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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6525 - pubb. 01/08/2010.

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Cassazione civile, sez. I, 06 Giugno 2000, n. 7554. Est. Ferro.

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Società e consorzi - Società con soci a responsabilità limitata - In genere - Clausola statutaria contemplante la necessità del consenso di tutti i soci per determinati atti di amministrazione - Nullità - Fondamento - Fattispecie.


È nulla la clausola dell'atto costitutivo di una società in accomandita semplice, la quale preveda la necessità del consenso scritto di tutti i soci per una determinata serie di atti, in violazione dell'articolo 2320 cod.civ., che istituisce una necessaria correlazione tra potere economico e rischio economico nell'interesse non solo dei soci e dei creditori ma, in generale, di un responsabile esercizio dell'attività d'impresa (il testo della clausola era il seguente: "L'uso della firma sociale e la legale rappresentanza della società di fronte ai terzi e in giudizio spettano al socio accomandatario ... Egli può compiere tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale ... ad eccezione dei seguenti atti: a) nomina e revoca di procuratori della società per i quali occorre il consenso scritto di tutti i soci; b) acquisto, permuta di beni immobili, stipulazione di contratti di locazione di immobili per durata ultranovennale, costituzione di diritti reali su beni immobili, determinazione dei prezzi di vendita dei beni immobili, stipulazione di contratti di appalto, rilascio di avalli e fideiussioni in nome della società a favore di terzi, per tutti i quali occorre la firma congiunta del socio accomandatario e di un procuratore della società ovvero - in mancanza del medesimo - il preventivo consenso scritto di tutti i soci"). (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giovanni OLLA - Presidente -
Dott. Vincenzo FERRO - Rel. Consigliere -
Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI - Consigliere -
Dott. Antonio GISOTTI - Consigliere -
Dott. Walter CELENTANO - Consigliere -
ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
NALLI GIUSEPPE, PITTATORE ESTER, elettivamente domiciliati in ROMA VIA ANGELO BROFFERIO 3, presso l'avvocato CARBONE ANTONIO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato SCIALUGA ROBERTO, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrenti -
contro
S.M.A.V. SOCIETÀ MAGAZZINI ASSOCIATI VALLECROSIA SpA, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA VIA OSLAVIA 14, presso l'avvocato DIECI UMBERTO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato FLORINO LUCIO, giusta mandato a margine del controricorso;
- controricorrente -
contro
FALLIMENTO IMMOBILIARE BELLAVISTA Sas DI MARCHESI VALERIO & C., FALLIMENTO NALLI GIUSEPPE, FALLIMENTO PITTATORE ESTER, VIBERTI CANDIDO, BELLANCINO MARIA LUIGIA;
- intimati -
e sul 2° ricorso n° 04612/98 proposto da:
FALLIMENTO IMMOBILIARE BELLAVISTA Sas DI MARCHESI VALERIO & C., FALLIMENTO NALLI GIUSEPPE, FALLIMENTO PITTATORE ESTER, in persona del Curatore pro-tempore elettivamente domiciliati in ROMA VIA TACITO 23, presso l'avvocato DEL BUFALO LAURA, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato MORONI ROBERTO, giusta delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
NALLI GIUSEPPE, PITTATORE ESTER;
- intimati -
e sul 3° ricorso n° 03484/98 proposto da:
VIBERTI CANDIDO, BELLANCINO MARIA LUIGIA, elettivamente domiciliati in ROMA VIA MONTI PARIOLI 12, presso l'avvocato IANNOTTA GREGORIO, che li rappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrenti e ricorrenti incidentali -
contro
S.M.A.V. SOCIETÀ MAGAZZINI ASSOCIATI VALLECROSIA SpA, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA VIA OSLAVIA 14, presso l'avvocato DIECI UMBERTO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato FLORINO LUCIO, giusta mandato a margine del controricorso;
- controricorrente al ricorso incidentale -
e FALLIMENTO IMMOBILIARE BELLAVISTA S.a.s. DI VALERIO MARCHESI & C., FALLIMENTO DI MARCHESE GIUSEPPE SERGIO, FALLIMENTO NALLI GIUSEPPE, FALLIMENTO PITTATORE ESTER, FALLIMENTO DI CARLONE ERNESTO, FALLIMENTO PENZO ROMANO, FALLIMENTO BOTTERO SILVIO, FALLIMENTO CHIOSSI GIANCARLO, FALLIMENTO VIBERTI CLAUDIO, FALLIMENTO BELLANCINO MARIA LUIGIA, NALLI GIUSEPPE, PITTATORE ESTER, CARLONE ERNESTO;
- intimati -
e sul 4° ricorso n° 04614/98 proposto da:
FALLIMENTO IMMOBILIARE BELLAVISTA Sas DI MARCHESI VALERIO & C., FALLIMENTO VIBERTI CANDIDO, FALLIMENTO BELLANCINO MARIA LUIGIA, FALLIMENTO NALLI GIUSEPPE, FALLIMENTO PITTATORE ESTER, FALLIMENTO MARCHESI GIUSEPPE SERGIO, FALLIMENTO CARLONE ERNESTO, FALLIMENTO PENZO ROMANO, FALLIMENTO BOTTERO SILVIO, FALLIMENTO CHIOSSI GIANCARLO, in persona del loro Curatore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA TACITO 23, l'avvocato DEL BUFALO LAURA, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato MORONI ROBERTO, giusta delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrenti e ricorrenti incidentali -
contro
VIBERTI CANDIDO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MONTI PARIOLI 12, rappresentato e difeso dall'avvocato IANNOTTA GREGORIO, giusta delega a margine del controricorso;
- controricorrente -
contro
BELLANCINO MARIA LUIGIA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA MONTI PARIOLI 12, presso l'avvocato IANNOTTA GREGORIO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso;
- controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 81/97 della Corte d'Appello di GENOVA, depositata il 04/03/97;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/01/2000 dal Consigliere Dott. Vincenzo FERRO;
