ilcaso.it
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6475 - pubb. 01/08/2010.

.


Cassazione civile, sez. I, 26 Gennaio 1993. Est. Bibolini.

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Effetti - Sugli atti pregiudizievoli ai creditori - Azione revocatoria fallimentare - Atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie - In genere - Quote di una società collettiva - Alienazione da parte di un socio poi dichiarato fallito - Revocatoria fallimentare - Esperibilità - Effetti.


Nei confronti dell'atto di alienazione di quote di una società collettiva regolare da parte di un socio poi dichiarato fallito, è proponibile l'azione revocatoria fallimentare, comportando, con la inefficacia dell'atto di alienazione, la reintegrazione in favore della massa fallimentare nella posizione creditoria per il valore inerente alla quota, che, spettante al socio escluso di diritto dalla società in conseguenza del fallimento, va compresa nella massa attiva fallimentare a norma dell'art. 42 legge fallimentare. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Giuseppe SCANZANO Presidente
" Renato SGROI Consigliere
" Salvatore NARDINO "
" Giuseppe BORRÈ "
" Gian Carlo BIBOLINI Rel. "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto
da
BARBIERI ANDREA e ARDITI AURORA, con domicilio eletto in Roma, via A. Depretis n. 86, presso l'avv. Nicola Cavasola che, in concorso con l'Avv. Gian Franco Fontaine, li rappresenta e difende, per delega in calce al ricorso.
Ricorrente
contro
FALLIMENTO DI BARBIERI ALFONSO ed EREDI TONELLI S.D.F., in persona del curatore, elettivamente domiciliato in Roma, via Parioli, 41 presso lo studio dell'Avv. G. Intriglia dal quale è rappresentato e difeso, giusta delega a margine del controricorso ed autorizzazione del giudice delegato in data 26-2-1988.
Avverso la sentenza non definitiva della Corte di Appello di Bologna del 24-2-1987;
udita la relazione svolta dal cons. Gian Carlo Bibolini;
sentiti gli Avv.ti Bonsignori e Intriglia i quali hanno chiesto rispettivamente l'accoglimento ed il rigetto del ricorso;
udito il P.M. Dr. Domenico Iannelli che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 22-2-1982 il Tribunale di Bologna dichiarava il fallimento della s.d.f. "EREDI TONELLI ED ALFONSO BARBIERI", nonché il fallimento personale dei soci.
Rilevato che Alfonso Barbieri in data 14-5-1981 aveva ceduto al proprio fratello Andrea ed alla cognata Aurora Ardito la quota di 1-2 della società in nome collettivo "FRATELLI BARBIERI B.E.B." per il prezzo di L. 100.000.000 pagabile in 15 rate annuali senza interessi, il curatore conveniva davanti al Tribunale di Bologna i predetti signori Andrea Barbieri e Aurora Ardito perché fosse dichiarata inefficace nei confronti della massa fallimentare, a norma dell'art. 67 comma 1 N. 1 L.F., la cessione di quota sopra indicata, deducendo la sproporzione delle prestazioni dell'atto a titolo pregiudizio della massa.
I convenuti costituiti, pur contestando nel merito la sussistenza delle condizioni dell'ipotesi revocatoria proposta, preliminarmente eccepivano l'inammissibilità della domanda perché attinente ad un bene (per l'appunto la quota della società di persone regolare) non pignorabile ai sensi dell'art. 205 c.c. e non alienabile senza il consenso degli altri soci.
Il Tribunale di Bologna con sentenza 28-3-1985 dava accoglimento alla domanda rilevando, sulla questione preliminare, che l'esercizio dell'azione revocatoria, diretta a restaurare nella sua integrità la garanzia patrimoniale a favore della massa dei creditori, consentiva al curatore di subentrare nella posizione del fallito ed in tale senso la sua posizione non poteva essere equiparata a quella del creditore procedente con esecuzione singolare, deducendo la conseguenza che la pignorabilità, o no, della quota era questione che non poteva incidere sull'ammissibilità dell'azione revocatoria, alla quale restava estraneo l'aspetto esecutivo, concernente un momento cronologicamente e logicamente successivo. Sull'appello dei soccombenti, proposto con citazione notificata il 3-7-1985 con cui si sottoponevano a valutazione le stesse eccezioni sollevate in primo grado, la Corte d'Appello di Bologna, nel contraddittorio del convenuto fallimento, emetteva in data 24-2-1987 sentenza non definitiva concernente la soma questione preliminare indicata, dichiarando ammissibile l'azione revocatoria fallimentare proposta e disponeva l'ulteriore istruzione della controversia. In particolare la motivazione della Corte di merito aveva un indirizzo parzialmente diverso da quello del Tribunale il quale, come rilevato, aveva ritenuto ininfluenti le questioni sulla pignorabilità dei beni in ordine all'ammissibilità dell'azione revocatoria, in quanto ritenute inerenti ad una fase successiva rispetto alla proposizione della revocatoria.
