Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6611 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 10 Novembre 2005, n. 21823. Est. Plenteda.


Fallimento ed altre procedure concorsuali - Liquidazione coatta amministrativa - Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi - In genere - D.l. n. 26 del 1979, conv. in legge n. 95 del 1979 - Incompatibilità con la normativa comunitaria - Limiti - Revocatoria fallimentare - Aiuto di Stato - Configurabilità - Esclusione - Fondamento - Fase conservativa e fase liquidatoria della procedura - Distinzione - Rilevanza - Esclusione - Ragioni.



Il d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, conv., con modif., in legge 3 aprile 1979, n. 95, sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, è incompatibile con le norme comunitarie - in base alle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee 1 dicembre 1998, C-200/97, e 17 giugno 1999, C-295/97, e alla decisione della Commissione 16 maggio 2000, 2001/212/CE - non nella sua totalità, ma esclusivamente in relazione alle disposizioni che prevedono aiuti di Stato non consentiti ai sensi dell'art. 87 (già art. 92) del Trattato CE, tra i quali non può farsi rientrare l'esercizio dell'azione revocatoria, che è di applicazione estesa a tutte le procedure concorsuali che presuppongono l'insolvenza. Né, al riguardo, può distinguersi tra la fase conservativa e quella liquidatoria della procedura, onde ricavarne che l'azione revocatoria non comporta aiuti alle imprese, sotto il profilo di un "finanziamento forzoso", unicamente ove esercitata nella seconda fase: e ciò in quanto la revocatoria non favorisce altri che la generalità dei creditori. Posto, infatti, che, alla luce delle indicazioni della Corte di giustizia, l'aiuto di Stato è configurabile nel caso in cui l'impresa sia stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe esclusa nell'ambito della applicazione delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento, tale condizione non sussiste nella specie, dal momento che come nel fallimento è consentito, in chiave palesemente liquidatoria, l'esercizio provvisorio dell'impresa ai sensi dell'art. 90 della legge fall., nella amministrazione straordinaria regolata dalla legge n. 95 del 1979 la continuazione dell'attività era consentita "tenendo anche conto dell'interesse dei creditori", e dunque in una prospettiva non estranea alle esigenze liquidatorie; e tanto nell'una quanto nell'altra procedura il realizzo conseguibile attraverso l'esercizio delle azioni revocatorie non è esclusivamente destinato alla massa concorsuale, ma anche a far fronte alle spese di amministrazione. (Nell'enunciare il principio in massima, la S.C. ha altresì precisato che ogni questione relativa alla compatibilità dell'azione con la fase conservativa risulta ormai normativamente superata alla luce della nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria, di cui al d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, come modificata dal d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, conv., con modif., in legge 18 febbraio 2004, n. 39, e dalle successive disposizioni correttive ed integrative, in forza della quale il commissario straordinario può proporre le azioni revocatorie previste dagli artt. 49 e 91 del d.lgs. n. 270 del 1999 anche nel caso di autorizzazione all'esecuzione del programma di ristrutturazione, purché si traducano in un vantaggio per i creditori). (massima ufficiale)


Massimario, art. 90 l. fall.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITRONE Ugo - Presidente -
Dott. PLENTEDA Donato - rel. Consigliere -
Dott. CELENTANO Walter - Consigliere -
Dott. SALVAGO Salvatore - Consigliere -
Dott. PETITTI Stefano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
INTESA BCI GESTIONE CREDITI S.P.A., in persona dei Funzionari pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA LARGO POCHETTI 28, presso l'avvocato Fabrizio PIETROSANTI - STUDIO PIROLA PENNUTO ZEI, rappresentata e difesa dall'avvocato TUCCI Giuseppe giusta mandato a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
CASE DI CURA RIUNITE S.R.L. CCR IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona dei Commissari Straordinari pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LISBONA 3, presso l'avvocato D'ALESSANDRO Floriano che la rappresenta, e difenda unitamente all'avvocato LUCIO RICCARDI, giusta mandato a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 131/02 della Corte d'Appello di BARI, depositata il 14/02/02;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 08/06/2005 dal Consigliere Dott. Donato PLENTEDA;
udito per il ricorrente, l'Avvocato TUCCI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito per il resistente, l'Avvocato D'ALESSANDRO che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto 16.1.1996 la società Case di Cura Riunite s.r.l. in amministrazione straordinaria convenne dinanzi al Tribunale di Bari la Carlpuglia s.p.a. e chiese che fosse dichiarato inefficace ai sensi dell'art 67 1 comma n. 2 l.f. il pagamento di L. 8.865.522.850, effettuato in suo favore, mediante rilascio in data 19.10.1993 di un mandato irrevocabile all'incasso per tale somma di cui la Case di Cura era creditrice verso la Regione Puglia.
Dedusse che il mandato era stato rilasciato ai sensi dell'art. 1723 c.c., con esclusione espressa di qualunque corrispettivo e con l'intesa che la somma sarebbe stata accreditata sul c/o n. 13326 non affidato e con saldo negativo e che la somma riscossa sarebbe servita ad estinguere o ridurre la esposizione per diversi miliardi di lire verso Caripuglia.
La convenuta eccepì la genericità della domanda e la sua infondatezza; contestò la natura solutoria del mandato, che aveva avuto funzione di garanzia.
Il tribunale con sent. 13.7.1998 rigettò la domanda rilevando che erano mancati i riscontri probatori alla tesi della natura solutoria del mandato all'incasso.
L'Amministrazione straordinaria impugnò la decisione e produsse gli estratti dei vari conti correnti con Caripuglia, la quale, incorporata da Banca Intesa s.p.a., rappresentata da Intesa Gestione Crediti, resistette alla impugnazione.
