Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23989 - pubb. 11/01/2020

Le società commerciali costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un'attività commerciale sono assoggettabili al fallimento indipendentemente dall'effettivo esercizio di una siffatta attività

Cassazione civile, sez. I, 04 Novembre 1994, n. 9084. Pres. Corda. Est. Morelli.


Fallimento - Società e consorzi - Società commerciali - Fallimento - Assoggettabilità - Attività commerciale - Effettivo esercizio - Necessità - Esclusione - Fattispecie



Le società commerciali, costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un'attività commerciale, sono assoggettabili al fallimento indipendentemente dall'effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità d'imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non già dall'inizio del concreto esercizio dell'attività medesima, come avviene, invece, per l'imprenditore individuale (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, la quale aveva disatteso la tesi di una S.r.l., che assumeva di non rivestire la qualità d'imprenditore in quanto aveva svolto esclusivamente attività agricola). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Svolgimento del processo

La S.r.l. SA. ed il suo amministratore unico D. L. in proprio, proponevano opposizione avverso la sentenza del Tribunale di Catanzaro che, su istanza della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, aveva dichiarato il fallimento della società stessa.

Chiedevano, altresì, la condanna della Cassa di Risparmio al risarcimento dei danni.

Il Tribunale rigettava l'opposizione. La sentenza era confermata dalla Corte d'appello di Catanzaro, la quale fra l'altro osservava:

- che l'assunto della società, secondo cui essa, pur essendo costituita in forma di società di capitali, non aveva la qualità di imprenditore commerciale in quanto svolgeva soltanto attività agricola, sicché difettava uno dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, era, ancor prima che infondato, pretestuoso, perché la stessa società aveva anche chiesto in sede di precisazione delle conclusioni che fosse accolta la sua proposta di concordato preventivo, il che contraddiceva la pretesa natura di imprenditore agricolo e non commerciale;

- che, comunque, si trattava di una società di capitali costituita in forma di società e responsabilità limitata e quindi, avendo oggetto commerciale, per ciò stesso era soggetta al fallimento indipendentemente dall'effettivo esercizio di un'attività commerciale;

- che invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, era sufficiente per la dichiarazione di fallimento che, come accadeva nella specie, l'attività commerciale rientrasse nell'oggetto sociale senza necessità che essa fosse effettivamente esercitata;

- che erano altresì infondate le doglianze relative alla mancata sussistenza dello stato di insolvenza perché sul punto la sentenza di primo grado era adeguatamente motivata e comunque tale stato emergeva dalla pesante situazione debitoria per oltre dieci miliardi e mezzo di lire, dalla gravità sintomaticità e pluralità degli inadempimenti, dai protesti e dalle numerose procedure esecutive.

Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione la s.r.l. SA. ed il L.. Resiste la Cassa di Risparmio.

 

Motivi della decisione

a) Con i tre mezzi della impugnazione sostengono, rispettivamente, i ricorrenti che abbia errato la Corte di Appello:

b) nel ritenere la pretestuosità della eccezione di carenza della qualità di imprenditore commerciale in ragion della precedente richiesta di concordato avanzata dalla società, così arbitrariamente conferendo valore confessorio a dichiarazioni della parte su presupposti della procedura concorsuale, in materia di diritti indisponibili;

c) nel considerare insufficienti le prove dedotte degli appellanti sull'esclusivo svolgimento di attività agraria, da parte della società, muovendo dall'inesatto presupposto che le società di capitali con oggetto commerciale siano per ciò stesso soggette al fallimento indipendentemente dall'effettivo esercizio di una attività commerciale;

d) nel ritenere nella specie sussistente lo stato di insolvenza con non adeguata valutazione delle risultanze istruttorie.

2. Può darsi precedenza all'esame del riferito secondo motivo del ricorso che - sul punto nodale della sussistenza o meno, nella specie, del presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento - è logicamente prioritario, ed assorbente rispetto alle doglianze sub a).

Si ripropone con detto mezzo la questione se ai fini della assoggettabilità al fallimento delle società costituite nelle forme stabilite dall'art. 2249 c.c. per l'esercizio di attività commerciale (società in nome collettivo in accomandita semplice, per azioni, in accomandita per azioni ed a responsabilità limitata) e che abbiano oggetto commerciale sia o meno richiesto il requisito dell'effettivo esercizio di attività commerciale.

