ilcaso.it
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6237 - pubb. 01/08/2010.

.


Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 27 Novembre 1999, n. 13291. Est. Evangelista.

Azienda - In genere (nozione) - Comunione incidentale di azienda - Sfruttamento diretto da parte di uno o più partecipanti - Qualificazione - Esercizio rispettivamente di impresa individuale o collettiva - Comunione a scopo di godimento - Esclusione - Azienda facente parte di patrimonio ereditario - Sfruttamento congiunto da parte degli eredi - Mera amministrazione di un bene ereditario - Esclusione - Configurabilità di una società di fatto - Sussistenza - Conseguenze - Assunzione da parte degli eredi della responsabilità per l'attività della società - Irrilevanza delle limitazioni di responsabilità ricollegate alla qualità di eredi.

Successioni "Mortis Causa" - Coeredità (comunione ereditaria) - In genere - Azienda facente parte del patrimonio ereditario -Sfruttamento congiunto da parte degli eredi - Mera amministrazione di un bene ereditario - Esclusione - Configurabilità di una società di fatto - Sussistenza - Conseguenze - Assunzione da parte degli eredi della responsabilità per l'attività della società - Irrilevanza delle limitazioni di responsabilità ricollegate alla qualità di eredi.


Nel caso di comunione incidentale di azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte di uno o più partecipanti alla comunione, è configurabile l'esercizio di un'impresa individuale o collettiva (nella forma della società regolare oppure della società irregolare di fatto), non ostandovi l'art. 2248 cod. civ., che assoggetta alle norme degli artt. 1100 e ss. dello stesso codice la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento. Pertanto, nel caso in cui più eredi esercitino, congiuntamente ed in via di fatto, lo sfruttamento diretto dell'azienda già appartenuta al "de cuius", deve escludersi la configurabilità di una mera amministrazione di beni ereditari in regime di comunione incidentale di godimento e si è, invece, in presenza dell'esercizio di attività imprenditoriale da parte di una società di fatto, con l'ulteriore conseguenza che, in ordine alla responsabilità per i debiti contratti nell'esercizio di tale attività, restano prive di rilievo la qualità successoria delle persone anzidette e le eventuali limitazioni di responsabilità ad essa correlate. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Erminio RAVAGNANI - Presidente -
Dott. Fabrizio MIANI CANEVARI - Consigliere -
Dott. Pietro CUOCO - Consigliere -
Dott. Florindo MINICHIELLO - Consigliere -
Dott. Stefano Maria EVANGELISTA - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
TICCA LUCIANO, TICCA SERENELLA, TICCA ORNELLA LUISA, TICCA ALESSANDRO, FERRARA SANTINA VED TICCA, elettivamente domiciliati in ROMA LGO G TONIOLO 6, presso lo studio dell'avvocato UMBERTO MORERA, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUIGI CABIDDU, CORRIAS PIER GIORGIO, GABRIELE RACUGNO, ANTONIO URAS, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
CAVIA MARIO, MURGIA SALVATORE, CAVIA SERAFINO, LORRAI MARIO, LORRAI NATALE, MONNI PAOLO, CABRAS NICOLA, CABRAS GIOVANNI, MORO UMBERTO, INCOLLU ANTONIO, MEREU RUGGERO, SCATTU MARIO, CHELUCCI ARMANDO, MEREU GIUSEPPINA;
- intimati -
e sul 2^ ricorso n. 16225/97 proposto da:
MURGIA SALVATORE, CAVIA SERAFINO, LORRAI MARIO, LORRAI NATALE, MONNI PAOLO, CABRAS NICOLA, CABRAS GIOVANNI, IINCOLLU ANTONIO, MEREU RUGGERO, SCATTU MARIO, CHELUCCI ARMANDO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell'avvocato GENTILE GIAN MICHELE, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIOMARIA DEMURO, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
e da
CAVIA MARIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell'avvocato GENTILE GIAN MICHELE, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIOMARIA DEMURO, giusta delega in atti.
- controricorrente e ricorrente incidentale -
e da
MORO UMBERTO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell'avvocato GENTILE .GIAN MARIA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIOMARIO DEMURO, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
nonché contro
TICCA LUCIANO, TICCA SERENELLA, TICCA LUISA, TICCA ALESSANDRO, FERRARA SANTINA VED TICCA;
- intimati -
e sul 3^ ricorso n. 14092/97 proposto da:
TICCA RENATO, TICCA FRANCESCO, TICCA ANTONIETTA, TICCA UGO, MURGIA ELENA VED TICCA, TICCA MARIA, TICCA ALESSANDRA, MANNAZZU ANNA, CAPOZZI CAROLINA, elettivamente domiciliati in ROMA VIA SEBASTIANO VENIERO 8, presso lo studio dell'avvocato UMBERTO MONACCHI A, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato LUIGI PASSINO, giusta delega in atti;
- ricorrenti -
nonché contro
CAVIA MARIO, MURGIA SALVATORE, CAVIA SERAFINO, LORRAI MARIO, LORRAI NATALE, MONNI PAOLO, CABRAS NICOLA, CABRAS GIOVANNI, MORO UMBERTO, INCOLLU ANTONIO, MEREU RUGGERO, SCATTU MARIO, CHELUCCI ARMANDO;
- intimati -
e sul 4^ ricorso n. 16226/97 proposto da:
MURGIA SALVATORE, CAVIA SERAFINO, LORRAI MARIO, LORRAI NATALE, MONNI PAOLO, CABRAS NICOLA, CABRAS GIOVANNI, MORO UMBERTO, INCOLLU ANTONIO, MEREU RUGGERO, SCATTU MARIO, CHELUCCI ARMANDO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell'avvocato GENTILE GIAN MARIA, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIOMARIA DEMURO, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
e da
CAVIA MARIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G. G. BELLI 27, presso lo studio dell'avvocato GENTILE GIAN MICHELE, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIOMARIA DEMURO, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
nonché contro
