Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6411 - pubb. 01/08/2010

.

Cassazione civile, sez. I, 17 Gennaio 2007, n. 1045. Est. Rordorf.


Società - Di capitali - Società per azioni - Organi sociali - Amministratori - Responsabilità - Azione del socio e del terzo danneggiato - Danni arrecati ai soci dall'amministratore - Responsabilità personale dell'amministratore - Sussistenza - Principio estensibile alle società di persone.



Costituendo la società di persone un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci, ancorché dette società non siano dotate di autonoma personalità giuridica, è configurabile con riguardo ad esse una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, in termini sostanzialmente analoghi a quanto prevedono, in materia di società per azioni, gli artt. 2393 e 2395 cod. civ.. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. RORDORF Renato - rel. Consigliere -
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere -
Dott. GILARDI Gianfranco - Consigliere -
Dott. SCHIRÒ Stefano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Pozzi Renato, elettivamente domiciliato in Roma, via Valadier 33, presso l'avv. ANNECCHINO Marco, che lo rappresenta e difende unitamente all'avv. Giuliano SCARSELLI, giusta procura speciale in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
il sig. FAVI Pierluigi, e per lui ora i suoi eredi, sigg.re, NARDI Pola Maria, FAVI Silvia, FAVI Sonia e FAVI Sandra, elettivamente domiciliate in Roma, viale delle Milizie 19, presso l'avv. MANFREDINI Omelia, che le rappresenta e difende unitamente all'avv. Luca ZANASI, giusta procura speciale del 7 febbraio 2006 in autentica del notaio Lops (rep. n 327434);
- intimato -
nonché
il sig. NENCINI Mauro;
- intimato -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Firenze depositata in data 6 marzo 2003;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza dal Consigliere Dott. Renato RORDORF;
uditi gli avv. Giuliano SCARSELLI, per il ricorrente, e Luca ZANASI per gli eredi dell'intimato sig. Favi;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAFIERO Dario, che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il sig. POZZI Renato, con atto notificata nel gennaio del 1990, Gito in giudizio dinanzi al Tribunale di Prato i sigg. Favi Pierluigi e Mauro Nencini, che con lui erano stati soci della società di fatto Filatura Silvia di Pozzi Renato & C. (in prosieguo indicata solo come Filatura Silvia), ma ne erano poi receduti. L'attore lamentò che i convenuti avessero mal gestito la società, appropriandosi di somme ad essa spettanti e concedendo indebite agevolazioni commerciali ad una società terza di cui erano partecipi. Chiese perciò al tribunale che i convenuti medesimi fossero condannati al risarcimento dei danni in favore di esso attore.
Il tribunale accolse la domanda proposta nei confronti del sig. Favi, che condannò al pagamento di L. 201.457.080 (oltre agli accessori ed alle spese), ma non anche quella rivolta contro il sig. Nencini, che ritenne estraneo ai fatti di mala gestio lamentati dall'attore. La Corte d'appello di Firenze, pronunciandosi sui contrapposti gravami delle parti, con sentenza depositata il 6 marzo 2003, in parziale riforma della decisione di primo grado, ridusse a L. 7.205.700 l'entità della condanna al risarcimento dei danni inflitta al sig. Favi e condannò il sig. Pozzi al rimborso delle spese di entrambi i gradi del giudizio in favore del sig. Nencini. Osservò in particolare la corte fiorentina - quanto ai profili che ancora in questa sede interessano - che l'azione era stata proposta dall'attore per conseguire il risarcimento di danni da lui personalmente subiti, onde doveva inquadrarsi nella previsione dell'art. 2395 c.c. e non in quella dell'art. 2393 c.c. (norme implicitamente ritenute applicabili anche alle società di persone);
che tale inquadramento avrebbe potuto aver rilievo, limitatamente all'addebito consistente nell'aver concesso ingiustificati benefici ad una società terza, solo ai fini della decorrenza della prescrizione; che, peraltro, quell'addebito non era sorretto da adeguate evidenze probatorie, in quanto il mero fatto di aver praticato ad un cliente condizioni di favore rispetto alla prassi commerciale non basta ad integrare un'ipotesi di mala gestio, ove non risulti provata la concreta possibilità di trattare invece i medesimi affari con altro cliente a condizioni più favorevoli; che pertanto appariva superfluo ammettere le prove testimoniali articolate dalla difesa del sig. Favi per dimostrare che il sig. Pozzi era stato sempre al corrente della conduzione degli affari sociali e mai vi si era opposto, trattandosi, del resto, di circostanza abbastanza ovvia, dal momento che il medesimo sig. Pozzi era coamministratore della società.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il sig. Pozzi, prospettando quattro motivi di doglianza.