La Corte di Catanzaro ha dato al quesito risposta negativa, adeguandosi al principio in tal senso espresso dalle precedenti pronunzie n. 1921-65 e n. 2067-72 di questa Corte. E di ciò appunto si dolgono ora i ricorrenti, sostenendo che i remoti precedenti, cui hanno prestato ossequio i giudici di merito, risultino, in realtà, ormai superati dalla più recente giurisprudenza - segnatamente dalla sentenza n. 8939 del 1987 - che avrebbe "confermato che anche per le società di capitali può non aversi la qualifica di imprenditore commerciale, nonostante la forma societaria assunta, qualora realmente l'oggetto e l'attività in concreto espletata non sia quella economica e commerciale, così come indicata dall'art. 2195 c.c., ma trattisi di attività non commerciale sia pure in contrasto con lo statuto sociale". E ciò - sempre a quanto si sostiene dagli esponenti - in conformità a "l'orientamento sempre seguito dalla dottrina".

2a. In realtà - va detto per inciso - la posizione della dottrina sul problema che ne interessa è estremamente variegata e non certo esprime quell'indirizzo monolitico che si prospetta dai ricorrenti risultando, anzi, prevalente la tesi che ricollega l'elemento della professionalità delle società in parola al fatto stesso della loro "costituzione per l'esercizio" di una attività commerciale, indipendentemente da un effettivo ed attuale svolgimento dell'attività stessa.

A questo orientamento avevano del resto dichiaratamente fatto anche riferimento le richiamate decisioni del 1965 e 1972.

Non è poi esatto che con questa giurisprudenza si sia in prosieguo posta in contrasto la sentenza 8939 del 1987.

In quest'ultima decisione il criterio di effettività è stato pur richiamato ma non già in relazione al contenuto ed alla natura dell'attività imprenditoriale esercitata a fini qualificatori (come si pretende) dell'impresa, sebbene unicamente per accertare - a monte - l'an stesso di un tale esercizio.

Si è affrontato, infatti, in quella occasione il problema (ben diverso da quello che ora ne occupa) della simulabilità di un contratto costitutivo di s.p.a. pervenendosi alla soluzione che, anche in detta ipotesi, la simulazione sia in tesi possibile quando risulti che le parti - contro l'apparente enunciato negoziale - non abbiano in realtà voluto e non abbiano in concreto svolto alcuna attività imprenditoriale, limitandosi a costituire e mantenere, sotto le mentite spoglie societarie, una mera comunione di godimento.

Nè alcun elemento la stessa richiamata sentenza fornisce che autorizzi il preteso trapianto del canone della effettività nella differente sede problematica che qui ne interessa; che anzi, sul punto anche la sentenza n. 8939-87 cit. significativamente ribadisce che, "fuori dal caso limite della simulazione dell'atto costitutivo, lo scopo commerciale in questo indicato, "qualifica di per se la società" e "non è necessario l'attualità dell'esercizio dell'attività (in oggetto), a differenza che per l'impresa è individuabile".

2b. Ciò precisato sul quadro di riferimento delle posizioni dottrinarie e dei procedenti giurisprudenziali sul tema proposto, e dopo aver comunque questo rimediato alla luce delle sollecitazioni argomentative della difesa dei ricorrenti, ritiene conclusivamente questo Collegio di dover a sua volta mantenere ferma la riferita precedente giurisprudenza.

Nei ricordati arresti del 1965 e 1972, la superfluità dell'attuale e concreto esercizio dell'attività commerciale, ai fini dell'assoggettamento al fallimento delle società costituite nelle forme delle società commerciali ed aventi ad oggetto una siffatta attività, si fonda direttamente sull'analisi testuale del dato normativo.

Si osserva infatti che sia l'art. 2308, in tema di s.n.c., sia l'art. 2323 (che a quello rinvia) per le s.a.s., sia l'art. 2448 c.c. dettato per le s.p.a. ma applicabile (ex artt. 2464, 2497) anche alle s.r.l. ed alle s.a. per azioni convergono nel collegare la possibilità del fallimento di dette società all'unico presupposto della previsione dell'esercizio di attività commerciale nel rispettivo atto costitutivo e non anche a quello del concreto esercizio di tale attività.

E si aggiunge che, parallelamente, anche l'art. 1 della l. f., che escluda dal fallimento i piccoli imprenditori, con lo statuire che in nessun caso tali possono considerarsi le società commerciali, ribadisce l'espressa volontà del legislatore di sottoporre sempre a fallimento tali società in caso di insolvenza.

Questi rilievi sono sicuramente risolutivi sul piano del diritto positivo, relegando al piano delle valutazioni de iure condendo ogni contrario giudizio sull'opportunità del fallimento di organismi non concretamente operativi in termini di attività commerciale.