TICCA RENATO, TICCA FRANCESCO, TICCA ANTONIETTA, TICCA UGO, MURGIA ELENA VED TICCA, TICCA MARIA, TICCA ALESSANDRA, MANNAZZU ANNA, CAPOZZI CAROLINA;
- intimati -
e sul 5^ ricorso n. 02462/98 proposto da:
AMARA MARIA VED TICCA SALVATORE, TICCA FRANCESCO, TICCA VIVIANA, TICCA MARIA LUISA, elettivamente domiciliati in ROMA LARGO G TONIOLO 6, presso lo studio dell'avvocato UMBERTO MORERA, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUIGI CABIDDU, ANTONIO URAS, giusta delega in atti;
- ricorrente -
nonché contro
CAVIA MARIO, MURGIA SALVATORE, CAVIA SERAFINO, LORRAI MARIO, LORRAI NATALE, MONNI PAOLO, CABRAS NICOLA, CABRAS GIOVANNI, MORO UMBERTO, INCOLLU ANTONIO, MEREU RUGGERO, SCATTU MARIO, CHELUCCI ARMANDO;
- intimati -
e sul 6^ ricorso n. 04285/98 proposto da:
CAVIA MARIO, MURGIA SALVATORE, CAVIA SERAFINO, LORRAI MARIO, LORRAI NATALE, MONNI PAOLO, CABRAS NICOLA, CABRAS GIOVANNI, MORO UMBERTO, INCOLLU ANTONIO, MEREU RUGGERO, SCATTU MARIO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell'avvocato IGENTILÈ GIAN MICHELE, che lì rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIOMARIA DEMURO, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
e da
CHELUCCI ARMANDO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell'avvocato DEMURO GIOMARIA C70 GENTILE G M, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GENTILE GIAN MICHELE, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
nonché contro
AMARA MARIA VED TICCA, TICCA FRANCESCO, TICCA VIVIANA, ,TICCA MARIA LUISA;
- intimati -
avverso la sentenza n. 65/97 del Tribunale di ORISTANO, depositata il 05/03/97, R.G.N. 38/95;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/07/99 dal Consigliere Dott. Stefano Maria EVANGELISTA;
udito l'Avvocato UMBERTO MONACCHIA, LUIGI CABIDDU, PIER GIORGIO CARRIAS, GABRIELE RACUGNO, URAS ANTONIO;
udito l'Avvocato LUIGI PASSINO, UMBERTO MONACCHIA;
udito l'Avvocato LUIGI CABIDDU, ANTONIO URAS, UMBERTO MORERA;
udito l'Avvocato GIAN MICHELE GENTILE, GIOMARIA DE MURO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio MARTONE che ha concluso per i ricorsi di TICCA LUCIANO E RENATO il rigetto del primo e secondo motivo del ricorso e inammissibile il terzo, il ricorso di AMARA rigettato e assorbito quello incidentale.
Svolgimento del processo
I sig.ri Mario Cavia, Salvatore Murgia, Serafino Cavia, Mario Lorrai, Natale Lorrai, Paolo Monni, Nicola Cabras, Giovanni Cabras, Umberto Moro, Antonio Incollu, Ruggero Mereu, Mario Scattu e Armando Chelucci, con tre distinti ricorsi, poi riuniti, convenivano in giudizio davanti al Pretore. di Dorgali i sig.ri Salvatore, Giuseppe, Umberto e Tonino Ticca, quali soci della società di fatto SELAS, chiedendone la solidale condanna al pagamento di indennità ed emolumenti vari afferenti a pregressi rapporti di lavoro che assumevano di avere intrattenuto con questa società fino al 23 giugno 1973, data in cui essa aveva cessato la propria attività di esercizio di autoservizi extraurbani.
I lavoratori sostenevano, in particolare, che originario titolare dell'azienda era il sig. Francesco Ticca, cui erano, poi, succeduti i suoi discendenti, fra i quali i menzionati convenuti, che avevano provveduto alla continuazione in forma sociale dell'attività, affidandone la gestione al coerede Salvatore Ticca. I convenuti si costituivano e contestavano le avverse pretese, negando, fra l'altro, la sussistenza di codesta società ed eccependo, comunque, la prescrizione dei diritti vantati nei loro confronti.
Il processo si interrompeva a seguito della morte di Tonino Ticca ed era poi riassunto, con dichiarazione, peraltro, da parte degli attori in riassunzione, di rinuncia alla domanda proposta nei confronti del litisconsorte deceduto e, per lui, dei suoi eredi. Il pretore rigettava la domanda, accogliendo l'eccezione di prescrizione, ma la sua decisione veniva riformata dal Tribunale di Nuoro, con sentenza del 12 febbraio 1992, sul rilievo che la causa doveva essere restituita al primo giudice per essersi svolto il procedimento davanti a lui a contraddittorio non integro, non essendo stati citati alcuni soggetti che pure, nell'atto introduttivo, erano stati menzionati come soci della SELAS.
La sentenza d'appello veniva, poi, cassata da questa Corte, la quale, con sentenza 2 dicembre 1994, n. 10333, rigettato un motivo di ricorso inteso a far valere un presunto giudicato formatosi sulla sussistenza della società di fatto fra gli eredi di Francesco Ticca, sanciva il principio per cui non è configurabile un litisconsorzio necessario fra i soci di una società di fatto, nonché fra questi e la società stessa, atteso il carattere solidale delle obbligazioni assunte da tali soggetti, di guisa che, qualora siano convenuti in giudizio, assieme alla società, solo alcuni dei soci, non sussiste la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri; i quali, peraltro, non possono essere danneggiati dall'eventuale sentenza di condanna emessa nei confronti dei soci che hanno preso parte al giudizio, potendo, se a loro volta convenuti in altro giudizio dai creditori o dai suddetti soci in via di regresso, contrastare la domanda (art. 1306, comma 1, c.c.) dimostrando l'inesistenza della loro qualità di soci, ovvero giovarsi della sentenza se favorevole nei loro confronti (art. 1306, comma 2, c.c.). La Corte rinviava, pertanto, la causa al Tribunale di Oristano perché procedesse all'accertamento, senza necessità di integrazione del contraddittorio, circa l'esistenza di una società di fatto, denominata SELAS, fra le persone delle quali era stata chiesta la condanna solidale alle contestate prestazioni, vale a dire fra Salvatore, Giuseppe e Umberto Ticca; nonché circa l'esistenza dei diritti oggetto della domanda.
