Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6258 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. II, 12 Marzo 1994, n. 2389. Est. Verde.


Contratti in genere - Requisiti (elementi del contratto) - Forma - Scritta - "Ad substantiam" - In genere - Costituzione di società - Contestuale conferimento di bene immobile essenziale per il raggiungimento dello scopo sociale - Conferimento effettuato con scrittura privata recante il crocesegno della parte anziché la sua sottoscrizione - Nullità assoluta dell'atto - Estensione della nullità al contratto di società.



È affetto da nullità assoluta, per mancanza della necessaria forma scritta, il conferimento di un bene immobile a favore di una società costituita contestualmente, ove effettuato con una scrittura privata recante il crocesegno anziché la sottoscrizione della parte, che ne costituisce il requisito essenziale. Tale nullità, ove l'immobile risulti essenziale per il raggiungimento dello scopo sociale, si estende all'intero contratto di società, si estende all'intero contratto di società, pur trattandosi di società semplice per la quale non è necessaria alcuna formalità. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Filippo ANGLANI Presidente
" Cesare MAESTRIPIERI Consigliere
" Domenico GIAVEDONI "
" Filippo VERDE Rel. "
" Vincenzo CARNEVALE "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto
da
LUPIA SERAFINIO, DE RITO DOMENICO, LE ROSE LEONARDO, BILOTTA ROSA, GARRUPA DOMENICA, GARRUPA MARIA, GARRUPA PIERINA, GARRUPA CATERINA, GARRUPA GIUSEPPINA, GARRUPA ANITA, rappresentati e difesi dall'avv. Vincenzo Morrone ed elettivamente domiciliati in Roma, via Monte Zebio, 43 presso l'avv. Bernardo Benincasa, in virtù di mandato a margine del ricorso.
Ricorrenti
contro
MARAZZITA FRANCESCO, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Apa e con questi elettivamente domiciliato in Roma, via Camillo Pilotto, 51 presso il dott. proc. Michele De Luca in virtù di delega a margine del controricorso;
Controricorrente
e
MARAZZITA SALVATORE, MARAZZITA MARIA, MARAZZITA TERESA GIUSEPPA, MARAZZITA ANGELA, MARAZZITA CATERINA, MARAZZITA ANASTASIA, MARAZZITA EUGENIO, LE ROSE ANASTASIA, LE ROSE ELESABETTA;
Intimati
Per la cassazione della sentenza del Tribunale di Crotone 27 marzo 1990 N. 151;
Udita la relazione della causa svolta alla pubblica udienza del 24 settembre 1993 dal cons. rel. dott. Verde;
Udito il P.M., in persona del sost. proc. gen. dott. Buonaiuto che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 15 e 16 dicembre 1971 Marazzita Francesco, premesso di essere proprietario di un fabbricato di due vani, uno a piano terra e l'altro, sovrastante, al primo piano, sito in Roccabernarda alla via Borgo, contraddistinto in catasto alla pratica 691, foglio 13, particella 472 sub 1 pt. 1, per averlo acquistato, per atto notar Aversa del 17 agosto 1971 da Lupia Perla, che a sua volta aveva acquistato il suolo edificatorio su cui sorge il fabbricato con atto per notar Caruso del 10 gennaio 1947 da Iaquinta Palma, si doleva che il fabbricato in questione era posseduto da De Rito Domenico, Lupia Antonio, Le Rose Salvatore e dagli eredi di Garrupa Gaetano (Garrupa Morrone Maria, Garrupa Benincasa Domenica, Garrupa Pierina, Caterina, Giuseppina ed Anita) per cui conveniva i predetti innanzi al pretore di Santa Severina per sentirli condannare all'immediato rilascio dell'immobile. Si costituivano in giudizio De Rito, Lupia e Garrupa Maria deducendo che il fabbricato di cui il Marazzita chiedeva il rilascio era da loro posseduto da oltre venti ani unitamente a Marazzita Francesco e Lupia Perla, genitori dell'attore, i quali avevano conferito l'immobile quale quota sociale per la costituzione di una società semplice, avente per oggetto l'attività molitoria, quota sociale che era stata dai coniugi Marazzita-Lupia ceduta al figlio che era subentrato, quindi, nella società al posto dei suoi danti causa. I costituiti convenuti chiedevano preliminarmente che il processo si svolgesse anche nei confronti dei coniugi Marazzita-Lupia e nel merito il rigetto della domanda.
L'adito pretore ordinava l'intervento di coniugi Marazzita-Lupia e, non avendo nessuno provveduto alla loro citazione, disponeva la cancellazione della causa dal ruolo.
