Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6317 - pubb. 01/08/2010

.

Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 16 Novembre 2010, n. 23129. Est. Picone.


Lavoro - Lavoro subordinato - Caratteri del rapporto individuale - Rapporto del socio - Società di persone - Rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie.



Nelle società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci purché ricorrano due condizioni: a) che la prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale; b) che il socio presti la sua attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia. Il compimento di atti di gestione o la partecipazione alle scelte più o meno importanti per la vita della società non sono, in linea di principio, incompatibili con la suddetta configurabilità, sicché anche quando esse ricorrano è comunque necessario verificare la sussistenza delle suddette due condizioni. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso poiché il socio si era limitato a dedurre la sua partecipazione ai dividendi e alla gestione della società, circostanza in sé non decisiva, nonché la mancata corresponsione della retribuzione, così richiedendo alla Corte la diretta valutazione dei fatti). (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico - Presidente -
Dott. PICONE Pasquale - rel. Consigliere -
Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere -
Dott. NAPOLETANO Giuseppe - Consigliere -
Dott. CURZIO Pietro - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 4338-2007 proposto da:
DITTA CED.AN.CA. di INGLESE LORENZA & C S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore e dei soci in proprio sig.re PECORARO ELISABETTA, INGLESE LORENZA, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA U. LILLONI 146, presso lo studio dell'avvocato D'AIUTO GERARDO, rappresentati e difesi dall'avvocato D'AIUTO LORETO, giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrenti -
contro
MARTINO CLAUDIA, DESIO VINCENZO;
- controricorrenti -
avverso la sentenza n. 133 0/2 006 della CORTE D'APPELLO di SALERNO, depositata il 03/11/2006 R.G.N. 1269/05;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/10/2010 dal Consigliere Dott. PASQUALE PICONE;
Udito l'Avvocato DESIO VINCENZO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso. PREMESSO IN FATTO
La sentenza di cui si domanda la cassazione rigetta l'appello di "CE.DA.ANCA" s.n.c. di Inglese Lorenza & C. e conferma la decisione del Tribunale di Salerno n. 1170/2005, che aveva, previo accertamento della sussistenza di rapporto di lavoro tra la società e Martino Claudia dal maggio 1986 al 31.12.1997, condannato la società a pagare alla Martino: L. 105.246.066 per differenze retributive; L. 15.877.964 per ratei di 13^ mensilità; L. 2.939.807 per indennità sostitutiva delle ferie; L. 17.615.266 per trattamento di fine rapporto, detratte L. 8.000.000 già corrisposte.
La Corte di appello di Salerno giudica infondata l'eccezione di incompetenza del giudice del lavoro, dovendosi qualificare come causa inerente a rapporto di lavoro subordinato la controversia instaurata da Claudia @Martino sulla base dei fatti allegati; nel merito, ritiene provato il rapporto di lavoro subordinato perché la Martino, sebbene fosse socia della Scietà in nome collettivo costituita dal *5.1.1989* con Anna @Giordano, Cosimina @Scarpato ed Ester @Morcaldi, aveva prestato la sua attività di collaborazione nello studio di consulenza aziendale già dal 1986 quale impiegata amministrativa, osservando un orario prederminato e ricevendo una retribuzione mensile fissa, lavorando seguendo le direttive impartite prima da Anna @Giordano e Carmine @Martino e poi da Lorenza @Inglese. Il ricorso è proposto per quattro motivi dalla Società CED.AN.ANCA di Inglese Lorenza & C. in nome collettivo, nonché dai soci Inglese Lorenza e Pecoraro Elisabetta; resiste Martino Claudia con controricorso, ulteriormente precisato con memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
RITENUTO IN DIRITTO
Preliminarmente, va dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto dai singoli soci Inglese e Pecoraro in proprio, in applicazione del principio secondo cui è legittimato a ricorrere per cassazione solo il soggetto che, secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, sia stato parte del giudizio di appello anche nel caso di sentenza resa nei confronti di società di persone, in quanto la società, sebbene sprovvista di personalità giuridica formale, è pur sempre un distinto centro di interessi, dotato di una sua propria sostanziale autonomia e, quindi, di una propria soggettività capacità processuale distinta da quella dei soci (Cass. 2 marzo 2006, n. 4652; 15 marzo 1995, n. 3048; 22 luglio 1993, n. 8191).