Seguiva il giudizio davanti al giudice di rinvio fra gli originari attori e gli eredi di Salvatore, Giuseppe ed Umberto Ticca, tutti deceduti nelle more.
Il Tribunale di Oristano, con sentenza depositata in cancelleria il 19 febbraio 1997, accoglieva le domande dei lavoratori e per l'effetto condannava in solido i convenuti al pagamento, in favore di ciascuno di essi, delle somme pretese.
I giudici del merito osservavano in particolare che:
- la sussistenza di una società di fatto fra gli eredi di Francesco Ticca, per la gestione in comune, ancorché delegata a Salvatore Ticca, dell'azienda del loro dante causa, era comprovata dalla certificazione della dichiarazione di questo stesso successore alla locale Camera di commercio, intesa a fare registrare la trasformazione dell'impresa individuale nella suddetta forma di società; risultanza conforme a quella derivante dal citato documento somministrava, poi, analogo atto proveniente dal servizio anagrafico del Comune di Nuoro ed attestante l'iscrizione nel registro delle ditte dell'impresa SELAS come società di fatto per l'esercizio di pubbliche linee automobilistiche; infine indicazione di una gestione sociale di tale impresa era venuta anche dai testimoni sentiti al riguardo;
- l'ammontare dei crediti vantati dai lavoratori non era stato contestato dai convenuti, sebbene risultante dal precisi conteggi, elaborati da un consulente di parte sulla base delle buste - paga di ogni singolo dipendente, e depositati in atti; da questi documenti e dalla corrispondenza intercorsa fra i lavoratori stessi ed i responsabili dell'impresa datrice di lavoro emergeva la mancata corresponsione degli emolumenti dai primi rivendicati; gli eredi Ticca, costituendosi, avevano mosso, sul punto, una sola contestazione, vale a dire l'eccezione di prescrizione, non solo ordinaria, ma anche presuntiva: ciò che costituiva comportamento processuale incompatibile con la negazione dei diritti dedotti in giudizio e della relativa quantificazione;
- la suddetta eccezione, peraltro, era infondata, dovendosi ritenere (relativamente ad emolumenti maturati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge 20 maggio 1970 n. 300) che il corso della prescrizione quinquennale, in assenza dei requisiti di stabilità dei rapporti di lavoro, poteva essere iniziato solo da questa data e che, rispetto a tale decorrenza, nonché rispetto a diritti maturati solo successivamente, risultavano proposti idonei atti interruttivi, consistenti nella lettera inviata al legale di Salvatore Ticca, nella quale si faceva menzione dei crediti di ogni singolo lavoratore, sebbene non se ne indicasse l'esatto ammontare; e poi negli atti di costituzione in mora notificati per mezzo di ufficiale giudiziario a Giuseppe e Salvatore Ticca il 23 giugno 1978, atti da considerarsi efficaci nei confronti di tutti i coobbligati, in quanto quest'ultimo destinatario agiva come rappresentante anche degli altri soci dai quali era stato delegato per la gestione della società.
Per la cassazione di questa sentenza proponevano ricorso principale, con tre distinti atti, gli eredi di Umberto (ricorso n. 13785/97, notificato il 15 ottobre 1997), Giuseppe (ricorso n. 14092/97, notificato il 23 ottobre 1997) e Salvatore Ticca (ricorso n. 2462198, notificato il 4 febbraio 1998) ed altrettanti ricorsi incidentali condizionati i lavoratori.
All'udienza del 10 dicembre 1998, la Corte, rilevando che la sentenza impugnata era stata pronunciata anche nei confronti di tale Mereu Giuseppina, in qualità di erede di Salvatore Ticca, e che alla stessa non era stato notificato alcuno degli atti introduttivi del giudizio di legittimità, disponeva l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti ed assegnava all'uopo termine di giorni novanta dalla comunicazione della relativa ordinanza. A tale integrazione i ricorrenti hanno provveduto, depositando poi i relativi atti nel termine di cui all'art. 371 bis cod. proc. civ., unitamente ad attestazione dell'Ufficiale di anagrafe del Comune di Dorgali sul fatto che la prenominata Mereu Giuseppina e Amara Maria Innocenza (ricorrente in questo giudizio, come vedova ed erede di Salvatore Ticca) sono la medesima persona.
Tutte le parti hanno altresì depositato memorie illustrative, con la sola eccezione degli eredi di Giuseppe Ticca.
Motivi della decisione
I sei diversi ricorsi menzionati in parte narrativa devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ., siccome proposti contro la medesima sentenza.
Il primo motivo del ricorso (n. 13785/97) proposto dagli eredi di Umberto Ticca ed il primo di quello (n. 14092 del 1997) proposto dagli eredi di Giuseppe Ticca hanno identico contenuto e denunciano violazione e falsa applicazione dell'art. 2297 cod. civ., in una con vizi di motivazione.
In particolare, censurano la sentenza impugnata per avere omesso ogni ulteriore accertamento sulla effettiva esistenza della società tra tutti gli eredi Ticca e per avere fondato il proprio convincimento al riguardo solo su di alcuni atti formali mentre la società di fatto, per la sua esistenza, ha bisogno di essere esteriorizzata in forma idonea a consentire ai terzi la percezione del rapporto sociale e della conseguente responsabilità patrimoniale.