In primo luogo la Corte territoriale individuava la posizione del fallimento rispetto ad una quota di società di persone regolare di cui fosse titolare il fallito al momento di apertura della procedura concorsuale, rilevando che, a norma dell'art. 2288 comma 1 c.c., la dichiarazione di fallimento di un socio di una società di persone ne produce l'esclusione di diritto dalla società stessa. Questa norma, espressamente prevista per la società semplice, è, per l'ipotesi del primo comma, applicabile anche alle società di persone regolari (a differenza di quella del secondo comma che, concernendo la posizione del creditore particolare del socio che abbia ottenuto la liquidazione della quota ex art. 2270 comma 2 c.c., non è operativa per la s.n.c. in virtù della specialità dell'art. 2305 c.c.). Da questa premessa deriverebbe che, per effetto dello scioglimento automatico del rapporto sociale rispetto al socio dichiarato fallito, i creditori particolari del socio (e quindi la curatela fallimentare) hanno diritto di ottenere la liquidazione della quota, e cioè la somma di denaro corrispondente al valore della stessa. Conseguentemente, rispetto al successivo fallimento, l'alienazione della quota da parte del debitore insolvente costituirebbe un atto volto a ridurre la garanzia patrimoniale verso i suoi creditori e si tradurrebbe in un pregiudizio per gli stessi con la conseguenza che, sussistendone i presupposti, diviene ammissibile l'azione revocatoria fallimentare, la cui funzione è individuata nell'inefficacia, rispetto alla massa dei creditori, di tutti gli atti del debitore che si risolvano in un pregiudizio della par condicio, alla cui attuazione si tende attraverso la procedura concorsuale. Veniva ritenuta, pertanto, non pertinente l'eccezione degli appellanti secondo cui, nella correlazione dell'art. 46 n. 5 L.F. e 2305 c.c., ed in considerazione dell'impignorabilità della quota per la durata della società, i creditori non avrebbero subito pregiudizio alcuno, e ciò in quanto la citata norma fallimentare dovrebbe essere interpretata restrittivamente con riferimento ai beni assolutamente impignorabili ex art. 514 c.p.c.
La revocatoria, invece, inserendosi nella procedura esecutiva concorsuale, può comportare la restituzione al fallimento del bene oggetto del negozio revocato, come effetto della vis executiva propria della procedura fallimentare, cui connettere l'effetto dell'art. 2288 comma 1 c.c., ovvero l'obbligo per il terzo acquirente di corrispondere al fallimento il valore attuale del bene alienatogli dal fallito.
A questo punto, però, la motivazione della Corte d'Appello ritornava nell'alveo dell'indirizzo già dato dal tribunale, affermando che la controversia concerne solo i presupposti dell'azione revocatoria proposta e che rispetto a tale limitato accertamento, sull'interesse ad agire della curatela fallimentare non si pone come rilevante e pregiudiziale la soluzione della questione (che sarebbe consequenziale) relativa all'inespropriabilità della quota e la responsabilità dei terzi acquirenti della stessa. Avverso detta sentenza proponevano ricorso per cassazione i signori Andrea Barbieri e Aurora Ardito, deducendo un unico ed articolato motivo, integrato da due memorie, in occasione delle due udienze del giudizio di legittimità; si costituiva con controricorso, integrato da memoria, la curatela fallimentare. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il mezzo di cassazione in esame i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2270, 2278, 2305, 2740, 2741 e 2901 c.c., nonché degli artt. 147 e 46 L.F. e 524 c.p.c.; deducono, inoltre, l'omesso o, quanto meno, l'insufficiente esame di punti decisivi della controversia.
Il quesito fondamentale proposto dalla controversia in esame, attiene alla proponibilità dell'azione revocatoria fallimentare dell'atto di alienazione, o comunque di cessione, di quote di una società collettiva regolare da parte di un soggetto, poi dichiarato fallito, in presenza del presupposto soggettivo e della condizione temporale previsti dall'art. 67 del R.D. 16-3-1942 n. 267. Nella specie l'azione è stata proposta sotto il profilo dell'art. 67 comma 1 n. 1 L.F.; peraltro in presenza di una sentenza non definitiva della Corte d'Appello di Bologna che ha riservato al prosieguo del giudizio gli ulteriori accertamenti, esula dalla presente valutazione ogni questione relativa alla sussistenza dei presupposti in concreto della revocatoria fallimentare, dovendosi limitare l'analisi al quesito preliminare sopra indicato, da valutarsi nella sua generale configurazione, una volta che sia certo, ed incontroverso, che il fallito, prima dell'inizio della procedura concorsuale, ha alienato a terzi la quota a lui appartenente di una società in nome collettivo.
