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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23273 - pubb. 25/02/2020.

‘Criteri Engel’ e applicazione alle sanzioni amministrative del principio della lex mitior successivamente intervenuta


Appello di Milano, 27 Novembre 2019. Pres., est. Carla R. Raineri.

Sanzioni amministrative - Accertamento della natura sostanzialmente penale - “Criteri di Engel” elaborati dalla giurisprudenza di Strasburgo - Applicabilità della lex mitior successivamente intervenuta - Pronuncia costituzionalmente orientata - Applicabilità a singole fattispecie di natura punitiva assimilabili alla materia penale


A seguito del caso Engel ed altri c. Paesi Bassi del 1976 non è più consentito qualificare una sanzione in termini meramente formali, dovendo l’interprete riconoscere ad essa natura “sostanzialmente penale” ove ricorra anche uno soltanto dei criteri elaborati dalla ormai consolidata giurisprudenza di Strasburgo (appunto i “criteri di Engel”): 1) la qualificazione del diritto interno; 2) la natura dell’infrazione; 3) la severità della pena. E a tale fine è sufficiente la presenza di uno soltanto dei tre criteri sopra menzionati.

Alla luce di tali criteri è possibile accertare la natura “sostanzialmente penale” della sanzione amministrativa prevista dall’art. 28 L.R. Lombardia n 86/1983, attesa la sua finalità prevalentemente punitiva ed il suo elevato grado di afflittività, con la conseguenza che alla fattispecie può essere fatta applicazione retroattiva dell’art. 39, comma 4, d. lgs. 205/2010, che ha abrogato l’art 186 d. lgs. n. 152/2006 (successivamente sostituito dall’art 2 comma 23 d. lgs. n. 4/2008) ri-disciplinando la materia dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo e prevedendo che i materiali da scavo, in presenza di alcune condizioni di legge, siano da ritenersi non più rifiuti ma sottoprodotti.

A tale conclusione è possibile pervenire mediante una pronuncia costituzionalmente orientata che preveda non l’automatica estensione del detto principio a tutte le sanzioni amministrative, ma la sua applicabilità a quelle singole fattispecie di natura punitiva assimilabili alla materia penale, previa necessaria valutazione della singola sanzione alla luce dei criteri Engel. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

 

Svolgimento del processo

A partire dall’anno 2005, la società Cave del Ticino S.r.l. (da qui innanzi, “Cave”) ha svolto attività di escavazione presso il polo estrattivo di ghiaia e sabbia Sant’Anna, nel Comune di Lonate Pozzolo (VA). Tale area, situata all’interno del Parco Lombardo della Valle del Ticino (da qui innanzi, “il Parco”) e regolarmente inclusa nel piano cave provinciale approvato con D.C.R. Lombardia VIII/698 del 30 settembre 2008, è di proprietà della società Polo Ticino Uno S.r.l. (da qui innanzi, “Polo”).

In data 7 ottobre 2009, il Parco accertava l’effettuazione, a opera di Cave, di un’attività di “riempimento di un’escavazione abusiva” con terra e rocce da scavo classificabili come “rifiuti” e riconducibili alla categoria 170504 del codice C.E.R. Su tale base, il Parco contestava a Cave l’abbandono di rifiuti per un volume totale stimato pari a 156.000 mc.

Gli interessati facevano pervenire all’Ente i propri scritti difensivi, con istanza di audizione personale e con richiesta di archiviazione o, in subordine, di sospensione del procedimento per ulteriori accertamenti ovvero, in via di estremo subordine, di rideterminazione della sanzione.

Le difese si appuntavano sull’incompetenza del Parco a sanzionare una fattispecie di danno ambientale; sull’asserita insussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito; sull’inesattezza dei criteri di quantificazione della sanzione.