udito per il resistente, SMAV, l'Avvocato Florino, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi n. R.G. 3209/98 e n. R.G. 3484/98;
udito per i resistenti e ricorrenti incidentali, Nalli ed altri, l'Avvocato Stella Richter, con delega, che ha chiesto l'accoglimento del primo ricorso;
udito per i resistenti e ricorrenti incidentali, Viberti ed altri, l'Avvocato Iannotta, che ha chiesto l'accoglimento del proprio ricorso ed il rigetto del ricorso del Fallimento;
udito, per il resistente e ricorrente incidentale, Fallimento Bellavista, l'Avvocato Del Bufalo, con delega, che ha chiesto lo accoglimento dei propri ricorsi ed il rigetto dei ricorsi principali;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo NARDI che ha concluso, previa riunione, per il rigetto dei ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza 25 giugno 1986 il Tribunale di Sanremo ha dichiarato il fallimento della società Immobiliare Bellavista s.a.s. di Marchesi Valerio e C. nonché il fallimento personale del socio accomandatario Marchesi Valerio. Successivamente, con sentenza 11 novembre 1992, in accoglimento dell'istanza in tal senso presentata dalla società SMAV Società Magazzini Associati Vallecrosia s.p.a., il Tribunale di Sanremo ha dichiarato il fallimento personale dei soci accomandanti Marchesi Giuseppe Sergio, Viberti Candido, Bellancino Maria Luigia, Nalli Giuseppe, Pittatore Ester, Carlone Ernesto, Penzo Romano, Bottero Silvio, Chiossi Giancarlo. 2. Con atti notificati al curatore fallimentare e alla SMAV in data 2-3-4-5 dicembre 1992 Bottero Silvio, Chiossi Giancarlo, Viberti Candido, Nalli Giuseppe, Pittatore Ester, Carlone Ernesto, Bellancino Maria Luigia (in proprio e quale erede di Penzo Romano deceduto) hanno proposto opposizione alla dichiarazione dei rispettivi fallimenti personali, chiedendone la revoca e chiedendo altresì la condanna della SMAV al risarcimento dei danni. Si sono costituiti in giudizio il curatore e la SMAV, insistendo per la reiezione dell'opposizione e chiedendo, in via subordinata riconvenzionale, la declaratoria della natura giuridica di società in nome collettivo della Immobiliare Bellavista, se del caso previo accertamento della simulazione, in questa parte, dell'atto costitutivo della società, con la conseguente dichiarazione a tale titolo del fallimento di tutti i soci. È intervenuta adesivamente nel giudizio Penzo Marina in qualità di coerede di Penzo Romano. Con sentenza 3 dicembre 1993/9 gennaio 1994 n. 8 il Tribunale di Sanremo ha respinto le opposizioni condannando gli opponenti e l'intervenuta al rimborso delle spese processuali. 3. Avverso la sentenza del Tribunale hanno proposto appello principale Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia, instando per la revoca del fallimento nei loro personali confronti dichiarato. Costituendosi in giudizio davanti al consigliere istruttore Nalli Giuseppe, Pittatore Ester e Carlone Ernesto hanno proposto appello incidentale chiedendo a lor volta la revoca dei propri fallimenti personali e la condanna della SMAV al risarcimento dei danni. Si è costituito il curatore dei fallimenti citati il quale ha insistito per il rigetto della domanda di revoca, riproponendo in via di appello incidentale la domanda per la dichiarazione della società Bellavista quale società in nome collettivo. Si è costituita anche la SMAV per resistere alle impugnazioni proposte dai falliti e chiedere il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96 C.P.C. La Corte di appello di Genova, con sentenza 29 novembre 1996/4 marzo 1997 n. 81, ha dato atto anzitutto del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nei confronti di Chiossi Giancarlo, di Bottero Silvio e di Marina Penzo; e nel merito così ha deciso:
"rigetta gli appelli principali e incidentali proposti rispettivamente da Candido Viberti e da Maria Luigia Bellancino nonché da Nalli Giuseppe, Pittatore Ester e Carlone Ernesto. Rigetta altresì l'appello incidentale proposto dai fallimenti della Immobiliare Bellavista s.a.s., di Marchesi Giuseppe Giorgio, di Nalli Giuseppe, di Pittatore Ester, di Carlone Ernesto, di Penzo Romano, di Bottero Silvio, di Chiossi Giancarlo, di Viberti Candido e di Bellancino Maria Luigia; conferma, pertanto, la sentenza 3-12-1993/9-1-1994 n. 8 del Tribunale di Sanremo; condanna in solido gli appellanti Viberti Candido, Bellancino Maria Luigia, Nalli Giuseppe, Pittatore Ester, Carlone Ernesto al pagamento delle spese del giudizio di appello in favore della SMAV.nonché in favore dei fallimenti." A fondamento di tale decisione la Corte territoriale ha posto: la dichiarazione della nullità della clausola n. 7 dell'atto costitutivo della Immobiliare Bellavista s.a.s. avente il seguente tenore: "L'uso della firma sociale e la legale rappresentanza della società di fronte ai terzi e in giudizio spettano al socio accomandatario Marchesi Valerio. Egli può compiere tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale.....ad eccezione dei seguenti atti: a) nomina e revoca di procuratori della società per i quali occorre il consenso scritto di tutti i soci; b) acquisto, permuta di beni immobili, stipulazione di contratti di locazione di immobili per durata ultranovennale, costituzione di diritti reali su beni immobili, determinazione dei prezzi di vendita dei beni immobili, stipulazione di contratti di appalto, rilascio di avalli e fideiussioni in nome della società favore di terzi, per tutti i quali occorre la firma congiunta del socio accomandatario e di un procuratore della società ovvero -in mancanza del medesimo- il preventivo consenso scritto di tutti i soci"; e l'individuazione, quale manifestazione di immistione concretamente rilevante, dell' "atto di consenso" del 18 gennaio 1982 col quale tutti i soci "ai sensi dell'art. 7 lettera b) dell'atto costitutivo conferiscono con la presente formale consenso perché il socio accomandatario Marchesi Valerio stipuli gli atti di vendita degli alloggi di proprietà della società ai prezzi determinati preventivamente di comune accordo". 