attesta esser stato fatto.
Nè si comprende sotto qual profilo la motivazione dell'impugnata sentenza sarebbe a tal riguardo carente. Una siffatta doglianza è invero di dubbia ammissibilità, essendo il vizio denunciato di carattere processuale, ma appare comunque priva di ogni reale consistenza, null'altro potendosi richiedere al giudice di secondo grado se non, appunto, l'accertamento dell'avvenuta riproposizione nell'atto d'appello delle domande non esaminate nel grado precedente;
e tale accertamento la corte milanese ha compiuto, corredandolo con la specifica indicazione delle pagine dell'atto d'appello in cui dette domande erano contenute.
Il primo motivo del ricorso proposto dal Credito Valtellinese avverso la sentenza non definitiva ed il primo motivo del ricorso della Popolare di Sondrio contro la medesima sentenza sono, dunque, da rigettare.
2.2. Si può ora passare all'esame delle questioni attinenti al merito dell'impugnata sentenza non definitiva, che è pervenuta a negare legittimità al recesso esercitato dai sigg. Orio con una decisione essenzialmente fondata su tre argomenti. Prima di tutto, la corte milanese ha osservato che, alla stregua di quanto dispone l'art. 2437 c.c., il diritto di recesso spetta unicamente a coloro che rivestono la qualità di socio nel momento in cui è adottata una delle deliberazioni assembleari da cui detto articolo fa scaturire quel diritto; non spetta invece a chi sia divenuto socio in un momento successivo, non importa se precedente a quello dell'iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese. Ha considerato, poi, che gli acquisti azionali dei sigg. Orio erano tutti intervenuti tra il 26 maggio ed il 15 giugno 1995, ma che si era trattato di acquisti a termine, sicché la proprietà dei titoli azionali era passata in capo agli acquirenti solo alla fine del giugno 1995, ossia dopo l'intervenuta deliberazione di fusione. Infine, ha ritenuto che, a differenza del diritto di opzione e di altri diritti di natura essenzialmente patrimoniale presi in considerazione dagli artt. 1531 e segg. c.c., il diritto di recesso - che ha carattere potestativo ed appartiene alla categoria dei diritti di natura amministrativa - in caso di vendita a termine non passa immediatamente in capo al compratore, ma resta viceversa di spettanza del venditore fino al momento in cui, col maturare del termine, questi non abbia perso la titolarità delle azioni.
Da ciò la conclusione che quel diritto in realtà non spettava ai sigg. Orio e che, di conseguenza, il rimborso da essi conseguito era da considerare "illecito".
Sulla definizione d'illiceità da ultimo riportata si dovrà tornare in seguito. Ora occorre invece soffermarsi sui rilievi critici con cui i ricorrenti intendono scalfire il punto centrale dell'impugnata sentenza, ossia l'accertamento della non spettanza ai sigg. Orio del diritto di recesso da loro invece esercitato.
2.3. La prima questione a tal proposito sollevata concerne l'affermazione dell'impugnata sentenza secondo cui i medesimi sigg. Orio, non avendo acquistato a termine le azioni della società da cui hanno poi inteso recedere, sarebbero divenuti soci di detta società solo alla scadenza del previsto termine: quindi in data successiva a quella (15 giugno 1995) nella quale era stata assunta la deliberazione assembleare giustificativa del recesso. A parere dei ricorrenti, che denunciano violazione di legge (artt. 3, comma 1, della legge n. 289 del 1986 e 1184 c.c.) e difetti di motivazione, siffatta affermazione non sarebbe condivisibile. Premesso che, per i titoli in gestione accentrata, il trasferimento della proprietà si realizza al momento dell'esecuzione dell'acquisto da parte dell'intermediario cui il cliente abbia dato il relativo ordine, i ricorrenti ricordano che, ai sensi del citato art. 1184, il termine fissato per l'adempimento si presume pattuito nell'intesse del debitore, il quale può perciò rinunciarvi adempiendo in anticipo la propria prestazione. Nel caso di vendita a termine di titoli di credito, quindi, l'esecuzione del trasferimento della proprietà ben può avvenire prima della scadenza del termine se il venditore, che è il debitore della prestazione pattuita, dia esecuzione anticipata al contratto. E questo si sarebbe appunto verificato nel caso in esame, giacché i fissati bollati in atti recano, sotto la dicitura "data eseguito", date sempre anteriori al 16 giugno 1995, significando perciò che l'ordine d'acquisto ha avuto esecuzione antecedentemente alla scadenza del termine di fine giugno. L'impugnata sentenza, nel negare rilievo a tale circostanza e nell'affermare apoditticamente che si trattava di un postulato della difesa dei sigg. Orio senza riscontro probatorio negli atti di causa, sarebbe perciò incorsa nei vizi sopra denunciati.
2.3.1. Le surriferite censure per alcuni aspetti non sono fondate e, per altri, non appaiono ammissibili.
Nessuna violazione nell'interpretazione e nell'applicazione delle richiamate norme di legge è dato invero ravvisare nell'impugnata sentenza, che non ha affatto escluso, in diritto, la possibilità di rinuncia del debitore al benefizio del termine, ma si è limitata ad osservare che l'esecuzione dell'acquisto azionario in data anteriore a quella inizialmente prevista non risultava, nella specie, adeguatamente provata.
Il contrario assunto dei ricorrenti, i quali sostengono invece che le diciture apposte sui fissati bollati cui dianzi s'è fatto cenno fornirebbero la dimostrazione dell'acquisto anticipato, non può essere apprezzato se non previo un esame dei documenti che, in sede di legittimità, non è però consentito, tanto più che gli stessi ricorrenti neppure precisano se, ed in quale loro difesa, le indicazioni contenute in detti documenti fossero state poste a fondamento di una qualche argomentazione logica trascurata dal giudice di merito. Il quale, per parte sua, ha puntualmente dato conto dell'esistenza dei documenti prodotti in causa ed ha correttamente specificato quali delle indicazioni ivi figuranti fossero da considerare decisive ai fini del proprio convincimento. È bensì vero che detto giudice di merito non si è in particolare soffermato sulle diciture "data eseguito", richiamate dai ricorrenti, ma queste non appaiono affatto, di per sè sole, decisive per sorreggere la tesi propugnata dai ricorrenti medesimi, giacché nulla consente di affermare che quelle indicazioni implichino un'anticipazione dei termini di acquisto pattuiti, e non invece la mera enunciazione della data in cui gli ordini di acquisto - ma pur sempre di acquisto a termine, con scadenza prevista per fine giugno 1995 - sono stati eseguiti.
Il primo motivo del ricorso dei sigg. Orio va perciò disatteso, e lo stesso è a dirsi per il secondo motivo del ricorso del credito Valtellinese ed il terzo motivo del ricorso della Popolare di Sondrio, di contenuto sostanzialmente analogo.
2.4. Fermo dunque l'accertamento compiuto in punto di fatto dalla corte di merito, e cioè che i sigg. Orio ebbero ad acquistare a termine le azioni della Europa Metalli e divennero soci di detta società solo alla scadenza del termine, ossia dopo la data in cui era stata assunta la deliberazione assembleare da cui scaturì il diritto di recesso, si tratta di stabilire se ciò escluda che tale diritto potesse loro spettare.
La corte milanese, come s'è detto, ha dato a tale quesito una risposta positiva, facendo soprattutto leva sulla connessione logica esistente tra diritto di voto in assemblea e diritto di recesso del socio assente o dissenziente: tale per cui il compratore a termine delle azioni, non essendo ancora titolare del diritto di voto nell'assemblea tenuta in pendenza del termine, non potrebbe neppure considerarsi titolare del diritto di recesso scaturente dai deliberati di quella medesima assemblea.
La conclusione cui la corte d'appello è pervenuta è oggetto di censure diverse.