Al quesito i ricorrenti propongono, sia nel ricorso, sia nelle due memorie integrative, una risposta negativa, sul presupposto della non configurabilità del danno per la massa fallimentare, conseguente all'atto di alienazione e, quindi, dell'insussistenza dell'interesse attuale da parte della curatela a proporre detto tipo di azione. L'argomentazione dei ricorrenti, nella sua essenzialità, viene svolta con un iter logico, così sintetizzabile:
1) il vincolo di destinazione dei beni sociali, ne consente l'utilizzazione solo per l'esercizio dell'attività di impresa in comune tra i soci; da ciò il principio fissato dall'art. 2305 c.c. per la società collettiva regolare, secondo cui la quota non è liquidabile ad iniziativa del creditore personale del socio. Poiché, inoltre, un bene è espropriabile se ed in quanto sia alienabile, dalla inalienabilità, come sopra indicata, deriva la non espropriabilità; inoltre un'espropriabilità della quota ad iniziativa dei creditori personali del socio, senza ovviamente il consenso dei soci della società, si porrebbe in contrasto anche con la disciplina dell'art. 2252 c.c., che richiede il consenso di tutti i soci per la modificazione del contratto sociale, di cui la componente soggettiva costituisce elemento essenziale. 2) Fondamento dell'azione revocatoria fallimentare è la necessità di reintegrare il patrimonio del debitore dichiarato fallito, con quei beni di cui quegli abbia disposto nei modi e nei tempi dell'art. 67 L.F., allo scopo di fare acquisire alla massa attiva una maggiore disponibilità, per la massima soddisfazione possibile dei creditori confluiti nella massa concorrente. Questa finalità, attuata con una funzione recuperatoria dalla quale esula, peraltro, l'ipotesi del ritrasferimento della titolarità del bene al fallito, realizza lo scopo di consentire al creditore di agire esecutivamente sul bene oggetto della revoca, e ciò mediante uno strumento di tutela giurisdizionale indiretto e mediato, in quanto l'effettivo risultato del soddisfacimento dei creditori non si realizza con detta azione, la quale pone solo le basi per poterlo conseguire.
3) Dalla correlazione tra la premessa del punto 1) e la funzione del punto 2), deriva che, quando un bene non può essere compreso nel fallimento ex art. 46 L.F., in quanto non pignorabile, l'atto di disposizione relativo del fallito non è pregiudizievole per la massa, poiché, quand'anche la revoca fosse disposta, il bene non sarebbe più aggredibile o, comunque, liquidabile da parte della curatela per la soddisfazione della massa passiva concorrente. Da ciò la mancanza attuale del danno, quale elemento tipico ed essenziale della revocatoria fallimentare e, quindi, dell'interesse alla proposizione attuale dell'azione predetta.
4) Le condizioni ora ipotizzate non sarebbero riferibili alla fattispecie dell'art. 2288 c.c., sia perché la fattispecie normativa richiamata, che presuppone la titolarità della quota da parte del fallito al momento della dichiarazione di fallimento, non si è realizzata nel caso di specie, volta che proprio a causa del negozio dedotto in controversia, il fallito non era più titolare della quota della s.n.c. al momento di inizio della procedura concorsuale, sia perché valorizzare l'obbligazione disciplinata dall'art. 2288 c.c., per un bene di cui l'imprenditore si sia spogliato prima del fallimento, significherebbe attribuire all'azione revocatoria una funzione restitutoria alla titolarità del fallito, ovvero un'efficacia di nullità o di annullamento del negozio; situazioni non ravvisabili, in linea di principio, nella disciplina della revocatoria fallimentare.
La diversa soluzione che emerge dalla sentenza della Corte d'Appello di Bologna, si può sintetizzare in due proposizioni essenziali, e cioè:
a) qualora l'atto di cessione di quota della s.n.c. da parte del fallito non fosse avvenuta, il fallimento avrebbe comportato, ex art. 2288 c.c., la liquidazione della quota;
b) di conseguenza, l'alienazione della quota costituisce atto di disposizione patrimoniale pregiudizievole per la massa dei creditori, con la conseguente individuabilità sia del danno, sia dell'interesse attuale alla proposizione dell'azione predetta.
Puntualizzato il quesito e sintetizzate le contrapposte posizioni processuali delle parti, si ritiene che la tesi dei ricorrenti, indubbiamente suggestiva nella esposta correlazione di principi, richieda alcuni chiarimenti essenziali, relativi ai punti nodali dell'iter logico seguito: al concetto, cioè, di "impignorabilità" di determinati beni ed alla conseguente portata dell'art. 46 L.F.; al concetto di "inefficacia relativa" ed alla sua applicazione, quale conseguenza di una pronuncia di revoca, secondo una delle fattispecie dell'art. 67 L.F.; al precetto che emerge dall'art. 2288 comma 1 in relazione all'art. 2289 c.c..
Queste puntualizzazioni debbono essere fatte, non senza avere prima notato il particolare rilievo che la decisione (sul punto non esiste precedente specifico di questa Corte) assume nella sistematica della concorsualità.
Ed invero, il carattere dell'universalità oggettiva del fallimento, attuazione diretta del principio generale di responsabilità dell'art. 2740 c.c. e modalità operativa tipica della concorsualità sistematizzata a massima garanzia di soddisfazione dei creditori concorrenti, potrebbe essere grandemente vulnerato dalla facile eludibilità, attraverso il conferimento di entità patrimoniali di rilievo in società di persone regolari, qualora si affermasse la libera disponibilità delle quote da parte dell'imprenditore insolvente, individuando così un settore patrimoniale, a consistenza variabile (ed anche di rilievo), sottratto al principio di responsabilità non solo verso i singoli creditori del socio, ma anche verso la massa attiva del suo fallimento.