4. La sentenza della Corte di Genova viene impugnata: da Nalli Giuseppe e Pittatore Ester con ricorso principale proposto contro la S.M.A.V. Società Magazzini Associati Vallecrosia s.p.a., contro il Fallimento della Immobiliare Bellavista s.a.s. e contro i Fallimenti personali dei soci, e nei confronti di Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia; da Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia con autonomo successivo ricorso (che si qualifica pertanto formalmente come incidentale) proposto contro il Fallimento della Immobiliare Bellavista s. a. s. e i Fallimenti dei soci, contro la S.M.A.V. s.p.a., e nei confronti di Nalli Giuseppe, di Pittatore Ester e di Carlone Ernesto. La Curatela fallimentare resiste, sia al ricorso di Nalli Giuseppe e Pittatore Ester sia al ricorso di Viberti Candido e di Bellancino Maria Luigia, con distinti controricorsi, proponendo nell'una e nell'altra sede ricorsi incidentali. La S.M.A.V. s.p.a. resiste, con propri controricorsi, al ricorso di Nalli Giuseppe e Pittatore Ester e al ricorso di Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia. Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia resistono con controricorso al ricorso incidentale della Curatela. Tutte le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Del ricorso principale e dei ricorsi incidentali, come sopra proposti, deve essere disposta la riunione a norma dell'art. 335 C.P.C.
2.1. Il Tribunale di Sanremo era pervenuto al riconoscimento della rispondenza alla realtà giuridica della qualificazione della Immobiliare Bellavista alla stregua di società in accomandita semplice (e non di società in nome collettivo), peraltro ritenendo illegittima, a fronte del disposto inderogabile dell'art. 2320 secondo comma C.C., la clausola n. 7 dell'atto costitutivo della quale è stato riferito, nella esposizione che precede, il testuale tenore.
2.2. La Corte territoriale ha escluso la ravvisabilità, in tale ricostruzione, degli estremi di contraddittorietà denunciati nel primo motivo di appello comune a tutti gli accomandanti impugnanti, affermando, in termini generali, la possibile esistenza di una società che, pur non configurantesi come vera e propria società collettiva accompagnata dal patto di limitazione interna della responsabilità di alcuni soci, ma rispondente alla struttura della accomandita semplice, preveda tuttavia, in difformità dalle previsioni di cui all'art. 2320 primo e secondo comma C.C., una sostanziale ingerenza dei soci accomandanti nell'amministrazione della società che, a norma dell'art. 2318 comma secondo C.C. è riservata ai soci accomandatari. E la Corte di merito ha affermato la riconducibilità appunto a questa seconda ipotesi della fattispecie in esame, rilevando che "tramite la nomina di un procuratore o tramite un diretto intervento in una vastissima categoria di operazioni sociali gli accomandanti con la clausola 7 hanno inteso limitare la facoltà di autodeterminazione del socio accomandatario nelle attività e nelle scelte afferenti praticamente ogni profilo dell'oggetto sociale e condizionare il suo operato alla sistematica previsione di un potere di assenso da essi esercitabile", dando atto tuttavia della non totale coincidenza tra poteri di controllo dei soci accomandanti e poteri di gestione dell'accomandatario amministratore, e perciò della inidoneità della clausola a snaturare il contenuto del rapporto sociale rispetto a quello rispondente al nomen juris ad esso attribuito dalle parti, e ritenendo quindi non accoglibile la tesi -che sarebbe risultata pregiudiziale e assorbente- della qualificazione giuridica della società Bellavista alla stregua di società in nome collettivo. 2.3. Ha rilevato, invece, e ha dichiarato la nullità della clausola n. 7 in quanto confliggente col disposto dell'art. 2320 C.C.. E, procedendo a verificare la sussistenza o meno di avvenuta ingerenza dei soci accomandanti nell'amministrazione della società, ha dato a tale quesito risposta affermativa con riferimento all'atto di consenso 18 gennaio 1982 (del quale pure è stato sopra riferito il contenuto), osservando in particolare: che è stata con ciò "sancita, come regola interna di un singolo affare concreto, senza alcuna valida giustificazione per la nullità della clausola 7 dell'atto costitutivo, la continua interferenza dei soci accomandanti in un tipico atto di amministrazione come la determinazione di prezzi di vendita"; che "quindi, senza che rilevi la materiale vendita dei singoli immobili, il comportamento dell'amministratore è assoggettato nel concreto dell'azione amministrativa all'ingerenza dei soci accomandanti." Di qui il conclusivo riconoscimento della responsabilità illimitata dei soci appellanti e degli estremi per la dichiarazione del fallimento personale di ciascuno di essi. 3. Il ricorso proposto da Nalli Giuseppe e Pittatore Ester si affida alla deduzione di quattro motivi i quali nel loro insieme investono la ratio decidendi della Corte ligure in ordine alla ritenuta applicabilità dell'art. 2320 C.C. in entrambi i profili della sua correlazione con la problematica relativa alla clausola statutaria e con quella concernente l'atto 18 gennaio 1982.