2.5. I ricorrenti, anzitutto, sostengono che dall'insieme delle disposizioni dettate dagli artt. 1185, 1531, 1532, e 1533 c.c. si ricaverebbe come, in caso di vendita a termine di titoli azionari, tutti i diritti sociali si trasmettono immediatamente al compratore, con la sola eccezione del diritto di voto menzionato dal secondo comma del citato art. 1531. Se ne dovrebbe dedurre che anche il diritto di recesso, in quanto inerente all'azione, deve seguire siffatta regola generale, in difetto di qualsiasi norma speciale di segno contrario.
Anche poi se si volesse dubitare dell'esistenza della regola generale sopra ipotizzata, si dovrebbe almeno convenire - secondo i ricorrenti - sulla necessità di un'applicazione analogica al diritto di recesso di quel che dispongono, con riguardo ad altri diritti patrimoniali inerenti ai titoli venduti a termine, le restanti disposizioni dianzi menzionate, non essendo esatto -contrariamente a quel che si afferma nell'impugnata sentenza - che il diritto di recesso abbia natura amministrativa e non patrimoniale. Tutt'al più gli si potrebbe riconoscere contenuto complesso, di tipo amministrativo e patrimoniale, ma ciò varrebbe solo ad accostarlo al diritto di opzione, che parimenti, in pendenza del termine, compete al compratore, secondo quel che prevede l'art. 1532 c.c., in conformità di un principio generale che individua appunto nel compratore il soggetto interessato ad assumere le decisioni inerenti alla partecipazione nella società. Ne risulterebbe perciò smentito l'assunto della corte d'appello, basato sulla pretesa connessione tra diritto di voto e diritto di recesso e sul carattere meramente obbligatorio degli effetti prodotti nell'immediato dalla vendita a termine; assunto che sarebbe incapace di spiegare la ragione per la quale il legislatore ha espressamente escluso l'immediata attribuzione al compratore del solo diritto di voto, e che si rivelerebbe comunque incompatibile con le citate disposizioni degli artt. 1531 e segg..
2.5.1. Siffatti rilievi non persuadono.
Non è dall'astratta definizione della natura - patrimoniale, amministrativa o complessa - del diritto di recesso che può dedursi la regola giuridica da applicare al caso in esame. Una tal regola i citati artt. 1531 e segg. non la contemplano, essendo destinati a risolvere altre specifiche e determinate situazioni di contrapposizione d'interessi tra compratore e venditore in ipotesi di vendita a termine di titoli di credito. E sono, quelle contemplate in detti articoli del codice, situazioni troppo specifiche e particolari per potersene dedurre il principio generale che i ricorrenti invocano. Anche il ricorso all'analogia, al fine di disciplinare la non prevista fattispecie del recesso, appare francamente arduo. Assumere infatti che il diritto di recesso presenterebbe elementi di contatto così stretti con il diritto di opzione (attribuito al compratore, in caso di vendita a termine, dal citato art. 1532) significa trascurare il ben diverso fondamento logico sul quale i due menzionati istituti si fondano: l'uno - il diritto di opzione - destinato ad assicurare a ciascun socio la possibilità di mantenere la preesistente percentuale di partecipazione in caso di aumento del capitale sociale; l'altro - il diritto di recesso - finalizzato a consentire al socio, che dissenta da determinate decisioni della maggioranza modificative dell'assetto della società, la possibilità di fuoriuscita dalla compagine sociale ed il conseguente disinvestimento del capitale precedentemente investito. Il primo esprime un'esigenza di stabilità nel rapporto reciproco tra i soci ed attualizza una potenzialità di accrescimento insita nella partecipazione sociale; il secondo, viceversa, consente di porre termine a tale partecipazione e realizza una forma (in certo senso estrema) di tutela del singolo socio, altrimenti tenuto a subire il potere soverchiante della maggioranza. Se dunque è agevole comprendere la ragione per la quale, in ipotesi di vendita a termine delle azioni, il legislatore riconosce il diritto di opzione in capo al compratore, cioè a colui il quale è destinato a partecipare in futuro alla società, non si vede come analoga ragione possa applicarsi al diritto di recesso, che quel futuro di partecipazione invece radicalmente esclude.
2.5.2. Nè appare paradossale - come sostengono i ricorrenti - la circostanza che, in simili casi, potrebbe il recesso non essere in concreto esercitabile ne' dal venditore ne' dal compratore a termine delle azioni.
Innanzitutto, non è esatto affermare, dal punto di vista giuridico, che la vendita a termine delle azioni privi il socio venditore del diritto di recesso eventualmente spettategli a seguito del verificarsi di una delle situazioni contemplate dall'art. 2437 c.c. Quel diritto compete al socio finché è tale, e la circostanza che egli abbia eventualmente intrecciato vincoli contrattuali con terzi si pone su di un piano diverso, che potrà anche condizionare di fatto l'esercizio di quel diritto sociale, ma non ne determina il venir meno (non diversamente da quel che accade, ad esempio, in presenza di patti parasociali, che nei confronti degli altri aderenti al patto possono vincolare il socio ad esercitare in un determinato modo i suoi diritti sociali, ma non lo privano di tali diritti e del loro libero esercizio nei confronti della società). A parte ciò, occorre poi ancora ribadire come il recesso non costituisca la naturale esplicazione di un diritto partecipativo del socio, bensì un estremo rimedio di tutela che la legge, in certi casi, gli riconosce come contrappeso del principio maggioritario da cui è retto il funzionamento della società. Quel rimedio consiste nella possibilità di uscire dalla società recuperando (in tutto o in parte) il capitale investito. Ma al socio il quale abbia venduto a termine le proprie azioni questo non serve, perché egli ha già posto le premesse per realizzare il medesimo risultato per altra via;
mentre per l'acquirente, che socio non era quando la maggioranza ha assunto la decisione modificativa dell'assetto sociale, non si pongono - come si avrà ulteriormente agio di chiarire in seguito - le medesime esigenze di tutela dalle quali il diritto di recesso scaturisce.
Corretto appare pertanto il rilievo della corte territoriale, che dai principi generali della materia contrattuale ha desunto l'impossibilità di riconoscere in capo all'acquirente la titolarità di un diritto acquistato a termine prima del momento in cui detto termine sia scaduto. E, poiché non v'è dubbio che il diritto di recesso da un qualsivoglia rapporto giuridico presuppone che colui il quale pretende di esercitarlo sia già parte di quel rapporto, appare logica la conseguenza che la medesima corte ne ha tratto: che il diritto di recesso da una società non può sorgere in capo a chi non sia ancora divenuto socio.
2.6. I ricorrenti sollevano però anche un'ulteriore questione. Essi sostengono che, ai fini dell'esercizio del diritto di recesso contemplato dall'art. 2437 c.c. la necessità di rivestire la qualità di socio, per chi non abbia partecipato all'assemblea nella quale sia stata assunta una delle deliberazioni in detta norma contemplate, dev'essere verificata non già avendo riguardo alla data di adozione della deliberazione, bensì a quella della successiva iscrizione nel registro delle imprese.