Indubbiamente il principio di responsabilità, nella sua espansione assoluta e totalizzante ("il debitore responsabile.... con tutti i suoi beni presenti e futuri" fatte salve le limitazioni "se non nei casi stabiliti dalla legge"), può subire limitazioni legali nell'impatto con lo statuto dell'impresa collettiva, in considerazione del fatto che la destinazione di entità patrimoniali all'esercizio dell'impresa sociale, implica un vincolo di destinazione che coinvolge soggetti terzi (la stessa società MOTIVI DELLA DECISIONE
partecipata, munita o no di personalità giuridica e gli altri soci), rispetto all'autore del conferimento ed ai suoi creditori, ovvero rispetto agli atti negoziali che abbiano come oggetto il diritto corrispettivo del conferimento e della relativa quota del patrimonio sociale (oppure, il suo titolo rappresentativo, a seconda del tipo sociale).
Così, a seconda del grado di incidenza del vincolo contrattuale sulla vita operativa dell'organismo economico-sociale nelle sue configurazioni tipiche, più o meno caratterizzate dall'intuitus personae; a seconda, inoltre, del grado di autonomia tra patrimonio sociale e soci, nonché del rilievo che nell'ordinamento economico l'uno o l'altro tipo societario assumano, la tutela bilanciata ed alternativa dei creditori del socio, da un lato, e degli interessi connessi alla vita della società, dall'altro, porta nella legge a limitazioni ovvero a modalità attuative o preclusive, del principio di responsabilità del debitore-socio.
Si passa così, a seconda dei tipi sociali, dal potere del creditore del socio di chiedere la liquidazione della quota, sussidiariamente all'incapienza del restante patrimonio del debitore, per le società commerciali rette in tutto dalla disciplina della società semplice (art. 2770 comma 2 c.c.), alla generale espropriabilità della quota della società a responsabilità limitata (art. 2480 c.c.), nella quale la tutela della compagine sociale, in caso di quota non liberamente trasferibile, è limitata alle modalità dell'esecuzione (anche in caso di fallimento del socio), che consenta alla società di vincolare la vendita a persona di gradimento, purché a parità di prezzo; si giunge, infine, per le società in nome collettivo (e per quelle rette dalla stessa disciplina - art. 2315 c.c.), al divieto del creditore particolare sia di acquisire in via esecutiva la quota da vendere a terzi, in virtù del principio contrattualistico che regge il tipo sociale, sia di chiedere la liquidazione della quota (art. 2305 c.c.), che si traduce, per le società cooperative, nel divieto assoluto di azione esecutiva sulle quote o le azioni (2531 c.c.) e nel divieto dei creditori dei consorziati di fare valere i loro diritti sul fondo consortile (2614 c.c.) per la durata della società.
Il coordinamento, quindi, tra la tutela dei diritti del creditore di un soggetto partecipe di un organizzazione economica ed operativa, e la tutela dell'organismo stesso e degli altri partecipi della compagine relativa, è variamente articolato dalla legge, a seconda dei tipi sociali, privilegiando talora il diritto del creditore, con eventuali temperamenti di modalità attuative degli atti di esecuzione del diritto (come nel caso dell'art. 2480 citato), talora dando la prevalenza alle possibilità di vita operativa della società, con la limitazione delle possibilità satisfattive del creditore particolare agli utili distribuiti, ovvero con la postergazione di detta soddisfazione sul valore della quota al momento dello scioglimento della società, rispetto al quale rendere attualmente esperibili, non atti esecutivi, ma solo atti conservativi (art. 2770, 1 comma c.c.).
Le espressioni terminologiche con cui la legge manifesta la stessa realtà di fondo, vengono talora riferite alla possibilità, o al divieto, di chiedere la liquidazione della quota (art. 2270-2305 c.c.), talaltra alla facoltà del creditore di fare valere i suoi diritti sulla quota del patrimonio comune (art. 2614 c.c.), ovvero alla possibilità, o al divieto, di rendere la quota oggetto di espropriazione (art. 2480, 2531). Chiedere la liquidazione della quota, peraltro, fare valere sulla quota il diritto di credito o rendere la quota oggetto di azione esecutiva, esprimono un'unica realtà fondamentale, ancorché colta in differenti modalità attuative ed in diversi momenti di esercizio di un diritto di credito sorto nei confronti del socio; il diritto, o la limitazione del diritto, del creditore del socio di trarre soddisfazione alla propria situazione giuridica soggettiva sull'entità patrimoniale del socio, costituita dalla sua quota di partecipazione societaria. Le modalità di attuazione del principio di responsabilità, poi, divergono a seconda del tipo sociale. Così, per le società di capitali, in cui la quota, o il suo titolo rappresentativo, costituiscono beni autonomamente alienabili, essi sono anche beni direttamente pignorabili da parte del creditore particolare ed in via esecutiva vendibili a terzi, salve le modalità attuative previste dall'art. 2480 comma 3 c.c. ricordato.