La Corte di Appello di Bari con sent. 14.2.2002 ha accolto l'appello ed ha dichiarato inefficace il mandato del 19.10.1993, condannando l'appellata a restituire la somma di L. 8.865.522.850, oltre agli interessi dalla domanda a e alle spese del doppio grado. Preliminarmente ha disatteso la eccezione di preclusione sollevata dalla appellata, in riferimento al giudicato formatosi sulla sent. 13.7.1998 n. 3153 resa inter partes, rilevando che era stata proposta in termini tali da non consentire di apprezzare le ragioni per le quali essa costituiva un presupposto logico giuridico della controversia, posto che la vicenda relativa ad altro mandato irrevocabile all'incasso di crediti nessuna connessione poteva manifestare con la fattispecie in esame.
Ha quindi respinto la eccezione di inammissibilità dell'azione, proposta in quanto incompatibile con gli scopi conservativi della amministrazione straordinaria essendo esperibile solo nella eventuale fase liquidato-ria, dal momento che altrimenti si tradurrebbe in un meccanismo di finanziamento forzoso da parte dei creditori alla società, così ponendosi in contrasto con la disciplina comunitaria, che vieta gli aiuti di Stato alle imprese in crisi. Ha rilevato la corte di merito che alla stregua delle decisioni della Corte di giustizia della Comunità Europea, intervenute sul tema della compatibilita della legge n. 95/1979 con la normativa comunitaria, ad essere incompatibili sono i benefici erogati a norma dell'art. 2 bis della legge e le diverse Ipotesi di agevolazione fiscale sui trasferimenti di azienda contemplati dall'art. 5 bis e non la intera legge, priva del carattere selettivo laddove rinvia ai meccanismi e alle procedure della legge fallimentare; sicché l'azione revocatoria non può essere considerata agevolativa, se esercitata da imprese in amministrazione straordinaria durante la fase conservativa, atteso che la continuazione dell'attività non e fine a se stesa, ma è giustificata dalle esigenze di liquidazione unitaria dell'azienda, senza compromettere l'avviamento, o di riorganizzazione attraverso la moratoria.
Ha comunque osservato che nella specie la procedura aveva superato la durata massima di quattro anni prevista dalla legge ed era avviata alla fase liquidatoria, ragione che ancor più aveva svalutato il rilievo della inammissibilità, costituendo l'inizio di tale fase una condizione dell'azione, che giova anche quando sopravvenga all'inizio della lite.
Quanto alla natura del mandato, ha anzitutto rilevato che ad essere oggetto dell'azione era stato quel negozio e non il successivo pagamento ed ha rinvenuto il carattere della solutorietà, al pari di ogni cessione di credito, nelle espressioni usate nel contratto - conferito nel reciproco interesse e relativo al credito verso la Regione Puglia, da accreditare sul conto corrente non affidato n. 1801/13326/45 delle Case di Cura Riunite - utili ad evidenziare l'intento della CCR di conferire alla Banca cessionaria dei erediti la autorizzazione ad utilizzare le somme per abbattere la sua esposizione, che al momento dell'incasso era di L. 8.562.796.304. Ha invece negato che l'operazione avesse assunto il titolo di garantire un fido di L. 8.000.000.000 concesso in data 8.1.1994, per cui avrebbe svolto anche una funzione di garanzia, e ciò per la inesistenza di elementi di collegamento tra il fido e la procura all'incasso.
Quanto alla scientia decoctionis, ha premesso la corte territoriale che, sebbene possa assumere rilievo la circostanza della inesistenza dello stato di insolvenza, l'onere probatorio a riguardo fa capo all'accipiens, che deve dimostrare di non avere avuto la possibilità di cogliere lo stato di decozione, potendosi, a tal punto, giovare della inesistenza della insolvenza; e tale onere, ha concluso, non era stato soddisfatto, che, anzi, in senso contrario vi erano le elevate esposizioni debitorie, i numerosi i conti intrattenuti con la Caripuglia dalle CCR, che aveva dovuto concedere fideiussioni a firma delle controllate, pegni in danaro, mandati irrevocabilità l'incasso, cessioni di canoni mensili e deliberare, sempre a richiesta dell'istituto di credito, l'aumento di capitale sociale, prima di ottenere anticipazioni ad affidamenti; senza considerare, infine, la qualità del creditore, imprenditore bancario ed interlocutore quasi esclusivo di CCR e dunque bene informato della situazione patrimoniale della società - che era tra i suoi maggiori debitori - anche per il radicamento che l'uno e l'altra avevano nel territorio in cui operavano.
Propone ricorso per Cassazione con sei motivi la soc. "intesa Bci Gestione Crediti", già "Intesa Gestione Crediti", quale procuratore di "Banca Intesa Banca Commerciale Italiana s.p.a." (già Banca Intesa s.p.a., incorporante di Caripuglia).
Resiste con controricorso la soc. CCR in amministrazione straordinaria.
Entrambe hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente del motivo aggiunto, proposto con la memoria ex art. 378 c.p.c., va dichiarata la inammissibilità.
Assume la ricorrente di avere in grado di appello dichiarato "di non accettare in alcun modo il contraddittorio sul punto" e di avere "sempre contestato l'intera documentazione, esibita da controparte soltanto in appello con cui si tenta di dimostrare gli effetti solutori delle rimesse in conto corrente, successive al conferimento del mandato oggetto del giudizio") ed alla luce di tali deduzioni, che la società afferma di avere richiamato nel corpo del ricorso, invoca la sentenza 20.4.2005 n. 8203 di questa Corte a sezioni unite, che ha ritenuto estensibile il divieto di prove nuove in appello anche a quelle costituite, oltre alle costituende, tanto giovando ad impedire l'esame della documentazione prodotta per la prima volta in secondo grado, che costituisce il fondamento probatorio della revocatoria intrapresa dalla CCR in a. straordinaria. La conseguente "richiesta di cassazione della impugnata sentenza", che Intesa Bci formula è, tuttavia, come si 4 anticipato, inammissibile, poiché non trova riscontro in nessuno dei motivi di censura, di cui appresso; ne' rileva che a f. 40 del ricorso, nella discussione compiuta in ordine al quinto motivo - che come si vedrà afferisce alla natura del mandato e al suo rapporto con la normativa fallimentare della revocatoria esercitata - si sia richiamato il pregresso rifiuto di accettazione del contraddittorio, sia perché tale dichiarazione, per come la stessa ricorrente riferisce, aveva avuto riguardo all'oggetto della domanda, che si era ritenuto da parte di Intesa Gestione Crediti indebitamente estesa dalla revocatoria del mandato a quella delle rimesse bancarie, sia perché, comunque, non è concepita in termini di specifica doglianza, così come l'art. 366 c.p.c. esige, in ordine alla illegittima produzione di documenti in appello, che solo oggi si intende evidenziare. Privo di ogni fondamento è il primo motivo con cui la ricorrente denuncia la mancanza di motivazione in ordine al precedente giudicato, prospettato nel giudizio di merito, e la violazione degli artt. 290 c.c. e 324 c.p.c..