Nè la lettera ne' la ratto del citato art. 2437 giustificherebbero, infatti, l'assunto secondo cui il diritto di recesso spetta solo a chi sia socio già al tempo della deliberazione modificativa dell'assetto sociale. Non vi sarebbero ragioni per applicare un trattamento deteriore a colui il quale abbia acquistato la partecipazione in società facendo legittimo affidamento sull'esistenza di un certo assetto organizzativo dell'ente e poi, solo in un momento successivo, per effetto dell'iscrizione nel registro delle imprese di una deliberazione cui non ha partecipato perché non era ancora socio, venga ad apprendere che quell'assetto è mutato. Sarebbe perciò fuorviante la già ricordata connessione che la corte d'appello ha ravvisato tra diritto di voto in assemblea (spettante solo a chi sia socio al tempo della deliberazione modificativa) e diritto di recesso; connessione del resto smentita dalla pacifica attribuzione del diritto di recesso anche agli azionisti di risparmio, privi del diritto di voto, ai titolari di azioni al portatore emesse dalle Sicav, per i quali non è possibile accertare se fossero o meno già soci al tempo della deliberazione, ed ai soci di società il cui atto costitutivo abbia subito modifiche ex lege, a prescindere da qualsiasi deliberazione assembleare. 2.6.1. Neppure tali argomentazioni appaiono convincenti. Il primo comma dell'art. 2437 c.c. (cui ovviamente qui si fa riferimento nella versione anteriore all'entrata in vigore del d. lgs. n. 6 del 2003) attribuisce il diritto di recesso al socio dissenziente da deliberazioni assembleali riguardanti il mutamento dell'oggetto sociale, il cambiamento del tipo di società o il trasferimento della sede all'estero. Il presupposto perché il diritto sorga è, dunque, un dissenso che necessariamente postula la qualità di socio al momento in cui sia assunta la deliberazione dalla quale si dissente. È vero che il successivo secondo comma, nel disciplinare il termine di decadenza entro cui la dichiarazione di recesso dev'essere resa, non si limita più a menzionare i soci dissenzienti da una di dette deliberazioni, per i quali il temine decorre dalla data della deliberazione medesima, ma fa riferimento anche ai soci assenti, per i quali invece detto termine (oltre ad essere più lungo) decorre della data d'iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese. Ma da tale regola, dettata non per introdurre nuovi e diversi presupposti del diritto di recesso, bensì solo per disciplinarne le modalità di esercizio, può unicamente dedursi che con l'espressione "soci dissenzienti", adoperata nel primo comma, il legislatore si è riferito non solo ai soci presenti in assemblea ed il cui voto sia stato esplicitamente contrario alla proposta approvata dalla maggioranza, ma anche ai soci non presenti, per ciò stesso equiparati ai contrari. Difficile è però negare il comune presupposto della qualità di socio al momento in cui è stata assunta la deliberazione dalla quale si sia esplicitamente dissentito, o rispetto alla quale si sia rimasti assenti.
Si può anche allora discutere se, o fino a qual punto, ne risulti confermata l'asserita connessione tra diritto di voto e diritto di recesso spettante al socio (connessione che, in alcune delle peculiari situazioni segnalate dai ricorrenti, potrebbe in effetti mancare); ma non può mettersi in dubbio che il recesso sia un diritto sociale, e perciò presupponga la qualità di socio già al momento in cui si realizza quel mutamento del contratto sociale, ad opera della maggioranza, da cui il sorgere stesso del diritto di recesso dipende.
L'esigenza di tutela del socio dissenziente (non importa se da ritener tale per avere espresso voto contrario o solo perché assente), che a quel diritto è sottesa, non si pone invece, o almeno non si pone nei medesimi modi e con i medesimi effetti giuridici, per chi non sia già parte del contratto sociale al momento della modifica deliberata dalla maggioranza degli altri soci ma lo sia divenuto solo in un tempo successivo, sia pure anteriormente all'iscrizione nel registro delle imprese della deliberazione modificativa. Siffatta iscrizione rileva certo ai fini della decorrenza del termine di esercizio del diritto di recesso, ma non ne costituisce il fondamento.
Colui che è divenuto socio dopo la deliberazione modificativa dell'assetto della società ha acquistato la partecipazione in una società già ormai interessata da tale mutamento: quindi non v'è motivo di attribuirgli per questo una speciale protezione giuridica. Se esiste il rischio che egli ignori la modificazione del contratto sociale frattanto intervenuta, la corrispondente tutela deve necessariamente esser ricercata nella sfera dei rapporti contrattuali tra venditore ed acquirente delle azioni, o comunque su un piano che non coinvolge la società. In caso di compravendita a trattativa diretta, non dovrà il venditore in buona fede tacere all'acquirente l'esistenza di una deliberazione modificativa dello statuto societario, alla quale può non aver partecipato ma della cui esistenza, in quanto socio destinatario della convocazione assembleare, egli non può presumersi fosse all'oscuro. In caso invece di acquisto con sistemi telematici di azioni quotate sui mercati finanziari, sarà onere dell'acquirente assumere quelle informazioni, circa il procedimento modificativo dello statuto sociale in corso, che in tali mercati è d'obbligo siano fornite tempestivamente al pubblico (e che, nel caso in esame, non è controverso fossero state fornite).
2.7. Ma i ricorrenti ancora obiettano che avrebbe comunque errato la corte d'appello nell'escludere che il diritto di recesso, se pure non originariamente e direttamente sorto in capo ai sigg. Olio, non sia stato poi loro trasferito, in quanto accessorio, unitamente ai titoli azionali acquistati.
Non vi osterebbe la qualifica di tale diritto come potestativo, quantica che sarebbe, del resto, anche giuridicamente errata, posto che il recesso del socio necessita per la sua attuazione della cooperazione della società, tenuta alla liquidazione della quota. 2.7.1. Neppure sotto questo profilo le considerazioni dei ricorrenti si rivelano persuasive.
La discussione sulla possibilità di comprendere o meno il diritto di recesso tra quelli cosiddetti potestativi appare poco costruttiva. Decisivo è, invece, il rilievo che il recesso non costituisce un accessorio del titolo azionario, quasi ne fosse una necessaria o naturale pertinenza, ma è un diritto che, pur presupponendo la qualità di socio in chi lo esercita, sorge solo se e quando si verifichi uno degli accadimenti contemplati dal citato art. 2437. Anche ammesso che si possa astrattamente ipotizzare il trasferimento all'acquirente del diritto di recesso unitamente ai titoli azionali che incorporano la partecipazione sociale, ciò postulerebbe non solo che l'alienante fosse in precedenza divenuto titolare di un siffatto diritto di recesso, per essersi verificata una delle situazioni che lo ingenerano, ma che ancora egli lo sia al momento della cessione delle azioni, non potendo ovviamente trasferirsi ad altri un diritto che non si abbia o che si sia perduto. Ma poiché nulla è detto in sentenza, e neppure nel ricorso, in ordine alla posizione dei danti causa dei sigg. Orio - chi fossero, se avessero o meno preso parte all'assemblea in cui fu assunta la deliberazione da cui poteva scaturire il loro diritto di recesso, e quale manifestazione di voto vi avessero eventualmente espresso - non è neppure astrattamente ipotizzabile il trasferimento agli acquirenti di un diritto che non è detto sia mai sorto in capo al venditore, o dal quale quest'ultimo potrebbe essere decaduto ancor prima della vendita. Nè gioverebbe obiettare che, trattandosi di azioni quotate, il cui trasferimento avviene secondo i meccanismi impersonali tipici degli acquisti eseguiti sui mercati finanziari, manca la concreta possibilità d'individuare la persona del venditore e perciò di stabilire se e come costui si sia comportato in occasione della predetta deliberazione assembleare. Obiezione certo fondata, ma da cui ovviamente non deriva la configurabilità di un acquisto a titolo derivativo del diritto di recesso in capo all'acquirente delle azioni, bensì al contrario la radicale impossibilità di accedere in casi del genere ad una siffatta costruzione giuridica. 2.8. La decisione impugnata, laddove ha negato che ai sigg. Olio competesse nel caso in esame il diritto di recesso, resiste dunque alle censure contro di essa rivolte.
Ciò consente senz' altro di rigettare il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso dei medesimi sigg. Orio, il terzo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso del Credito Valtellinese, nonché il secondo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso della Popolare di Sondrio.
2.9. S'è già prima rilevato come, nel pronunciare l'impugnata sentenza non definitiva, la corte d'appello, dopo aver compiuto la riferita valutazione negativa in ordine al diritto di recesso esercitato dai sigg. Uno, abbia affermato che tale recesso, come pure il rimborso delle azioni che ne è conseguito, è da considerare "illecito".