Con il primo motivo di ricorso la Società denunzia violazione dell'art. 409 c.p.c. e art. 144 disp. att. c.p.c. con riferimento alla qualificazione attribuita dalla sentenza al rapporto dedotto in causa ed all'affermazione della competenza del giudice del lavoro. Come rilevato dalla parte controricorrente, il motivo, che denunzia un error in procedendo (art. 360 c.p.p., comma 1, n. 4)) deve essere dichiarato inammissibile per violazione dell'art. 366-bis c.p.c.. La sentenza impugnata è stata pubblicata, mediante deposito in cancelleria, il 3 novembre 2006 e trova, pertanto, applicazione il disposto dell'art. 366-bis c.p.c. (inserito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 a far data dal 2 marzo 2006 ai sensi dell'art. 27, comma 2, del medesimo decreto, successivamente abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), ma, ai sensi dell'art. 58, comma 5, con effetto per i soli ricorsi avverso provvedimenti pubblicati successivamente all'entrata in vigore di tale legge): Nei casi previsti dall'art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall'art. 360, comma 1, n. 5), l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione".
Non rileva, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte che, in difetto dell'adempimento dell'onere specificamente imposto, che il quesito possa ricavarsi dalle deduzioni svolte nell'illustrazione del motivo. In tal senso si sono espresse le Sezioni unite con la sentenza 16 marzo 2007, n. 6278 e la conforme giurisprudenza successiva. Più in particolare, con l'ordinanza 5 febbraio 2008, n. 2658, le stesse Sezioni unite hanno precisato che il quesito di diritto (art. 366-bis c.p.c.), perché sia idoneo ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, deve contenere, in via autonoma e formalmente separata dalle argomentazioni svolte nel motivo, l'indicazione dell'errore di diritto imputato al giudice del merito e della corretta soluzione che avrebbe dovuto condurre ad una decisione diversa da quella adottata. La stessa causa di inammissibilità colpisce anche il terzo motivo di ricorso, con il quale si denuncia violazione dell'art. 360 c.p.p., n. 3 in relazione all'art. 111 Cost. sotto il profilo della mancanza di motivazione della sentenza impugnata con riferimento ad una fattispecie non riconducibile al lavoro subordinato. Con il secondo motivo è denunciato il vizio di motivazione insufficiente in relazione alla documentazione prodotta, che forniva la prova che la Martino partecipava ai dividendi e alla gestione della società, mentre non percepiva alcuna retribuzione. Questo motivo non è ammissibile perché il vizio di motivazione è, in parte, denunciato in relazione a fatti non decisivi per la risoluzione della controversia, per altra parte, contrapponendo all'accertamento del giudice del merito la mera affermazione che non vi era stata corresponsione di retribuzione, non denuncia in realtà un vizio di motivazione, ma domanda alla Corte la diretta valutazione del fatto.
Con riguardo alla non decisività dei fatti in ordine ai quali la motivazione sarebbe stata insufficiente, si osserva che il principio di diritto, correttamente applicato alla fattispecie dal giudice del merito, è che, nelle società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci purché ricorrano due condizioni: a) che la prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale; b) che il socio presti l'attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia; invece, il compimento di atti di gestione o la partecipazione alle scelte più o meno importanti della vita della società non sono, in linea di principio, incompatibili con la suddetta configurabilità (Cass. 12 maggio 1999, n. 4725; 11 gennaio 1999, n. 216; 18 aprile 1994, n. 3650). Ne discende l'irrilevanza delle circostanze relative alla qualità di socio ed al peso che la Martino aveva nelle scelte aziendali. Con il quarto motivo sono denunciate sia violazioni di legge (dell'art. 420 c.p.c. per essere mancato il libero interrogatorio delle parti; dell'art. 421 per non essersi il giudice avvalso dei poteri di ufficio al fine di accertare i fatti), sia vizi di motivazione in ordine alla valutazione della prova testimoniale. In relazione alle violazioni di norme di diritto, il motivo è inammissibile per la stessa ragione di inammissibilità sussistente per il primo e terzo motivo. In ordine al vizio di motivazione, il motivo è parimente inammissibile perché domanda al giudice di legittimità di valutare diversamente dal giudice del merito i contenuti e il significato delle deposizioni testimoniali. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna il solido delle parti ricorrenti alle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente le prime in Euro 22,00 oltre spese generali, iva e cpa, e i secondi in Euro 3.000,00 (tremila/00). Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 12 ottobre 2010.
Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2010