Deduce che in sede di appello aveva rappresentato la esigenza che si tenesse conto del giudicato formatosi inter partes sulla sentenza 13.7.1998 n. 3153 di Tribunale di Bari, che in fattispecie del tutto identica aveva stabilito che il mandato irrevocabile all'incasso costituisce mezzo anomalo di pagamento, quando l'apertura di credito sia preordinata a ridurre una pregressa esposizione passiva e non a consentire all'obbligato disponibilità di danaro. La corte territoriale, dopo avere rilevato che la eccezione era stata "proposta in maniera laconica e non esaustiva", ha osservato che essa " non consente neanche di apprezzare per quali ragioni le motivazioni della suddetta pronuncia costituirebbero presupposto logico giuridico della presente fattispecie che si troverebbe, per modo di dire, in un rapporto indissolubile di dipendenza con la citata decisione". Ed ha aggiunto "che la delibazione di un altro mandato irrevocabile all'incasso di crediti, intercorso tra le parti, non ha nulla a che vedere ne direttamente ne' indirettamente con la delibazione della concreta fattispecie oggetto di questo giudizio".
La ricorrente, che nella epigrafe del motivo ha dedotto la " assoluta e completa mancanza di motivazione", pur a fronte delle ragioni della decisione dal giudice di merito esplicitate, ha poi insistito nel valorizzare il precedente che assume esserle favorevole, dello stesso tribunale, in una fattispecie identica e tra le stesse partì, mancando però di criticare quelle ragioni, che fanno leva su pacifici principi di diritto, e ancora in questa sede omettendo di giustificare l'assunto, che pure ribadisce, ovvero giustificandolo con la generica enunciazione del principio che c'è un giudicato Implicito quando tra la questione risolta espressamente e quella risolta implicitamente esiste un rapporto indissolubile di dipendenza, nel senso che l'accertamento contenuto nella motivazione della sentenza cade su questioni che si presentano come la necessaria premessa o il presupposto logico giuridico della decisione; assunto del tutto inconferente rispetto a quanto la sentenza impugnata ha osservato, e che lascia in termini del tutto apodittici la conclusione successiva, secondo cui "il principio espresso dal Tribunale di Bari e contenuto in una sentenza oramai passata in giudicato, resa tra le stesse parti, relativamente ad una identica fattispecie sostanziale, doveva e deve pertanto ad ogni effetto ritenersi vincolante".
In appendice al motivo esaminato, osserva poi, quanto alla questione della conformità al diritto comunitario della legge "Prodi", che la sentenza impugnata l'ha sovrapposta su quella della compatibilità della revocatoria con gli scopi conservativi della legge medesima, tale da consentire l'azione solo nella fase liquidatoria; e rileva che "la non conformità al diritto comunitario della vecchia legge non può mai configurarsi come una condizione dell'azione e non può mai attenere, come tale, alla legittimazione ad agire ne' può mai verificarsi nel corso del giudizio in modo che sussista al momento della pronuncia sul merito della domanda".
Attesa la estraneità alla prima doglianza e costituendo la premessa della seconda, l'esame sarà compiuto in margine ad essa. Col secondo motivo Intesa Bei denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 249, 87, 88, 89 e 234 dal Trattato UB (già artt. 149, 92, 93, 94 e 117) con riferimento all'art. l L. 95/1979, agli artt. 195 ss., 237 ss, 203 e 67 l.f. e dell'art. 106 D. Lgvo 8.7.1999 n, 270; la violazione e la falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e la insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Richiama le decisioni della corte di Giustizia dell'1.12.1998 in causa Ecotrade s.r.l. Altiforni e Ferriere di Servolo s.p.a., con cui, interpretando la nozione di aiuto di Stato ex art. 4 lett. G) del Trattato ceca, essa ha dichiarato che un regime, quale quello introdotto dalla 1.95/1979, da luogo ad un aiuto di Stato incompatibile con la disposizione predetta, se si dimostri che l'impresa sia stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze tali che sarebbe invece esclusa, ove si applicassero le norme in tema di fallimento; ovvero quando l'impresa benefici di più vantaggi, quali garanzie di Stato, aliquote ridotte di imposte con di cui l'impresa insolvente non potrebbe fruire nell'ambito di applicazione delle norme fallimentari; e del 17.6.1999 in causa Industrie Aeronautiche e Meccaniche Piaggio, Dornier ed altri, nel senso della disapplicazione totale della legge Prodi, qualificata come aiuto di Stato, a prescindere da ogni accertamento di fatto sulle concrete modalità di erogazione del singoli aiuti; e ciò in quanto il provvedimento di ammissione alla procedura non era stato previamente notificato alla Commissione.
Richiama, infine, la decisione della Commissione Ce, che con comunicazione del 12.8.1999 aveva manifestato l'intenzione di revocare le precedenti sue decisioni in ordine alla legge Prodi, avviando il procedimento di infrazione previsto dall'art. 88 del Trattato, conclusosi il 16.5.2000 con la declaratoria di illegittimità e di incompatibilita con il mercato comune dell'intero regime introdotto dalla legge 95/1979.