Su tale affermazione si appuntano le critiche espresse nel quinto motivo del ricorso dei sigg. Orio, nel sesto motivo del ricorso del Credito Valtellinese, nonché nel sesto e settimo motivo del ricorso della Popolare di Sondrio, giacché detti ricorrenti, denunciando la violazione degli artt. 2043 e 1227 c.c., oltre che vizi di motivazione, lamentano che la corte milanese abbia in tal modo accertato (non soltanto l'illegittimità del recesso e del conseguente rimborso, ma anche) l'esistenza di un illecito aquiliano, imputabile ai convenuti, senza però farsi carico di verificarne le indispensabili condizioni.
2.9.1. La critica non coglie però nel segno.
L'affermazione dell'impugnata sentenza da ultimo riportata, letta nel contesto complessivo della motivazione che sorregge la decisione, non configura un'autonoma statuizione sull'ari debeatur della pretesa risarcitoria azionata in causa dalla società attrice. La corte d'appello, in questa prima sentenza, si è in realtà occupata soltanto di stabilire se fossero o meno fondate le censure che la SMI aveva mosso alla pronuncia del tribunale, la quale - come già ricordato - si era unicamente soffermata sulla legittimità del recesso dei sigg. Orio ed aveva rigettato la proposta domanda risarcitoria perché questa invece presupponeva l'asserita illegittimità di detto recesso. L'oggetto della decisione non definitiva del giudice d'appello è, quindi, circoscritto alla sola questione appena indicata: se il recesso fosse stato o meno legittimamente esercitato.
La conclusione cui la corte milanese è pervenuta, nel senso dell'illegittimità del recesso dei sigg. Orio, ha naturalmente aperto la strada all'esame della domanda risarcitoria avanzata dall'attrice. Ma tale esame, come è reso palese dalle espressioni adoperate a pag. 16 della sentenza non definitiva, è stato demandato alla successiva sentenza definitiva, essendosi ritenuto necessario un "ulteriore approfondimento istruttorio". Approfondimento che, pur se riferito "in particolare" alla determinazione del "quantum del lamentato pregiudizio" (donde la disposta consulenza tecnica), ha implicato la devoluzione alla successiva sentenza definitiva dell'intera valutazione delle condizioni dell'azione risarcitoria - com'è reso chiaro anche dal contenuto di detta successiva sentenza - sul presupposto dell'ormai acquisita affermazione della non spettanza del contestato diritto di recesso.
L'uso della parola "illiceità", riferita nella sentenza non definitiva al recesso ed al conseguente rimborso del valore delle azioni accordato ai soci receduti, ancorché impreciso, non è dunque affatto espressione di un giudizio già in quella sede manifestato in ordine all'an debeatur, ma è chiaramente da intendere come la naturale conclusione di un ragionamento giuridico destinato unicamente a dimostrare la non sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per il recesso ed il correlativo rimborso. 2.10. Le considerazioni fin qui svolte, che consentono di rigettare senz'altro tutti i ricorsi proposti dai sigg. Orio, dal Credito Valtellinese e dalla Popolare di Sondrio contro la sentenza non definitiva della Corte d'appello di Milano, rendono superfluo l'esame del ricorso incidentale formulato avverso detta sentenza dalla SMI, atteso il carattere esplicitamente condizionato di tale ultimo ricorso.
3. Occorre ora passare all'esame dei ricorsi dei sigg. Orio e della Popolare di Sondrio avverso la sentenza definitiva, che li ha condannati al risarcimento dei danni in favore della SMI. La corte territoriale ha ritenuto che per i sigg. Orio e per la Popolare di Sondrio sussistessero tutti gli elementi necessari ad integrare la proposta azione di responsabilità aquiliana e che, in particolare, a fronte del chiaro comunicato al mercato con cui la società Europa Metalli, prima della deliberazione di fusione per incorporazione nella SMI, aveva richiesto a chi volesse esercitare il diritto di recesso di documentare la propria qualità di socio alla data del 16 giugno 1995, fosse da addebitare ai sigg. Orio una negligente leggerezza (nonché la violazione del dovere di buona fede nei confronti della società), avendo essi preteso di esercitare tale diritto pur sapendo di essere invece divenuti soci in epoca successiva. Leggerezza imputabile anche alla Popolare di Sondrio, la quale, rilasciando una certificazione di contenuto ambiguo circa un'operazione che per suo tramite era stata compiuta, e non potendo ignorare l'uso cui quella certificazione era preordinata, aveva tenuto un comportamento contrario al dovere di diligenza professionale richiesto ad un accreditato istituto bancario. Nessun addebito, viceversa, ha ritenuto la corte d'appello di poter muovere al Credito Valtellinese, il quale non aveva avuto parte attiva nell'acquisto delle azioni ad opera dei sigg. Orio e non era quindi presumibilmente neppure a conoscenza del fatto che quell'acquisto fosse differito ad un termine successivo. Ha negato poi la corte territoriale che fosse nella specie ravvisabile un contributo causale (esclusivo o concorrente) alla produzione del danno della stessa società danneggiata, come invece le controparti di quest'ultima avevano sostenuto. Ragionevolmente, infatti, tenuto conto del tenore del precedente comunicato al mercato cui sopra s'è fatto cenno e della professionalità della banca che aveva rilasciato la più volte menzionata certificazione, i funzionari della Europa Metalli avevano dato credito all'ipotesi che l'acquisto azionario dei sigg. Orio avesse consentito loro di divenire soci in data anteriore al 16 giugno 1995 e, su tale presupposto, avevano proceduto a liquidare le spettanze del recesso. Nè poteva sostenersi che le società interessate alla fusione avrebbero potuto evitare o ridurre il danno se, in presenza di siffatte dichiarazioni di recesso, avessero apportato correttivi volti a modificare il rapporto di cambio delle azioni inizialmente deliberato, giacché non risultava che vi fossero state anche altre significative dichiarazioni di recesso ed, a questo fine, non avrebbe certo potuto tenersi conto dei recessi illegittimamente esercitati dai sigg. Orio.
Il danno subito dalla SMI è stato quindi individuato dalla corte milanese nel depauperamento del patrimonio sociale della società incorporata, successivamente acquisito dall'incorporante, in conseguenza del rimborso delle azioni illegittimamente ottenuto dai sigg. Orio; ed è stato liquidato tenendo conto della differenza tra l'importo versato a ciascuno dei soci receduti ed il valore di borsa delle azioni della SMI che, alla data della fusione, sarebbero state assegnate ai medesimi soci ove il recesso non avesse avuto luogo. 3.1. Una prima censura mossa dai ricorrenti a tale sentenza definitiva si riferisce alla pretesa violazione dell'art. 2043 c.c., oltre che a vizi di motivazione.
I ricorrenti sostengono che la corte territoriale, pur avendo riconosciuto nella domanda della società attrice gli estremi di un'azione per il risarcimento di un danno extracontrattuale, avrebbe poi omesso d'identificare compiutamente tutti gli elementi che occorrono per configurare una simile fattispecie. In particolare essi si dolgono che il giudice d'appello, dopo avere espressamente escluso che fosse stata raggiunta la prova di una dolosa preordinazione posta in essere dai convenuti, abbia ravvisato estremi di colpa nel comportamento dei sigg. Orio sol perché costoro avevano esercitato un diritto di recesso in ipotesi non spettante, senza però tener conto dell'oggettiva opinabilità della situazione giuridica in cui essi versavano. Una situazione in presenza della quale l'addebito di aver agito con negligente leggerezza non avrebbe certo potuto discendere dal mero fatto che, al termine di due gradi di giudizio dall'esito contrastante, la stessa corte d'appello aveva finito col negare la sussistenza del contestato diritto di recesso. 3.1.1. La controricorrente SMI ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità delle doglianze in tal senso formulate dai sigg. Olio, sostenendo che tali doglianze si appuntano contro una soltanto delle due rationes decidendi in base alle quali la corte territoriale ha ravvisato nel caso di specie la responsabilità dei medesimi sigg. Orio. Detta responsabilità sarebbe stata affermata, infatti, non solo per violazione del generale precetto del nemimen laedere, ma altresì sotto un profilo contrattuale, per violazione del dovere di buona fede cui i soci sono tenuti nei confronti della società della quale fanno parte. La mancanza di ogni censura riferita a questa seconda ed autonoma ratto decidendo destinata comunque a restare intatta, renderebbe perciò inammissibile il gravame. 3.1.2. L'eccezione non coglie nel segno.
