Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6589 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 07 Luglio 2008, n. 18599. Est. Ceccherini.


Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Effetti - Per i creditori - Debiti pecuniari - Compensazione - Requisiti - Anteriorità del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte - Necessità - Conseguenze - Società cooperativa - Esclusione del socio fallito - Diritto alla liquidazione della quota - Compensazione con crediti della società - Esclusione - Fondamento - Fattispecie.

Società - Di capitali - Società cooperative - Capitale sociale - Partecipazione dei soci - Liquidazione della quota o rimborso delle azioni del socio uscente - Posizione del socio in epoca anteriore alla liquidazione - Natura giuridica - Mera aspettativa - Conseguenze - Esclusione del socio fallito - Insorgenza del credito con la dichiarazione di fallimento - Compensabilità con crediti concorsuali della società - Esclusione - Fondamento - Fattispecie.



In tema di società cooperative, l'insorgenza del diritto del socio alla quota di liquidazione e del relativo credito si verifica soltanto in presenza di una causa di scioglimento del rapporto sociale, anteriormente vantando tale soggetto esclusivamente una mera aspettativa legata all'eventualità che, all'atto del verificarsi di detta causa, il patrimonio della società abbia una consistenza tale da permettere l'attribuzione "pro quota" di valori proporzionali alla sua partecipazione; ne consegue che, in caso di esclusione dalla società a seguito della dichiarazione di fallimento del socio, il credito di quest'ultimo relativo alla quota di liquidazione nasce - o almeno diviene certo - esclusivamente per effetto della dichiarazione di fallimento, ciò implicando l'assenza dei presupposti necessari per ritenerne la compensabilità, ex art. 56, legge fall., con i contrapposti crediti vantati dalla società nei suoi confronti. (Principio affermato dalla S.C. in un caso di insinuazione al passivo nel fallimento del socio da parte di una banca cooperativa,condannata alla restituzione di quanto ricavato dalla vendita delle azioni realizzata dopo il fallimento). (massima ufficiale)


Massimario, art. 53 l. fall.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOSAVIO Giovanni - Presidente -
Dott. RORDORF Renato - Consigliere -
Dott. CECCHERINI Aldo - rel. Consigliere -
Dott. NAPPI Aniello - Consigliere -
Dott. GENOVESE Francesco Antonio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BANCA POPOLARE DELL'ETRURIA E DEL LAZIO SOC. COOP. A R.L., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA G. BETTOLO 17, presso l'avvocato MICHELE ARCANGELO MASSARI, rappresentato e difeso dall'avvocato SCORZA GIUSEPPE, giusta procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
FALLIMENTO SERI MARIO;
- intimato -
e sul 2 ricorso n 12128/04 proposto da:
CURATELA DEL FALLIMENTO SERI MARIO, nella qualità di titolare dell'omonima ditta individuale, in persona del Curatore Dott.ssa POLVERINI FABIOLA, elettivamente domiciliata in ROMA PIAZZA DI PRISCILLA 4, presso l'avvocato COEN STEFANO, rappresentata e difesa dall'avvocato BARBINI ALDA, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale condizionato;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
BANCA POPOLARE DELL'ETRURIA E DEL LAZIO SOC. COOP. A R.L., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA G. BETTOLO 17, presso l'avvocato MICHELE ARCANGELO MASSARI, rappresentato e difeso dall'avvocato GIUSEPPE SCORZA, giusta procura a margine del ricorso principale;
- controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 1525/03 della Corte d'Appello di FIRENZE, depositata il 24/09/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/05/2008 dal Consigliere Dott. Aldo CECCHERINI;
preliminarmente la Corte dispone la riunione dei due ricorsi; udito, per la ricorrente, l'Avvocato FLAVIA BIANCHI, per delega, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale;
udito, per la controricorrente e ricorrente incidentale, l'Avvocato STEFANO COEN, per delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento di quello incidentale;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale e per l'inammissibilità del ricorso incidentale. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il signor Mario Seri, debitore nei confronti della Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio, società cooperativa a r.l., era socio della medesima cooperativa, avendone acquistato quattrocento azioni qualche giorno prima della concessione del mutuo. Il Seri fu dichiarato fallito il 31 luglio 1998. La Banca s'insinuò al passivo del fallimento per un credito di L. 118.417.443, e il 30 ottobre 1998, avvalendosi della disposizione dell'art. 20, del suo statuto (per cui, in caso d'inadempimento del socio nei confronti della banca, quest'ultima aveva diritto di ritenzione sulle azioni del socio, delle quali aveva il deposito, e d'alienazione di esse per conto del socio, nonché di compensazione del ricavo con il suo credito), alienò le azioni e comunicò di aver provveduto a decurtare il suo maggior credito compensandolo parzialmente con il ricavo.