Le censure ora sintetizzate sono in parte infondate ed in parte inammissibili.
Come più diffusamente riferito in parte narrativa, il tribunale ha desunto l'esistenza di una società di fatto fra gli eredi di Francesco Ticca, con delega per la gestione dell'azienda a Salvatore Ticca, in primo luogo dalla certificazione della Camera di Commercio di Nuoro circa la denuncia di modificazione della impresa individuale nella detta società, a seguito della morte del dante causa. Al riguardo la Corte rileva che nella propria giurisprudenza risulta più volte affermato il principio per cui l'iscrizione di una impresa presso la Camera di commercio come società di fatto non rappresenta un dato meramente formale, inidoneo a comprovare l'esistenza effettiva della società, trattandosi, invece, di elemento che, per essere conseguente all'iniziativa degli stessi interessati, integra tutti gli estremi di una presunzione della sua corrispondenza allà realtà (Cass. 12 maggio 1986, n. 3140, ricordata, del resto, dagli stessi ricorrenti; cui adde Cass 5 febbraio 1977 n. 502; Cass. 13 maggio 1977 n. 1883); inoltre, poiché l'iscrizione risulta da pubblici registri conoscibili dalla generalità delle persone, essa determina, a carico dei soci, un importante elemento di riscontro circa l'assunzione, da parte loro, della responsabilità patrimoniale illimitata per le attività e le obbligazioni riferibili alla compagine sociale.
Da questo principio - che deve qui essere ribadito, non emergendo dalle censure in esame ragioni idonee a consentirne l'abbandono consegue la risolutiva affermazione dell'ininfluenza delle deduzioni svolte dai ricorrenti in ordine agli elementi costitutivi della società di fatto e delle doglianze di omesso accertamento dell'effettiva sussistenza dei medesimi nel caso di specie, perché, una volta ricondotte nel novero delle presunzioni semplici le risultanze delle iscrizioni richieste dagli interessati presso la Camera di commercio e da questa certificate, si radicava in esse la prova della struttura sociale dell'impresa, incombendo, viceversa, ai presunti soci di dedurre e dimostrare fatti idonei a contrastare l'assunto delle controparti e l'avallo che ne fornivano tali presunzioni.
Si consideri, del resto, che la presunzione semplice e quella "iuris tantum" si distinguono unicamente in ordine alla loro insorgenza: la prima deve essere provata da parte di colui che intende trame vantaggio, laddove la seconda è stabilita dalla legge e quindi non abbisogna di una prova che la giustifichi; ma entrambe le presunzioni hanno, una volta che siano state rilevate, la medesima efficacia, in quanto trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l'onere della prova contraria (Cass. 1 giugno 1991 n. 6206).
Nè, poi, a sole presunzioni si sono affidati i giudici del merito, ma ne hanno rinvenuto esplicita conferma nella certificazione in data 27 marzo 1984 del servizio anagrafico di Nuoro, ugualmente attestante l'iscrizione nel Registro delle ditte dell'impresa SELAS come società di fatto per l'esercizio di pubbliche linee automobilistiche per viaggiatori; e recante altresì la menzione dell'atto notorio del socio comproprietario, Salvatore Ticca, circa l'avvenuto conferimento della completa delega, ad opera degli altri soci, per la gestione dell'azienda.
Coerenti con le esposte risultanze sono, infine, apparse agli stessi giudici le deposizioni dei testi escussi sul punto. In un tale contesto espositivo delle ragioni della decisione, mentre non si ravvisano i lamentati errori di diritto, poiché viene, nella specie, in discussione non già l'esatta determinazione dei criteri posti in astratto dalla legge per procedere alla individuazione della società di fatto, ne' l'applicazione dei medesimi alla fattispecie concreta, bensì l'idoneità delle risultanze istruttorie acquisite a fornire plausibile dimostrazione dell'effettiva esistenza degli elementi costitutivi del detto tipo di società, il proprium delle censure svolte dai ricorrenti finisce per compendiarsi in un'inammissibile sollecitazione di nuova formulazione del giudizio di fatto in ordine a tale esistenza, sulla base di una soggettiva valutazione del materiale istruttorio e di una personale ricostruzione della vicenda processuale.
È noto, invece, che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvi i casi tassativamente previsti dalla legge).
Ne consegue (v., per tutte, Cass. sez. un., 27 dicembre 1997, n. 13045) che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a base della decisione: evenienze delle quali, alla stregua di quanto dianzi riferito, non è rinvenibile traccia nel caso di specie.
D'altra parte, non giova ai ricorrenti il rilievo della derivazione ereditaria della contitolarità dei loro diritti sull'azienda di cui trattasi, posto che, a differenza di quanto essi sostengono coi motivo di ricorso in esame, non esiste alcuna preclusione di principio alla possibilità di ritenere intervenuta la trasformazione della comunione incidentale in società di fatto, come è stato già più volte affermato dalla Corte.
In quest'ordine di idee, si è, infatti, ritenuto che, nel caso di comunione incidentale di azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte di uno o più partecipanti alla comunione, è configurabile l'esercizio di un'impresa individuale o collettiva (nella forma della società regolare oppure della società irregolare o di fatto), non ostandovi l'art. 2248 c.c. (che assoggetta alle norme degli art. 1100 e ss. dello stesso codice la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento). Pertanto, nel caso in cui più eredi esercitino, congiuntamente ed in via di fatto, lo sfruttamento diretto dell'azienda già appartenuta al de cuius (caso da ritenersi ricorrente nella specie, alla stregua delle superiori considerazioni), è esclusa la configurabilità di una mera amministrazione di beni ereditari in regime di comunione incidentale di godimento e si è, invece, in presenza dell'esercizio di attività imprenditoriale da parte di una società di fatto, con l'ulteriore conseguenza che, in ordine alla responsabilità per i debiti contratti nell'esercizio di tale attività, restano prive di rilievo la qualità successoria delle persone anzidette e le eventuali limitazioni di responsabilità ad essa correlate (v., in particolare, Cass. 21 febbraio 1984 n. 1251 e, improntate ad un principio sostanzialmente identico, Cass. 24 giugno 1983 n. 4355, nonché Cass. 12 maggio 1981 n. 3130).