La lettura della motivazione dell'impugnata sentenza, e soprattutto della chiarissima enunciazione con la quale essa si apre, definendo incontrovertibile che l'azione esercitata in causa dalla SMI sia di stampo aquiliano, unitamente al successivo sviluppo argomentativo volto ad individuare appunto le condizioni richieste per un tal genere di azione dall'art. 2043 c.c., rendono ben chiaro che la corte d'appello non ha affatto ravvisato la concomitanza di due distinte pretese - rispettivamente riferibili ad un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale e ad un'ipotesi di responsabilità contrattuale dei sigg. Orio - e neppure quindi ha inteso porre a fondamento della propria pronuncia di condanna due corrispondenti e distinte ragioni del decidere.
È bensì vero che, dopo aver evidenziato elementi di negligenza e leggerezza nel comportamento tenuto dai sigg. Orio, la corte milanese ha aggiunto un accenno al dovere di correttezza e buona fede da cui deve essere ispirato l'agire dei soci nei riguardi della società. Ma questo non è certo sufficiente a configurare un'autonoma ratio decidendi, riferita ad un'ipotetica ulteriore azione di natura contrattuale, mai altrimenti ipotizzata. Si tratta invece solo di un argomento rafforzativo della motivazione tutta fondata, per il resto, sul presupposto della natura unicamente aquiliana dell'azione esperita dalla SMI.
Le censure che i ricorrenti hanno formulato in ordine all'accertamento delle condizioni di tale ultima azione sono dunque ammissibili, perché - ove risultassero fondate - sarebbero idonee a scalzare l'impugnata decisione di condanna.
3.1.3. Dette censure non sono, però, fondate.
La dedotta violazione dell'art. 2043 c.c. non sussiste. La corte territoriale, contrariamente a quel che i ricorrenti sostengono, non ha postulato alcun automatismo tra la non spettanza del diritto di recesso esercitato dai sigg. Orio e l'insorgere di un titolo di responsabilità aquiliana a loro carico. Se così avesse fatto, certamente sarebbe incorsa in errore, perché è chiaro che dall'inesistenza del diritto di recesso, in sè sola considerata, poteva semmai scaturire una pretesa per restituzione d'indebito, ma non una domanda di risarcimento di danni aquiliani.
Non è questo, però, l'iter argomentativo sviluppato nella decisione impugnata. Ciò su cui la corte d'appello ha posto l'accento non è il mero fatto che i predetti sigg. Orio abbiano ricevuto un rimborso azionario che non spettava, bensì la circostanza che con il loro comportamento -comportamento che la corte ha ritenuto esser connotato da "negligente leggerezza" - essi hanno indotto nei funzionati della Europa Metalli l'erronea convinzione dell'esistenza del diritto di recesso ed hanno perciò provocato il rimborso non spettante. Quel che ha assunto rilievo, in altri termini, non è stata la posizione di passiva ricezione di una somma di denaro non dovuta, bensì l'attivo comportamento da cui l'indebito pagamento è scaturito. È sufficiente leggere la sentenza impugnata, del resto, per rendersi ben conto di come la corte d'appello, lungi dal trascurarli, abbia puntualmente enunciato e correttamente individuato gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale contemplata nel citato art. 2043 (illiceità della condotta, colpa dell'agente, danno e nesso di causalità) e ne abbia poi accertato in concreto l'esistenza.
3.1.4. Non è fondata neppure la censura d'insufficiente motivazione che a siffatto accertamento i ricorrenti muovono, con specifico riguardo all'elemento della colpa.
L'adeguatezza della motivazione dev'essere considerata nel quadro complessivo delle argomentazioni di cui la sentenza consta e per la sua idoneità ad esprimere con chiarezza e senza contraddizioni o lacune logiche le ragioni che hanno orientato la convinzione del giudice in una determinata direzione. Non integra invece un vizio di motivazione, denunciabile ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., il semplice fatto che si sarebbe potuto magari anche argomentare in altro modo, o che si sarebbero potute formulare convinzioni di segno diverso, senza del pari violare alcun formale canone logico. Quando si tratta di esprimere vantazioni, almeno in qualche misura necessariamente destinate ad esser filtrate dalla soggettività di chi le manifesta, la scelta tra le differenti possibili opzioni non può che esser rimessa al prudente apprezzamento del giudice, cui tocca il compito di decidere il merito della controversia, null'altro richiedendosi se non - come già detto - che egli dia conto del ragionamento svolto in termini logici e non contraddittori. Orbene, nel caso in esame, la corte milanese ha stimato che, in presenza di una normativa che non consentiva di esercitare legittimamente il recesso a coloro i quali non avessero ancora acquistato la qualità di socio in data anteriore al 15 giugno 1995, ed avendo la società interessata espressamente puntualizzato tale questione in un comunicato pubblico emanato proprio a questo fine, un normale onere di diligenza imponeva ai sigg. Orio di verificare preventivamente se la situazione in cui si erano venuti a trovare, a seguito di acquisti azionali con termine di scadenza posteriore all'anzidetta data, corrispondesse o meno a quanto richiesto per l'esercizio del recesso. Onere di diligenza che la corte territoriale ha ritenuto sia stato invece violato dal comportamento dei medesimi sigg. Orio, laddove costoro non solo hanno manifestato senz' altro alla società la loro volontà di recesso, ma la hanno anche corredata con una documentazione bancaria oggettivamente ambigua:
perché tale da far intendere che l'acquisto delle azioni fosse stato compiuto a tutti gli effetti prima della data sopra riferita, lasciando in ombra proprio l'aspetto problematico derivante dall'essere stato quell'acquisto effettuato a termine con scadenza in una data successiva.
La conclusione cui il giudice di merito è pervenuto, che cioè nel descritto comportamento fosse da ravvisare "quanto meno (in assenza di prove certe di un intento dolosamente collusivo) una colpa, sotto il profilo di una negligente leggerezza", è coerente con tali premesse argomentative ed esprime, dunque, una valutazione chiara, non inficiata da contraddizioni o da vizi logici. Come tale essa si sottrae ad ogni ulteriore vaglio di legittimità.
Il primo motivo del ricorso dei sigg. Orio, cui si riallacciano alcuni profili di doglianza presenti anche in diversi motivi del ricorso della Popolare di Sondrio, è quindi da rigettare. 3.2. Si collega in parte a quanto appena osservato anche la questione della concorrente responsabilità della Popolare di Sondrio, ossia della banca per cui tramite i sigg. Orio operarono in borsa gli acquisti azionali di cui s'è detto e che ebbe poi a rilasciare la documentazione in base alla quale fu eseguito dalla Europa Metalli il rimborso delle azioni. Documentazione che attestava la data di quegli acquisti, senza però specificare che si era trattato di acquisti a termine con scadenza successiva.
La Popolare di Sondrio, lamentando la violazione degli artt. 1173, 1175, 1176, 2043, 2697 e 2729 c.c., dell'art. 115 c.p.c., e dell'art. 3 della legge n. 289 del 1986 (oltre che difetti di motivazione), contesta la correttezza del ragionamento in base al quale la corte d'appello ha ravvisato una sua colpa per non aver indicato nella certificazione rilasciata che gli acquisti azionari erano a termine e che il termine era scaduto in data successiva al 16 giugno 1995. Sottolinea di aver avuto rapporti unicamente con i sigg. Orio e di non aver quindi avuto motivo ne' obbligo alcuno di formulare una certificazione in termini diversi da quanto le era stato richiesto, dal momento che essa non era più neppure in quel momento depositaria dei titoli inseriti nel sistema di deposito accentrato, ne' risultava minimamente provato che fosse consapevole dell'uso di detta dichiarazione da parte dei medesimi sigg. Orio.
