Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6319 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 10 Novembre 2005, n. 21832. Est. Ceccherini.


Società - Di persone fisiche - Società semplice - Rapporti tra soci - Partecipazione ai guadagni e alle perdite - In genere - Prova del reddito sociale - Bilancio fiscale - Distinzione dal bilancio civilistico - Utilizzabilità ai fini del regolamento dei rapporti tra i soci - Sussistenza - Possibilità di far valere le divergenze dal bilancio civilistico per desumerne un diverso risultato - Sussistenza.



In tema di società, la non perfetta coincidenza tra il bilancio redatto a fini fiscali e quello redatto in osservanza dei principi civilistici non rende il primo radicalmente inutilizzabile nell'accertamento del reddito sociale, ai fini del regolamento dei rapporti tra i soci, in quanto le differenze esistenti tra i due istituti, derivanti dal fatto che ad alcuni effetti i criteri di redazione del bilancio civilistico non sono opponibili all'erario, non sono tali da impedire di valersi del bilancio fiscale come mezzo di prova, ferma restando la possibilità della controparte di far valere gli effetti concreti delle predette divergenze per indicare il diverso risultato al quale dovrebbe pervenirsi, ai fini del reciproco regolamento tra i soci. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. CELENTANO Walter - Consigliere -
Dott. RORDORF Renato - Consigliere -
Dott. CECCHERINI Aldo - rel. Consigliere -
Dott. GILARDI Gianfranco - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BARBÈ Renzo domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato TATEO Vittorio giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
CAPPELLETTI Guido;
- intimato -
avverso la sentenza n. 2057/01 della Corte d'Appello di MILANO, depositata il 24/07/01;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 22/09/2005 dal Consigliere Dott. Aldo CECCHERINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. UCCELLA Fulvio che ha concluso per l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 23 febbraio 1995, il signor Guido Cappelletti, marito ed erede in ragione di otto dodicesimi della signora Lucia Zanetti, deceduta il 20 aprile 1993, chiamò in giudizio dinnanzi al Tribunale di Vigevano il ragioniere Fioranzo Barbi, e ne chiese la condanna al pagamento di _ 20, 681.250, con gli accessori. Detta somma corrispondeva agli otto dodicesimi della quota di reddito spettante alla moglie, quale contitolare dello studio professionale rag. Renzo Barbe - Dott. Rag. Lucia Zanetti s.s. di Barbe e Zanetti, per l'anno 1993, quota che in base alla dichiarazione da allegare alla dichiarazione dei redditi fattagli pervenire dal convenuto era pari a L. 27.575.000 lorde. Il convenuto, costituitosi, chiese il rigetto della domanda, per mancanza della prova della sussistenza di un credito della defunta Zanetti nei suoi confronti.
Con sentenza in data 10 luglio 1999, il tribunale respinse la domanda attrice, ritenendo non provato che il 50% degli utili fosse stato incassato dal Barbe piuttosto che dalla Zanetti.
L'attore propose appello, e la Corte d'appello di Milano, con sentenza in data 24 luglio 2001, in riforma della sentenza di primo grado, condannò l'appellato al pagamento della somma di L. 20.681.250, oltre agli interessi legali dalla domanda e alle spese del doppio grado. La corte ritenne che il credito fatto valere dall'appellante fosse provato dalla dichiarazione rilasciata, ai fini fiscali (quadro H da allegare alla dichiarazione dei redditi), dallo stesso appellato, e da lui sottoscritta come rappresentante legale dello Studio rag. Renzo Barbe - Dott. Lucia Zanetti s.s., in essa, infatti, l'appellato, legale rappresentante della società semplice costituita come studio professionale, aveva attestato che alla socia Zanetti Lucia andavano attribuiti redditi relativi all'anno 1993 pari all'importo lordo di L. 27.575.000. Avendo il Cappelletti assolto l'onere di provare il fatto costitutivo del diritto da lui vantato iure haereditatis, gravava sul Barbe, che aveva eccepito l'irrilevanza dei fatti emergenti dalla sua dichiarazione, in quanto resa ai soli fini fiscali, l'onere di provare l'intervenuta modificazione o estinzione del diritto per la ricorrenza di fatti ulteriori. Il Barbe s'era invece limitato a sostenere che doveva presumersi che la socia avesse già incassato in vita ogni sua spettanza, perché i professionisti normalmente prelevano mensilmente degli acconti. Detta presunzione, non collegata ad elementi obiettivi, non valeva a vincere la prova offerta dall'attore, infine, il riconoscimento di questo diritto non era in contrasto con la clausola n. 14 contenuta nell'atto costitutivo della società, per cui "nel caso di morte di uno dei soci, l'attività dello studio resterà di competenza del socio superstite". A questo riguardo, la corte territoriale osservò che l'art. 2289 c.c., commi primo (che, nei casi di scioglimento limitatamente ad un socio, sancisce il diritto soltanto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota sociale) e terzo (per cui se vi sono operazioni in corso il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime) non era derogata dalla predetta clausola contrattuale, la quale non esclude la possibilità per gli eredi di riscuotere utili di spettanza della socia deceduta relativi ad operazioni dalla stessa effettuate o ancora in corso, limitandosi a garantire il socio superstite dallo scioglimento della società, e a prevenire l'eventualità di doverla continuare con gli eredi a norma dell'art. 2284 c.c..