Riassumeva il giudizio l'attore citando tutti i convenuti ed i propri genitori Marazzita Francesco e Lupia Perla.
Si costituivano in giudizio anche Garrupa Caterina e Garrupa Pierina la prima deducendo che non era stato ben determinato nell'atto di riassunzione l'oggetto della domanda per cui eccepiva la nullità della domanda stessa, la seconda contestando il merito della domanda in quanto i coniugi Marazzita-Lupia, per partecipare alla società in ragione di un sesto, avevano conferito il suolo sul quale insiste l'immobile di cui veniva chiesto il rilascio, immobile che ra stato costruito con danaro degli altri soci.
Si costituiva anche il chiamato in causa Marazzita Francesco chiedendo il rigetto della domanda di garanzia nei suoi confronti proposta.
L'adito magistrato, con sentenza del 15 gennaio 1977, dichiarava l'attore legittimo proprietario dell'immobile in questione e condannava i convenuti all'immediato rilascio dello stesso. Avverso tale sentenza proponevano appello i convenuti ed il Tribunale di Crotone, con sentenza del 1 febbraio 1980, rigettava il gravame.
Ricorrevano per cassazione De Rito Domenico, Le Rose Salvatore, Lupia Serafino (subentrato al genitore Lupia Antonio), e Garrupa Domenica, Maria, Pierina, Caterina, Giuseppina ed Anita svolgendo censure di diritto.
Questa Corte, con sentenza 16 giugno 1983, dichiarava la nullità del giudizio di secondo grado per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di Le Rose Salvatore e, conseguentemente, annullava la sentenza del Tribunale di Crotone al quale rinviava per un nuovo giudizio.
Con atto 8 ottobre 1984 Marazzita Francesco (figlio) riassumeva il giudizio citando innanzi al Tribunale di Crotone Garrupa Domenica, Maria, Pierina, Caterina, Giuseppina ed Anita nonché Lupia Serafino, De Rito Domenico, Le Rose Salvatore, e Marazzita Maria, Teresa, Anastasia, Eugenio, Salvatore, Angelina e Caterina, questi ultimi quali eredi dei coniugi Marazzita Francesco e Lupia Perla. Si costituivano in giudizio Lupia Serafino, De Rito Domenico, Le Rose Salvatore e Garrupa Maria, Anita, Caterina e Pierina riportandosi alle conclusioni dell'atto di appello. Il Tribunale di Crotone, con sentenza 30 gennaio-27 marzo 1990, rigettava l'appello confermando la impugnata sentenza. Contro questa sentenza ricorrono Lupia Serafino, De Rito Domenico, Le Rose Leonardo, Bilotta Rosa, Garrupa Caterina, Garrupa Giuseppina e Garrupa Anita sulla base di cinque motivi di cassazione, illustrati anche con successiva memoria.
Resiste con controricorso e memoria Marazzita Francesco. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli art. 101, 102, 303 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e 4 stesso codice per non aver il Marazzita Francesco, riussuntore del processo dopo la morte di Le Rose Salvatore, provveduto a notificare l'istanza di riassunzione ed il pedissequio decreto del giudice istruttore che fissava l'udienza di prosecuzione del giudizio alle parti non costituite Garrupa Domenica, Garrupa Giuseppina, Marazzita Salvatore, Marazzita Angela, Marazzita Caterina, Marazzita Maria, Marazzita Teresa, Marazzita Anastasia e Marazzita Eugenio.
Tale comportamento, secondo il ricorrente, avrebbe leso il principio del contraddittorio in quanto, a seguito della interruzione del processo, la riassunzione del giudizio doveva avvenire mediante notifica dell'atto relativo non solo alle parti costituite, ma anche a quelle contumaci.
La censura è infondata.
