Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25756 - pubb. 31/07/2021

Il curatore è tenuto a presentare le dichiarazioni dei redditi dell’impresa fallita in forza di un principio generale, anche in assenza di espressa disposizione normativa

Cassazione civile, sez. V, tributaria, 02 Marzo 2021, n. 5623. Pres. Sorrentino. Est. Fracanzani.


Fallimento – Dichiarazione dei redditi IVA e imposte dirette – Obblighi in capo al curatore



Per quanto attiene la dichiarazione IVA, esiste una precisa disposizione normativa che impone l'obbligo di presentazione in capo al curatore ove il fallimento si sia aperto prima della scadenza del termine; lo stesso è a dirsi per quanto attiene le Imposte dirette, in ragione di una lettura sistematica e costituzionalmente adeguata dell'ordinamento.

In questo senso, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 1, pone il dovere di dichiarazione in capo alla generalità dei soggetti passivi, anche di coloro che non abbiano prodotto reddito in quell'anno di imposta; per le persone giuridiche, il dovere si intende in capo al legale rappresentante e, per il fallimento, in capo al curatore che ne prende la guida al momento di pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato di decozione.

Non vi può essere soluzione di continuità nella conduzione d'impresa, almeno a fini fiscali (che qui interessano), sicchè il curatore si trova nella posizione di potere/dovere propria dell'imprenditore, seppur senza l'alea che quello caratterizza, bensì con i limiti propri che la legge prevede a garanzia dei creditori, tra cui quel creditore privilegiato che è lo Stato.

Se all'imprenditore fallito non può essere imputata la mancata esposizione dei redditi prima della sua scadenza, al contrario, al curatore compete presentare la dichiarazione la cui scadenza sia successiva alla sua nomina nell'ufficio.

Infatti, questo adempimento incombe - per la citata generale disposizione di legge - in capo a chi sia al governo della persona giuridica al momento della scadenza del termine per adempiere.

[Nel caso di specie, il fallito non era più in bonis dal 20 luglio 2011, da quel giorno era in carica il curatore, cui spettava - fra l'altro - l'assolvimento degli obblighi tributari della società, in primo luogo la dichiarazione dei redditi per l'anno 2010, da presentarsi entro il 30 settembre 2011.] (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


Fatto

1. Nel corso del 2011 la soc. (*) s.r.l. era oggetto di verifica da parte dei militari della G.d.F. per i periodi di imposta 2008-2010, conclusasi con pvc formato e notificato il 29 settembre 2011 nelle mani del curatore della società, nel frattempo fallita il 20 luglio 2011. Le irregolarità rilevate in quell'occasione attenevano la scheda carburante e le rimanenze di magazzino.

Sennonchè in data 30 dicembre 2011 l'Ufficio notificava avviso di accertamento contestando l'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi per l'anno di imposta 2010 - scaduta al 30 settembre 2011 - ricostruendo induttivamente il reddito a fini Ires, Irap, Iva sulla scorta dei dati ricavati dall'anagrafe tributaria ed elenchi Intrastat, individuando maggior imponibile a fini imposte dirette in Euro 6.203.275,00 e a fini Iva in Euro 1.918.924,00.

Insorgeva la contribuente, negando l'obbligo per il curatore fallimentare di presentare dichiarazione per il periodo antecedente la dichiarazione di fallimento, ove esisterebbe un vuoto normativo su chi sia tenuto a quell'adempimento, nonchè la violazione delle disposizioni sulla ricostruzione induttiva del reddito per non aver l'Ufficio considerato tutti i documenti a suo disposizione; lamentava infine la violazione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione, nonchè di capacità contributiva.

Il ricorso rigettato dal giudice di prossimità trovava favorevole apprezzamento in sede di appello, ove si negava il dovere del curatore di presentare la dichiarazione per il periodo di imposta precedente a quello di dichiarazione di fallimento, si riteneva che l'Ufficio -pur invitato a produrre al collegio una relazione sul punto-non avesse considerato tutti i documenti cui aveva accesso per ricostruire induttiva mente il reddito e, infine, si compensavano le spese.

Avverso questa sentenza ricorre l'Avvocatura generale dello Stato, proponendo quattro motivi, cui replica con tempestivo controricorso la curatela della contribuente.

In prossimità dell'udienza la parte privata ha depositato memoria.

 

Diritto

Vengono proposti quattro motivi di ricorso.

1. Con il primo motivo si profila censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 322 del 1998, artt. 1,4 e 5 e art. 8, comma 4, nonchè dell'art. 12 "preleggi", comma 2, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55. Nella sostanza viene criticata l'impugnata sentenza ove nega che il curatore abbia obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi per il periodo di imposta anteriore alla dichiarazione di fallimento, non essendogli imposto da alcuna norma specifica. Argomenta, per contro, il patrono erariale rilevando come il D.P.R. n. 322 del 1998, art. 8, comma 4, ponga a carico del curatore la dichiarazione IVA, anche per l'anno solare precedente, sempre se i termini non siano scaduti al momento della dichiarazione di fallimento. E tale è il caso in esame, ove il fallimento è stato dichiarato il 20 luglio 2011, mentre la scadenza della dichiarazione per l'anno di imposta 2010 sarebbe scaduta oltre due mesi dopo, il 30 settembre 2011, sicchè quantomeno a fini IVA - si è in presenza di un espresso obbligo normativo. Mentre per la Imposte dirette non può ritenersi esistente alcun vuoto normativo circa i doveri di presentazione della dichiarazione dei redditi per il periodo di imposta precedente, argomentandosi - a contrariis - sull'assenza di qualsivoglia disposizione che affranchi da questo dovere.