Ritenute infondate le difese, in data 13 ottobre 2014, il Parco emanava l’ordinanza-ingiunzione (prot. N. 9070/2014) ravvisando la violazione dell’art. 9.G.3 lett. b) D.G.R. Lombardia 2 agosto 2001 n. 7/5983, per “abbandono di rifiuti speciali (CER 170504 terra e rocce) in zona ʻG1̕ del PTC, irrogando una sanzione pecuniaria di 374.520,00 nei confronti dei signori S. (Presidente del CdA di Cave al tempo dei fatti) e di Z., quali responsabili in concorso, e nei confronti delle società Cave e Polo, quali responsabili in solido. Il quantum sanzionatorio veniva determinato, in applicazione dell’art. 28 L.R. Lombardia 86/1983, nella misura del doppio del supposto profitto conseguito/conseguibile dal trasgressore.

Avverso la citata ordinanza-ingiunzione, ciascuno dei destinatari proponeva opposizione davanti al Tribunale di Busto Arsizio, articolando una pluralità di censure.

La prima di queste si appuntava sulla tardività della contestazione del supposto illecito e, conseguentemente, sulla violazione dell’art. 14 L. 689/1981, avendo il Parco dichiarato in termini espliciti di aver accertato l’illecito in data 7 ottobre 2009 e, tuttavia, notificato il processo verbale di accertamento P.V.A. 14/2010, recante la contestazione dei fatti, solo il 26 gennaio 2010, vale a dire oltre i 90 giorni previsti dall’art. 14 l. 689/1981.

Il Parco si costituiva nel giudizio di opposizione contestando il fondamento delle avverse pretese e deduzioni ed instando per il rigetto dell’opposizione.

In tale sede, l’Ente produceva il provvedimento 9 dicembre 2014 (prot. n. 11404) di rettifica dell’ordinanza-ingiunzione opposta relativamente al momento dell’accertamento della presunta violazione, evidenziando in proposito che la (errata) indicazione della data ivi attestata (“in data 7/10/2009”) era frutto di un “mero errore di trascrizione”, dovendosi intendere “a far tempo dalla data del 7/10/2009 e fino al 21/01/2010”.

I tre giudizi di opposizione averso l’ordinanza-ingiunzione de qua, pur senza essere riuniti, venivano trattati congiuntamente.

Nelle more, gli opponenti notificavano, in data 9 gennaio 2015, un ricorso dinanzi al T.A.R. Lombardia per ottenere l’annullamento del provvedimento di rettifica prot. n. 11404 del 9 dicembre 2014 sopra menzionato. Con sentenza del 1° giugno 2017 n.1224, il Giudice amministrativo dichiarava l’inammissibilità del ricorso.

Nel corso dell’udienza del 13 gennaio 2015, celebratosi dinnanzi al Tribunale di Busto Arsizio, gli opponenti producevano copia del ricorso al T.A.R. Lombardia, dando atto di aver, altresì, presentato motivi aggiunti; formulavano istanza di sospensione ex art. 295 c.p.c. invocando la pregiudizialità del giudizio instaurato dinanzi al Giudice amministrativo.

A scioglimento della riserva, il giudice di prime cure, con provvedimento del 24 marzo 2015, rigettava l’istanza di sospensione.

Il ricorso per motivi aggiunti veniva, invece, dichiarato irricevibile.

Il giudizio proseguiva con l’espletamento di una consulenza tecnica. Le quattro cause venivano decise con quattro sentenze distinte, ma contestuali. L’opposizione dello Z. veniva accolta integralmente, in ragione dell’esclusione della sua responsabilità. Le altre tre opposizioni venivano, invece, integralmente rigettate.

Quanto al S. G., il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza 24 febbraio del 2017, n. 289 così statuiva:

“1) rigetta l’opposizione e conferma l’ordinanza ingiunzione;

2) compensa le spese processuali;

3) le spese di CTU, liquidate in corso di causa, sono poste definitivamente a carico del ricorrente.”