Con sentenza in data 3 settembre 2001, il Tribunale d'Arezzo ritenne che il patto di ritenzione, alienazione e compensazione costituisse un vincolo di garanzia impropria sulle azioni, assimilabile al pegno e come tale soggetto alla L. Fall., art. 53, che subordina la vendita del pegno all'autorizzazione del giudice delegato. Il tribunale condannò pertanto la banca a rimettere alla curatela del fallimento la somma di L. 12.331.800, oltre agli accessori, pari al controvalore delle quattrocento azioni di proprietà del fallito, vendute dalla banca con ritenzione del ricavato.
Con sentenza del 24 settembre 2003, la Corte d'appello di Firenze confermò la sentenza di primo grado, respingendo la tesi della banca appellante, per la quale, indipendentemente dalla L. Fall., art. 56, il debito della banca verso il fallito socio, relativo al ricavato delle azioni, si sarebbe compensato con il maggior credito in forza di un pactum de compensando intervenuto più di un anno prima della dichiarazione di fallimento, e come tale non revocabile. Dopo aver motivato il suo dissenso dalla giurisprudenza, affermatasi a quel tempo, della possibilità di compensare il credito del socio, nascente dalla liquidazione della sua quota in conseguenza del suo fallimento, con il preesistente credito della cooperativa, la corte precisò tuttavia che nella fattispecie di causa il debito della banca non nasceva dalla liquidazione della quota sociale, bensì dalla sua vendita per conto ed in danno del socio, eseguita solo dopo il fallimento, in forza di mandato rilasciato dal socio che non presupponeva lo scioglimento del rapporto sociale, ma solo l'inadempimento del socio; e che, per la L. Fall., art. 72, la banca non poteva più - dopo il fallimento del socio - vendere le azioni per conto di lui. Il debito della banca non nasceva pertanto dalla liquidazione della quota, ma quale provento della vendita autorizzata dallo stesso socio.
Per la cassazione della sentenza, notificata il 16 febbraio 2004, ricorre la banca con atto notificato il 15 aprile 2004, articolato in quattro mezzi d'impugnazione.
Il fallimento resiste con controricorso e ricorso incidentale condizionato, notificato il 20 maggio 2004. Ad esso la banca resiste con controricorso notificato il 25 giugno 2004.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Essendo stati i due ricorsi proposti contro la medesima sentenza, ricorrono i presupposti per la riunione, a norma dell'art. 335 c.p.c..
Con il primo motivo del ricorso principale si denunzia la violazione di diverse disposizioni del codice civile (artt. 2350, 2526, 2527, 2529, 1243 c.c. e ss.) e della L. Fall., art. 56. Censurando la decisione assunta dalla corte territoriale in consapevole contrasto con la giurisprudenza di legittimità, si richiama il principio per il quale la compensazione fallimentare richiede soltanto che il fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte si sia verificato in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, ancorché l'esigibilità e la liquidità richiesti per la compensazione sopravvengano ad essa. Di tale orientamento erano espressione le successive pronunce, specificamente riferibili alla fattispecie di causa (compensazione fallimentare con la liquidazione delle quote di società cooperativa a seguito dello scioglimento del rapporto sociale per fallimento del socio). La compensazione fallimentare, aggiunge la banca ricorrente, non è esclusa dalla circostanza che si tratti di compensazione giudiziale, se il fatto genetico del credito sia anteriore alla dichiarazione di fallimento. Le stesse esigenze poste a base della citata norma giustificano l'ammissibilità anche della compensazione giudiziale nel fallimento, perché operi la quale è necessario che i requisiti dell'art. 1243 c.c., ricorrano da ambedue i lati e sussistano al momento della pronuncia, quando la compensazione è eccepita.