2c. Le motivazioni della soluzione accolta possono per altro verificarsi anche in una prospettiva ulteriormente avanzata, affrontando il nodo concettuale (non sciolto nei precedenti richiamati) se le predette società assumano sin dalla loro costituzione la qualità di imprenditore commerciale ed in tal veste appunto falliscano ovvero il loro assoggettamento a fallimento sia indipendente dall'acquisizione di una siffatta qualità.

Si prescinde (perché ultronea in questa sede) dalla questione teorica più complessa e generale del collegamento tra i concetti di società e di imprenditore (dal problema cioè se sia vero, come da taluni sostenuto - e da altri invece negato - che la società sia sempre e necessariamente destinata all'esercizio dell'impresa), poiché il tema che ne interessa è quello, più specifico e circoscritto, del rapporto intercorrente tra la società sorta, come nel nostro caso, con riferimento statutario espresso all'esercizio di attività commerciale, e la qualità di imprenditore commerciale.

Al riguardo pare obbligata a questo Collegio la prima opzione interpretativa che conduce appunto a spiegare l'assoggettamento a fallimento di siffatte società, in ragione della loro qualità di imprenditore commerciale acquisita sin dall'atto della rispettiva costituzione.

In via di prima approssimazione può senza contestazioni infatti affermarsi che il punto di rilevanza ai fini dell'attribuzione dello status di imprenditore commerciale, sia in via ingenerale, vuoi per il soggetto individuale che per quello collettivo, legato al momento in cui questi manifesti, in via definitiva (così segnando l'incidenza del suo porsi nell'ambiente sociale) la propria intenzione di svolgere un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi.

Ora però - mentre per il soggetto fisico individuale la definitività di una tale scelta (che rende attuale uno dei plurimi fini virtualmente perseguibili dall'agente) si realizza solo con l'inizio del concreto esercizio dell'attività stessa (ben potendo, anche dopo l'esteriorizzazione della volontà di intraprendere quell'attività, il soggetto mutare il proprio programma operativo, senza essere vincolato dalla precedente sua esternazione), onde appunto la qualità di imprenditore commerciale si acquisisce in questo caso solo in termini di effettività - diversamente, con riguardo all'ente collettivo, l'irreversibilità della scelta si realizza per definizione, in un momento anteriore.

L'indicazione dello scopo di esercizio di attività commerciale, nell'atto costitutivo di società, già sovrappone infatti alla pluralità dei fini possibili l'attualità ed affettività di quel fine specifico, che connota la società stessa già con il suo venir in essere.

Nè può replicarsi che una tale conclusione sia autorizzata solo per le società di capitali, dotate di personalità giuridica e non lo sia invece anche per le società di persone (cui si conviene nel non riconoscere una analoga premessa di soggettività).

Infatti anche, per quel che attiene a dette ultime società, la pluralità dei soci, se pur non si risolve nell'unità di una diversa entità giuridica, comunque si manifesta, nelle relazioni esterne, nei termini di un gruppo solidale ed inscindibile.

E se esiste il gruppo come tale, per ciò stesso (e quindi, pure in questo caso, dal momento della sua costituzione) resta del pari dissolta la pluralità virtuale dei fini dei singoli soci, nella attualità dello scopo commerciale unificante, da essi prescelto.

Reta di conseguenza in ogni caso irrilevante l'eventuale mancato esercizio dell'attività commerciale posta nell'atto costitutivo, una volta che la società è sorta ed esiste (fino a modifica statutaria) per quel fine. Il che è quanto in buona sostanza ritenuto anche dalla Corte di Ancona che, in coerenza a tale premessa appunto ha negato ingresso alla chiesta prova su tale ininfluente circostanza, con decisione che si sottrae pertanto, sul punto, a censura.

3. La reiezione dell'esaminato secondo motivo di impugnazione, comporta, per quanto già detto, l'assorbimento del primo.

4. A sua volta infondato - nei limiti in cui risulti ammissibile - è il residuo ed ultimo mezzo con il quale vanamente si censura la compiuta e corretta motivazione che sorregge la conclusione di sussistenza nella specie dello stato di insolvenza, sollecitandosi un non consentito riesame, al riguardo, delle risultanze istruttorie.

5. Il ricorso va pertanto integralmente rigettato.

Può comunque disporsi la compensazione delle spese di lite.

 

p.q.m.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

In Roma il 19 aprile 1994.

Sentenza n. 9084 del 04/11/1994