Con la seconda parte del secondo motivo denuncia la ricorrente la violazione e la falsa applicazione dell'art. 67 l.f., in riferimento all'art. 1 l. 95/1979 e agli artt. 195 ss., 237 ss, 203, 49 e 106 D. Lgvo 270/1999; la violazione e la falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e la insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Contesta la legittimità dell'esercizio dell'azione revocatoria in sede di amministrazione straordinaria, con riferimento alla fase conservativa, ed invoca la sent. 27.12.1996 n. 11519 di questa Corte, che ha individuato nella procedura in esame finalità conservative dell'impresa in funzione del suo risanamento, sopravvenendo la fase liquidatoria solo se tale risanamento risulti irrealizzabile; sicché la revocatoria, coerente solo con tale fase, mancherebbe del suo presupposto nella procedura in questione e non poteva essere esercitata, dal momento che si versava nella Case conservativa. Per il caso che non si ritenga immediatamente disapplicabile il decreto di ammissione alla procedura di cui si tratta, la ricorrente chiede che ai sensi dell'art. 234 c. 3 del Trattato sia invitata la Corte di Giustizia a verificare se siano disapplicabili i provvedimenti che hanno concretamente attuato il regime di aiuto introdotto dalla l. 95/1979; se essa sia compatibile con l'ordinamento comunitario; se sia applicabile l'art. 1 della legge, nella parte in cui esclude il fallimento delle grandi imprese in crisi ed estende l'applicazione dell'art. 671. f..
La materia che ne e oggetto è stata più volte sottoposta all'esame di questa Corte (Cass. 8.2.2005 n. 2534; 16.7.2004 n. 13165;
21.9.2004 n. 18915) ed ha trovato soluzioni univoche, nel senso della legittimità della azione revocatoria di cui si tratta, in quanto non incompatibile con la normativa comunitaria di cui si è dedotta la violazione; e le ragioni poste a sostegno di tali pronunzie reputa il Collegio di dover condividere, per quanto appresso si dirà. La censura muove dalla premessa che il Trattato Ce all'art. 87 (già 92) dichiara incompatibili con il mercato comune gli aiuti concessi agli Stati membri, nella misura in cui incidono sugli scambi tra tali Stati, ed equipara agli aiuti qualunque risorsa statale sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.
Richiamate le pronunzie della Corte di Giustizia e della Commissione, rileva che A mancata la indagine sulla effettiva concessione di aiuti, dalla cui positiva verifica sarebbe derivata la disapplicazione del decreto di apertura della procedura; denunzia il vizio di motivazione della impugnata sentenza e nega, infine, che sia possibile distinguere tra fase conservativa e fase liquidatoria, di cui solo la prima sarebbe illegittima, sia perché anche la seconda da luogo ad aiuti di Stato - come la imposta fissa sui trasferimenti di azienda - sia perché estende il divieto di cui all'art. 51 l.f. ai debiti verso l'erario.
Ognuna delle questioni dibattute è stata oggetto di analitico esame nelle richiamate decisioni di questa Corte, la quale ha osservato che le pronunzie della Corte di Giustizia - da cui non si era discostata la Commissione - hanno affermato che la applicazione ad una impresa di un regime derogatorio alle regole in materia fallimentare da luogo ad aiuti di Stato:
a) se l'impresa è stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito della applicazione delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento;
b) se ha beneficiato di uno o più vantaggi, quali una garanzia di Stato, un'aliquota di imposta ridotta, una esenzione dall'obbligo di pagamento di ammende o altre sanzioni pecuniarie o una rinuncia effettiva, totale o parziale, ai crediti pubblici, dei quali non avrebbe potuto usufruire un'altra impresa insolvente, nell'ambito dell'applicazione delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento.
Da tali statuizioni ha desunto il convincimento che non la legge in se, nella sua totalità, e incompatibile con le disposizioni comunitarie, ma solo laddove preveda un regime di aiuto nei termini precisati; ed ha considerato, in particolare con riguardo alla azione revocatoria fallimentare nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria di cui alla L. n. 95/1979, che nessuna delle due istituzioni comunitarie si è occupata in modo specifico del problema.
Ha quindi rilevato che, una volta risultato mancante qualunque collegamento della azione revocatoria con la continuazione dell'attività di impresa, in quanto esercitata nella fase liquidatori, ancor più da escludere sia la configurabilità come aiuto di Stato, conforme essendo alle norme generali in materia di fallimento; come pure ha escluso la sua riconducibilità a qualcuno dei vantaggi considerati in via esemplificativa dall'art. 87 del Trattato.
Ra infine negato che l'esercizio della revocatoria nel procedimento di amministrazione straordinaria si traduca in un finanziamento forzoso dell'impresa in crisi, tanto potendosi ipotizzare, semmai, con riferimento alla fase conservativa, ed ha conseguentemente escluso qualunque rilevanza alla mancata notifica della legge alla Commissione, essendo questa necessaria solo in presenza di situazioni inquadrabili come aiuto.
I passaggi argomentativi sinteticamente richiamati meritano piena adesione.
Va anzitutto osservato che l'art. 87 (già 92) del Trattato Ce fa divieto agli Stati membri di concedere aiuti alle impresa, sotto qualsiasi forma, che incidano sugli scambi tra gli stati, alterando le regole della libera concorrenza.
Il divieto conseguentemente comporta effetti sulle disposizioni che quegli aiuti prevedono e non sulle leggi in cui sono contenute, essendo tale risultato da un lato eccedente la finalità della norma comunitaria e dall'altro improponibile, perché irragionevolmente limitativo del potere legislativo dello Stato.