Ha partecipato alla discussione, pur senza depositare controricorso, il difensore delle sigg.re Pola Maria Nardi, Silvia, Sonia e Sandra Favi, eredi del sig. Favi, deceduto dopo la notifica del ricorso. Nessuna difesa ha svolto invece in questa sede il sig. Nencini. MOTIVI DELLA DECISIONE
1. In via preliminare deve dichiararsi l'inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del sig. Nencini. Egli infatti, nei due gradi di merito, è stato assolto da ogni domanda contro di lui avanzata, ma è stato evocato dal ricorrente anche nel presente giudizio di legittimità senza, peraltro, che sia stata formulata alcuna censura riferibile al capo di sentenza che specificamente lo riguarda. 2. È invece certamente ammissibile il ricorso proposto nei confronti del sig. Favi. Ricorso col quale il sig. Pozzi lamenta tanto violazioni di legge - e precisamente dell'art. 2697 c.c. (primo e terzo motivo), artt. 115 e 116 c.p.c. (terzo motivo), artt. 2392 e 2395 c.c. (quarto motivo) - quanto vizi di motivazione dell'impugnata sentenza su punti decisivi del contendere (secondo e terzo motivo). 3. Tra i diversi profili di doglianza in tal modo prospettati, conviene prendere le mosse da quello esposto nel quarto motivo, che attiene all'inquadramento giuridico della fattispecie in esame e consente perciò alcune puntualizzazioni logicamente preliminari. Si tratta, peraltro, di una doglianza inammissibile. S'è già ricordato in narrativa come la corte territoriale abbia ricondotto l'azione risarcitoria proposta dal sig. Pozzi, socio di una società di fatto in precedenza costituita con i convenuti, alla previsione dell'art. 2395 c.c., dissentendo sul punto dalla valutazione del tribunale, che vi aveva invece scorto un'azione proposta ai sensi dell'art. 2393 c.c..
La premessa logica di entrambi tali decisioni è, ovviamente, quella per cui, costituendo le società di persone pur sempre un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci, ancorché dette società non siano dotate di autonoma personalità giuridica, è configurabile con riguardo ad esse una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, in termini sostanzialmente analoghi a quanto prevedono, in materia di società per azioni, i citati artt. 2393 e 2395 c.c. (cfr., in tal senso, Cass. 28.03.1996, n. 2846). Su tale premessa, che il ricorrente non mette in discussione, non occorre ulteriormente soffermarsi.
Neppure la conclusione cui è pervenuta la corte d'appello in ordine alla riconducibilità della fattispecie in esame alla figura dell'azione di responsabilità proposta contro gli amministratori sociali dal socio per il risarcimento di danni da lui direttamente subiti (ex art. 2395, cit.) è censurata dal ricorrente (che peraltro afferma trattarsi di questione scarsamente meritevole di attenzione);
nè dall'intimato, il quale in questa sede si è limitato a confutare nella discussione orale gli argomenti dedotti dalla controparte. Esula perciò dall'ambito del presente giudizio lo stabilire se l'affermazione della corte d'appello su questo punto sia o meno corretta, pur essendo evidenti i riflessi che essa ha sulla legittimazione stessa dell'attore, giacché anche e proprio al fine di accertare tale legittimazione la medesima corte d'appello si è espressamente pronunciata sulla natura dell'azione, nei termini sopra ricordati, ed, in difetto d'impugnazione, si è formato al riguardo un giudicato interno non più rimuovibile.