3.2.1. Neppure tali doglianze sono meritevoli di accoglimento. È sufficiente porre attenzione al tenore della dichiarazione rilasciata, come riportato in sentenza, per rendersi conto dell'importanza centrale che ha in essa l'indicazione della specifica data del 16 giugno 1995, coincidente appunto con quella rilevante ai fini dell'esercizio legittimo del recesso secondo quanto precisato anche nel pubblico annuncio dato al mercato dalla società Europa Metalli. Del tutto ragionevole - e comunque non sindacabile in questa sede, perché scevra da vizi logici - appare, dunque, la presunzione che la corte d'appello ne ha tratto: ossia che la banca, nel formulare detta dichiarazione, non potesse ignorare le finalità per le quali i sigg. Orio glie l'avevano richiesta.
Non può d'altronde dubitarsi che un accorto banchiere debba chiedersi la ragione per la quale gli viene domandato di rilasciare una dichiarazione di siffatto tenore, e che debba comunque curare la completezza della dichiarazione medesima proprio in funzione delle varie possibilità d'uso di cui essa è suscettibile ed in considerazione del particolare affidamento che ne deriva per i terzi. Oltre che scevra da vizi di motivazione, l'affermazione di responsabilità per colpa della Popolare di Sondrio in un contesto di tal genere appare corretta anche sotto il profilo giuridico. Essa è infatti conforme al principio già altre volte enunciato da questa Corte di Cassazione, secondo cui nell'ordinamento giuridico vigente, pur non esistendo a carico di ciascun consociato un generale dovere di attivarsi al fine d'impedire eventi di danno, vi sono molteplici situazioni dalle quali possono nascere, per i soggetti che vi sono coinvolti, doveri e regole di azione, la cui inosservanza integra la nozione di omissione imputabile e la conseguente responsabilità civile. Affermazione che in particolare si attaglia alla disciplina normativa che regola il sistema bancario, la quale impone, a tutela del sistema stesso e dei soggetti che vi sono inseriti, comportamenti in parte tipizzati ed in parte enucleatali caso per caso, la cui violazione ben può costituire culpa in omittendo (cfr. Cass. 8 gennaio 1997, n. 72).
Va perciò rigettato anche il primo motivo di ricorso della Popolare di Sondrio.
3.3. La corte d'appello - come s'è già ricordato - ha escluso che anche al Credito Valtellinese potesse invece fondatamente esser mosso un analogo addebito di colpa, ma tale decisione è criticata nel terzo motivo di ricorso della Popolare di Sondrio, la quale si duole della violazione degli artt. 1223, 2043 e 2055 c.c., ed ancora dell'ari. 3 della legge n. 289 del 1986, oltre che di difetti di motivazione.
La doglianza si riassume nel rilievo secondo cui, lungi dall'andare esente da colpa, il Credito Valtellinese, essendo depositario delle azioni acquistate dai sigg. Orio nel momento in cui costoro manifestarono la volontà di recedere dalla Europa Metalli, era gravato da un onere di diligenza ancora più marcato di quello attribuito alla medesima Popolare di Sondrio. Solo il Credito Valtellinese era tenuto al rilascio dei certificati richiesti dai depositanti, aveva in quel momento diretti contatti con costoro e poteva perciò disporre di tutti gli elementi utili a stabilire l'uso che di quei certificati i clienti intendevano fare. Donde la sua responsabilità esclusiva, tale da interrompere ogni nesso causale tra l'evento dannoso ed il comportamento imputato alla Popolare di Sondrio.
3.3.1. Siffatto motivo di ricorso è da prendere in esame unicamente per il profilo da ultimo indicato, cioè in quanto volto a far valere una circostanza che, in tesi, avrebbe dovuto condurre al rigetto della domanda proposta dalla SMI nei confronti della medesima Popolare di Sondrio. Della sua ammissibilità vi sarebbe da dubitare, viceversa, ove lo si dovesse ritenere anche direttamente rivolto nei riguardi del Credito Valtellinese, giacché nei confronti di quest'ultimo nessuna domanda risulta esser stata mai proposta dalla ricorrente Popolare di Sondrio (nemmeno in via subordinata ed a scopo di rivalsa) durante il corso del giudizio di merito.
La doglianza appare, comunque, destituita di fondamento. Essa, infatti, non scalfisce il nucleo della decisione assunta sul punto dalla corte d'appello, ossia il rilievo per cui nulla consente di affermare che il Credito Valtellinese, divenuto depositario delle azioni dei sigg. Orio solo dopo che costoro le avevano acquistate per il tramite della Popolare di Sondrio, fosse in grado di sapere che si era trattato di un acquisto a termine e non a pronti. E tanto basta per escludere la responsabilità de Credito Valtellinese per aver emesso una certificazione, la quale a propria volta si basava sulla precedente attestazione della Popolare di Sondrio, in assenza di elementi idonei a far supporre che quella precedente attestazione fosse incompleta.
3.4. Altri motivi di ricorso, pur sempre attinenti anche a pretesi vizi di motivazione dell'impugnata sentenza, chiamano in causa l'applicazione degli artt. 1227, 1176 e 2392 c.c. e pongono l'accento su una pretesa colpa concorrente del soggetto danneggiato, da considerarsi esclusiva o, quanto meno, concorrente con quella dei convenuti.
In primo luogo, i ricorrenti sostengono che le medesime ragioni per cui la corte d'appello ha qualificato come negligente il loro comportamento avrebbero dovuto valere anche per l'Europa Metalli, la quale aveva corrisposto ai sigg. Orio gli importi in questione senza i necessari controlli in ordine all'effettiva spettanza. In secondo luogo, essi affermano che, in presenza di rilevanti dichiarazioni di recesso dei soci della società incorporata, i responsabili delle società interessate alla fusione sarebbero stati tenuti a ritoccare il rapporto di cambio e che, se lo avessero fatto, ne sarebbe derivata una riduzione del danno conseguente all'illegittimo recesso di cui si discute. Il contrario rilievo della corte d'appello, secondo cui il carattere illecito di tale recesso avrebbe invece impedito di tenerne conto, non coglierebbe nel segno, perché non di questo si trattava, bensì di stabilire se per effetto di tali recessi il valore patrimoniale della società incorporata era stato ridotto - nel qual caso la revisione del rapporto di cambio avrebbe comunque dovuto essere attuata - o era rimasto il medesimo, ma con la logica conseguenza che allora nessun danno sarebbe stato ravvisatole.
3.4.1. Quanto al primo profilo, è d'immediata evidenza come nessun errore di diritto sia dato riscontrare, ponendosi semmai unicamente una questione di adeguatezza e logicità della motivazione che ha indotto la corte di merito a non ravvisare rilevanti elementi di colpa nel comportamento della Europa Metalli.
A tal riguardo la corte d'appello ha tatto leva su due elementi: la già ricordata comunicazione pubblica preventiva, che individuava nel 16 giugno 1995 la data di riferimento degli acquisti azionari suscettibili di attribuire ai titolari delle azioni un eventuale diritto di recesso in presenza della prevista deliberazione che detta società si accingeva ad assumere, ed il legittimo affidamento che i funzionali della medesima società potevano riporre nella professionalità della banca che aveva rilasciato l'attestazione dell'acquisto azionario da parte dei sigg. Orio in data antecedente al 16 giugno 1995. Si comprende perciò che, secondo la corte d'appello, era ragionevole presumere che quella certificazione si correlasse logicamente al precedente comunicato ed avesse la funzione di attestare l'anteriorità dell'acquisto appunto ai fini del recesso. Logico, quindi, che fosse interpretata come un accertamento compiuto dalla banca (con il grado di elevata professionalità insito nella sua stessa funzione), idoneo a garantire l'esistenza nel caso concreto delle condizioni richieste per l'esercizio del diritto di recesso; e legittimo che i funzionali della Europa Metalli se ne fidassero senza avvertire la necessità di altre verifiche. S'è accennato che i ricorrenti tuttavia obiettano che sarebbe contraddittorio da un lato affermare - come fa l'impugnata sentenza nel motivare la responsabilità della Popolare di Sondrio - che la summenzionata certificazione bancaria era lacunosa, perché taceva proprio sul punto decisivo riguardante la data di acquisto della proprietà delle azioni da parte dei sigg. Orio, e dall'altro lato negare che un soggetto altrettanto qualificato ed ancor più direttamente interessato all'operazione, quale la stessa società Europa Metalli, non potesse con l'uso dell'ordinaria diligenza percepire quella lacuna e non dovesse perciò disporre una più esauriente verifica in proposito.