Alla luce di tale fondamentale premessa va compiuta la lettura delle sentenze della Corte di Giustizia - che è istituzione chiamata ad assicurare il rispetto del diritto nella interpretazione del Trattato ed è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale su di essa (art. 234, già 177 del Trattato) - la quale, dopo avere osservato, con la decisione dell'1.12.1998 surri-chiamata, che alcune caratteristiche della legge n, 95/1979, se confermate dal giudice nazionale, potrebbero configurare la esistenza di aiuti di Stato - come la sua applicazione selettiva in favore di grandi imprese industriali di rilevante esposizione debitoria, nei cui confronti risultassero presenti tra i principali creditori lo Stato od Enti pubblici; la continuazione dell'attività economica che potrebbe comportare un onere supplementare per i pubblici poteri, se fosse dimostrato che lo Stato o Enti pubblici sono tra i principali creditori; la presenza di garanzie di Stato, di rinunzie effettive a crediti pubblici, eco. - ha concluso, con riferimento all'art. 4 lett. e) del Trattato Ceca, che il divieto è ipotizzatile se l'impresa è stata autorizzata a continuare l'attività economica in deroga alla norma comuni in materia fallimentare, ovvero ha beneficiato di uno o più vantaggi specifici, di cui sopra, dei quali altre imprese, nell'ambito predetto, non avrebbero potuto fruire.
Con la successiva sentenza del 17.6.1999 la Corte suddetta, richiesta di stabilire se con la legge n. 95/1979 - ed in particolare con le provvidenze da essa previste - lo stato italiano ha concesso a talune imprese aiuti contrastanti, questa vola, con l'art. 92 del Trattato, è pervenuta alle medesime conclusioni, considerando che le imprese in amministrazione straordinaria sono sì assoggettate alle norme generali della legge fallimentare, ma fruiscono di alcune deroghe, come quella della sospensione di qualsiasi azione esecutiva, anche per debiti fiscali, ovvero quella prevista dall'art. 2 bis L. 965/1979, ecc.
E dopo avere premesso che la Corte non è competente ad interpretare il diritto nazionale o a statuire sulla compatibilita di una misura nazionale con il diritto comunitario, mentre sulla compatibilita dei provvedimenti di aiuto con il mercato comune la competenza è della Commissione, ha affermato - in linea con la precedente sentenza del 1998 - che 6 derogatoria alle ordinarie regole in materia fallimentare e da luogo alla concessione di aiuti di Stato l'applicazione di un regime come quello istituito dalla legge italiana 3.4.1979 n. 95, solo allorché si dimostri quanto più sopra rilevato.
Infine la Commissione con la decisione 16.5.2000, dopo avere anch'essa premesso che il suo compito era di individuare, nell'ambito del regime giuridico dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, le misure che non rivestono carattere di generalità e pronunziarsi sul fatto se ricadono o meno nell'art. 87 par. 1 del Trattato Ce; ed avere rilevato che tale legge riprende alcuni aspetti della procedura fallimentare, ma contiene un certo numero di elementi di aiuto, ha concluso che essa "introduce un regime di aiuti di Stato in favore delle imprese In crisi, illegittimamente posto in essere dall'Italia in violazione degli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell'art 88 par. 3 del Trattato" regime incompatibile con il mercato comune, così finendo per statuire (art. 2 del dispositivo) che tale regine "e illegittimo e incompatibile con il mercato comune".
Dall'esame congiunto delle citate decisioni non si appalesa conseguente l'assunto che la legge di cui si tratta sia illegittima nel suo intero articolato, ma che illegittimi siano, in quanto esistenti per essere stati in concreto accertati gli specifici elementi derogatori della disciplina generale sul fallimento, nei quali non è dato rinvenire l'azione revocatoria di cui all'art. 67 l.f., che è di applicazione estesa a tutte le procedure concorsuali che presuppongono la insolvenza, non essendo dato comprendere la ragione della estensione della illegittimità all'intero istituto concorsuale, che per molti versi si conforma a quelli di diritto comune, una volta che la norma del Trattato fa, come si è visto, espresso divieto di specifici aiuti e dunque sancisce la illegittimità del "regime" di cui è costituito, non anche della sede normativa in cui e collocato, nella sua totalità. Me può condividersi il rilievo della ricorrente che la illegittimità della intera legge - per come accertata e dichiarata dalle istituzioni comunitarie - derivi dal fatto che non sia mai stata notificata alla Commissione, posto che, anche per tale aspetto, illegittimo deve ritenersi "il regime" degli aiuti di Stato in essa introdotto, nella parte in cui lo contempla; sicché è indifferente, in relazione alla questione di cui si tratta, che investe esclusivamente la ammissibilità della revocatoria fallimentare nella amministrazione straordinaria, stabilire se siano in discussione aiuti nuovi o esistenti, sfuggendo tale azione in via assoluta alla categoria dagli aiuti in questione.
Nè ha, del pari, rilievo la distinzione tra fase conservativa e fase liquidatoria, donde ricavare che l'azione, solo in quanto esercitata in quest'ultima, non comporta aiuti alle imprese, sebbene la ricorrente abbia ritenuto di individuare aiuti anche in essai e ciò in quanto la revocatone non favorisce altro che la generalità dei creditori.
Posto, infatti, che, come la Corte di giustizia ha ripetutamele affermato, l'aiuto di Stato 6 individuabile nel caso in cui l'impresa sia stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito della applicazione delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento, tale condizione non sussiste nella specie, dal momento che come nel fallimento è consentito - in chiave palesemente liquidatoria, allo scopo di conseguire migliori realizzi dalla vendita dei beni acquisiti alla massa - l'esercizio provvisorio dell'impresa ai sensi dell'art. 90 l.f., nella amministrazione straordinaria dalla legge n. 95/1979 la continuazione dell'attività era pur sempre previsto che fosse consentita "tenendo anche conto dell'interesse dei creditori", e dunque in una prospettiva non estranea alle esigenze liquidatoria; e tanto nell'una quanto nell'altra procedura il realizzo conseguibile attraverso l'esercizio delle azioni revocatorie non è esclusivamente destinato alla massa concorsuale, ma anche per far fronte alle spese di amministrazione. E tanto giova a disattendere il rilievo posto in calce al primo motivo e che ha costituito in realtà la premessa del presente mezzo, giacché se con la nuova disciplina della amministrazione straordinaria (art. 49 D. Lgvo 8.7.1999 n. 270) - peraltro ulteriormente variata dalla legge 18.2., 2004 n. 39, di conversione del d. l. 23.12.2003 n. 347 (legge Marzano) e dalle successive disposizioni correttive ed integrative (d.l. 3.5.2004 n. 119, conv. in l. 5.7.2004 n. 166 e d.l. 29.11.2004 n. 281, conv. in l. 28.1.2005 n. 6) - il commissario straordinario può proporre le azioni revo- catorie previste dagli artt. 49 e 91 del D. Lgvo n. 270, anche nel caso di autorizzazione alla esecuzione del programma di ristrutturazione, purché si traducano in un vantaggio per i creditori, ogni questione relativa alla compatibilita della azione con la fase conservativa risulta normativamente superata. I successivi tre motivi possono essere esaminati congiuntamente per la inerenza l'uno all'altro, in ragione delle questioni dibattute. Con il primo di essi (terzo mezzo) la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 67 l.f. 1^ c. n. 2; e dell'art. 112 c.p.c., nonché la insufficienza a contraddittorietà della motivazione.