Nelle società di persone, rette dal principio contrattualistico anche nella loro normalità operativa, la quota non è liberamente vendibile a terzi, implicando modificazione del contratto sociale coinvolgente gli altri soci e, in quanto tale, neppure autonomamente pignorabile e vendibile a terzi con modalità processuali esecutive. Ciò malgrado le possibilità di soddisfazione coattiva del creditore particolare possono permanere, rendendo oggetto della responsabilità patrimoniale del socio, non la quota nella sua oggettività, ma il credito del socio verso la società (e sussidiariamente verso gli altri soci) per il valore della quota (a parte il diritto sugli utili), connesso ad una situazione essenziale; e cioè, o allo scioglimento della società verificatasi (ovvero da verificarsi) per cause autonome dalla sussistenza del debito del socio (art. 2270 comma 1 c.c. estensibile anche alla società collettiva), ovvero alla liquidazione della quota del socio correlata allo scioglimento del rapporto limitatamente al socio debitore, scioglimento e liquidazione che il creditore particolare può direttamente determinare per la prioritaria soddisfazione delle sue ragioni (art. 2270 comma 2 c.c. in relazione all'art. 2288 comma 2 c.c.), ovvero la legge stessa determina (art. 2288 comma 1 in relazione all'art. 2289 cc). In tali casi la quota, nella sua oggettività, è bene
impignorabile, ma pignorabile è il credito inerente alla liquidazione della quota, in relazione al quale la legge con automaticità (art. 2288 comma 1 e 2), determina il corrispondente effetto sulla compagine sociale (l'esclusione del socio). Di norma la disciplina della destinazione, o non, di una quota sociale alla soddisfazione, anche in forma coattiva, delle ragioni del creditore particolare del socio, si estende anche alla massa creditoria concorrente nel fallimento del socio è ciò, o per espressa previsione di legge (art. 2480, u. cpv. c.c.), ovvero per la disposizione dell'art. 46 L.F. che esclude dal fallimento, tra l'altro "le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge" (art. 46 comma 1 n. 5 L.F.). Ancorché questa norma sia di stretta interpretazione, avendo carattere di specialità rispetto al generale principio di diritto concorsuale previsto dall'art. 42 comma 1 L.F. (che sottopone ad esecuzione concorsuale tutti i beni appartenenti al fallito al momento della dichiarazione di fallimento, oltre a quelli che a lui pervengano dopo l'inizio della procedura concorsuale), deve ritenersi che in essa vengano comprese tutte le situazioni che, per legge, rendano non liquidabile la quota sociale, non rendano su di essa esercitabili i diritti dei creditori particolari del socio e, quindi, rendano la quota stessa, o il suo valore da liquidazione, non sottoponibile ad azione esecutiva. Vi è, pertanto, nel nostro ordinamento una generale tendenza di equiparazione, sotto il profilo in esame, tra non sottoponibilità di un bene ad azione esecutiva individuale e non sottoponibilità ad azione esecutiva concorsuale; criterio di stretta interpretazione, ma di generale applicazione nell'esecuzione concorsuale, salvo che una norma specifica non scinda l'equiparazione indicata e riporti un bene, pur sottratto all'azione esecutiva individuale, nell'ambito del generale principio dell'università oggettiva del fallimento. In particolare, riguardando il fenomeno sotto il profilo dell'art. 2740 c.c., determinate entità patrimoniali possono non essere oggetto di responsabilità attuale verso singoli creditori, ma tale qualifica possono avere nei confronti della massa concorrente del socio insolvente e fallito.
Questa è la situazione che si verifica, con riferimento alle quote della società in nome collettivo.
Ed invero, poiché la società in nome collettivo è regolata dalle norme sulla società semplice nei settori non disciplinati nel capo III , libro V , titolo V , e poiché tra le norme del citato capo III vi è l'art. 2305, che preclude al creditore particolare del socio di chiedere la liquidazione della quota, ne consegue che la quota della s.n.c., diversamente da quella della società semplice, è bene non liquidabile e, come tale, non sottoponibile ad esecuzione, neppure come valore, per la soddisfazione delle ragioni del creditore del socio, quanto meno finché la società non venga posta in liquidazione (e salvo il diritto sugli utili). La disciplina della società semplice, peraltro, contiene una diversa norma (art. 2288 comma 1 c.c.) che, letta in relazione all'art. 2289, rende la quota del socio fallito un valore compreso nel fallimento come diritto di credito verso terzi. Se, infatti, il fallimento del socio ne comporta l'esclusione di diritto dalla società (indipendentemente dall'adesione degli altri soci), e se lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio comporta il diritto di questi alla liquidazione della quota, ne consegue che il fallimento del socio determina nei confronti della società un diritto di credito nei limiti di valore della quota, diritto che è compreso tra le attività fallimentari e che è esercitabile nei confronti della società, o eventualmente dei soci rimasti, da parte della curatela.
Poiché il citato capo III , titolo V , libro V del codice civile non contiene, per le società in nome collettivo, alcuna disciplina relativa allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, in base all'art. 2293 c.c. debbono applicarsi le relative norme della società semplice e, tra esse, quelle dell'art. 2288 e 2289 c.c.
A questo punto si evidenzia un'essenziale particolarità del caso di specie. Mentre nella società semplice esiste un'equiparazione tra diritto alla liquidazione della quota da parte del creditore del socio ed inclusione del predetto valore nella massa attiva del fallimento del socio stesso, nella collettività regolare si determina una distinzione tra il diritto alla liquidazione della quota nell'esecuzione singolare e la inclusione del valore della quota nell'attivo fallimentare del socio. Il vincolo di destinazione della quota patrimoniale all'attività sociale prevale sul diritto del creditore particolare del socio, ma cede di fronte ai diritti della massa dei creditori concorrenti nel fallimento personale del socio. Di conseguenza, il valore della quota del socio fallito, quale diritto di credito ex art. 2289 c.c. esercitabile nei confronti della società partecipata e dei soci rimasti, non rientra nella previsione dell'art. 46 n. 5 L.F., ma è compresa nella massa attiva fallimentare secondo il generale criterio dell'universalità oggettiva espressa nell'art. 42 L.F.