L'unico motivo del ricorso proposto dagli eredi di Salvatore Ticca ed il secondo motivo di quelli proposti, rispettivamente, dagli eredi di Umberto e di Giuseppe Ticca, sono, a loro volta, di identico contenuto e si articolano in censure aventi una triplice direzione. Invero - denunciandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 416 in combinazione con l'art. 420 cod. proc. civ.;
dell'art. 39 Cost.; degli artt. 2948, n. 4, con riferimento al r.d. 8 gennaio 1931, n. 148 ed al relativo Regolamento all. A), nella parte in cui viene garantita la così detta stabilità reale di dipendenti di aziende esercenti autoservizi in concessione, nonché degli artt. 1219 cod. civ. e 116 cod. proc. civ. -, si assume che: a) la domanda introduttiva del giudizio era stata proposta in modo incompleto, in quanto carente dell'indicazione precisa dei fatti costitutivi dei diritti rivendicati; ciò, da un lato, rendeva illegittimi l'espletamento della prova testimoniale in ordine ai medesimi fatti e la successiva utilizzazione delle relative risultanze e, dall'altro lato, precludeva ogni possibilità sia di contestazione specifica da parte dei convenuti, sia di valutazione del difetto di contestazione come argomento di convincimento; il tribunale, cui incombeva di rilevare di ufficio le decadenze nelle quali erano incorsi gli attori, avrebbe dovuto rigettarne le domande; b) i lavoratori non avevano in alcun modo dedotto o provato di avere diritto all'applicazione del contratto collettivo di categoria, sicché non poteva trovare accoglimento la loro pretesa di vedersi liquidare i compensi in contestazione sulla base di quella disciplina; c) la prescrizione quinquennale doveva ritenersi decorrente in pendenza dei rapporti di lavoro, essendo questi presidiati dal regime di stabilità derivante dalla citata regolamentazione speciale per i dipendenti di aziende esercenti il pubblico servizio di trasporto in concessione; il preteso atto interruttivo, consistente nella lettera inviata il 7 giugno 1974 dall'avv. Soro per rivendicare l'erogazione di emolumenti in favore dei lavoratori non era idoneo allo scopo, stante la sua genericità, quanto all'indicazione degli oggetti delle pretese enunciate dagli interessati.
Anche queste censure non hanno fondamento.
Quanto al primo dei tre indicati profili, la Corte osserva come dal testo della sentenza impugnata emerga il dato (cfr. le conclusioni riferite dai giudici di appello), non smentito dai ricorrenti, che i conteggi analitici elaborati dal consulente dei lavoratori vennero prodotti da questi ultimi con allegazione agli atti introduttivi del giudizio di primo grado davanti al Pretore di Dorgali.
In relazione ai diversi titoli delle pretese avanzate dagli attori, tali conteggi rappresentavano certamente un'indicazione significativa dei relativi fatti costitutivi, configurandosi il risultato stesso dell'elaborazione contabile come un elemento utile per inferirne i dati elementari considerati.
Per altro verso, giova ricordare come la Corte abbia
ripetutamente sancito il principio per cui il rito del lavoro, pur non attuando un sistema inquisitorio puro, tende a contemperare, in considerazione della particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo - che obbedisce al criterio formale di giudizio fondato sull'onere della prova - con quello della ricerca della verità materiale, mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo: donde la conseguenza che, quando le risultanze di causa offrano significativi dati e spunti di indagine - come nella specie poteva ritenersi per effetto della produzione dei suddetti conteggi - il giudice non può limitarsi a fare meccanica applicazione della suddetta regola formale di giudizio, ove reputi insufficienti le precisazioni e le prove già acquisite, ma ha il potere - dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati in tale materiale ed idonei a superare l'incertezza sui fatti dedotti, senza che a ciò sia d'ostacolo il verificarsi di decadenze o preclusioni in danno delle parti (cfr., fra le tante, Cass. 21 febbraio 1998, n. 1894; Id., 25 ottobre 1997, n. 10522; Id., 12 febbraio 1997, n. 1304; Id. 2 agosto 1996, n. 6995; Id., 20 aprile 1995, n. 4432).
Nè possono sorgere dubbi sulla validità stessa dell'atto introduttivo del giudizio essendo anche al riguardo orientamento giurisprudenziale costante quello secondo il quale, nel suddetto rito speciale, l'onere. della determinazione dell'oggetto della domanda, fissato a pena di nullità dall'art. 414 n. 3, cod. proc. civ., deve ritenersi osservato, con riguardo alla richiesta di pagamento di spettanze retributive, qualora l'attore indichi i relativi titoli, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese, mentre resta a tal fine irrilevante la mancanza di un'originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà dell'attore medesimo di modificarne l'ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine all'individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere (v., per tutte, Cass. 7 aprile 1998, n. 3594).
Riconosciuta in questi termini la completezza degli atti introduttivi del giudizio, ne consegue evidente la giuridica correttezza della sentenza impugnata, nella parte in cui utilizza come elemento di convincimento il difetto di contestazioni specifiche in ordine sia ai fatti costituivi dei diritti vantati, sia all'ammontare delle relative pretese economiche; così come appare non meno chiaro il difetto di decadenza dall'onere dell'allegazione delle circostanze alle quali i giudici del merito si sono affidati nel pronunciare la condanna dei convenuti al pagamento delle somme ex adverso richieste.