Assume che la corte di merito, pur muovendo dal rilievo che l'azione della amministrazione straordinaria deve considerarsi proposta a norma dell'art. 67 1 comma n. 2 l.f., con riguardo ad un atto estintivo anomalo e non agli atti terminali di esso, cioè ai versamenti in danaro, aveva poi affermato che la revocatoria era stata promossa sul presupposto che il mandato all'incasso " fosse da qualificare negozio solutorio e dunque mezzo anomalo di pagamento per garantire alla banca il rientro delle consistenti esposizioni debitorie della CCR"; così dimenticando che una cosa è che oggetto della domanda siano i pagamenti, altra che lo siano gli atti che ne costituiscono la causa solvendi; sicché, scegliendo la seconda prospettiva avrebbero dovuto provarsi i presupposti soggettivi ed oggettivi nel momento in cui quegli atti si erano verificati e non nel momento in cui si era effettuata la rimessa; prova che era del tutto mancata.
Con il 4^ sono denunziate la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1325 nn. 2 e 3, 1362, 1363, 1366, 1367 c.c., con riferimento al mandato in questione; dell'art. 67 1^ c. n. 2 e 2^ comma l.f., in riferimento alla sua funzione di garanzia; degli artt, 163 nn. 3 e 4 e 164 4^ c. c.p.c., nonché la insufficienza e contraddittorietà della motivazione.
Addebita la ricorrente alla corte territoriale di avere da un lato ritenuto la solutorietà del mandato ed i presupposti soggettivi ed oggettivi della revocatoria, avendo riguardo ai pagamenti effettuati il 25.1.1994 e non al momento del negozio (19.10.1993), e di avere dall'altro interpretato arbitrariamente il testo del mandato, nel senso che contenesse l'autorizzazione alla banca ad utilizzare le somme che avrebbe riscosso per abbattere la esposizione debitoria di CCR, senza avere esaminato quale fosse stata la esposizione del c/c n. 1801/13326/45 alla data del 19.10.1993; quale fosse il saldo negativo al momento dell'incasso e in che modo potesse ritenersi di L. 8.562.796.304; tanto più che i documenti prodotti (estratti di c/c) esponevano saldi per valuta e non saldi disponibili al momento del mandato.
Ulteriore addebito muove laddove ha ritenuto che il mandato avesse funzione solutoria e non di garanzia, così come dedotto, perché riferito alla concessione in data 18.1.1994 di un fido di otto miliardi di lire sul predetto conto; garanzia che la corte territoriale ha giudicato essere resistita dalla sequenza temporale che aveva impedito di ravvisare qualunque collegamento tra fido e procura all'incasso.
Premesso che Caripuglia, a richiesta della CCR, aveva consentito a svincolare parzialmente ed anticipatamente un pegno su quattro libretti bancari per complessive L. 43 miliardi, afferma la ricorrente che le parti avevano, sia per ripristinare quella garanzia, sia per garantire il nuovo affidamento, previsto il rilascio di varie procure all'incasso - come quella in questione - per crediti vantati verso la Regione Puglia, maturati a fronte di prestazioni sanitarie effettuate. Tanto era risultato dalla lettera 24.9.1993 prodotta in giudizio, con cui CRR aveva chiesto alla banca di mettere a "disposizione gli incassi relativi dai mesi di marzo a settembre 1993 - a prescindere dal ripristino con gli stessi incassi del nostro deposito in pegno, che sari svincolato a nostro favore il 31.12.1993"; e l'1.8.1994 era seguito l'affidamento di L. 8 miliardi n assistito anche dalla garanzia costituita dal mandato all'incasso di che trattasi, da tempo già nella disponibilità della banca. L'argomentazione della corte di merito, secondo cui la riscossione della somma aveva avuto un ruolo solutorio, per essere stata versata su conto non affidato.
Con ingente saldo negativo, era stata così fondata -afferma la ricorrente - su un fatto non provato e cioè che la somma accreditata fosse servita a ripianare parte delle pregresse esposizioni debitorie di CCR.