La censura non è fondata. Essa si riallaccia ad un orientamento di questa corte, affermato dalle sezioni unite (16 novembre 1999 n. 775) e tuttora valido, per cui la disposizione contenuta nella L. Fall., art. 56, rappresenta una deroga al concorso, a favore dei soggetti che si trovino ad essere al contempo creditori e debitori del fallito, non rilevando il momento in cui l'effetto compensativo si produce e ferma restando solo l'esigenza dell'anteriorità del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte. Le successive pronunce delle sezioni semplici, movendo dalla considerazione che nel caso del credito del socio cooperatore alla liquidazione della quota sociale, conseguente all'esclusione di diritto per fallimento, il titolo è costituito da una disposizione statutaria anteriore al fallimento, avevano applicato il principio sopra ricordato anche a tali fattispecie. La successiva elaborazione giurisprudenziale (Cass. 12 ottobre 2004 n. 20269) ha tuttavia messo in luce la circostanza, decisiva, che il socio di una società cooperativa diviene titolare del diritto alla quota di liquidazione e del relativo credito soltanto allorché si verifica una causa di scioglimento del rapportai sociale e, anteriormente, vanta esclusivamente una mera aspettativa legata all'eventualità che, all'atto del verificarsi di detta causa, il patrimonio della società abbia una consistenza tale da permettere l'attribuzione pro quota di valori proporzionali alla sua partecipazione; pertanto, il credito relativo alla quota di liquidazione vantato dal socio escluso a seguito della dichiarazione di fallimento nasce - o almeno diviene certo - esclusivamente per effetto della dichiarazione di fallimento. Deve conseguentemente escludersi la sussistenza dei presupposti necessari perché detto credito sia compensabile, L. Fall., ex art. 56, con i contrapposti crediti vantati dalla società nei suoi confronti. Questo insegnamento è stato poi condiviso dalle sezioni unite (23 ottobre 2006 n. 22659). L'impugnata sentenza, pertanto, ha anticipato un orientamento oggi condiviso dalla corte, e non merita censura.
Con il secondo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., art. 2697 c.c.. Si censura l'affermazione della corte territoriale, che nella fattispecie il debito della banca non nasceva dalla liquidazione della quota, bensì dalla vendita della quota in danno del socio eseguito dopo il fallimento di lui, e che ciò aveva la sua importanza perché i criteri della liquidazione della quota (commisurata per l'art. 2529 c.c., all'ultimo bilancio d'esercizio approvato) e del ricavo delle azioni (determinato dal prezzo di mercato al momento della vendita) sono diversi. Si deduce che oggetto della controversia era stato sempre ed esclusivamente la sussistenza dei presupposti per la compensazione e mai la determinazione dell'ammontare del debito della banca, sicché con l'affermazione censurata la corte territoriale aveva messo in discussione un punto che tra le parti non era controverso, incorrendo nella denunciata violazione dell'art. 2529 c.c..
Con il terzo motivo di ricorso, denunziandosi la violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 c.c. e segg., e dei principi in tema di interpretazione delle norme statutarie, dell'art. 1252 c.c., (compensazione volontaria), dell'art. 1529 c.c., e della L. Fall., art. 72, si censura la medesima statuizione di cui al mezzo precedente. Si deduce che la corretta interpretazione delle norme statutarie contenute, oltre che nell'art. 20, altresì negli artt. 17 e art. 16 dello statuto della banca, configuravano un pactum de compensando del credito della banca con il suo debito derivante, a seconda dei casi, dall'alienazione delle azioni eseguita dalla banca in luogo e per conto del socio, o dell'acquisto o del rimborso delle azioni medesime da parte della società; che la norma contenuta nell'art. 2529 c.c. sulla liquidazione della quota del socio uscente ha carattere dispositivo e può essere derogata dagli statuti delle cooperativa; che il richiamo della L. Fall., art. 72, è inappropriato alla fattispecie, nella quale si trattava di dare attuazione ad un pactum de compensando, e che la validità dell'effetto da questo prodotto è riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità.
I due mezzi, da esaminare insieme nei limiti in cui si sottraggono alla censura di genericità, sono infondati. Generiche, persino nell'indicazione delle norme, e pertanto inammissibili, sono le doglianze di violazione di norme in materia d'interpretazione dei contratti. Quanto al resto è da premettere che l'argomentazione censurata della corte territoriale è strumentale alla conclusione che la banca non poteva, a norma della L. Fall., art. 72, vendere le azioni, e perciò neppure trattenerne il ricavato per compensazione. A sostegno del mezzo d'impugnazione, la ricorrente si richiama alla giurisprudenza di questa corte, che ha ripetutamente affermato il principio per il quale, ai fini della revocatoria fallimentare, l'estinzione per effetto del pactum de compensando, a differenza del pagamento rispetto al rapporto che ne costituisce la causa, non può considerarsi atto giuridico distinto rispetto all'accordo che lo prevede, ne' di conseguenza è autonomamente revocabile, seguendo automaticamente tale accordo che solo può essere revocato, se ricorrono le condizioni di cui alla L. Fall., art. 67, comma 2, (v. per tutte 10 febbraio 2006 n. 2973).