Ma la denunciata contraddizione logica non sussiste. La corte d'appello non afferma che la lacunosità della certificazione bancaria era evidente e manifesta a chiunque l'avesse esaminata. Riferisce, invece, che quella lacuna è emersa dopo (in conseguenza di indagini sollecitate da altri soci, i quali si erano trovati nelle medesime condizioni dei sigg. Orio e, non avendo potuto produrre una documentazione del medesimo tenore, si erano visti rifiutare il recesso) e ne trae argomento per dare corpo all'addebito di colpa rivolto alla banca che quella certificazione emise e che, conoscendone i presupposti di fatto, non avrebbe dovuto renderla in termini così lacunosi. Siffatto giudizio non contrasta con la valutazione espressa dalla stessa corte milanese in merito al comportamento non colposo dei funzionali della società Europa Metalli, perché costoro, a differenza di quelli della Popolare di Sondrio, non potevano avere diretta conoscenza dei termini temporali delle operazioni di acquisto azionario compiute dai sigg. Orio e non avevano perciò ne' motivo di ritenere che la certificazione bancaria fosse lacunosa, ne' ragione per immaginare che la data dell'acquisto azionario in detta certificazione indicata potesse riferirsi ad un acquisto a termine anziché a pronti.
Anche a tale riguardo, pertanto, si debbono richiamare le considerazioni in precedenza svolte in ordine ai limiti del vizio di motivazione deducibile come motivo di ricorso per Cassazione, e si deve concludere che l'apprezzamento del giudice di merito, non risultando privo di una motivazione logica, si sottrae al sindacato di questa corte.
È appena poi il caso di aggiungere che a diversa conclusione non può condurre neppure il richiamo, operato nel ricorso della Popolare di Sondrio, ad alcune parti di un verbale del collegio sindacale (non è precisato di quale società, ma si tratta, presumibilmente, del collegio sindacale della SMI) in cui sono contenuti riferimenti ad alcune valutazioni espresse da un componente di detto collegio in ordine a taluni aspetti della vicenda in esame. Le frasi riportate nel ricorso, oltre tutto al di fuori di ogni contesto temporale, non appaiono da sole in grado di evidenziare elementi di giudizio aventi carattere decisivo, che la corte territoriale avrebbe trascurato, e spetta unicamente al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento e scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, essendo sufficiente che dette risultanze siano valutate nel loro complesso, anche senza un'esplicita confutazione degli elementi non menzionati perché reputati privi di sufficiente rilievo.
Ne discende che tanto il secondo motivo del ricorso dei sigg. Orio quanto il secondo motivo del ricorso della Popolare di Sondrio debbono essere rigettati.
3.4.2. Manifestamente infondati (anche se in parte frutto di un equivoco cui la stessa impugnata sentenza non del tutto si sottrae) appaiono poi i rilievi concernenti la mancata rettifica del rapporto di cambio applicato in occasione della fusione societaria in concomitanza con la quale si è svolta la vicenda per cui è causa. Basta a tal riguardo osservare che la determinazione del rapporto di cambio, nelle operazioni di fusione, si riflette sul patrimonio personale dei soci delle società partecipanti a tali operazioni (implicando l'attribuzione ai soci dell'incorporata di un maggiore o minor numero di azioni dell'incorporante, e quindi fissando il rapporto proporzionale di ciascun socio nella partecipazione al capitale di quest'ultima), ma non incide in alcun modo sul patrimonio delle anzidette società, che resta qual era indipendentemente dalla più o meno corretta fissazione di quel rapporto.
Il terzo motivo del ricorso dei sigg. Orio ed il quinto motivo del ricorso della Popolare di Sondrio vanno anch'essi perciò disattesi, quantunque la motivazione della sentenza impugnata sul punto debba essere corretta con la precisazione che la mancata rettifica del rapporto di cambio di cui si discute sarebbe risultata in ogni caso irrilevante ai fini di elidere o attenuare il danno consistente nell'impoverimento del patrimonio sociale cagionato dal (non legittimo) recesso.
3.5. Anche le statuizioni dell'impugnata sentenza riguardanti l'individuazione del danno e la sua liquidazione sono oggetto di censura.
I ricorrenti, deducendo la violazione degli artt. 2043, 2697, 2056, 1223 e 2424 c.c., nonché lamentando vizi di motivazione, prospettano a tal riguardo differenti doglianze.
In primo luogo, essi rimproverano alla corte d'appello di non aver tenuto conto del fatto che la liquidazione delle azioni a beneficio dei soci receduti non avrebbe potuto esser considerata, di per sè sola, produttiva di danno per la società, perché il rimborso delle azioni aveva comportato la riduzione di corrispondenti passività iscritte in bilancio sotto la voce "capitale", così eliminando il relativo debito di restituzione (non attuale, ma pur sempre come tale configurabile) che altrimenti sarebbe gravato sulla società nei confronti di detti soci.
I ricorrenti rimproverano inoltre alla sentenza impugnata di avere ignorato i rilievi da loro svolti al fine di dimostrare come il semplice fatto che la società avesse dovuto ridurre il proprio capitale per effetto del recesso non implicasse la prova di un pregiudizio patrimoniale, che avrebbe semmai potuto consistere nella necessità di fronteggiare altrimenti una situazione di eventuale sottocapitalizzazione, ma del quale nessuna prova concreta era stata mai offerta.
Sotto un terzo profilo, i ricorrenti, riprendendo in parte un'argomentazione già sviluppata in precedenza, sostengono che il danno lamentato dalla incorporante SMI postulerebbe fosse provato il depauperamento del patrimonio della società incorporata Europa Metalli (dalla quale i sigg. Orio erano receduti). Pertanto, avendo escluso vi fosse la necessità di apportare modificazione alcuna al rapporto di cambio in conseguenza di detto recesso, la corte s'appello sarebbe incorsa in contraddizione nel ravvisare l'esistenza di un tal depauperamento patrimoniale.
Infine, i ricorrenti lamentano che la corte milanese, nel liquidare il danno ponendo a raffronto le somme rimborsate ai soci receduti con il valore di borsa delle azioni della SMI alla data della fusione, abbia ingiustificatamente ignorato le risultanze istruttorie dalle quali appariva chiaro come il valore effettivo di dette azioni fosse invece di gran lunga superiore. E la Popolare di Sondrio aggiunge che siffatto criterio di determinazione e liquidazione del danno non consente d'identificare il pregiudizio effettivamente subito dalla SMI, in conseguenza dell'indebito recesso dei sigg. Orio, ma individua semmai il vantaggio patrimoniale da costoro realizzato per effetto di detta operazione.
3.5.1. Neppure le obiezioni sopra riferite sono atte a determinare la cassazione della sentenza impugnata.
La corte d'appello, come s'è visto, ha individuato nel rimborso delle azioni conseguente all'illegittimo recesso dei sigg. Orio dalla Europa Metalli un depauperamento patrimoniale della società. Ciò è di assoluta evidenza, posto che quel rimborso ha avuto luogo con denaro facente parte del patrimonio della stessa Europa Metalli. Dall'impugnata sentenza non emerge con chiarezza se detto esborso sia avvenuto attingendo alle riserve o se abbia implicato una vera e propria riduzione del capitale sociale, La concomitanza con l'operazione di fusione della stessa Europa Metalli nella SMI ed il fatto che, come già riferito, a seguito del recesso dei soci dell'incorporata il rapporto di cambio originariamente previsto non sia stato poi modificato, potrebbero deporre per la prima ipotesi; ma la questione non riveste soverchia importanza, giacché in ogni caso la società incorporata ha dovuto far fronte al rimborso azionario con mezzi patrimoniali propri.