Per la cassazione della sentenza, non notificata, ricorre il ragioniere Fiorendo Barbi con atto notificato il 25 luglio 2002, articolato in cinque motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 14 delle disposizioni sulla legge in generale, per aver la corte territoriale applicato le norme tributarie per determinare l'utile reale della società costituita dal Barbe e dalla Zanetti, giungendo alla conclusione che l'utile civilistico - che dovrebbe essere calcolato a norma dell'art. 2425 co. sulla base di dati reali - coincide con il reddito fiscale, calcolato secondo normative e principi del tutto diversi, che spesso costituiscono finzioni fiscali. Al riguardo, il ricorrente fa gli esempi delle fatture emesse, anche se rimaste insolute, e della limitata detraibilità ai fini fiscali delle spese di produzione del reddito, ed in particolare dei costi di manutenzione di un immobile. Per non incorrere nel vizio denunciato, la corte avrebbe dovuto condannare il ricorrente a pagare all'attore, limitatamente alla sua quota ereditaria, la metà del reddito reale, e non di quello fiscale della società.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1321, 1322 c.c. e l'omessa motivazione sul punto. Il ricorrente riporta la clausola n, 9 del contratto di società, secondo la quale "gli utili netti e la perdite nette, risultanti dai rendiconti approvati dai soci, saranno divisi in proporzione delle prestazioni fornite nella misura del 50% per ogni socio", e deduce che i soci dovevano dividersi gli utili netti risultanti dai rendiconti da essi approvati, e non i redditi lordi risultanti dalle denunce dei redditi. La corte territoriale aveva ignorato questa clausola contrattuale ed aveva diviso invece i redditi fiscali lordi, senza Motivare in ordine all'equivalenza del reddito fiscale lordo all'utile netto reale.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell'art. 2697, con riferimento alla prova dell'utile netto. In base al principio dell'onere della prova, il Cappelletti avrebbe dovuto provare la misura dell'utile netto, laddove egli si era limitato a indicare un dato diverso, quale l'utile fiscale lordo.
I tre motivi, accomunati dal comune riferimento alla differenza, erroneamente trascurata dai giudici di merito, tra reddito denunciato ai fini fiscali e reddito effettivamente percepito, devono essere esaminati congiuntamente.
Essi sono infondati. È bensì vero che, nel vigente ordinamento, non vi è perfetta coincidenza tra bilancio, redatto a fini fiscali, e bilancio redatto in osservanza delle norme del codice civile, perché ad alcuni effetti i criteri di redazione del secondo non sono opponibili all'erario. Deriva, da tale premessa, che l'odierno ricorrente avrebbe potuto fondatamente far valere tali diversità, deducendo i concreti effetti da queste prodotti, ed indicando il diverso risultato al quale, ai fini del reciproco regolamento tra i soci, si sarebbe dovuto pervenire, e che si sarebbe dovuto porre al fondamento della decisione impugnata. Ma la premessa teorica della diversità tra bilancio fiscale e bilancio civilistico non è stata diligentemente coltivata dal ricorrente allo scopo di sollecitare una più corretta definizione della controversia, bensì al fine di fondarvi l'assunto di una radicale diversità tra i due istituti, tale da rendere del tutto inutilizzabile nel presente giudizio il bilancio da lui stesso redatto ai fini della dichiarazione del redditi della società. Tale assunto non può essere condiviso, e ciò, non tanto perché vi si opponga l'astratto principio dell'unità dell'ordinamento giuridico, che imporrebbe di muovere dalla premessa della tendenziale convergenza, fino a prova contraria, dei due istituti, quanto perché le divergenze tra di essi, enfatizzate dalla parte ricorrente a fini difensivi, non sono in concreto tali da produrre il risultato della radicale inutilizzabilità dal bilancio fiscale della società, nell'accertamento del reddito della medesima ai fini del regolamento dei rapporti tra i soci.