La manifesta infondatezza del secondo profilo di censura presente nel motivo di ricorso in esame discende dal rilievo che la quantificazione di emolumenti spettanti al lavoratore in corrispettivo di prestazioni svolte nel corso del rapporto di lavoro può essere legittimamente compiuta dal giudice, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2099 cod. civ. e 36 Cost., con riferimento alle disposizioni del contratto collettivo di categoria, indipendentemente dalla diretta efficacia obbligatoria del medesimo nei confronti delle parti e solo per la sua idoneità a fornire parametri di individuazione di equa retribuzione.
In effetti, la domanda del lavoratore, avente ad oggetto differenze salariali pretese in base ad un contratto collettivo, deve presumersi diretta ad ottenere un'integrazione della retribuzione anche ai sensi dell'art. 36 Cost., sicché il giudice del merito che reputi inoperante, come tale (vale a dire per diretta efficacia derivante da apposita pattuizione o da iscrizione delle parti alle associazioni sindacali stipulanti), la disciplina collettiva invocata - non direttamente applicabile al rapporto di lavoro de quo - è tenuto a verificare se spetti al lavoratore l'adeguamento salariale con riferimento ai criteri posti dalla norma costituzionale, utilizzando a tal fine le tabelle retributive del contratto collettivo in funzione di mero parametro (cfr. Cass. 23 gennaio 1995, n. 770).
Del resto, nella specie, una siffatta domanda di adeguamento era stata espressamente proposta dai lavoratori, come emerge dalle conclusioni dai medesimi formulate nel giudizio a quo e trascritte nella sentenza impugnata.
È, quindi, del tutto irrilevante la questione se i lavoratori abbiano dedotto e provato la diretta operatività del contratto collettivo sulla cui base sono stati calcolati gli emolumenti e le differenze retributive pretese.
Quanto all'identificazione del contratto collettivo, si osserva che gli stessi ricorrenti, mentre ammettono che nelle produzioni di controparte risultava espressamente indicato quello avente vigenza dal 1^ maggio 1970 (cfr. memoria 24 aprile 1998, pag. 15, degli eredi di Umberto Ticca), nulla osservano circa l'avvenuta utilizzazione o meno del medesimo contratto, ai fini dell'elaborazione dei conteggi suddetti; e si aggiunga che poteri di identificazione, rispetto ad una domanda di adeguamento retributivo ex art. 36 Cost., da esaminarsi alla stregua dei parametri offerti dalla contrattazione collettiva di settore e categoria, competono anche al giudice e non soltanto alla parte, come è reso palese dall'ultimo comma dell'art. 425 cod. proc. civ..
Con riguardo alle censure concernenti la dedotta prescrizione dei diritti in contestazione, la Corte osserva che l'art. 1 della legge n. 1054 del 1960 testualmente stabilisce: "Le disposizioni del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, i relativi allegati e le successive aggiunte e modificazioni, sono estesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, al personale addetto agli autoservizi di linea extraurbani, anche se non direttamente dipendente da azienda concessionaria, e sempreché, a giudizio del Ministero dei trasporti - Ispettorato generale della motorizzazione civile e trasporti in concessione risulti superiore a 25 il numero di personale occorrente per le normali esigenze di tutti gli autoservizi, anche se urbani, ovunque esercitati dall'azienda" Il successivo art. 4, con riguardo alle diverse categorie di personale, testualmente stabilisce che "le disposizioni del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, i relativi allegati e le successive aggiunte e modificazioni, con le estensioni previste dalla presente legge si applicano a tutto il personale degli autoservizi urbani ed extraurbani in concessione od in esercizio ad aziende private o municipalizzate, o a Comuni, Provincie, Regioni, consorzi od altri enti pubblici".
Ne risulta una disciplina a mente della quale, per il
riconoscimento dell'applicabilità delle disposizioni di cui al r.d. n. 148 del 1931, la dipendenza del lavoratore da impresa esercente l'autoservizio urbano o extraurbano costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente, dovendo concorrere anche il descritto requisito dimensionale dell'azienda, la cui verifica, peraltro, non dipende dal mero riscontro delle unità lavorative concretamente impiegate, ma anche da un apprezzamento affidato all'autorità amministrativa in ordine alle effettive esigenze dell'impresa, valutate con riguardo alle normali esigenze del servizio. Orbene, nel caso di specie, i ricorrenti si limitano ad affermare la sussistenza del requisito de quo, ma nulla deducono circa quella del positivo apprezzamento di competenza della detta autorità, sicché nulla autorizza a ritenere completata la fattispecie costitutiva dell'estensione del regime del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri.
E, d'altra parte, anche la circostanza cui i ricorrenti affidano la dimostrazione del loro assunto - vale a dire l'avvenuta indicazione di 29 dipendenti della ditta SELAS, nella lettera in data 7 giugno 1974, diretta, dagli stessi lavoratori, all'avvocato Antonio Soro, per far valere le proprie pretese economiche non appare in sè accreditabile di elementi di decisività, in quanto nulla dimostra che il suddetto numero complessivo corrisponda a quello di altrettante persone addette contemporaneamente al servizio per effettive esigenze dell'azienda.
Deve, quindi, ritenersi corretto il giudizio del tribunale circa l'insussistenza di un regime di stabilità reale in periodo anteriore alla data di entrata in vigore della legge 20 maggio 1970, n. 30, non potendosi affermare che questo presidio dei posti di lavoro fosse già stato acquisito dai lavoratori per effetto dell'applicabilità, nei loro confronti, del regime proprio dei rapporti di lavoro governati dal sopra citato r.d. n. 148 del 1931 e successive modificazioni e integrazioni.
Conseguenza ne è che, per quanto concerne la prescrizione di diritti maturati anteriormente alla data suddetta, il decorso del relativo termine non poteva iniziare in pendenza dei rapporti di lavoro, ma soltanto dalla medesima data, ai sensi dell'art. 2948 cod. civ., nella disposizione risultante dalla parziale declaratoria di illegittimità di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 1966.