La tutela bilanciata della società e della massa creditoria del fallimento delsocio, quindi, si realizza, da un lato, evitando alla società l'eventualità pregiudizievole di avere il fallimento nella compagine ed inoltre precludendo al fallimento di vendere la quota a terzi in via esecutiva; si realizza, d'altra parte, nel rendere oggetto della massa attiva fallimentare il credito di liquidazione della quota. L'esclusione di diritto del socio fallito, in definitiva, è previsione posta a tutela della stessa società partecipata dal fallito; nel contempo detta previsione è correlata col riconoscimento del credito relativo alla liquidazione della quota secondo il valore al momento dell'esclusione di diritto del socio, coincidente con la dichiarazione di fallimento.
Ritornando, ora, al quesito di premessa, diviene priva di fondamento l'argomentazione dei ricorrenti secondo cui l'impignorabilità della quota, escludendola dalla massa attiva del fallimento ex art. 46 L.F., priverebbe la curatela dell'interesse ad agire in revocatoria sull'atto di disposizione della quota da parte dell'imprenditore insolvente, volta che, se non la quota nella sua oggettività, il credito verso la società per la sua liquidazione è oggetto dell'attivo fallimentare e, quindi, oggetto dell'esecuzione concorsuale, e costituisce uno dei modi di "fare valere" il credito della massa sulla quota.
L'analisi si sposta, quindi, sul presupposto oggettivo della revocatoria fallimentare, in caso come situazione sfavorevole per la massa creditoria causata dall'atto oggetto di revoca. Sulla base delle osservazioni svolte, non può negarsi in via generale ed aprioristica la sussistenza del pregiudizio patrimoniale, con la pura e semplice asserzione della non pignorabilità della quota sociale. Una volta accertato, infatti, che il diritto alla liquidazione della quota è componente dell'attivo fallimentare ed è diritto esercitabile da parte della curatela nei confronti della società partecipata, ed in via sussidiaria dei soci rimasti, non può negarsi in via aprioristica che l'atto di disposizione della quota da parte del debitore insolvente (in presenza del presupposto soggettivo e degli elementi temporali della revocatoria fallimentare) sia idoneo, in linea generale, a privare la massa fallimentare di quella componente attiva, individuante la menomazione patrimoniale in esame. Pur non essendo la quota oggetto di responsabilità attuale del debitore verso singoli suoi creditori (se non nella prospettiva della percezione degli utili e della liquidazione della società), essa è pur tuttavia (nella rilevata distinzione di situazioni tipicamente inerenti alla società in nome collettivo) oggetto di generale responsabilità del debitore insolvente verso la massa creditoria concorrente nel suo fallimento, e l'atto di disposizione dell'insolvente, quand'anche non sia idoneo a ledere i creditori come singoli, ha l'attitudine a pregiudicare i valori disponibili per la soddisfazione dei creditori concorrenti come massa fallimentare. Peraltro, l'argomentazione dei ricorrenti è più penetrante, non essendosi essi limitati a segnalare genericamente la non pignorabilità della quota, ma avendo soprattutto sostenuto l'insussistenza del presupposto di fatto, assertivamente necessario perché il fallimento possa esercitare il diritto alla liquidazione della quota: la titolarità della quota in capo all'insolvente al momento del fallimento, sulla cui base rendere operativa l'esclusione di diritto del socio ed il diritto alla liquidazione della quota ex art. 2289 c.c.; presupposto non reintegrabile, in tesi, a mezzo della revocatoria fallimentare, la cui funzione non 'e individuabile nel nuovo trasferimento della titolarita' del diritto, oggetto dell'atto sottoposto a revocatoria, nel patrimonio del fallito. La conseguenza di questa impostazione sarebbe che la quota, se esistente nel patrimonio del fallito al momento dell'inizio della procedura concorsuale, si tradurrebbe nel diritto alla liquidazione, con contestuale esclusione del socio dalla società di cui è partecipe, ed assolverebbe la funzione di generale garanzia a favore della massa dei creditori; se, per contro, non fosse sussistente in quel momento, perché oggetto di disposizione da parte dell'insolvente, pur in presenza degli altri presupposti della revocatoria fallimentare, il bene non potrebbe convertirsi nel diritto alla liquidazione della quota per cui, la stessa sussistenza di un atto astrattamente revocabile, creerebbe i presupposti per la negazione in concreto della revocabilità. Da una premessa logica, si traggono delle conseguenze che, in prima accezione, sembrano introdurre un'essenziale discrasia nella sistematica del fallimento;
l'illogicità di un atto dispositivo che, se non sussistente, consentirebbe un vantaggio per la massa, ma che, per il solo fatto di esistere e pur precludendo alla massa l'esercizio di un diritto patrimoniale, non arrecherebbe alcun danno perché precluderebbe la realizzazione di quella situazione che viene ritenuta il presupposto oggettivo della realizzazione del valore patrimoniale: la titolarità del bene da parte dell'insolvente al momento del fallimento. Se è pur vero che individuare degli inconvenienti non costituisce MOTIVI DELLA DECISIONE
argomento giuridico, è altresì vero che individuare una discrasia sistematica può costituire l'indice di un'interpretazione non corretta e l'incentivo all'individuazione di una diversa linea logica.