Non merita, pertanto, censura il ragionamento della corte territoriale, che ha ritenuto di poter accertare, sulla base della dichiarazione presentata dalla società a fini fiscali, e per quel che potesse rilevare ai fini della decisione della causa, i redditi prodotti dalla società nell'anno 1993; e ciò, salvo quanto si dirà nel seguito a proposito della concreta determinazione di quella parte dei redditi, così determinati in capo alla società, che deve essere attribuita alla socia deceduta, ed assunta quale base del calcolo della quota spettante al suo erede.
Con il quarto motivo si denunciano vizi di motivazione e la violazione o falsa applicazione degli artt. 1321, 1322, 2289 comma terso e 2697 c.c., con riferimento all'affermazione per cui le entrate dello studio, successive allo scioglimento della società, sarebbero derivate da operazioni in corso al momento del decesso della Dott.sa Zanetti. Nell'esposizione del fatti il ricorrente aveva premesso che dopo il decesso della sua soda egli, che a causa dell'età si disinteressava dello studio, non aveva pensato a. far cancellare la società, per cui il reddito fiscale relativo all'intero 1993/ ammontante a L. 55.150.000, era stato automaticamente attribuito pro quota ai due soci. Il ricorrente censura quindi l'affermazione immotivata della corte territoriale, che la prosecuzione dell'attività dopo il decesso costituirebbe la prosecuzione dello stesso affare; e deduce che in atti non v'è alcun elemento per affermare che gli affari dello studio, curati fino al 31 dicembre 1993, rappresentassero tutti la prosecuzione di quelli in corso al 20 aprile 1993. La corte non aveva neppure spiegato quando sarebbero stati ultimati gli affari in corsoi non aveva considerato che, nonostante l'identità del cliente, ogni nuova attività svolta per lui costituisce un nuovo affare, in forza del quale sorge un nuovo credito verso il cliente; ne' aveva spiegato per quale motivo tutti i clienti dello studio alla data del 20 aprile 1993 fossero gli stessi esistenti alla data del 31 dicembre 1993. Inoltre, il giudice di merito aveva erroneamente applicato l'art. 2289 comma terzo e. e, previsto per la liquidazione della quota del socio uscente, alla diversa ipotesi della liquidazione degli utili ripartibili maturati nel corso del rapporto sociale; laddove avrebbe dovuto attenersi alla volontà delle parti le quali, con la clausola contrattuale n. 14, sopra riportata, avevano escluso, in caso di decesso del socio, una liquidazione della quota sociale al medesimo spettante per avviamento, per beni strumentali, o per affari in corso. Il motivo d fondato per quanto di ragione. Come si e già ricordato, la corte territoriale ha accertato i redditi spettanti alla socia Lucia Zanetti (della quale l'attore è erede), nell'anno del suo decesso, utilizzando la dichiarazione fiscale dei redditi dello studio professionale per l'anno 1993, redatta dal socio superstite, ragioniere Barbe, e tale procedimento, in difetto di concreti rilievi circa la divergenza tra bilancio fiscale e bilancio civilistico, non merita censura. Tuttavia, movendosi dall'implicito presupposto che i soci detenessero quote uguali nella società, nella sentenza impugnata si aggiunge che i redditi spettanti in base a quegli elementi alla socia deceduta il 20 aprile 1993, pari a L. 27.575.000, corrisponderebbero alla metà esatta del reddito dello studio professionale denunciato dal ragioniere Barbe per l'anno 1993, pari a L. 55.150.000.