Va innanzitutto considerata la ratio della riassunzione, dopo l'interruzione del processo per uno degli aventi previsti dalla legge, che provocano l'alterazione del normale contraddittorio:
l'atto riassuntivo è volto a ripristinare la situazione processuale esistente prima dell'evento, a provocare la ripresa del procedimento nello stato in cui era allorché è sopravvenuto il fatto interruttivo. E se una parte aveva scelto di disertare il giudizio e di rimanere contumace, non v'è motivo per ritenere che, in quella stessa fase del processo, debba essere di nuovo sollecitata a parteciparvi solo perché si è verificato, per un'altra parte, uno degli avvenimenti che alterano il regolare corso del procedimento ed influiscono sulla normalità del contraddittorio. Sotto tale profilo, quindi, non v'è dubbio che il ripristino del corso processuale, dopo l'interruzione, riguardi soltanto le parti che, mediante la costituzione in giudizio, a questo attivamente partecipano. Ritiene, poi, la Corte opportuno ricordare che il codice di rito, nel regolare il procedimento in contumacia, prevede espressamente gli atti che vanno notificati o comunicati al contumace (art. 292) e tale elencazione, da ritenersi tassativa, non include l'atto di riassunzione a seguito di interruzione del processo. Invero la dichiarazione di contumacia di una parte implica, rispetto alla struttura del processo, che questo prosegua senza che, di norma, al contumace debba esser data notizia delle vicende processuali; a meno che non si tratti di atti o provvedimenti che, per loro natura, possono incidere profondamente sui diritti sostanziali controversi. Onde l'eccezionalità dei casi previsti dal citato art. 292 c.p.c. e, quale corollario, l'esclusione che quelli ivi non menzionati debbano essere portati a conoscenza della parte la quale, non partecipando attivamente al giudizio, ha operato una scelta prevedendone ed accettandone le conseguenze.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli art. 163 n. 3 e 164 u.p. c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c. e la omessa, insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.) evidenziando che Garrupa Caterina, costituendosi in giudizio in primo grado a seguito della riassunzione del giudizio, aveva eccepito la nullità dell'atto di riassunzione per indeterminatezza dell'oggetto in quanto "non aveva avuto notificata l'originaria citazione (presupposto della riassunzione) in cui l'oggetto era specificamente indicato e la sua costituzione era avvenuta esclusivamente per eccepire l'atto di riassunzione". Il motivo è infondato.
Osserva la Corte che l'atto di riassunzione del processo, interrotto per morte di una delle parti, è valido qualora esistano in esso sufficienti elementi atti ad individuare il giudizio che si intende far proseguire, senza la necessità che siano riprodotti tutti gli estremi della domanda proposta. E nel caso di specie tali estremi erano più che sufficienti tanto che la Garrupa ha avuto modo di esporre le proprie difese e di proporre proprie domande. Altrettanto destituita di fondamento è l'altra doglianza relativa ad una pretesa mancata notifica dell'atto di citazione di primo grado e Le Rose Salvatore in quanto tale citazione è stata ritualmente notificata nella residenza e domicilio del Le Rose con consegna della coppia in mani della di lui moglie convivente.
Con il terzo motivo viene denunciata la violazione degli art. 8, 9, 10, 15 ult. comma e 32 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 2 e 5 c.p.c. in quanto il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare la incompetenza per valore dell'adito pretore poiché detta competenza "era superata" dal valore della spiegata domanda riconvenzionale e comunque poiché il valore dell'immobile oggetto della controversia eccedeva la competenza pretorile.
Anche tale motivo è infondato.
Rileva, infatti, la Corte che gli odierni ricorreti hanno proposto nel giudizio di primo grado non già una domanda riconvenzionale ma una autonoma domanda di garanzia, proposta nei confronti di soggetti diversi dall'attore. Non v'è dubbio, quindi, che ha trovato nella fattispecie pratica applicazione la normativa di cui all'art. 32 c.p.c., in base alla quale la domanda di garanzia, che ciascuna parte è abilitata a proporre a sensi dell'art. 106 c.p.c., può essere proposta al giudice competente per la causa principale affinché sia decisa nello stesso processo, anche se eccede la sua competenza per valore. Il Pretore, quindi, ben poteva giudicare sulla domanda proposta dai convenuti e tendente ad ottenere la condanna dei chiamati in garanzia al risarcimento dei danni nella misura di L. 10.000.000.
Per quanto riguarda, poi, l'altra doglianza relativa alla incompetenza per valore dell'adito pretore non dichiarata dal Tribunale, nonostante una semplice lettura degli atti avrebbe inequivocabilmente dimostrato che il limite massimo della competenza pretorile era superato, rileva la Corte che per dimostrare la infondatezza basta solo rilevare che la norma in vigore all'epoca della proposizione della domanda innanzi al pretore di Santa Severina prevedeva che "l'incompetenza per valore" poteva "essere rilevata, anche d'ufficio, in ogni momento del giudizio di primo grado" e non essendo ciò avvenuto non possono gli odierni ricorrenti dolersi che il Tribunale in grado di appello tale incompetenza non abbia rilevato.
Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell'art. 1415 c.c. in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. e lamentano che il Tribunale ha ritenuto irrilevante ammettere l'interrogatorio formale delle parti chiamate in causa e dell'attore in quanto tale mezzo istruttorio non avrebbe potuto inficiare le risultanze documentali in atti che provano la nullità del contratto di società con tutte le conseguenze che ne derivano. In particolare lamentano i ricorrenti che attraverso il richiesto interrogatorio e, quindi, attraverso la possibile confessione della parte cui è stato deferito si sarebbe potuto raggiungere la prova della simulazione della compravendita tra il Marazzita Francesco ed i genitori. Il motivo è infondato.