Trattandosi di prescrizione quinquennale, giusta la testè citata disposizione, il termine era ancora pendente alle date degli atti interruttivi individuati dal tribunale e consistenti, come si è riferito in parte narrativa, nella lettera in data 7 giugno 1974, inviata dall'avvocato Soro a Salvatore Ticca, e poi negli atti di costituzione in mora notificati per mezzo di ufficiale giudiziario a Giuseppe e Salvatore Ticca il 23 giugno 1978.
Nè rileva, a questo fine, la qualità, propria di Salvatore Ticca, di delegato alla gestione della società, essendo sufficiente la qualità di socio e, quindi, di coobbligato solidale, per determinare, ai sensi dell'art. 1310 cod. civ., l'effetto interruttivo anche nei confronti degli altri soci coobbligati. A fortiori, inoltre, la tempestività di questi atti interrutivi va riconosciuta con riguardo a diritti maturati nella fase dei rapporti successiva all'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori e all'atto della cessazione dei rapporti medesimi, avvenuta, come si è detto, nel 1973.
A prescindere, tuttavia, dall'aspetto temporale, resta da esaminare se gli atti in questione effettivamente avessero requisiti tali da farli considerare idonei ad attingere l'effetto interruttivo. La verifica è preclusa con riguardo agli atti del 1978, poiché l'idoneità affermata dal giudice del merito non è sottoposta ad alcuna censura da parte dei ricorrenti, i quali appuntano le loro critiche esclusivamente sull'analoga affermazione concernente la lettera del giugno 1974. Ma si tratta di censure che, pur così delimitate, sono prive di fondamento.
Costituisce jus receptum che l'atto di costituzione in mora di cui all'art. 1219 c.c., idoneo all'effetto suddetto ai sensi dell'art. 2943, ultimo comma, cod. civ., non è soggetto a rigore di forme, all'infuori della scrittura, e quindi non richiede l'uso di formule solenni, ne' l'osservanza di particolari adempimenti. È, invece, sufficiente, che esso presenti un elemento soggettivo, costituito dalla chiara indicazione del soggetto obbligato, ed un elemento oggettivo, consistente nella esplicitazione di una pretesa, nella intimazione o richiesta scritta di adempimento idonea a manifestare l'inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto indicato. Il relativo accertamento costituisce indagine di fatto riservata al giudice del merito, ed insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici (cfr. Cass. 19 gennaio 1995, n. 563; Id., 19 marzo 1994, n. 2628;
Id., 8 agosto 1994, n. 7323; Id., 19 gennaio 1993, n. 612; Id., 2 febbraio 1985 n. 688; Id., 23 gennaio 1984 n. 542; Id., 1 marzo 1984 n. 1440; Id., 13 dicembre 1982 n. 6849; Id., 26 gennaio 1982 n. 528;
Id., 16 dicembre 1982 n. 6941).
Nella specie, il tribunale ha accertato che la lettera in questione contiene "esplicita menzione dei crediti di ogni singolo ricorrente, anche se non si precisa l'ammontare degli stessi"; ed ha considerato che, ad escludere il valore di intimazione al debitore per l'adempimento delle correlative obbligazioni, non potesse valere la mancata indicazione precisa del quantum "in quanto tale livello di certezza e di determinatezza non è richiesto neppure per l'atto introduttivo del giudizio".
Di quest'ultima considerazione si è già dimostrata l'esattezza nell'esame di quella parte di censura che concerne i requisiti formali e di allegazione dell'originaria domanda giudiziale; ed in effetti, è da rilevare che la congiunta considerazione, nel contesto dell'art. 2943 cod. civ., dell'atto col quale si inizia un giudizio (primo comma) e di ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore (terzo comma), non appare compatibile con una opzione ermeneutica che assegni diversa consistenza ai livelli di specificità della pretesa fatta valere nell'una o nell'altra sede. Le conclusioni cui perviene il giudice a quo appaiono, perciò, improntate a criteri logicamente e giuridicamente corretti, di fronte ai quali non residuano margini di verifica per un giudizio di legittimità che rimanga effettivamente tale, senza trasmodare in valutazioni di merito, tanto più quando si consideri che la denuncia di genericità dell'atto interruttivo in questione, alla quale i ricorrenti affidano il proprium delle rispettive censure, pecca proprio del vizio che imputa a tale atto, poiché non corroborata da quelle indicazioni più precise sul contenuto del documento di cui trattasi che sarebbero state necessarie alla stregua del noto principio di autosufficienza del ricorso.
Invero, chi denunci in sede di legittimità il difetto di motivazione sulla valutazione di un documento ha l'onere di indicare - ove occorra, mediante integrale trascrizione del medesimo nel ricorso specificamente il contenuto del documento stesso, al fine di consentire il controllo della decisività delle circostanze da valutare, dato che questo controllo, per l'anzidetto principio, deve poter essere compiuto dalla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative Cass. 21 agosto 1996, n. 7692;
Id., 17 giugno 1995, n. 6863; Id., 1 febbraio 1995, n. 1161; Id. 12 agosto 1994, n. 7392; Id., 22 marzo 1993, n. 3356).