3.1. Nel primo motivo si deduce "violazione e falsa applicazione degli art. 1418 e 2320 C.C. (in relazione all'art. 360 n. 3 C.P.C.);
insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia (in relazione all'art. 360 n. 5 C.P.C.)", in ordine all'affermazione della nullità della clausola n. 7 che si assume essere erronea in quanto non coerente con i principi che regolano i poteri dei soci nella società in accomandita semplice. Si sostiene, in particolare:
che la clausola in esame non contiene la previsione esclusiva della necessità del consenso scritto di tutti i soci per una determinata serie di atti, ma contempla anzitutto la necessità della firma congiunta dell'accomandatario amministratore e di un procuratore della società, e soltanto in mancanza di ciò, richiede il preventivo consenso scritto di tutti i soci; e che, pur essendo numerosi e rilevanti gli atti sottratti alla mera discrezionalità del socio accomandatario, essi sono da un lato ben circoscritti e determinati, dall'altro non esauriscono i poteri e l'attività
dell'amministratore, in quanto molti altri atti gestionali (indicati esemplificativamente dai ricorrenti) rimangono esclusi dalla operatività della clausola. La tesi critica dei ricorrenti appare priva di fondamento. Osservasi anzitutto che non rileva il non completo assorbimento dell'attività gestionale nella sfera di materie subordinata al consenso degli accomandanti; la mancanza di una totale coincidenza in tal senso è stata percepita dalla Corte di merito, ed è stata infatti posta a fondamento della reiezione della domanda di riqualificazione della società; ma la stessa totale coincidenza non si pone come condizione dell'operatività dell'art. 2320 C.C. nella parte in cui dispone che gli accomandanti "non possono compiere atti di amministrazione ne' trattare o concludere affari in nome della società" a pena di assunzione di
"responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali"; posto dunque che la individuazione di un residuo ambito di funzioni riservate all'accomandatario amministratore non osta in se stessa all'applicazione della norma in esame, resta attribuito alla valutazione concreta da compiersi dal giudice del merito l'accertamento della legittimità o meno della clausola in questione in base al contenuto di essa: e tale accertamento si sottrae a sindacato in sede di legittimità, alle consuete condizioni di rispondenza a corretti principi di diritto e di adeguatezza motivazionale, che nella sentenza della Corte ligure risultano rispettate mediante l'affermazione che le attribuzioni contemplate dalla clausola, per la loro molteplicità e per la loro diretta incidenza sulla realizzazione dell'oggetto sociale, e per la loro portata economica, integrano "una invadenza diretta o indiretta su tutti i principali fatti di gestione societaria, di tale estensione e generale portata da privare di ogni effettiva autonomia l'amministratore sociale". Ed osservasi che l'argomentazione del giudice del merito non può ricevere in se stessa smentita dalla alternativa previsione dell'intervento del procuratore e di quello degli amministratori (l'uno e l'altro determinanti nella formazione della volontà gestionale) dappoiché, essendo anche la nomina del procuratore proveniente dagli accomandanti, a questi risulta in definitiva rimessa la scelta tra l'una e l'altra (diretta o indiretta) forma di intervento.
Complessivamente considerata in raffronto ad una imprescindibile esigenza di interpretazione teleologica, la ratio decidendi della Corte ligure sul punto, appare coerente con la individuazione, emergente dalla migliore dottrina, della ragione di essere della norma codicistica non solo nell'interesse dei soci (a che la gestione della società sia affidata a chi, in quanto esposto a illimitato rischio, offra idonea garanzia di oculata gestione) e non solo nell'interesse dei creditori (indotti a fare affidamento sul personale coinvolgimento del socio che agisca per la società), ma anche e soprattutto nell'interesse a un responsabile esercizio dell'attività d'impresa, in vista di una più generale esigenza del sistema economico: tale interesse la legge tutela, anche quando gli interessi particolari di soci e dei creditori non vengano in considerazione, mediante l'istituzione di una necessaria correlazione -o per così dire, di una corrispettività- tra potere economico e rischio economico, del quale impedisce l'elusione che potrebbe verificarsi attraverso l'utilizzazione distorta della duplicità di categorie di soci che contraddistingue l'accomandita. E non pertinentemente viene invocata dai ricorrenti Cass. 9659/1997 ove si rileva che il secondo comma dell'art. 2320 C.C. consente la previsione dell'autorizzazione scritta del socio accomandante per determinate categorie specifiche di operazioni concrete e si precisa, peraltro, che in base a tale criterio non può ritenersi consentito demandare statutariamente agli accomandanti "categorie generiche sotto le quali possono essere sussunte le più svariate operazioni".