Avverso detta sentenza il S. G. ha proposto appello, articolando una pluralità di censure:

Tardività della contestazione del supposto illecito-Violazione dell’art. 14 L. 689/1981;

Incompetenza del Parco ad irrogare la sanzione in tema di preteso danno ambientale;

Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 186 D.Lgs. 152/2006;

Applicabilità della normativa sopravvenuta di cui all’art. 39 Dlgs. 205/2010;

Violazione e/o falsa applicazione del principio di specialità;

Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 28 L.R Lombardia n. 86/1983 con riferimento alla mancata derubricazione in danno ambientale di minima entità e per omessa riduzione ad un terzo della sanzione per intervenuto ripristino;

Violazione del principio di proporzionalità;

Sviamento e falsa applicazione della Circolare regionale 9 gennaio 1985 n. 256

Con memoria depositata in data 18 gennaio 2018, il Parco si è costituito in giudizio eccependo la inammissibilità del gravame e contestandone la fondatezza nel merito.

La Corte, verificata la regolarità del contraddittorio, ha fissato l’udienza del 19 giugno 2019, all’esito della quale, ha ritenuto opportuno concedere ai difensori delle parti termine per il deposito di brevi note volte ad approfondire i temi della applicabilità della lex mitior e del principio del ne bis in idem. L’udienza è stata, quindi, aggiornata al 27 novembre 2019 per la discussione finale e per la lettura del dispositivo.

 

Motivi della decisione

 

1. Sulla tardività della contestazione.

Parte appellante ha riproposto, preliminarmente, la eccezione di tardività della contestazione - disattesa dal giudice di prime cure - ribadendo come lo stesso Parco avesse dichiarato, e in termini espliciti, di aver accertato l’illecito in data 7 ottobre 2009 notificando, purtuttavia, il processo verbale di accertamento P.V.A. 14/2010 recante la contestazione dei fatti solo il 26 gennaio 2010, vale a dire oltre i 90 giorni previsti dall’art. 14 L. 689/1981.

L’eccezione è priva di fondamento.

Osserva sul punto la Corte che, per costante giurisprudenza, il termine per la contestazione dell’illecito decorre non già dal fatto, inteso quale momento in cui è stata posta in essere la condotta, né dalla acquisizione del fatto nella sua materialità da parte dell’Autorità che ha ricevuto il rapporto, bensì dal momento in cui sia stato possibile accertarne la illeceità attraverso il compimento di indagini volte a verificare le caratteristiche e la consistenza dell’infrazione1.

Nel caso di specie, il Parco del Ticino, dopo il sopralluogo, ha dovuto compiere una serie di verifiche, demandate anche ad organi all’uopo deputati (ARPA) al fine di valutare non solo la consistenza dello scavo, ma anche e soprattutto la natura del materiale, costituente – o meno – rifiuto. E la contestazione deve ritenersi effettuata nei termini di legge, ove si consideri il complesso iter seguito dagli organi del Parco successivamente al processo verbale di accertamento, id est: campionatura ed analisi del terreno utilizzato per il riempimento, acquisizione dei referti analitici.

La decisione di primo grado si conferma, dunque, corretta sul punto.

 

Applicabilità della lex mitior successivamente intervenuta

La questione decisiva sulla quale la Corte è chiamata a pronunciarsi, anche alla stregua del criterio della “ragione più liquida”, concerne l’applicazione retroattiva alla fattispecie in esame dell’art. 39, comma 4, d. lgs. 205/2010, che ha abrogato l’art 186 d. lgs. n. 152/2006 (successivamente sostituito dall’art 2 comma 23 d. lgs. n. 4/2008) ri-disciplinando la materia dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo e prevedendo che i materiali da scavo, in presenza di alcune condizioni di legge, siano da ritenersi non più rifiuti ma sottoprodotti2.

La circostanza non solo non è contestata dalla difesa del Parco, ma risulta accertata anche in sede penale laddove si consideri che la Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 7182/2013, divenuta definitiva, nel mandare assolti i sigg.ri S. e Z. dall’addebito loro contestato, ha espressamente affermato “al di là di ogni profilo di merito relativo all’epoca dei fatti, il materiale oggetto del reato in questa sede contestato al capo b) non è rifiuto” (cfr. doc. 10, fasc. primo grado, parte appellante).

Parte appellante, con il motivo sub IV), ha invocato l’applicazione retroattiva della lex mitior, in analogia con la materia penale, in ragione della “natura penale” della sanzione contestata, considerata la sua portata afflittiva.