Deve, infine, porsi in luce che con la memoria 21 aprile 1998 i ricorrenti eredi di Salvatore Ticca inutilmente tentano di riproporre la questione relativa al rigetto dell'eccezione di prescrizione presuntiva: si tratta, invero, di questione non proposta col ricorso - che si riferisce expressis verbis al solo capo della sentenza verbis al solo capo della sentenza impugnata recante il rigetto dell'eccezione di prescrizione estintiva - e, quindi, non proponibile neanche con le memorie difensive di cui all'art. 378 cod. proc. civ., poiché è noto che queste ultime non solo non possono esporre nuovi motivi ma neppure specificare quelli che in maniera vaga e indeterminata siano stati accennati nel ricorso per cassazione (cfr., fra le ultime, Cass. 2 settembre 1997, n. 8373; Id., 19 maggio 1997, n. 4445; Id., 7 marzo 1996, n. 1793; Id., 15 giugno 1995, n. 4756). Anche a prescindere da questo assorbente rilievo, resta, comunque, il fatto che la suddetta eccezione di prescrizione estintiva essendo stata proposta in un contesto di denegata sussistenza dei diritti vantati dai lavoratori, resa palese, a tacer d'altro, dalle contestazioni mosse, come si è detto, ai conteggi delle proprie spettanze elaborati da questi ultimi, non poteva che essere rigettata ex art. 2959 cod. civ.: questa Corte, in effetti, ha in già sancito, in materia, il principio, da ribadire nella presente occasione, secondo cui la contestazione, da parte del debitore convenuto, dei conteggi allegati dall'attore a fondamento di una determinata pretesa creditoria implica l'ammissione della mancata estinzione dell'obbligazione e, pertanto, comporta, ai sensi dell'art. 2959 c.c., il rigetto dell'eccezione di prescrizione presuntiva, opposta dallo stesso debitore (Cass. 16 febbraio 1988 n. 1633; Id., 22 febbraio 1988 n. 1884). Di ciò non manca di dare atto la difesa di altri ricorrenti, là dove riconosce (pag. 17 della memoria 24 aprile 1998, degli eredi di Umberto Ticca) essere "la prescrizione presuntiva in teoria incompatibile con l'affermazione dell'inesistenza dei crediti vantati e, dunque, col riconoscimento del mancato pagamento di essi, insito in tale affermazione". Gli eredi di Umberto Ticca propongono, inoltre, un terzo motivo di ricorso, di contenuto identico a quello del quarto motivo del ricorso proposto dagli eredi Giuseppe Ticca, per ribadire il loro assunto circa la sussistenza del litisconsorzio necessario fra tutti i soci della società di fatto rispetto alle domande proposte nei loro confronti per il pagamento di debiti sociali.
Si tratta, però, di un motivo palesemente inammissibile, essendo stato, come riferito in parte narrativa, già disatteso con la precedente sentenza di questa Corte che determinò il rinvio della causa al Tribunale di Oristano in base al sancito principio dell'impossibilità di configurare il suddetto litisconsorzio. Il principio, che si estende anche al rapporto fra soci e società, toglie poi ogni rilievo alla circostanza che quest'ultima, ancorché originariamente destinataria delle pretese vantate dai lavoratori, non abbia poi mantenuto qualità di parte nel presente ed in pregresse fasi processuali.
Infine, col terzo motivo del loro ricorso, gli eredi di Giuseppina Ticca denunciano la violazione dell'art. 1295 cod. civ., per essere stati condannati solidalmente al pagamento del dovuto, sebbene la citata norma preveda che l'obbligazione si divide fra gli eredi di uno dei condebitori in solido in proporzione delle rispettive quote.
Neanche queste censure colgono il segno.
La sentenza impugnata non esibisce affatto, al contrario di quanto i ricorrenti pretendono, l'univoco significato della loro condanna solidale.
Invero, il tribunale ha precisato che la condanna si riferiva ai danti causa di ciascun gruppo di credi, sicché, la successiva menzione della solidarietà della medesima non può essere interpretata a prescindere da questo collegamento, che la accredita della idoneità a legittimare i creditori a rivolgersi per l'intero nei confronti di uno qualsiasi dei gruppi di eredi condannati (in tal guisa realizzandosi in danno di questi ultimi quella stessa potenzialità connessa al carattere solidale dell'obbligazione gravante sui rispettivi danti causa), senza che ciò implichi analoga legittimazione nei confronti del singolo erede di ciascuno di tali gruppi, atteso il carattere parziario determinato dalla successione ereditaria.
Erronea sarebbe stata, per contro, l'omissione della menzione del carattere solidale dell'obbligazione dei danti causa, atteso il principio per cui con la morte di un debitore in solido, il vincolo della solidarietà non cessa tra gli eredi e gli altri condebitori, ma riceve una limitazione nei confronti dei singoli eredi, nel senso che ciascuno di essi rimane obbligato solidalmente con i debitori originari soltanto fino a concorrenza della propria quota ereditaria (Cass. 17 dicembre 1992 n. 13333; Id., 28 gennaio 1983 n. 771; Id., 16 marzo 1979 n. 1572).
In conclusione, gli esaminati ricorsi devono essere rigettati in ogni loro parte, con conseguente preclusione dell'esame dei ricorsi incidentali, proposti solo condizionatamente dai lavoratori, con i relativi controricorsi.
I ricorrenti tutti, in considerazione della loro soccombenza, vanno condannati, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità e dei relativi onorari che si liquidano in complessive lire 6.000.000 (seimilioni), precisandosi che al riguardo non operano le considerazioni limitative svolte, nell'interpretazione della sentenza impugnata, in risposta all'ultimo motivo di ricorso esaminato, poiché la solidarietà della testè pronunciata condanna prescinde dalla qualità di erede, propria di ciascuno dei litisconsorti, e gi ricollega direttamente alla qualità di parte necessaria, da ciascuno dei medesimi assunta nel presente giudizio di legittimità
P. Q. M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta quelli principali, iscritti ai numeri R.G. 13785/97, 14092 del 1997 e 2462 del 1998, e dichiara assorbiti i relativi ricorsi incidentali, iscritti ai numeri R.G. 16225 del 1997, 16226 del 1997 e 4285 del 1998. Condanna, in solido, i ricorrenti in via principale al pagamento delle spese del giudizio di cassazione in lire e dei relativi onorari, liquidati in complessive lire 6.000.000 (seimilioni).
Così deciso in Roma, il 9 luglio 1999.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 1999