3.2. Il secondo motivo dello stesso ricorso ha ad oggetto denuncia di contraddittorietà nella motivazione relativa all'applicazione dell'art. 2320 C.C.. I ricorrenti, pur riconoscendo espressamente la possibilità della disapplicazione da parte del giudice dell'atto nullo, sostengono che la nullità, dichiarata con la sentenza, non può incidere sull'attività giuridica precedentemente posta in essere da chi riteneva in buona fede la validità della clausola (specificamente: la sottoscrizione dell'atto di consenso 18 gennaio 1982), non potendosi a tal fine prescindere dalla situazione soggettiva di coloro che agirono. Si osserva, in proposito, che mentre assume decisivo rilievo nella ratio decidendi della impugnata sentenza il riconoscimento della illegittimità della clausola statutaria n. 7 discendente dall'insanabile conflitto in cui essa si pone rispetto al divieto di atti di immistione così come configurato dalla norma codicistica, e quindi della sua improduttività di effetto derogatorio a tale divieto, la dichiarazione della nullità della clausola stessa, alla quale la Corte ligure ha acceduto in via officiosa nell'esercizio del potere conferito al giudice dall'art. 1421 C.C., costituisce un quid pluris che si colloca al di fuori delle necessarie premesse dell'ulteriore sviluppo motivazionale, anche perché alla espunzione dal contesto negoziale della clausola contra legem non potrebbe non conseguire il recepimento della disciplina legale nella sua totale dimensione. Il significato essenziale dell'affermazione della illegittimità della clausola - inequivocabilmente emergente dalla motivazione della denunciata sentenza- consiste nella impossibilità di dilatare, in applicazione della stessa, i limiti posti dall'art. 2320 C.C. alla ingerenza degli accomandanti nell'amministrazione della società, e quindi nell'esigenza di assumere, quale termine di comparazione dell'attività in concreto svolta dagli accomandanti, non già la sfera di attribuzioni ad essi riservata dalla clausola statutaria in discussione, ma la integrale previsione codicistica, assunta nel senso e nei limiti di cui alla esplicazione interpretativa che ne è stata data nel paragrafo precedente. Di ciò mostra di essere ben consapevole la Corte di merito, quando individua il nesso logico tra la prima e la seconda parte della motivazione nella necessità di verificare, sulla base delle poste premesse, se un atto di immistione siasi in concreto realizzato. E poiché non viene, quindi, valorizzata -ma resta anzi non rilevante ai fini del decidere- una ipotetica incidenza retroattiva della dichiarazione di nullità di un dato negoziale al quale risulti conforme una pregressa concreta manifestazione di condotta, la censura di cui al secondo motivo in esame appare non pertinentemente formulata.
3.3. Nel terzo motivo i ricorrenti Nalli e Pittatore prospettano "insufficiente motivazione concernente l'interpretazione dell'atto 18 gennaio 1982. Si assume che l'atto non rappresenta, come ha ritenuto la Corte, la continua interferenza dei soci accomandanti in un tipico atto di amministrazione come la determinazione dei prezzi di vendita, ma costituisce solo "un atto di esecuzione di una clausola statutaria senza del quale la società avrebbe potuto trovarsi in difficoltà per la vendita, messa in atto quindi per una necessità meramente formale" e che il suo contenuto non è tale da costituire un reale atto di gestione, in quanto predisposto dal socio accomandatario, rispondente alla clausola n. 7, e generico nel riferimento alla determinazione di prezzi. Ora, premesso che la valutazione della portata di qualsivoglia estrinsecazione di attività giuridica da parte degli accomandanti, ai fini della verifica della sussistenza o meno in essa di estremi di indebita ingerenza nella gestione societaria, appartiene al giudice del merito -e si sottrae quindi a sindacato in sede di legittimità nel suo contenuto di opinione, se ed in quanto questo risulti adeguatamente motivato in termini rispondenti alle esigenze della logica e della corretta applicazione di principi giuridici- è sufficiente rilevare, in relazione alla censura prospettata, quanto segue. L'essere stato posto in essere l'atto di cui si discute in conformità alla clausola statutaria risulta ormai un dato privo di rilevanza, posta la ritenuta inidoneità -della quale in ciò si palesa la funzione essenziale nel contesto motivazionale- della clausola stessa ad attribuire crisma di legittimità ad un'attività la cui pretesa legittimità non resista, invece, alla prova del raffronto col disposto dell'art. 2320 C.C. Non rileva, poi, la eventuale predisposizione del contenuto dell'atto da parte dell'accomandatario, che rientrerebbe nei limiti della normalità di fatto e, in quanto meramente propedeutica, non escluderebbe la preponderanza, sul piano della formazione della volontà riferibile all'ente societario, della determinazione assunta e manifestata dagli accomandanti nella dichiarata consapevolezza e con la espressa finalità di porre in essere il preventivo consenso richiesto necessario dalla clausola n. 7. Infine, la mancanza di specificità nella predeterminazione di prezzi non può, in linea logica, ritenersi dimostrativa di una autolimitazione del potere esercitato in quella sede dagli accomandanti, a favore dell'accomandatario, risultando tale lacuna colmata da un espresso rinvio ad altra successiva manifestazione del consenso collettivo degli accomandanti. Si rende così palese l'assenza, nelle argomentazioni dei ricorrenti, di apprezzabile significato critico a smentita del giudizio di merito formulato sul punto dalla Corte ligure. 3.4. Nel quarto motivo dello stesso ricorso viene prospettata, sotto ulteriore duplice profilo, violazione dell'art. 2320 C.C., e motivazione insufficiente e contraddittoria.