Il motivo è fondato e merita accoglimento, sia per quanto attiene la dichiarazione IVA, esistendo una precisa disposizione normativa che ne impone l'obbligo in capo al curatore ove il fallimento si sia aperto prima della scadenza del termine, sia per quanto attiene le Imposte dirette, in ragione di una lettura sistematica e costituzionalmente adeguata dell'ordinamento. In questo senso, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 1, pone il dovere di dichiarazione in capo alla generalità dei soggetti passivi, anche di coloro che non abbiano prodotto reddito in quell'anno di imposta. Per le persone giuridiche, il dovere si intende in capo al legale rappresentante e, per il fallimento, in capo al curatore che ne prende la guida al momento di pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato di decozione. Non vi può essere soluzione di continuità nella conduzione d'impresa, almeno a fini fiscali (che qui interessano), sicchè il curatore si trova nella posizione di potere/dovere propria dell'imprenditore, seppur senza l'alea che quello caratterizza, bensì con i limiti propri che la legge prevede a garanzia dei creditori, tra cui quel creditore privilegiato che è lo Stato. Se all'imprenditore fallito non può essere imputata la mancata esposizione dei redditi prima della sua scadenza, al contrario, al curatore compete presentare la dichiarazione la cui scadenza sia successiva alla sua nomina nell'ufficio. Infatti, questo adempimento incombe - per la citata generale disposizione di legge - in capo a chi sia al governo della persona giuridica al momento della scadenza del termine per adempiere: nel caso all'esame, il fallito non era più in bonis dal 20 luglio 2011, da quel giorno era in carica il curatore, cui spettava - fra l'altro - l'assolvimento degli obblighi tributari della società, in primo luogo la dichiarazione dei redditi per l'anno 2010, da presentarsi entro il 30 settembre 2011. In questo senso si è espressa anche questa Corte, seppur in sede penale (cfr. Cass. pen. III, 1549/2011). Il motivo è quindi fondato e merita accoglimento.

2. Con il secondo motivo si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, laddove la CTR ha ritenuto che l'Amministrazione finanziaria non ha dimostrato di tenere conto delle rimanenze di magazzino e delle operazioni passive. La citata disposizione normativa, in assonanza con l'analoga per le imposte dirette, consente la ricostruzione induttiva in mancanza di dichiarazione esposta ricorrendo ai dati comunque reperiti e tenendo conto a detrazione dei versamenti eventualmente eseguiti. I giudici di merito non hanno correttamente applicato il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui, nella ipotesi che il contribuente ometta di presentare la dichiarazione, "la legge abilita l'Ufficio a servirsi di qualsiasi elemento probatorio ai fini dell'accertamento del reddito e, quindi, a determinarlo anche con metodo induttivo ed anche utilizzando, in deroga alla regola generale, presunzioni semplici prive dei requisiti di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 3, (analogo al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55) sul presupposto dell'inferenza probatoria dei fatti costitutivi della pretesa tributaria ignoti da quelli noti" (Cass. n. 19174/2003; n. 2605/2000): ciò comporta l'inversione dell'onere della prova, spettando al contribuente fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall'ufficio (cfr. Cass. n. 9755/2003; n. 17016/2002). (Così Cass. V., n. 18865/2005).

Il motivo è quindi fondato e merita accoglimento.

3. Con il terzo motivo si prospetta ancora censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione dell'art. 115 c.p.c., dell'art. 2697 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, nella sostanza contestando l'assunto della CTR ove afferma non apparire dimostrato che l'Amministrazione abbia tenuto conto delle operazioni passive, quali rinvenienti dalla dichiarazione annuale IVA. La censura si innesta sulla precedente, attenendo alla necessità per l'Ufficio di tener conto delle operazioni passive risultati dalla dichiarazione IVA, ove presentata. Il motivo assolve l'onere dell'esaustiva completezza, riportando gli stralci del provvedimento impugnato e le affermazioni della contribuente da cui risulta che gli Uffici abbiano tenuto conto di tale elemento, donde emerge la violazione delle norme sul riparto dell'onere probatorio in cui è incorsa la commissione territoriale. Il motivo è quindi fondato e merita accoglimento.

4. Con il quarto motivo si propone ancora censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1,2,19,35 e 36, laddove la CTR ha annullato integralmente l'avviso, invece di ridurre la pretesa tributaria, scomputando le rimanenze iniziali di magazzino ed i maggiori costi, come richiesto dalla parte contribuente invocando la pronuncia della Corte costituzionale n. 225/05. In questo, la commissione territoriale avrebbe ecceduto la domanda di parte ed adottato uno schema di impugnazione/annullamento che si contrappone al paradigma impugnazione/merito, ormai fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte, per cui il processo tributario è annoverabile tra quelli di "impugnazione- merito", in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell'accertamento dell'Ufficio, sicchè il giudice, ove ritenga invalido l'avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (Così, Cass. V, n. 18777/2020).

Tale principio non ha ben governato la commissione territoriale, il motivo è fondato e merita accoglimento.

In definitiva, il ricorso è fondato e dev'essere accolto.

 

P.Q.M.

La Corte accoglitì ricorso, cassa la sentenza impugnata, rinvia alla CTR per il Lazio - Roma, cui demanda anche la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2021.