Quest'affermazione deve essere valutata in relazione a quelle successive, contenute nell'impugnata sentenza, che ribadiscono l'applicabilità, alla presente fattispecie, dell'art. 2289 comma terzo, per il quale, quando il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi, se vi sono operazioni in corso, partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime. La norma, ha giustamente osservato il giudice di merito, non è derogata dalla clausola statutaria, invocata dal ragioniere Barba, che, negli stessi casi, esclude la liquidazione di una quota sociale. Al tempo stesso, però, è indubbio che determinando i redditi spettanti a favore della socia, deceduta il venti aprile di quell'anno, in una quota pari alla metà dei redditi prodotti dalla società nell'anno, ed assumendo questo dato come base del calcolo degli otto dodicesimi spettanti all'erede, la corte ambrosiana si è posta in contrasto con il criterio legale da essa stessa indicato, e contenuto nell'art. 2289, comma terzo c.c., che attribuisce agli eredi la partecipazione agli utili e alle perdite in ragione, oltre che delle operazioni compiute nell'anno fino allo scioglimento del rapporto, di quelle sole che, quantunque posteriori, fossero in corso al momento medesimo.
Così facendo, la corte del merito è incorsa, ancor prima che nel vizio di contraddittorietà della motivazione circa i criteri utilizzabili per la liquidazione degli utili spettanti all'erede del socio superstite, in quello, pure denunciato con il mezzo in esame, di violazione dell'art. 2289 conia terzo.
Detto vizio porta la cassazione dalla sentenza inpugnata. Con il quinto motivo si denuncia l'omessa o insufficiente motivazione e la violazione o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., avendo il giudice d'appello ritenuto che il fatto costitutivo della domanda, per il quale l'onere della prova gravava sull'attore, fosse costituito dalla sola esistenza di un utile della società, e non anche dalla circostanza che detto utile fosse stato incassato dal Barbe, come doveva invece ritenersi.
Il motivo è infondato.
È necessario premettere che, come si desume dagli accertamenti di fatto del giudice di merito e le concordi allegazioni delle parti anche in questo giudizio di legittimità, la controversia verte tra il ragioniere Barbi, socio superstite di una società semplice composta da due soli soci, e l'erede della socia deceduta; e che, in forza di una clausola del contratto di società, a seguito dalla morte della socia Zanetti, l'attività dello studio era rimasta di competenza dell'odierno ricorrente. Discende, da tali pacifiche premesse di fatto, che era stata convenzionalmente esclusa la necessiti di liquidazione della quota spettante al socio deceduto, intendendosi l'azienda trasferita al socio superstite; e che, nel presente giudizio, l'odierno ricorrente è legittimato in proprio a resistere all'azione - che in mancanza della ricordata clausola contrattuale sarebbe stata proposta dall'erede della socia deceduta nei confronti della società in liquidazione - quale successore nell'azienda sociale, con le sue attività e passività. Non vi dubbio che, in assenza di quella clausola, la società in liquidazione sarebbe stata legittimata passivamente alla domanda, perché in capo ad essa si erano prodotti originariamente gli utili e le perdite da distribuire tra i soci. La domanda, invece, è stata correttamente proposta nei confronti del ragioniere Barbe, essendo questi stato citato quale successore di tutte i le attività e passività della società. Egli non può sottrarsi alla domanda, pretendendo che sia data la prova che gli utili, spettanti alla socia deceduta, erano stati da lui personalmente percepiti, perché non si tratta della percezione degli utili da parte sua, ma da parte della società (alla quale egli i succeduto in forza di specifica clausola contrattuale), alla quale soltanto competeva di accertarli e ripartirli tra i soci, nonché di pagarli conseguentemente. La società, pertanto, era gravata dell'onere di provare l'avvenuta distribuzione degli utili, e l'onere s'è trasferito sull'odierno ricorrente, quale successore di tutte le attività sociali. In conclusione la sentenza deve essere cassata in relazione al motivo accolto, e la causa deve essere rinviata, anche per le spese del presente grado di legittimità, ad altra sezione della Corte d'appello di Milano, che nel decidere, anche ai fini del regolamento delle spese del giudizio di legittimità, determinerà gli utili spettanti alla socia decedute, assumendoli conseguentemente come base del calcolo della quota spettante al suo erede che agisce in giudizio, applicando l'art. 2289, comma terzo codice civile, per il quale, nella determinazione degli utili spettanti al socio uscente, deve tenersi conto, in aggiunta delle operazioni compiute sino allo scioglimento del rapporto sociale, soltanto di quelle In corso alla stessa data.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo per quanto di ragione, rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione del motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d'appello di Milano. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 22 settembre 2005. Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2005