3.4.1. Secondo i ricorrenti, avendo la Corte di merito escluso l'idoneità della clausola n. 7 a snaturare la società in accomandita e a trasformarla in una società collettiva (nel qual caso la responsabilità dei soci sussisterebbe indipendentemente dalla qualificazione loro attribuita nell'atto costitutivo e senza bisogno della verifica in concreto dell'avvenuta ingerenza), sarebbe illogico e contraddittorio ritenere che la pattuizione dichiarata nulla possa modificare il regime della responsabilità di soci: al rilievo della nullità della clausola dovrebbe seguire la constatazione della idoneità di essa a condurre all'assoggettamento dei soci al fallimento. È sufficiente richiamare in proposito le considerazioni già svolte (sub 3.2.) in ordine alla estraneità funzionale, alla organicità dello sviluppo motivazionale, della espressa pronuncia dichiarativa della nullità della clausola de qua:
l'applicabilità dell'art. 147 della legge fallimentare non deriva dalla nullità della clausola, ma dalla inidoneità di essa a precludere l'effetto della responsabilità prevista dall'art. 2320 C.C. in caso di ingerenza degli accomandanti nella gestione societaria, se ed in quanto di essa sussistano gli estremi; perciò la critica così formulata non appare rilevante in relazione alla logica intrinseca della ratio decidendi censurata. 3.4.2. Si sostiene, inoltre -nello stesso contesto del quarto motivo ma in via sostanzialmente complementare al terzo motivo- che l'atto di immistione non poteva essere ravvisato in un atto del quale non sono state accertate le concrete conseguenze, non essendo stata effettuata alcuna indagine al riguardo, e in virtù del quale, in realtà, nessun affare è stato concluso, onde tratterebbesi di un atto privo di rilevanza. Anche sotto questo profilo, l'assunto dei ricorrenti va disatteso. L'interpretazione teleologica del dato normativo, alla luce della considerazione della natura dell'interesse ad essa sotteso, conduce la giurisprudenza ad affermare -con orientamento costante, confortato dalla dottrina pressoché unanime- che il divieto di ingerenza investe anche gli atti in se stessi non produttivi di effetti esterni, sempre che essi attingano -alla luce della valutazione concreta del loro contenuto- la soglia della lesione del ricordato criterio di correttezza della gestione sociale in conformità alla tipologia societaria. Perciò l'accomandante decade dalla limitazione di responsabilità anche se compie soltanto atti di gestione interna, senza concorrere alla estrinsecazione esterna della volontà dell'ente societario e senza entrare in rapporto con i terzi nella conclusione dell'affare. Vedansi, in argomento:
Cass. 4019/1994, nel senso che "il tenore della disposizione è tale che risultano compresi nel divieto sia gli atti di gestione interna sia quelli che hanno riflessi esterni" in quanto anche i primi costituiscono manifestazione di quella ingerenza che la legge considera, con valutazione a priori, "potenzialmente dannosa allo svolgimento della gestione sociale la quale è caratterizzata dalla posizione di preminenza dell'accomandatario"; e in senso conforme Cass. 4824/1986, Cass. 6085/1978. Nello stesso ordine di idee, va sottolineato -per quanto occorra- che ad integrare la condizione per il verificarsi della decadenza dal beneficio della limitazione di responsabilità è sufficiente il compimento di un solo atto e non si richiede una reiterazione di manifestazioni di ingerenza. 3.5. Riceve quindi reiezione, nel suo complesso, il ricorso di Nalli Giuseppe e Pittatore Ester.
4. Il ricorso proposto da Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia si articola in due complessi motivi, parzialmente sovrapponibili nel loro contenuto e nella loro rilevanza a quelli precedentemente esaminati, e a lor volta carenti, tutti, di fondamento giuridico. 4.1. Nel primo motivo i ricorrenti deducono "violazione e falsa applicazione degli art. 1362 e seguenti C.C. nonché dei principi che regolano l'interpretazione del contratto e in particolare, quindi, del principio che impone al giudice di valutare il dato letterale, di indagare sulla comune volontà delle parti, di interpretare il contratto alla luce dei principi di buona fede e di conservazione;
violazione e falsa applicazione dell'art. 2320 secondo comma C.C., nonché del principio che consente al socio accomandante, ove l'atto costitutivo lo preveda, di dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e di compiere atti di ispezione e di sorveglianza; violazione e falsa applicazione degli art. 1418 e 1419 C.C.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia." 4.1.1. Si ripropone, anzitutto, la tesi sostenuta in appello secondo cui dal tenore letterale, logico e sistematico dell'art. 7 dell'atto costitutivo emergerebbe che il consenso dei soci accomandanti non si poneva quale condizione di validità e di efficacia delle operazioni negoziali poste in essere dalla società ma rilevava nei soli rapporti interni, onde la mancanza di esso sarebbe stata fonte di responsabilità del socio accomandatario nei confronti degli accomandanti. L'assunto dei ricorrenti postula un presupposto di principio secondo cui gli atti di ingerenza inibiti agli accomandatari siano identificabili solo in quelli aventi riflessi esterni nei confronti dei terzi con esclusione di quelli dotati di rilevanza meramente interna. Ma è proprio tale presupposto che in se stesso si rivela erroneo, come si è precedentemente rilevato in sede di esame del quarto motivo del ricorso principale (sub 3.4.2.). Conviene precisare ulteriormente, a questo proposito, che occorre tenere distinte la tematica della responsabilità illimitata degli accomandanti da quella dell'esercizio di potere rappresentativo della società, perché alla disposizione dell'art. 2320 C.C. resta estranea la problematica relativa alle condizioni necessarie affinché l'attività dei soci risulti giuridicamente riferibile alla società e costitutiva di obblighi e di responsabilità della stessa verso i terzi. Nell'accomandita semplice "se i soci accomandanti perdono la limitazione di responsabilità, e sotto questo profilo vengono equiparati agli accomandatari, non per questo essi, a causa dell'intromissione nell'amministrazione (che può riguardare anche l'amministrazione interna) acquisiscono poteri di rappresentanza della società" (Cass. 5790/1997); e "il compimento di atti della gestione sociale da parte del socio accomandante, se pure determina la perdita della limitazione di responsabilità di detto socio, non comporta però la responsabilità della società per gli atti e i contratti posti i essere dal suddetto socio per conto di essa salva l'ipotesi di ratifica successiva" (Cass. 10447/1998). Nessun errore di diritto risulta quindi ravvisabile sotto il profilo suindicato nella denunciata sentenza.