Con il 5^ motivo sono denunziate la violazione a la falsa applicazione degli art. 1325 nn. 2 e 3, 1362, 1363, 1366, 1367 c.c. con riguardo al mandato; 67 1^ c. n. 2 e 2^ comma l.f., con riferimento alla funzione di garanzia di tale negozio; nonché la insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Deduce la banca di avere, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte territoriale, sempre sostenuto la impossibiliti di estendere l'azione revocatoria alle rimesse, una volta che l'azione si era incentrata sul mandato, restando i negozi di provvista distinti ed autonomi rispetto agli atti solutori costituiti dalle rimesse. Vero e, aggiunge la ricorrente, che il mandato irrevocabile all'incasso, quanto la cessione di credito, può avere causa solvendi ed assumere il carattere di pagamento anomalo ex art. 67 1^ comma n. 2 l.f., ma sempreché se ne dia la prova, trattandosi di un mandato attribuito originariamente e di un successivo debito sorto in maniera del tutto slegata dalla attribuzione del mandato secondo una logica del tutto estranea alla operazione qui in esame" per cui la corte di merito aveva mancato di accertare la reale funzione economico - sociale del negozio, per verificare se il contratto fosse stato o meno previsto a garanzia di un debito sorto contestualmente e se il debito fosse sorto senza alcun collegamento con il contratto di cessione o di mandato e si era limitata ad una valutazione ex post, che atteneva però alle rimesse e cioè alla successiva evoluzione del rapporto di conto corrente e non al negozio traslativo a montai tant'è che quella valutazione aveva confortato con il richiamo di giurisprudenza di legittimità riferita alle rimesse in c/c. Sui punti oggetto delle censure la sentenza impugnata ha rilevato che l'azione revocatoria era stata promossa sul presupposto che "il mandato irrevocabile per atto notar Polito dell'1.9.1993 fosse da qualificare come negozio solutorio al pari di una ordinaria cessione di credito" quindi quale mezzo anomalo di pagamento/ per garantire alla Caripuglia s.p.a. il rientro delle consistenti esposizioni debitorie della CCR, per cui la mandataria aveva l'obbligo di restituire le somme riscosse in esecuzione del mandato conferitole. Ed ha aggiunto che le espressioni usate, nella loro chiarezza ed univocità, consentono di affermare senza ombra di dubbio che oggetto della pretesa azionata fu il mandato e non il pagamento. A fronte di tali considerazioni, che muovono da accertamenti in fatto, motivati in modo logicamente e giuridicamente congrue e dunque non più sindacabili in sede di legittimità è gratuita la affermazione secondo cui la Corte di Appello ha dimenticato che " se si impugnano non i pagamenti dei crediti liquidi ed esigibili, ma gli atti che costituiscono la causa solvendi dei primi, i presupposti oggettivi e soggettivi dell'azione revocatoria, compresa la situazione concreta del cd. saldo disponibile, sono da provare in relazione al momento in cui questi ultimi ai pongono in essere (nella specie 19.10.1993) e non invece in relazione al momento in cui viene effettuata la relativa rimessa (25.1.1994)" e con cui si chiede quale sia stato il procedimento ermeneutico seguito per rilevare che sulla base del testo letterale del mandato era emersa la esplicita autorizzazione delle parti ad utilizzare le somme che la banca avrebbe ricavato per abbattere una parte della sua esposizione. Aggiungendo, poi, di non comprendere "da quali prove e da quale documentazione la corte di appello ha dedotto il suo convincimento che la stessa banca avrebbe utilizzato la somma ricavata dalla cessione del credito - in realtà del mandato - per ridurre la esposizione del mandante".
I rilievi che precedono sono privi di fondamento.
La corte di merito ha preso in esame il mandato conferito il 19.10.1993. che era l'oggetto della domanda di revoca, ed ha considerato che per le espressioni usate, come quella che il negozio era compiuto "nel reciproco interesse, per incassare tutte le somme riguardanti il credito verso la Regione Puglia e accreditarle sul conto corrente 1801/13326/45 intestato alle Case di Cura Riunite s.r.l.", restava evidenziato l'intento della CCR di conferire alla banca cessionaria del credito una esplicita autorizzazione ad utilizzare le somme ricavate per abbattere una parte della sua esposizione.
Ed ha tratto conferma di questo intento dalla circostanza che Caripuglia utilizzò poi la somma ricavata dalla cessione per ridurre la esposizione della mandante che "come adeguatamente documentato in atti presentava al momento dell'incasso un saldo negativo di L. 8.562.796.304".
Posto, dunque, che di mandato in rem propriam si trattò, alla stregua del tenore letterale del contratto, che la corte territoriale ha espressamente richiamato, il criterio ermeneutico utilizzato e quello primario dell'art. 1362 c.c., per cui non ha alcun motivo la ricorrente di lamentare la violazione delle norme sulla interpretazione dal contratto, della quali il giudice di merito ha fatto invece puntuale applicazione; e meno ancora il vizio di motivazione, che è stata adeguatamente svolta, essendo dalla premessa significativa di ordine letterale passata alla valutazione delle finalità del negozio, con una interpretazione dell'atto insuscettibile del sindacato di legittimità, e in tal nodo pervenendo alla qualificazione del contratto come cessione di crediti, con valenza solutoria anomala, ricadente nella disciplina dell'art. 67 1^ c. n. 2 l.f., in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass. 13165/2004; 4754/2000;
11057/1998; 8703/1998; 4688/1998; 6467/1987).
Vana è, dunque, l'argomentazione che una cosa sono i pagamenti, una cosa gli atti che ne costituiscono la causa sol vendi, in quanto di tale distinzione la corte di merito ha dimostrato piena consapevolezza, valorizzando il momento negoziale della cessione, rispetto a quello esecutivo delle rimesse; come senza pregio e l'assunto che il negozio di cui si tratta ebbe una funzione di garanzia in corrispondenza di un affidamento di L. otto miliardi concesso il 18.1.1994, la cui revocabilità sarebbe stata disciplinata dal secondo comma dell'art. 67 l.f..
Al riguardo la sentenza impugnata ha osservato che nessun dubbio potesse sussisterà sul fatto che la somma Incassata da Caripuglia, in esecuzione del mandato avesse poi estinto il conto che non era affidato -e dunque un conto scoperto già all'atto dal "andato - e presentava ingente saldo negativo; sicché ha considerato la situazione alla data del 19.10.1993, valutando la funzione del mandato in rea propria - e concludendo per la sua solutorietà, e non quella delle successive rimesse, che costituiscono una mera operazione materiale, compiuta dalla banca in esecuzione della cessione e volta ad acquisire materialmente le risorse finanziarie, già entrate nella giuridica disponibilità dell'istituto di eredito. Quanto alla concessione del fido di L. 8 miliardi, non ha mancato la corte pugliese di rilevare, con apprezzamento di fatto che sfugge anch'esso al sindacato di legittimità, che a rivelare la inconsistenza della tesi fosse da un lato la stessa sequenza temporale, dal momento che quell'affidamento era stato di tre mesi successivo al mandato) e dall'altro la mancanza di qualunque collegamento tra fido e procura all'incasso; oltre alle modalità di svolgimento del rapporto di cui sopra.