Potrebbe questa Corte limitarsi a rilevare che i ricorrenti ripropongono questioni ed apprezzamenti di fatto già sviluppati nei giudizi di merito e che hanno trovato in tale sede adeguato esame e che i motivi posti a base della doglianza mirano a richiedere una nuova valutazione delle risultanze degli assunti mezzi istruttori certamente inammissibile, ma non ritiene opportuno limitarsi a ciò. Ritiene, infatti, rilevare anche che la sentenza del Tribunale, con ineccepibile motivazione, dopo un completo esame di tutte le risultanze processuali ha escluso l'asserita simulazione del contratto di compravendita rilevando, fra l'altro, che la eccepita simulazione non può desumesi dal rapporto di parentela esistente tra le parti, considerando che la legge non pone limiti alla conclusione del detto negozio e che ben poteva la Lupia disporre del bene, atteso che la scrittura privata di conferimento dell'immobile, oggetto della compravendita, alla società era da considerarsi nulla e, quindi, priva di ogni giuridico effetto.
Con l'ultimo motivo di gravame i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli art. 948, 1418, 1420, 1421, 2251, 2258 c.c. e 227 c.p.c. in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. lamentando che il Tribunale di Crotone ha affermato che l'attore aveva utilmente esperito una azione di rivendicazione sul presupposto che la scrittura privata del 1954, costitutiva della società con il conferimento del bene immobile, recava un segno di croce di Lupia Perla e, quindi, la società avrebbe preso vita da un atto privo di efficacia giuridica, senza considerare che la società aveva funzionato immediatamente dando così esecuzione alla scrittura privata, prima con gli originari soci e poi con lo stesso Marazzita Francesco.
La doglianza è infondata.
I ricorrenti basano le loro argomentazioni sulla esistenza di una società semplice per la gestione di attività molitoria costituita MOTIVI DELLA DECISIONE
nel 1954 nella quale i coniugi Marazzita-Lupia avrebbero conferito l'immobile in questione.
Ora, come già più volte ricordato in precedenza, la scrittura privata con la quale la società sarebbe stata costituita non reca la firma ma il crocesegno di Lupia Perla proprietaria dell'immobile, per cui l'atto è privo di efficacia giuridica, costituendo la sottoscrizione requisito essenziale per la esistenza della scrittura privata. Ed in conseguenza tale vizio insanabile si estende a tutto il documento che non può esplicare alcun effetto ai fini della costituzione della società per difetto di forma che, nel caso di specie, si traduce in nullità assoluta.
E non v'è dubbio che la nullità del conferimento in società di un immobile per mancanza della forma scritta non si limiti al semplice atto di conferimento del bene ma sortisca di conseguenza la nullità dell'intero contratto di società, pur trattandosi di società semplice per la quale non è necessaria alcuna formalità, allorquando tale conferimento risulti essenziale per il conseguimento dello scopo sociale. E nel caso di specie il conferimento dell'immobile da parte della Lupia era indubbiamente essenziale al raggiungimento dello scopo sociale, essendo il fabbricato destinato a contenere i macchinari necessari per l'esercizio dell'attività molitoria e risultando essere l'unico immobile ove aveva sede la società costituita.
Nè ritiene la Corte che vi sia stata violazione dell'art. 2251 c.c. in quanto tale norma richiede la forma scritta per i conferimenti immobiliari in società semplici a pena di nullità per cui deve concludersi nel senso che la nullità della clausola di conferimento importa la nullità dell'intero contratto sociale quando il conferimento stesso sia, in conformità a quanto verificatosi pacificamente nel caso in esame, essenziale al raggiungimento dello scopo sociale.
La nullità del contratto sociale implica, quindi, che ciascun delle parti potrebbe rifiutare i conferimenti promessi a chiedere la restituzione dei beni conferiti secondo i principi generali in tema di nullità del contratto, ma non trasforma i presunti soci in soggetti che hanno svolto in comune una attività economica per un certo periodo proprio perché l'ordinamento ritiene inammissibile la comunione d'impresa.
Esattamente, in conseguenza, il Marazzita ha proposto azione di rivendicazione contro i ricorrenti in quanto proprietario del bene mai giuridicamente conferito in società poiché mai si era costituita società nei confronti di esso Marazzita e della sua dante causa.
La reiezione del ricorso comporta la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali in L. 1.731.150 in esse coimprese L. 1.500.000 per onorari.
Così deciso in Roma il 24 settembre 1993.