4.1.2. Si assume essere stato violato dal giudice del merito il canone interpretativo che impone la ricerca della comune volontà delle parti per non essere stato tenuto conto del fatto che il preventivo consenso scritto dei soci era previsto solo per l'ipotesi in cui per il compimento di determinati atti fosse mancata la firma di un procuratore della società. È sufficiente richiamare, al riguardo, e ribadire quanto già osservato in precedenza nel senso che la citata previsione non si traduceva nella configurazione di una delimitazione delle attribuzioni degli accomandanti a favore di quelle dell'accomandatario, in quanto, a parte la genericità del riferimento, questo si risolveva in un rinvio alla necessità di un'altra condizione (la nomina del procuratore, appunto) rimessa nel suo venire in essere e nel suo venir meno, alla volontà degli accomandanti.
4.1.3. In applicazione del canone ermeneutico secondo cui nel dubbio le espressioni con più sensi devono essere intese nel senso più conveniente alla natura e all'oggetto del contratto, il riconoscimento della natura di società in accomandita semplice avrebbe dovuto -secondo i ricorrenti- condurre il giudice del merito a riconoscere anche la validità della clausola 7. E sarebbe contraddittoria la coesistenza dell'affermazione che la clausola 7 non impedisce la configurazione di un'accomandita con l'affermazione della invalidità della clausola per incompatibilità con la disciplina dell'accomandita. La prima delle riferite argomentazioni si palesa, da un lato, non pertinente rispetto alla ratio decidendi della Corte ligure, e, dall'altro, intrinsecamente illogica. Nella valutazione della clausola, il giudice del merito non ha incontrato alcun problema ermeneutico scaturente da una pluralità di significati contenutistici della stessa: ne' i ricorrenti pongono in evidenza alcuna prospettabile alternativa semantica che esigesse di essere sciolta in sede interpretativa.
Nè è dato comprendere per quale ragione il criterio della congruenza con la natura del negozio avrebbe dovuto condurre l'interprete, sulla base della riconosciuta natura di società in accomandita semplice, a privilegiare una soluzione confliggente con la disciplina dettata dal legislatore per tale tipo di società. Quanto alla seconda argomentazione, osservasi che non sussiste la prospettata contraddittorietà nella motivazione in cui la reiezione della tesi -come si è detto, pregiudiziale- dell'avvenuto snaturamento e della necessaria riqualificazione giuridica della società costituisce la premessa logica della verifica (positivamente risolta) della illegittimità della clausola statutaria per incompatibilità con la disciplina legale dell'accomandita. La ratio decidendi della Corte di merito si palesa quindi, anche sotto tali aspetti, immune sia da errori di diritto sia da anomalie motivazionali.
4.1.4. Infine, la tesi dei ricorrenti secondo cui nella clausola 7, che prevedeva il consenso dei soci per categorie ben individuate di atti, si poteva e doveva vedere "una lecita, corretta e piana applicazione del principio di cui al secondo comma dell'art. 2320 C.C." riceve smentita dalle considerazioni precedentemente svolte, in sede di esame del ricorso principale, sub 3.1.
4.2. Articolata si presenta anche la formulazione del secondo motivo, avente ad oggetto "violazione e falsa applicazione degli art. 1362 e seguenti C.C. nonché dei principi e norme che disciplinano l'interpretazione dei negozi giuridici; violazione e falsa applicazione dell'art. 2320 C.C. e dei principi e norme che disciplinano la responsabilità dei soci accomandanti; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia".
4.2.1. Si dolgono i ricorrenti del fraintendimento del contenuto della scrittura 18 gennaio 1982 il quale costituirebbe solamente "l'estrinsecazione dell'assenso dei soci accomandanti alla vendita degli immobili della società previa determinazione di comune accordo dei prezzi di vendita" e quindi non un atto di amministrazione sovrapponentesi ai poteri dell'accomandatario ma un atto di gestione societaria del tutto corretto e compatibile con l'istituto della società in accomandita semplice e con la responsabilità degli accomandanti." La doglianza così formulata si palesa inammissibile nella presente sede di legittimità in quanto, mentre non aggiunge alcun argomento di critica almeno potenzialmente apprezzabile in relazione alle previsioni di cui all'art. 360 n. 3 e 5 C.P.C., si esaurisce nella prospettazione di una diversa valutazione del significato e della portata dell'atto ritenuta più adeguata di quella espressa dal giudice del merito.