In tale prospettiva si impone, dunque, l’accertamento sulla natura della sanzione di specie, secondo i noti principi della giurisprudenza di matrice europea.

A seguito del celebre caso Engel ed altri c. Paesi Bassi del 1976 non è, infatti, più consentito qualificare una sanzione in termini meramente formali, dovendo l’interprete riconoscere ad essa natura “sostanzialmente penale” ove ricorra anche uno soltanto dei criteri elaborati dalla ormai consolidata giurisprudenza di Strasburgo (appunto i “criteri di Engel”): 1) la qualificazione del diritto interno; 2) la natura dell’infrazione; 3) la severità della pena.

 

Il primo di essi poggia sulla qualificazione giuridica operata dalla legislazione nazionale, ma costituisce unicamente il punto di partenza del percorso ermeneutico rivolto alla qualificazione della sanzione o del procedimento sotto il profilo sostanziale.

Il secondo criterio (natura dell’infrazione) è indubbiamente il dato più significativo e può essere indagato sulla base di molteplici fattori quali, per esempio: l’accertamento della funzione repressiva/dissuasiva della norma (Öztürk c. Germania - 1984; Bendenoun c. Francia - 1994); il raffronto con la qualificazione attribuita agli analoghi procedimenti/sanzioni negli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa (Öztürk c. Germania -1984); l’accertamento della provenienza dell’azione, se cioè sia stata posta in essere da una pubblica autorità in virtù di poteri legalmente riconosciuti (Benham c. Regno Unito -1996); la verifica della portata della norma e della sua generalità (Bendenoun c. Francia -1994).

Il terzo criterio è costituito dalla gravità delle conseguenze cui il responsabile incorre in caso di violazione del precetto normativo.

Segnatamente, la natura (penale) della sanzione può essere determinata attraverso lo scopo punitivo, deterrente e repressivo che la connota (Corte EDU, 1° febbraio 2005, Ziliberg c. Moldavia, Corte EDU, 2 giugno 2008, Paykar Yev Haghtanak Ltd c. Armenia; Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia). Assume, altresì, rilievo la finalità che intende perseguire, che deve tendere non già al risarcimento del danno, ma principalmente a prevenire, reprimere e impedire ex ante la perpetrazione di analoghe condotte. La presenza di uno scopo secondario risarcitorio non inficia, tuttavia, la natura penale della sanzione, potendo la sanzione penale avere anche una finalità compensatoria-ripristinatoria, purché tale fine non sia prevalente.

Un parametro per determinare la natura afflittiva/punitiva della sanzione è rappresentato dalla circostanza che essa venga quantificata secondo un multiplo del profitto conseguito dal responsabile. Ed assume rilievo, ai fini della valutazione del grado di severità della sanzione, l’entità della pena con riferimento al massimo edittale previsto e l’intensità del malum infliggibile. Tali principi sono stati espressi in particolare nella celebre Sentenza CEDU 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c. Italia e ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale (si vedano: Cass. n. 770/2017, Corte Cost. 68/2017, Corte Cost. 63/2019; Corte Cost. 223/2018).

 

Alla luce di tali criteri, sanzioni qualificate come non aventi natura penale dal diritto nazionale possono, dunque, essere ricondotte nell’alveo di quelle penali ai fini dell’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle relative garanzie (cfr. Corte Cost. 2016/102). E a tale fine è sufficiente la presenza di uno soltanto dei tre criteri sopra menzionati.

 

Come è noto, nel caso Grande Stevens e altri c. Italia del 2014, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, facendo applicazione dei “criteri Engel”, ha rilevato la natura essenzialmente penale del procedimento sanzionatorio innanzi alla CONSOB ed ha, conseguentemente, ritenuto come la successiva instaurazione di un ulteriore procedimento penale in relazione al medesimo fatto materiale costituisse una violazione del principio del ne bis in idem3.

 

La nostra Corte costituzionale, con sentenza n. 63/2019, e sempre sulla base di tali principi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo n. 72/2015 nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) e la illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72/2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998.