Ma questa giurisprudenza, occupandosi delle condizioni di revocabilità, sia dei pagamenti e sia degli effetti estintivi derivanti dal pactum de compensando, non è pertinente al caso in esame. Nella fattispecie di causa, infatti, la vendita delle azioni del socio è avvenuta dopo la dichiarazione di fallimento, e di conseguenza anche l'effetto estintivo derivante dall'applicazione del pactum de compensando sarebbe posteriore ad essa. Ciò esclude che per la curatela si ponesse la necessità di esperire un'azione revocatoria, diretta a caducare l'efficacia dell'effetto estintivo del patto nei confronti del fallimento. In conseguenza di ciò, nella presente controversia non è stata proposta alcuna azione revocatoria (a favore della curatela giova infatti la previsione generale-, della L. Fall., art. 44, circa i pagamenti ricevuti dal fallito). In conclusione, la posteriorità della supposta compensazione al fallimento escludeva la necessità di revocarla, stante la sua inopponibilità alla massa, salva la ricorrenza dei presupposti indicati dall'unica norma che la consentirebbe, vale a dire appunto dalla L. Fall., art. 56, peraltro inapplicabile per le ragioni esposte a proposito del primo mezzo di ricorso.
Con il quarto mezzo d'impugnazione si denuncia la violazione o falsa applicazione dell'art. 2784 c.c., L. Fall., art. 53, e art. 67, comma 1, nn. 3 e 4. Premesso che il pactum de compensando non può essere qualificato come mandato con funzione di garanzia atipica, assimilabile al pegno, come affermato dalla corte territoriale, si deduce che in ogni caso si sarebbe trattato di pegno per debiti scaduti, qual è quello derivante dal conto corrente scoperto intrattenuto con la banca; che conseguentemente il pegno poteva essere revocato solo se costituito entro l'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento a norma della L. Fall., art. 67, comma 1, n. 4, laddove nella fattispecie il pegno sarebbe stato costituito fuori di quel periodo, e che, se si volesse far riferimento, con la curatela, al n. 3, della disposizione da ultimo citata, difetterebbe il requisito soggettivo della revocatoria fallimentare. Una volta esclusa la revocabilità del pegno, questo rimarrebbe opponibile al fallimento, e la L. Fall., art. 53, comporterebbe solo l'obbligo della banca di consegnare al curatore il ricavo, che non comporterebbe però la perdita della prelazione.
Il mezzo è infondato. La corte territoriale non ha basato la sua decisione sull'esclusione di un diritto di prelazione derivante da un titolo non revocato, perché non era questo il titolo sul quale si basava la difesa della banca (donde l'inconsistenza della discussione sulla irrevocabilità del supposto pegno), mai sull'inapplicabilità della compensazione fallimentare per l'estinzione del debito della banca. Secondo l'impugnata sentenza, quel debito nasceva dalla vendita della quota sociale per conto ed in danno del socio, eseguita in forza di mandato rilasciato dal socio che non presupponeva lo scioglimento del rapporto sociale, ma solo l'inadempimento del socio. La corte territoriale ha quindi affermato che, per la L. Fall., art. 72, la banca non poteva più - dopo il fallimento del socio - vendere le azioni per conto di lui; e che il debito della banca costituiva un provento che doveva essere restituito alla massa: conclusione, quest'ultima, legittima ed immune da censure. Il ricorso principale, pertanto, deve essere rigettato.
Il ricorso incidentale, con il quale sono riproposte tutte le domande sulle quali la corte d'appello non ha pronunciato, ritenendole assorbite (inefficacia e revoca del patto di compensazione L. Fall., ex art. 67, comma 1, n. 2; revoca del pegno ex art. 67, comma 1, n. 3, a garanzia di debito preesistente per esposizione sul conto corrente, perché costituito nei due anni anteriori al fallimento) è inammissibile, vertendo esclusivamente su questioni che avrebbero potuto costituire oggetto di esame da parte del giudice del rinvio solo in caso di accoglimento del ricorso principale, e non contenendo alcuna censura all'impugnata sentenza.
Le spese sono a carico della Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio s.coop. a r.l., prevalentemente soccombente, e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.100,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema Cassazione, il 16 maggio 2008. Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2008