In effetti, ciò di cui il ricorrente ora si duole non è, come impropriamente indicato nell'intestazione del motivo di ricorso, la violazione dei citati artt. 2393 e 2395 c.c., quanto piuttosto il fatto che, nel qualificare l'azione di responsabilità esperita come riferibile alla seconda di tali norme, la corte fiorentina abbia fatto riferimento (oltre che al già accennato tema della legittimazione) anche all'incidenza che tale qualificazione avrebbe potuto avere sull'eccepita prescrizione di detta azione. Incidenza che, viceversa, secondo il ricorrente non vi sarebbe. A suo dire, in un caso come quello in esame, si dovrebbe infatti attribuire natura contrattuale anche all'azione di responsabilità per danno diretto del socio, e perciò ritenere che anche tale azione sia soggetta al termine ordinario di prescrizione decennale.
Ma, prospettata in questo modo, la doglianza risulta - come si anticipava - inammissibile.
La corte d'appello ha accennato al tema della prescrizione in forma di mero obiter dictum, senza in alcun modo statuire sulla relativa eccezione e neppure sulla durata del relativo termine; ma si è limitata ad affermare, con specifico riguardo al più grave degli addebiti mossi dall'attore agli amministratori convenuti, che la riconducibilità dell'azione al parametro dell'art. 2395 c.c. (anziché 2393) c.c. avrebbe potuto avere in astratto rilevanza "in ordine al momento di decorrenza della eccepita prescrizione". Tuttavia, questa rilevanza in concreto la questione poi non la ha avuta affatto, nell'economia dell'impugnata sentenza, giacché la medesima corte d'appello (non importa a questi fini se a torto o a ragione) ha reputato assorbente la considerazione dell'infondatezza nel merito di quell'addebito, e solo su questo ha deciso. Donde il carattere inammissibilmente astratto ed ipotetico della censura formulata dal ricorrente in tema di prescrizione.
4. Le ulteriori censure si appuntano tutte contro il giudizio con cui la corte d'appello ha negato esser stata fornita una prova sufficiente degli illeciti denunciati dal ricorrente nella gestione del rapporto commerciale della società Filatura Silvia con altra società, denominata Manifattura Fa.La.Ne., della quale il sig. Favi era socio.
Nessuna di tali censure coglie, però, nel segno.
4.1. È da escludere, in primo luogo, che la corte d'appello sia incorsa in violazione di legge nel ripartire l'onere della prova tra i litiganti, a norma dell'art. 2697 c.c..
Non v'è dubbio che, in caso di azione di responsabilità promossa contro un amministratore sociale, competa all'attore l'onere di dimostrare l'illiceità dei comportamenti che egli addebita all'amministratore convenuto. Ma quando, come è frequente, non si tratta di comportamenti in sè vietati dalla legge o dallo statuto sociale, bensì di attività commerciali naturalmente rientranti nella gestione dell'impresa, la loro pretesa illiceità dipende dal contesto in cui essi sono stati compiuti. È solo da tale contesto che può ricavarsi se l'amministratore avrebbe dovuto invece astenersi da quei comportamenti, o attuarli in altra forma, perché così gli imponevano il dovere di lealtà, essenzialmente riassunto nel precetto di non agire in conflitto di interessi con la società da lui amministrata, o quello di diligenza, consistente nell'adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati. Non è, cioè, in simili casi, il mero fatto storico di avere l'amministratore compiuto (o omesso di compiere) un certo atto ad integrare gli estremi dell'illecito, bensì la violazione da parte sua, con quell'atto, dell'uno o dell'altro dei suaccennati doveri: di talché l'onere della prova dell'illecito, gravante sull'attore in responsabilità, non si esaurisce nella dimostrazione dell'atto compiuto dall'amministratore, ma necessariamente investe anche quegli elementi di contesto dai quali (magari anche in via di presunzione) è possibile dedurre che quell'atto implica violazione dei suaccennati doveri. Elementi, questi, che appartengono a pieno titolo al novero dei fatti costituenti il fondamento della domanda, cui si riferisce il primo comma del citato art. 2697, e non invece a quello dei fatti estintivi, modificativi o impeditivi, rientranti nella previsione del secondo comma; così come altrettanto evidentemente appartengono al novero dei fatti da provare dall'attore quelli che servono a dimostrare l'esistenza e l'entità del danno derivato dai comportamenti eventualmente illegittimi posti in essere dal convenuto.