In questo indirizzo, pur essendo certo che la revoca non determina la nullità dell'atto revocato, ne' comporta il ritrasferimento del bene nella titolarità patrimoniale dell'imprenditore fallito, si ritiene che non vi sia necessità di ricorrere al concetto di nullità, ne' a quello di reintegrazione nella titolarità, per individuare nell'atto di disposizione della quota una situazione di pregiudizio della garanzia patrimoniale verso la massa dei creditori concorrenti nel fallimento.
Richiamando, infatti, l'inefficacia relativa della revocatoria fallimentare, con riferimento al carattere restitutorio o recuperatorio della revocatoria, inteso nel senso che essa determina la restituzione del bene alla garanzia dei creditori al fine dell'esercizio dell'azione esecutiva concorsuale, non può negarsi che a questi concetti possa ancorarsi l'individuazione del presupposto oggettivo della revocatoria fallimentare nel caso di specie.
Ed invero, la funzione strumentale dell'azione revocatoria (che non dà diretta soddisfazione ai creditori, ma costituisce il mezzo attraverso cui detta soddisfazione possa realizzarsi con le modalità consentite dall'esecuzione concorsuale), non è necessariamente ristretta alla "vendibilità" del bene con esecuzione coattiva, ma è connessa a qualsiasi mezzo che consenta agli organi fallimentari di acquisire la liquidità necessaria per la finalità satisfattiva della massa concorrente, mezzi comunque rientranti nell'ampio concetto di esecuzione concorsuale, tra essi non escluso l'esercizio da parte della curatela dei diritti caduti nella massa attiva. Non per nulla la Legge Fallimentare non si esprime, per delineare il patrimonio su cui esercitare l'esecuzione concorsuale, in termini di "pignorabilità" o di "non pignorabilità", ma fa riferimento ai beni "compresi" ovvero "non compresi" nel fallimento (artt. 42 e 46 L.F.);
entità, pertanto, comprese nella massa attiva che potranno essere vendute a terzi con le forme dell'incanto, proprie dell'esecuzione ordinaria richiamate nell'esecuzione collettiva, ovvero esercitate direttamente dal curatore verso terzi, quali i diritti di credito. La funzione reintegrativa della massa attiva, si realizza a mezzo dell'inefficacia relativa dell'atto soggetto a revoca; relatività da individuarsi, sotto il profilo soggettivo, con riferimento alla massa creditoria concorrente; da individuarsi, inoltre, sotto il profilo oggettivo e funzionale, con riferimento a tutte le modalità attuative consentite al fallimento per liquidare le entità patrimoniali (crediti compresi) e volte a realizzare la finalità istituzionale della concorsualità sistematizzata. Orbene, poiché, come in precedenza delineato, la quota sociale del creditore insolvente è oggetto di responsabilità verso la massa concorrente nel fallimento (o se si preferisce, è oggetto della garanzia generale del patrimonio del debitore insolvente verso la massa dei suoi creditori), l'atto di disposizione della quota è idoneo a pregiudicare detta garanzia, mentre l'inefficacia relativa da revocatoria consente di reintegrare detta garanzia, non diversamente dalla reintegrazione patrimoniale di un bene venduto a terzi dall'insolvente e reintegrato al patrimonio fallimentare al solo fine dell'esecuzione collettiva, ovvero di un credito ceduto ed esercitabile, a seguito di revoca dell'atto di cessione, dalla curatela per la soddisfazione dei creditori.
Non è di impedimento all'individuabilità della funzione tipica della revocatoria nel caso di specie, il fatto che al momento del fallimento la quota sociale più non fosse nel patrimonio dell'insolvente. Neanche i beni patrimoniali venduti sono più nel patrimonio del fallito; la funzione della revocatoria è proprio quella di restituirli, mercè l'inefficacia relativa dell'atto dispositivo, alla garanzia patrimoniale della massa, pur senza farli rientrare nella proprietà dell'insolvente; non diversamente l'effetto restitutorio alla funzione di garanzia, proprio della revocatoria fallimentare, reintegra la quota nella massa fallimentare, non restituendola alla titolarità del fallito, ma al solo fine di consentire l'esercizio del credito da liquidazione in cui la patrimonialità della quota si concretizza per i fini del fallimento.