Conviene peraltro ribadire che i meccanismi dell'intervenuta fusione societaria (e, come s'è già rilevato, anche i criteri di determinazione del rapporto di cambio) non giocano alcun ruolo nella presente fattispecie, se non per il fatto che l'incorporante SMI è subentrata nelle posizioni giuridiche attive e passive dell'incorporata Europa Metalli ed è quindi legittimata a far valere in giudizio una pretesa risarcitoria di cui quest'ultima società sarebbe stata altrimenti la sola titolare. È dell'Europa Metalli che i sigg. Orio erano soci, è da quella società che essi sono receduti ed è dal patrimonio della Europa Metalli che è stato prelevato il denaro occorrente alla liquidazione delle loro azioni. Il successivo confluire del patrimonio della Europa Metalli in quello dell'incorporante SMI ha solo comportato che questa abbia acquisito titolo per dolersi del danno in precedenza subito da quella; ma non è configurabile alcun rapporto di causa ad effetto tra la fusione ed il danno, che si sarebbe prodotto nei medesimi termini anche qualora la modifica dell'oggetto sociale della Europa Metalli, in conseguenza della quale i sigg. Orio sono illegittimamente receduti da detta società, fosse stata deliberata (in quella stessa data) al di fuori di ogni ipotesi di fusione con altra società.
Chiarito dunque che il danno del quale è stato chiesto il risarcimento in giudizio dalla SMI è quello subito dalla Europa Metalli, cui la SMI è succeduta, va subito osservato che l'esborso sopportato dal patrimonio di detta società per effetto del recesso dei soci non potrebbe dirsi bilanciato -come infondatamente assumono i ricorrenti - dal sollievo conseguente all'eventuale riduzione del capitale con annullamento delle azioni dei soci receduti. Il fatto che il capitale sociale, non diversamente dalle riserve e da tutte le altre poste che concorrono a formare il patrimonio netto della società, debba essere iscritto al passivo del bilancio (art. 2424 c.c.) non vale certo a farlo considerare alla stregua di una posta debitoria, il cui annullamento o la cui riduzione comporti un vantaggio patrimoniale per la società. Come da tempo la migliore dottrina ha chiarito, il capitale e le altre voci di patrimonio netto non costituiscono passività e la loro iscrizione nella colonna del passivo risponde unicamente alla finalità contabile di far coincidere il totale del passivo con quello dell'attivo. Quelle poste identificano l'eccedenza delle attività rispetto alle vere e proprie passività e rappresentano, quindi, il "valore netto" del patrimonio di cui la società può disporre: i cosiddetti mezzi propri della società.
Ne consegue che gli eventi destinati ad incidere negativamente sul patrimonio netto (capitale e riserve) per ciò stesso implicano un decremento di valore della società e, quindi, essendo questa un soggetto dotato di autonoma personalità giuridica e di un proprio distinto assetto patrimoniale, costituiscono per essa un danno (non certo un beneficio), senza che occorra attardarsi a congetturare quale uso la società avrebbe potuto fare dei maggiori mezzi patrimoniali dei quali sia stata illecitamente privata. Nè giova insistere sul venir meno del futuro obbligo di restituzione dei conferimenti ai soci in sede di futura liquidazione della società. Il rapporto che intercorre tra la società ed i propri soci ha connotati troppo peculiari per essere assimilato ad un rapporto di credito e debito, anche soltanto potenziale. Il socio, in quanto tale, non è qualificabile come creditore della società. Egli non ha alcuna pretesa che possa far valere direttamente sul patrimonio sociale, e diviene titolare di un diritto alla quota di liquidazione soltanto allorché si verifica una causa di scioglimento del rapporto di società. Prima di ciò, può vantare tutt'al più una mera aspettativa, legata all'eventualità che, all'atto del verificarsi di detta causa di scioglimento e dopo l'estinzione di tutti i debiti, il patrimonio sociale abbia ancora una consistenza tale da permettere l'attribuzione pro quota al socio di valori proporzionali alla sua partecipazione (cfr. in proposito Cass. 12 ottobre 2004, n. 20169). Non può dirsi perciò assolutamente che dal recesso del socio in pendenza della vita della società derivi una riduzione dei debiti sociali.
Così stando le cose (ed avendo la SMI, per parte sua, prestato acquiescenza all'impugnata sentenza definitiva), non mette conto soffermarsi a valutare se bene abbia tatto la corte d'appello a liquidare il danno di cui si discute detraendo, dall'ammontare dei rimborsi azionati illecitamente conseguiti dai sigg. Orio, il valore di borsa delle azioni della SMI che agli stessi sigg. Orio sarebbero state assegnate se essi non fossero prima receduti dall'incorporata Europa Metalli. La critica della ricorrente Popolare di Sondrio, secondo cui si sarebbe in tal modo finito per commisurare il danno non tanto al pregiudizio ingiustamente sofferto dalla società, quanto all'arricchimento indebitamente conseguito dai soci receduti, non è infatti sorretta da adeguato interesse: essa potrebbe condurre, paradossalmente, solo ad una liquidazione del danno in misura più elevata.
Alla stregua di quanto sopra osservato perde gran parte del suo rilievo anche l'ulteriore osservazione con cui i ricorrenti si dolgono che la corte d'appello, nell'operaie l'anzidetta detrazione, abbia individuato il valore delle azioni della SMI teoricamente spettanti ai sigg. Orio (ove non fossero receduti) sulla scorta delle quotazioni di borsa, anziché avendo riguardo ai valori effettivi del patrimonio della società emittente dette azioni.
Una doglianza, questa, che appare comunque non condivisibile. Proprio calandosi nella logica del ragionamento seguito in proposito dalla corte milanese, infatti, è da ritenere che il valore di quelle azioni non potesse che esser commisurato al loro prezzo di borsa, in coerenza con il criterio cui anche la legge si riferisce in caso di recesso da società quotate (att 2437, primo comma, ora rimpiazzato dall'art. 2437-ter, terzo comma, c.c.) e per le medesime ragioni sottese a tale regola giuridica.
Nè il quarto motivo del ricorso dei sigg. Olio ne' il quarto motivo del ricorso della Popolare di Sondrio possono perciò essere accolti. 4. In conclusione, anche i ricorsi proposti avverso la sentenza definitiva debbono essere tutti rigettati.
L'esito complessivo della vertenza suggerisce di compensare le spese del giudizio di legittimità per quel che riguarda il Credito Valtellinese e di condannare in solido i sigg. Orio e la Popolare di Sondrio al rimborso delle spese sostenute dalla SMI, che vengono liquidate in euro 25.000, 00 (venticinquemila) per onorari e 200, 00 (duecento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
La corte, dato atto della riunione dei ricorsi:
1. rigetta sia i ricorsi proposti dai sigg. Francesca, Elena e Geremia Orio e dalla sig.ra Giovanna Sevaroli Orio, sia quelli proposti dalla Banca Popolare di Sondrio soc. coop. a r. l. sia quello proposto dal Credito Valtellinese soc. coop. a r. l.;
2. dichiara assorbito il ricorso incidentale proposto dalla SMI - Società Metallurgica Italiana s.p.a.;
3. condanna in solido i sigg. Francesca, Elena e Geremia Orio, la sig.ra Giovanna Sevaroli Orio e la Banca Popolare di Sondrio soc. coop. a r.l. a rimborsare le spese del giudizio di legittimità sostenute dalla SMI - Società Metallurgica Italiana s.p.a., liquidate in euro 25.000, 00 (venticinquemila) per onorari e 200, 00 (duecento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge;
4. compensa le spese del giudizio di legittimità per quel che riguarda
il Credito Valtellinese soc. coop. a r. l..
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2005.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2005