 

Il Consiglio di Stato, con la recentissima ord. n. 3134/2019, ha ritenuto di sollevare la questione di costituzionalità con riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6-7 della CEDU, relativamente all’art. 11 comma 4 L. 5 marzo 2001 n. 57 nella parte in cui, nell’introdurre una nuova disciplina sanzionatoria delle infrazioni in materia di intese lesive della concorrenza o di abusi dominanti sul mercato, mitigandone le sanzioni, non abbia anche previsto la possibilità di applicare retroattivamente tale disciplina più favorevole.

 

I c.d. Engel criteria, elaborati dalla Corte EDU, espressamente accolti in ambito eurounitario, con perfetta sovrapponibilità lessicale e semantica, costituiscono ormai un punto fermo nella giurisprudenza degli Stati membri e la nozione di “illecito amministrativo di natura sostanzialmente penale” è ormai considerata diritto vivente.

 

Orbene, venendo al caso di specie, i criteri Engel sopramenzionati consentono, ad avviso di questa Corte, di accertare la natura “sostanzialmente penale” della sanzione prevista dall’art. 28 L.R. Lombardia n 86/1983, attesa la sua finalità prevalentemente punitiva ed il suo elevato grado di afflittività.

 

Ed invero, premesso che la norma di riferimento si rivolge a una cerchia di destinatari indeterminata, per tutelare interessi generali della collettività, lo scopo della sanzione risulta essere prevalentemente punitivo, piuttosto che ripristinatorio-risarcitorio, come confermato dal precipuo meccanismo di determinazione della pena, correlato ad un multiplo del profitto conseguito dal responsabile della violazione.

 

L’elevata afflittività, correlata sia all’entità della pena che può essere in astratto irrogata, sia a quella in concreto inflitta, non appare, poi, revocabile in dubbio laddove si consideri che, secondo i calcoli risultanti dal verbale di accertamento, nel suo massimo edittale raggiungeva l’importo di euro 3.931.200,00, tenuto conto delle dimensioni della cava, dei volumi di scavo e dei costi di smaltimento. Misura, poi, in concreto determinata dall’Ente che ha ingiunto la sanzione in euro 374.000,00, per ciascuno dei trasgressori. Tale sanzione non può essere certo considerata come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, essendo fortemente punitiva e connotata da una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, comune alle pene di senso stretto.

Sulle “finalità repressive” delle sanzioni amministrative e sull’ “elevato carico di severità” delle medesime quali indici della loro natura “penale” ai sensi dell’art. 50 CDFUE, si rinvia alla già citata sentenza della Corte di Giustizia UE (Di Puma ed altri nelle cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38).

 

Ciò premesso, ed accertata la natura “penale” della sanzione oggetto di causa, resta da affrontare l’applicabilità della normativa sopravvenuta secondo il principio del favor rei, in analogia con la materia penale e conformemente a quanto già verificatosi in sede penale4.

 

Parte appellata, pur dando atto del sopravvenuto mutamento del quadro normativo, lo ha tuttavia ritenuto inapplicabile ratione temporis - “non potendosi prescindere dall’applicare la normativa e le procedure vigenti al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio per cui si procede” - in conformità al consolidato principio d’irretroattività dell’art. 1 L. 689/1981.

Orientamento, questo, recepito nella sentenza censurata che, nel respingere l’opposizione, ha sul punto argomentato come la normativa sopravvenuta più favorevole, sebbene entrata in vigore anteriormente alla notifica dell’ordinanza-ingiunzione, non potesse trovare applicazione, essendo “inapplicabile in materia di sanzioni amministrative, il principio della retroattività della legge più favorevole al reo di cui all’art 2 c.p., in forza dell’autonomia reciproca dei due sistemi sanzionatori”. Secondo il giudice di prime cure, occorrerebbe “l’espressa previsione di retroattività, quale eccezione alla regola (...) non ravvisabile nella L 24 novembre 1981 n. 689” (cfr. sentenza, pagg. 15-16). 