La corte d'appello, nel valutare come insufficiente, ai fini dell'affermazione di responsabilità, la sola circostanza che alcune operazioni commerciali della società fossero state compiute a condizioni di favore per un cliente, e nel rilevare che sarebbe occorsa anche la prova che quel trattamento di favore era davvero contrario all'interesse sociale, sussistendo anche altre e più favorevoli condizioni di negoziazione, non si è in alcun modo discostata dai principi sopra richiamati e non è incorsa quindi nella denunciata violazione di legge.
4.2. Le censure del ricorrente investono però anche la logicità e la sufficienza della motivazione in base alla quale la corte territoriale ha ritenuto non adeguatamente dimostrata l'illiceità del comportamento dell'amministratore sig. Favi nei rapporti commerciali intercorsi con la società Manifattura Fa.La.Ne. Motivazione che il ricorrente critica per non avere la corte fiorentina tenuto conto del fatto che il predetto sig. Favi era, al tempo stesso, anche socio ed amministratore di quest'ultima società, onde appariva evidente la situazione di conflitto d'interessi in cui egli ha operato.
Ma tale rilievo, di per sè solo, non è idoneo a scalfire la motivazione della sentenza impugnata. Il dedotto intreccio di cariche amministrative in capo al sig. Favi non esime dal valutare se, nelle concrete operazioni commerciali che hanno interessato le due società da lui amministrate, si sia davvero profilato un conflitto di interessi e se, in conseguenza di ciò, la società Filatura Silvia abbia subito pregiudizi. È invece proprio sotto questo aspetto che la corte di merito ha reputato insufficiente il materiale probatorio acquisito, e non tale da persuaderla che le operazioni commerciali di cui si tratta erano state dannose per detta società. Il ricorso non deduce l'esistenza di ulteriori risultanze istruttorie il cui esame avrebbe dovuto condurre, sotto il profilo da ultimo richiamato, a conclusioni diverse: onde esso non appare idoneo a porre in evidenza vizi logici della motivazione dell'impugnata sentenza. 4.3. Inammissibile è, infine, la censura con cui, lamentando di nuovo la violazione del citato art. 2697 c.c., unitamente a quella degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché ancora difetti di motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente si duole del fatto che la corte territoriale abbia considerato come accertata (definendola "abbastanza ovvia") la conoscenza da lunga data, da parte del medesimo ricorrente, del modus operandi del sig. Favi quale amministratore della società.
Siffatto rilievo, basato sulla considerazione che lo stesso ricorrente era anch'egli compartecipe della funzione amministrativa, non ha avuto un peso determinante nell'economia della decisione del giudice d'appello, come ben chiarito nella stessa motivazione del provvedimento impugnato. Escluso che l'attore avesse fornito una prova adeguata dell'illiceità e della dannosità della condotta da lui ascritta al convenuto, la questione se l'attore medesimo fosse o meno al corrente dei comportamenti tenuti dall'altro amministratore non rivestiva più, evidentemente, alcun rilievo; e puntualmente, perciò, la corte d'appello ha osservato che il discorso poteva chiudersi lì, senza la necessità di stabilire se fosse o meno vero che il sig. Pozzi - come la controparte aveva chiesto di provare - era stato da sempre a conoscenza delle vicende amministrative dedotte in lite. L'ulteriore osservazione, secondo cui tale conoscenza appariva peraltro abbastanza ovvia, ha quindi un valore meramente incidentale, e le censure che su di essa il ricorrente appunta sono palesemente prive di decisività.
5. Il ricorso proposto nei confronti del sig. Favi, pertanto, deve essere rigettato, ed a ciò fa seguito la condanna del ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore della controparte costituita, che vengono liquidate in Euro 3.000,00 (tremila) per onorari e Euro 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
La corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dal sig. Pozzi Renato nei confronti del sig. Mauro Nencini e rigetta quello proposto nei confronti del sig. Pierluigi Favi, condannando il ricorrente, in favore degli eredi di detto sig. Favi, al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.000,00 (tremila) per onorari e Euro 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2007