4.2.2. I ricorrenti, premesso che l'atto di immistione deve avere contenuto concreto di gestione e di disposizione societaria e non può e non deve essere confuso con una determinazione di carattere generale, negano che tali requisiti possano ritenersi presenti nell'atto de quo. Premesso e ricordato, ancora una volta, che il giudizio della Corte di merito non può essere sindacato nel suo contenuto di valutazione dei fatti, osservasi che nessuna deviazione da corretti principi giuridici e nessuna carenza o incongruenza motivazionale appare ravvisabile nell'argomentazione in base alla quale la Corte medesima è pervenuta ad affermare nell'atto in questione -tenuto conto della natura di esso, dell'estensione del suo contenuto e dell'incidenza di esso sull'oggetto sociale- gli estremi della ingerenza inibita agli accomandanti in considerazione del condizionamento, che con esso si è attuato, della condotta dell'amministratore alla volontà degli accomandanti in una essenziale manifestazione dell'attività gestionale. Resta da rilevare, in questo ordine di idee, che il segnalato carattere di generalità della determinazione assunta dagli accomandanti, se ed in quanto non si risolva in indeterminatezza tale da rendere l'atto carente di rilevanza concreta, può venire invece legittimamente -e non illogicamente- assunto proprio come sintomo e misura del carattere particolarmente pesante dell'intervento degli accomandanti.
4.2.3. Assumono poi i ricorrenti che la violazione del divieto di immistione presuppone che l'accomandante interferisca nella sfera riservata dalla legge o dallo statuto agli accomandatari, che è la "sfera di gestione della società esterna e nei confronti dei terzi" mentre non è configurabile quando l'atto non afferisce alla sfera esterna ma si concreta in "una decisione in ordine alla sorte del patrimonio sociale". Nel caso di specie ci si troverebbe in presenza di una "decisione societaria di spettanza dell'assemblea e quindi dei soci". Il primo profilo di censura -a prescindere dalla oscurità del generico riferimento alla "sorte del patrimonio sociale"- si identifica nella sostanza con quello che è stato già disatteso in base alle considerazioni esposte (sub 3.4.2. e sub 4.1.1.) circa la irrilevanza della mancata proiezione sul piano esterno della indebita immistione degli accomandanti, alle quali nulla si ritiene di dover aggiungere in questa specifica sede. Resta, invece, da sottolineare la infondatezza del riferimento alla sfera di attribuzioni dell'assemblea, non essendo configurabile nelle società di persone tale istituto come sede e fonte di determinazioni espressive della volontà dell'ente societario (e come tali allo stesso riferibili nella loro rilevanza di fonte di rapporti giuridici), unitariamente considerata in base al principio della collegialità e funzionalmente differenziata rispetto a qualsivoglia manifestazione, anche di estrema semplicità sul piano formale, della volontà collettiva dei soci.
4.2.4. L'ultima argomentazione che si rinviene nel motivo in esame, con la quale si sostiene che "con l'atto 18 gennaio 1982 gli accomandanti si sono limitati a prendere atto che gli immobili costruiti potevano essere posti in vendita previa determinazione di comune accordo dei prezzi di vendita", onde l'atto stesso non integra una fattispecie di esplicazione di attività di amministrazione, risulta sostanzialmente ripetitiva di quella già esaminata sub 4.2.2., e non esige commento ulteriore rispetto alle osservazioni ivi esposte.
4.3. Anche il ricorso di Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia riceve così reiezione.
5. Il ricorso incidentale del Fallimento contro il ricorso di Nalli Giuseppe e Pittatore Ester, avente ad oggetto "violazione e falsa applicazione degli art. 1362 e seg., 1367, 2313 e seg., 2318, 2320, 2291 e seg., 2251 e seg. in relazione all'art. 2930 C.C., e vizio di motivazione omessa o contraddittoria" (per essere stato disatteso l'appello incidentale volto a sentir dichiarare che la clausola n. 7 aveva prodotto immutazione della natura giuridica del contratto societario rendendo la società una società in nome collettivo con conseguente responsabilità illimitata dei soci a norma degli art. 2291 e seg. C.C.) viene proposto, dichiaratamente, "per ogni diverso caso" diverso da quello, auspicato con il controricorso nel quale esso è inserito, della reiezione dell'impugnazione dei falliti, e in virtù di tale condizionamento risulta assorbito dal rigetto del ricorso principale.
6. Analoga situazione di assorbimento si verifica, per la stessa ragione, in ordine al ricorso incidentale proposto, in termini identici, dalla Curatela contro il ricorso di Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia.
P.Q.M.
la Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso proposto da Nalli Giuseppe e Pittatore Ester iscritto al n. 3209 R.G. 1998 e il ricorso proposto da Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia iscritto al n. 3484 R.G. 1998; dichiara assorbiti i ricorsi proposti dalla Curatela fallimentare iscritti al n. 4612 R.G. 1998 e al n. 4614 R.G. 1998; condanna Nalli Giuseppe, Pittatore Ester, Viberti Candido e Bellancino Maria Luigia, in solido tra loro, al rimborso, in favore della Curatela dei fallimenti e in favore della SMAV Società Magazzini Associati Vallecrosia s.p.a., delle spese del presente giudizio, che liquida in lire.675.000 per esborsi e lire 10.000.000 per onorari nei confronti della prima e lire.372.800 per esborsi e in lire 10.000.000 per onorari nei riguardi della seconda. Roma, 28 gennaio 2000.
Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2000.