 

Questa Corte è ben consapevole che il Giudice delle leggi (da ultimo, con la sentenza n. 193 del 2016) ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 117 primo comma Cost., dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981, nella parte in cui non prevede la retroattività in mitius nella generale disciplina dell’illecito amministrativo. Ritiene, tuttavia, di poter addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1 L. 689/81, in applicazione dei principi contenuti nella recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 63/2019.

 

È, infatti, evidente che un fatto non più considerato illecito dall’ordinamento, ove sanzionato ancora in via amministrativa, creerebbe evidenti profili di ingiustizia manifesta laddove si escludesse al sanzionato di poter beneficiare della disciplina successiva più favorevole.

La mancata applicazione del favor rei, nel caso di specie, determinerebbe l’applicazione di una sanzione che il Parco non potrebbe più ingiungere, atteso che la successiva disciplina di legge non qualifica più come “rifiuti” i materiali oggetto di scavo, bensì come “sottoprodotti”.

E sul punto giova evidenziare che lo stesso Parco, con atto prot. 8142/2014, in via di autotutela, ha ordinato l’archiviazione del procedimento PVA n. 44/2011, sulla base della considerazione che “i materiali di scavo utilizzati, con l’entrata in vigore delle leggi sopra citate […], non sono più da classificarsi come rifiuti ma […] sono classificabili come sottoprodotti e quindi sottoposti al regime di cui all’art. 184-bis del d.lgs. 152/2006”. Il caso riguardava la medesima area e materiali aventi le stesse caratteristiche rispetto a quelli oggetto del presente procedimento.

 

Con la sentenza n. 63/2019, la Corte Costituzionale ha affermato che il principio di retroattività della lex mitior “deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni amministrative che abbiano natura <>” (cfr. sentenza, Paragrafo 6); ulteriormente precisando (cfr. sentenza, Paragrafo 6.2)  che “il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della ‘materia penale’ – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior, nei limiti appena precisati – non potrà che estendersi anche a tali sanzioni”.

Prosegue, poi, la Consulta nell’osservare che “l’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione ‘punitiva’ è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura ‘punitiva’, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressati di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo <>, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale” (cfr. sentenza, Paragrafo 6.2).

 

In tale occasione, la Corte costituzionale ha escluso che dalla giurisprudenza della Corte EDU sia ricavabile l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione negli ordinamenti dei singoli Stati del principio di retroattività con riferimento alla generalità delle sanzioni amministrative; ma ha, nondimeno, “ dovendosi piuttosto procedere a una preventiva valutazione della singola sanzione come «convenzionalmente penale» alla luce dei cosiddetti criteri Engel” (cfr. Sentenza, Paragrafo 1.3.3), così respingendo la tesi di un rifiuto generalizzato all’applicazione analogica dell’art. 2, secondo comma, cod. pen. alle sanzioni amministrative.

 

La controversia in esame può, dunque, essere risolta attraverso una pronuncia costituzionalmente orientata che preveda non l’automatica estensione del detto principio a tutte le sanzioni amministrative, ma la sua applicabilità a quelle singole fattispecie di natura punitiva assimilabili alla materia penale, previa necessaria valutazione della singola sanzione alla luce dei criteri Engel (Corte Cost 63/2019, Corte Cost. 193/2016). E ciò considerando che “A tale conclusione non osta l’assenza, sino a questo momento, di precedenti specifici nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. E’ infatti da respingersi l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo” (così, Corte Cost. n. 63/2019, Paragrafo 6.2).

 

Nel caso di specie non si ravvisano, né sono stati dedotti, interessi di rango costituzionale prevalenti rispetto all’interesse all’applicazione della legge in mitius. Il solo interesse repressivo-punitivo invocato dalla resistente non può essere ritenuto prevalente rispetto alle garanzie della retroattività della lex mitior riconosciute dalla Costituzione e dal diritto comunitario alle sanzioni che, a prescindere dalla loro formale qualificazione, hanno ontologicamente una prevalente funzione punitiva e per ciò definibili, proprio secondo i principi Engel, come sostanzialmente penali. Né è di per sé solo idoneo inidoneo a costituire un valido elemento di bilanciamento di contrapposti interessi di rango costituzionale.