inammissibile è, infine, ogni altra deduzione diretta a fornire giustificazione in fatto alternative agli accertamenti compiuti dalla corte territoriale, secondo cui "Caripuglia a richiesta di CCR aveva consentito a svincolare parzialmente ed anticipatamente in suo favore un pegno di danaro per complessive L. 43 miliardi depositato su quattro libretti bancari. Le parti al fine di ripristinare una tale garanzia e non per garantire il solo affidamento di L. 8.000.000.000 per la parte di essa che era stata svincolata, avevano previsto il rilascio di varie procure all'incasso, tutte relative a crediti vantati nei confronti della Regione Puglia, tra le quali quella per cui è causa, afferente, come si è già detto, a crediti maturati a fronte di prestazioni sanitarie effettuate in regime di convenzione per io mese di settembre 1993".
La sentenza impugnata ha accertato il contenuto, la funzione ed il risultato perseguito e raggiunto dal mandato ed e pervenuta, attraverso un iter argomentativo ineccepibile sul piano logico - giuridico ed insindacabile sul piano degli accertamenti compiuti, alla conclusione della sua solutorietà, in ordine alla quale dunque le prospettazioni di situazioni e fatti diversi non possono trovare ingresso in questa sede.
Con l'ultimo mezzo Intesa Bei Gestione Crediti de-nunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 67 l.f. in ordine alla presunzione della scientia decoctionis della banca; e la insufficienza e contraddittorietà della motivazione.
Addebita alla corte di merito errori di diritto e visi motivazionali, sia nella astratta configurazione dell'art., 67 1^ c. l.f., sia nella valutazione concreta delle prove.
Premesso che, diversamente da (pianto affermato dalla sentenza impugnata, è prioritaria rispetto alla prova della inscientia decoctionis - che grava sul convenuto - quella della esistenza dello stato di insolvenza al momento dell'atto impugnato, e che manca nella legge la presunzione assoluta di insolvenza nel periodo sospetto, considerata dall'art. 67 l.f., rileva che l'attore aveva mancato di dare la prova della insolvenza.
Nega poi la esistenza di prove della effettiva scientia decoctionis della banca e deduce la mancata valutazione della corte territoriale della circostanza che essa aveva continuato a far credito all'impresa per tutto il 1993 ed aveva ansi ampliato l'ambito della concessione del credito.
Contesta infine la fondatezza e comunque la rilevanza dell'assunto che il conto affidato n. 00174 (conto anticipi) non fosse stato movimentato e fosse stato chiuso dopo l'azzeramento verificatosi con il pagamento della Ragione, tale circostanza riguardando il momento del pagamento della Regione a non quello in cui fu posto in essere l'atto e fu effettuato il pagamento dal credito anticipato; al pari della circostanza che la banca aveva dirottato la medesima somma su un conto che, pur presentando una esposizione inferiore al fido, era stato chiuso dopo l'accreditamento della somma riscossa. Contesta infine la rilevanza dalle fideiussioni richieste dalla banca alla CCR e concesse tramite società collegata il 16.2.1993, esse essendo estranee ai fatti di causa, per avere riguardato uno specifico finanziamento di Isveimer alla soc. CCR.
La censura è priva di consistenza.
Se, infatti, l'addebito motivazionale e resistito dalla puntuale affermazione della corte barese che, pur considerando rilevante la inesistenza dello stato di insolvenza, ha però osservato che "trattasi di accertamento che acquista un senso compiuto solo se in via prioritaria il terzo convenuto in revocatoria fornisce la prova positiva di non avere avuto la possibilità di cogliere lo stato di decozione dell'impresa, per l'assenza di manifestazioni esterne sintomatiche"; in punto di violazione di norme di legge (art. 67 l.f.) la doglianza trascura di considerare che, con il rovesciamento dell'onere della prova posto dal primo comma dell'art. 67 a carico dell'accipiens e che ha ad oggetto la "non conoscenza dello stato di insolvenza del debitore", non rileva tanto se lo stato di insolvenza dell'impresa nel momento dell'atto revocando compiuto all'interno del periodo sospetto sia presunto in via assoluta o in modo relativo, quanto se sia o meno il terzo a doversi liberare dalla presunzione di averlo conosciuto.
Ne consegue che è a lui precluso, nel momento in cui e chiamato a dimostrare la inesistenza di elementi rilevatori della insolvenza ovvero a provare la ricorrenza di circostanze tali da indurre una persona di normale prudenza ed avvedutezza a ritenere che l'impresa si trovasse in situazioni di normale esercizio (Cass. 119/1998), di fornire la prova che tanto quegli elementi rivelatori mancavano che mancava oggettivamente lo stato di decozione, essendo integralmente a suo carico l'onere di dimostrare la inesistenza dell'elemento soggettivo, una volta "Raggiunta la prova di quello oggettivo. Ciò posto, non rileva quanto la ricorrente deduce, che sia cioè mancata la prova della scientia decoctionis, che pure la sentenza impugnata ha accertato attraverso una serie di elementi, che giovano a svalutare la portata dei rapporti della banca con la CCR, sicché sono inconferenti le argomentazioni dirette a disattenderli, posto che l'onere a carico dell'accipiens avrebbe dovuto essere assolto in forma diretta, esso non avendo contenuti meramente negativi equivalenti alla mancanza della prova positiva della conoscenza (Cass. 5540/1997).
Il ricorso va dunque respinto e le spese vanno poste a carico della soccombente in ragione di Euro 25.200, di cui 25.000 per onorari e 200 per esborsi; oltre alle spese generali e agli accessori di legge. P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla spese processuali in Euro 25.200, 00 di cui 25.000, 00 per onorari e 200, 00 per esborsi; oltre alle spese generali e agli accessori di legge. Così deciso in Roma, il 8 giugno 2005.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2005