La quota sociale, in particolare, quale concetto sintetico di riferimento sia ai diritti patrimoniali ad essa connessi, sia ai poteri corporativi ad essa inerenti, può avere un valore economico di bene in sè (è il caso della s.r.l. o dell'azione della s.p.a.), oppure un valore relativo ai diritti patrimoniali ad essa conseguenti, che si traducono in diritti di credito verso la società e gli altri soci, diritti che, in quanto fatti valere quali oggetto di responsabilità verso la massa concorrente nel fallimento del socio, impongono la sistemazione dei poteri corporativi corrispondenti, e ciò avviene mediante la loro estinzione attuata con l'esclusione di diritto del socio. Sia nel caso di revoca di atti di trasferimento di beni, sia in quello di trasferimento di diritti personali, inefficacia relativa significa considerare l'atto dispositivo come non avvenuto ai soli fini (e quindi inefficace e non generalmente nullo) di consentire sui beni, o sui diritti con esso disposti, gli atti di esecuzione concorsuale, come se il bene o il diritto esistesse tuttora nel patrimonio del debitore a quel solo fine, pur restando la validità dell'atto tra le parti ed a qualsiasi altro fine. Da ciò il ritenuto carattere costitutivo della sentenza che pronuncia la revoca (in quanto determinante l'inefficacia relativa).
Infine non è preclusivo all'individuazione del danno nella revocatoria, la correlazione tra l'esclusione di diritto del socio fallito ed il diritto alla liquidazione della quota. L'esclusione di diritto e l'esercizio del diritto alla liquidazione della quota costituiscono (nella scissione tra diritti patrimoniali e poteri corporativi) due effetti temporalmente coincidenti e logicamente correlati alla tutela contemporanea della società e della massa creditoria concorrente nel fallimento del socio, tanto che l'art. 2288 c.c. tratta indistintamente, sotto il profilo dell'esclusione di diritto, sia il caso di fallimento del socio, sia quello del socio di società semplice, per il quale il precedente art. 2270 comma 2 c.c. aveva autonomamente delineato il diritto del creditore a chiedere la liquidazione della quota. Segno che, in entrambi i casi, l'effetto estintivo del rapporto sociale limitatamente ad un socio e l'esercizio della liquidazione della quota, costituiscono situazioni coesistenti in relazione all'esercizio dell'azione esecutiva, nell'un caso ordinaria, nell'altro concorsuale, su un valore patrimoniale costituente garanzia per i creditori e, per quanto dedotto in causa, per la massa fallimentare.
In definitiva, dall'art. 2288 comma 1 in relazione all'art. 2289 c.c., emerge un precetto normativo non dissimile, in linea logica, da quello derivante dall'art. 2270 comma 2, 2288 comma 2 e 2289. Secondo quest'ultima serie normativa, il creditore particolare del socio può fare valere il suo diritto sulla quota, chiedendone la liquidazione, sussidiariamente all'incapienza del restante patrimonio del socio; la richiesta ha nei suoi confronti gli effetti dell'art. 2289 e nei confronti della società quello dell'art. 2288 comma 2 c.c. (l'esclusione di diritto del socio).
La prima serie normativa coglie, nella letteralità della legge, essenzialmente un solo aspetto della fattispecie (l'esclusione di diritto del socio), che non si spiegherebbe, peraltro, se non in relazione al diritto alla liquidazione della quota (ed all'inclusione nell'attivo fallimentare del relativo credito) come effetto automatico del fallimento, non essendovi necessità della specifica richiesta di liquidazione, che l'art. 2270 comma 2 collega all'incapienza del restante patrimonio del socio-debitore, volta che detta incapienza nel fallimento è assorbita dall'insolvenza. Il precetto dell'art. 2288 comma 1 c.c. attiene, quindi, al diritto del fallimento alla liquidazione della quota, con la caduta del relativo diritto nell'attivo fallimentare, e con l'effetto dell'art. 2289 per la massa, nonché quello dell'art. 2288 comma 1 c.c. per la società.
È opportuno rilevare al fine che, a differenza del diritto del creditore alla liquidazione della quota a seguito di scioglimento della società (che è fatto indipendente dall'esistenza della situazione debitoria del socio e che della liquidazione costituisce un "prius"), i casi di scioglimento di diritto previsti dall'art. 2288 c.c. non costituiscono situazioni autonome, ma situazioni determinate proprio in relazione all'esistenza del diritto del creditore ovvero alla funzione di garanzia patrimoniale che i diritti di credito inerenti alla quota assumono nel fallimento del socio; da ciò la rilevata correlazione tra il fenomeno della liquidazione della quota e quello di esclusione del socio dalla società, nella tutela bilanciata della massa fallimentare e della società partecipata.
Il fatto, quindi, che la quota non fosse più nel patrimonio del fallito al momento del fallimento, non può significare che essa, pur essendo oggetto della garanzia patrimoniale verso la massa, sia tuttavia nella libera disponibilità del debitore insolvente, con vulnerazione definitiva del principio di responsabilità patrimoniale. Al contrario, la dichiarazione di inefficacia relativa dell'atto di disposizione, restituisce i diritti patrimoniali inerenti alla quota alla garanzia patrimoniale in favore della massa dei creditori concorrenti, determinando per ciò stesso il corrispondente effetto a tutela della società, rappresentato dall'esclusione di diritto del socio, senza che per questo sia necessario alterare i principi della revocatoria fallimentare ed ipotizzare, o un'incidenza sulla validità del contratto di alienazione, o una reintegrazione nella titolarità della quota da parte del fallito.
In conseguenza delle osservazioni svolte, la Corte rigetta il ricorso.
La soccombenza regge l'obbligo della rifusione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in L. 97.300, oltre a L. 3.500.000 per onorari di avvocato. Roma 14-1-1992.