 

Alla luce di tali considerazioni, effettuata la preliminare ed indispensabile valutazione della natura punitiva - e quindi penale - della sanzione, è applicato al caso in esame il principio della retroattività della norma più favorevole, secondo una interpretazione conforme ai principi riaffermati e sviluppati nella ampiamente citata sentenza n. 63/2019, senza la necessità di sollevare alcuna questione di legittimità costituzionale.

 

Un’ultima considerazione si impone con riferimento alle ulteriori argomentazioni svolte dalla difesa appellata. La difesa del Parco del Ticino deduce che la modifica normativa avrebbe riguardato norme “extrasanzionatorie” e che, secondo il principio accolto dalla giurisprudenza penale nell’interpretazione dell’art. 2 c.p., l’istituto della successione delle leggi penali riguarda solo le norme incriminatrici e non anche le norme “extrapenali”, che non integrano la fattispecie incriminatrice, né tanto meno gli atti o i fatti di rilievo amministrativo che, pur influendo sulla punibilità di determinate condotte, non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria. Osserva, da ultimo, che la sanzione amministrativa applicata nella specie non è quella prevista per l’abbandono o il riporto di rifiuti, ma è riferita alla violazione della disciplina del Parco regionale.

 

Gli assunti difensivi, benchè indiscutibilmente suggestivi e pregevoli, non possono essere, tuttavia, condivisi.

In relazione alle norme penali integrate da norme poste da fonti di rango secondario, si è posta, invero, la questione degli effetti che derivano dall’eventuale abrogazione o modificazione della norma secondaria sotto il profilo della successione delle leggi penali nel tempo. E si è conclusivamente osservato come la valutazione debba essere effettuata caso per caso, essendo indispensabile verificare se la modificazione o l’abrogazione della norma secondaria abbia fatto venire meno il disvalore del fatto commesso in precedenza.

 

I principali indirizzi esegetici elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza si attestano su tre principali orientamenti.

Secondo un primo orientamento, al fine di stabilire se il mutamento del precetto normativo richiamato o presupposto dalla disposizione incriminatrice possa realmente estendere il proprio effetto favorevole anche ai fatti commessi in precedenza, occorre valutare l’incidenza della modifica “mediata” della fattispecie penale sulla concreta punibilità del reo. E’ la cd. tesi della “doppia punibilità in concreto”: solo se un fatto punibile nella vigenza della vecchia disposizione non risulta più concretamente perseguibile in base alla nuova fattispecie ricorrerebbe il fenomeno abolitivo.

Secondo un diverso approccio ermeneutico, invece, l’operatività dell’abolitio criminis dipenderebbe dalla idoneità della modifica “mediata” ad incidere sul disvalore della fattispecie incriminatrice. In questa prospettiva, si configurerebbe un’ipotesi di abolitio criminis nel caso in cui la successione delle leggi extrapenali abbia fatto venir meno l’originario significato offensivo del fatto-reato, interrompendo la “continuità” del tipo di illecito stigmatizzato dal legislatore. Con la conseguenza di rendere penalmente irrilevanti fatti che, in seguito ad una rinnovata valutazione legislativa, non appaiano più meritevoli di pena; e ciò quand’anche essi siano stati posti in essere prima dell’intervento normativo.

Si rinviene, poi, anche un terzo orientamento, che propone l’adozione di un criterio logico-formale fondato sul confronto strutturale delle fattispecie astratte in successione: cd. “doppia punibilità in astratto”.  Secondo questo indirizzo, soltanto quando la modifica abbia l’effetto di intaccare una norma extrapenale con valenza definitoria o incorporata in una disposizione con un precetto in tutto o in parte incompleto potrà configurarsi quella effettiva incisione della fisionomia della fattispecie astratta di reato in grado di determinare l’effetto retroattivamente abrogativo previsto dal secondo comma dell’art. 2 c.p.

 

Orbene, all’origine della questione in esame vi è l’accertamento che il Parco ha compiuto in data 7 ottobre 2009, rilevando il “riempimento di un’escavazione abusiva” con terre e rocce da scavo, a suo dire classificabili come “rifiuti” e riconducibili alla categoria 170504 del codice C.E.R.: da qui, l’addebito di “abbandono di rifiuti” per un volume totale stimato pari a 156.000 m3, come da P.V.A. (doc. 2 del fascicolo di primo grado dell’odierno appellante, pag. 8). Nell’ordinanza di ingiunzione è stato, quindi, specificamente contestato, quanto alla natura dell’infrazione, l’“abbandono rifiuti speciali (CER 170504 terra e rocce) in zona G1 del PTC”. Segnatamente, la violazione dell’art. 9.G.3, lett. b), d. G.R. Lombardia n. 7/5983 del 2 agosto 2001 che, testualmente, stabilisce che “Nelle zone G è vietato (…) localizzare e realizzare discariche controllate di rifiuti solidi urbani e rifiuti industriali e abbandonare rifiuti” (enfasi del redattore).

 

Non appare dunque revocabile in dubbio, anche alla stregua degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali di cui si è dato conto, come lo jus superveniens abbia inequivocabilmente mutato la fattispecie costituita dal collegamento tra la norma penale e la norma extrapenale che la integrava, non essendo più qualificabili come rifiuti (bensì come sottoprodotti) le terre e rocce di scavo, nella ricorrenza (qui incontestata ed altresì accertata in sede penale con sentenza definitiva) delle condizioni di legge previste dalle lettere a), b), c) e d) dell’art. 41 bis D.Lgs. 69/2013.

Sul punto appare esaustivo richiamare il principio espresso dalla Corte di legittimità (Cass. SS.UU. 27 settembre 2007 n. 2451) secondo cui: “Una nuova legge extrapenale può avere, di regola, un effetto retroattivo (...) se integra la fattispecie penale venendo a partecipare della sua natura, e ciò avviene, come nel caso delle disposizioni definitorie, se la disposizione extrapenale può sostituire idealmente la parte della disposizione penale che la richiama”.

 

Non senza osservare che, nel caso di specie, la normativa sopravvenuta è entrata in vigore anteriormente alla notifica dell’ordinanza-ingiunzione (benchè successivamente al verbale di accertamento dell’ingiunzione) e che, relativamente all’odierno appellante, si potrebbe, altresì, configurare una violazione del divieto del bis in idem, essendosi anche celebrato (e concluso) il procedimento penale a suo carico.

 

L’accoglimento del motivo di appello sub IV, alla luce della nodale questione del carattere penale della misura irrogata, determina l’assorbimento delle altre domande ed eccezioni formulate, in virtù del principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in base al quale la figura dell’assorbimento, che esclude il vizio di omessa pronuncia, ricorre, in senso proprio, quando la decisione sulla domanda cd. assorbita diviene superflua per sopravvenuto difetto di interesse della parte che, con la pronuncia sulla domanda cd. assorbente, ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno e, in senso improprio, quando la decisione cd. assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande (Cass. n. 11547/2013).

 

Per tutti i motivi sin qui argomentati, in riforma della sentenza n 289/2017 del Tribunale di Busto Arsizio, pubblicata il 24/02/2017, l’opposizione deve trovare accoglimento con conseguente annullamento dell’ordinanza d’ingiunzione prot. n. 9070, emessa in data 3 ottobre 2014 e ss.mm. ii.

La controversa questione di diritto, i plurimi interventi normativi che hanno interessato la materia delle terre e rocce da scavo e, da ultimo, la sopravvenuta modifica legislativa su cui è stata fondata la presente decisione costituiscono idonee ragioni per disporre l’integrale compensazione delle spese processuali del doppio grado di giudizio.

 

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Milano, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione assorbita e/o disattesa, così provvede:

- in accoglimento dell’appello proposto, annulla l’ordinanza di ingiunzione prot. n. 9070 CP/OL/mf resa in data 3 ottobre 2014 e ss.mm.ii;

- dichiara interamente compensate le spese del doppio grado di giudizio.

Così deciso in Milano, il 27 novembre 2019.

Il Presidente estensore 

Carla Romana Raineri