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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23247 - pubb. 19/02/2020.

Concordato preventivo con cessione dei beni e diritto di prelazione


Cassazione Sez. Un. Civili, 27 Luglio 2004, n. 14083. Pres. Corona. Est. Proto.

Concordato preventivo con cessione dei beni - Vendita eseguita dal liquidatore - Diritto di prelazione all'acquisto concesso dal debitore prima dell'apertura della procedura - Esperibilità del diritto da parte del titolare - Sussistenza


In relazione alla vendita effettuata dal liquidatore in esecuzione del concordato preventivo con cessione dei beni, è consentito l'esercizio del diritto di prelazione nell'acquisto, convenzionalmente attribuito a un terzo dal debitore prima dell'ammissione della procedura, atteso che: il rapporto di prelazione, come tutti i rapporti giuridici preesistenti, non si scioglie (mancando nella disciplina del concordato il richiamo alle disposizioni dettate dagli artt. 72-83 legge fall.) a seguito dell'apertura del concordato o della sua omologazione; non è ricavabile dal sistema l'oggettiva incompatibilità della prelazione con la fase esecutiva del concordato (sia perché la forma e le modalità della liquidazione competono al debitore cedente, che può stabilire la vendita a trattativa privata e il tribunale interviene, ai sensi dell'art. 182 legge fall., solamente se il concordato non dispone diversamente, sia perché, non rispondendo l'esclusione della prelazione nella vendita forzata a ragioni di principio, è irrilevante che il trasferimento venga attuato con atti di carattere negoziale ovvero coattivo); va escluso, infine, che la prelazione incida, di per sè, negativamente sugli interessi dei creditori, in quanto essa comporta il solo onere della "denuntiatio" e si colloca in un momento successivo alla individuazione dell'acquirente e alla definitiva determinazione del prezzo. (massima ufficiale)

 

Svolgimento del processo

La s.p.a. Industrie Riunite e la s.r.l. S.I.L.C.A., unitamente alla s.a.s. R. Giacomo & Figli costituirono il Consorzio Produttori Carbonato di Calcio di Caneva e di Sacile (Concarb), stabilendo nel relativo statuto (art. 8) il diritto di prelazione a favore dei soggetti consorziati in caso di vendita dell'azienda da parte di uno di essi. La società Industrie Riunite e la società S.I.L.C.A. nell'ottobre 1982 furono ammesse dal Tribunale di Pordenone alla procedura di concordato preventivo con cessione di beni, e, nell'ambito di questo, le rispettive aziende furono cedute alla s.p.a. Società Mineraria Sacilese, senza rispettare il patto di prelazione. La società R. Giacomo & Figli, in unione con la Società Industriale e Minerale del Friuli s.n.c., con atto notificato 18 novembre 1985, convenne in giudizio la Industrie Riunite, la S.I.L.C.A. e la Mineraria Sacilese, chiedendo che fosse dichiarata la nullità del contratto di vendita dell'azienda e che fosse disposto il trasferimento dell'azienda stessa alle società attrici, in subordine chiese la condanna delle società convenute al risarcimento dei danni patiti in dipendenza dell'inosservanza degli obblighi contrattualmente assunti.

Con sentenza 4 gennaio 1989 il Tribunale di Pordenone rigettò la domanda.

Dichiarata dalla Corte di appello di Trieste (sent. 8 febbraio 1992) la nullità del giudizio di primo grado per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del commissario giudiziale liquidatore, e riassunto il giudizio anche nei suoi confronti, il Tribunale rigettò nuovamente la domanda (sent. 11 marzo 1998). Con sentenza in data 10 marzo 2000 la Corte territoriale, adita in sede di impugnazione dalla R. Giacomo & Figli, confermò questa pronuncia, ponendo in rilievo il carattere non volontario della vendita di beni effettuata nell'ambito della procedura di concordato preventivo e l'esigenza di soddisfare l'interesse pubblico per conseguire la maggiore rimunerazione possibile a tutela delle aspettative dei creditori.

Avverso questa decisione la R. Giacomo & Figli ha proposto ricorso per Cassazione con sette motivi.

Col primo motivo osserva che la sentenza impugnata avrebbe dovuto tener conto del fatto che i precedenti giurisprudenziali invocati dalla sentenza impugnata si riferiscono all'ipotesi di prelazione legale (art. 38 della legge n. 392 del 1978), e non già (come nel caso di specie) a quella convenzionale, e che occorreva, quindi, verificare piuttosto che l'adeguamento della fattispecie concreta alla fattispecie normativa, la compatibilità dell'istituto della prelazione con la funzione e la struttura del concordato preventivo. Col secondo motivo, denunciando la violazione degli artt. 160, 161, 163, 164, 167, 168, 169, 181 e 182 l. fall., la ricorrente deduce che la Corte d'appello, affermando l'inapplicabilità della prelazione convenzionale alla vendita dei beni ceduti nell'ambito del concordato preventivo, ritenuta di natura vincolata, ha assimilato tale vendita a quella disposta nell'ambito della procedura fallimentare, senza considerare i tratti differenziali delle due procedure - la natura negoziale dell'atto con cui prende avvio il concordato preventivo, il mancato spossessamento dei beni ceduti, la natura di mandato irrevocabile del potere gestorio del liquidatore - tutti convergenti nella direzione della natura volontaria delle vendite relative al patrimonio del debitore ceduto.

Col terzo motivo, denunciando la violazione degli artt. 160, 161, 163, 164, 167, 168, 169, 181, 182 e 184 l. fall., in relazione agli artt. 1977, 1979, 1980, 1983, 1984 c.c., deduce che la sentenza impugnata ha ritenuto non applicabile il patto di prelazione convenzionale alla procedura concorsuale in esame, non considerando che la procedura di concordato preventivo è compatibile con la persistenza del patto di prelazione convenzionale, che, quale rapporto giuridico preesistente, perdura dopo l'apertura della procedura stessa.

Col quarto motivo la società ricorrente denuncia il mancato riconoscimento della colposa responsabilità delle società convenute per l'inadempimento al patto di prelazione e la conseguente condanna al risarcimento dei danni.

Col quinto motivo denuncia omessa motivazione sulla domanda di risarcimento del danno patito dalla società attrice, a causa dell'estinzione del diritto di prelazione in relazione alla vendita del compendio aziendale per effetto della instaurazione del concordato preventivo.

Col sesto motivo deduce che la sentenza impugnata avrebbe dovuto riconoscere la responsabilità risarcitoria della società Industrie Riunite e della società S.I.L.C.A., che, promuovendo il concordato preventivo, avevano determinato la estinzione del diritto di prelazione spettante all'attrice, e lamenta che sia stato addossato ad essa attrice la prova della non imputabilità dello stato di insolvenza.

Col settimo motivo censura la mancata integrale compensazione delle spese processuali.

Al ricorso hanno resistito con controricorso la s.p.a. Industrie Riunite, la s.r.l. S.I.L.C.A. e, quale commissario giudiziale delle predette società, il Dott. Gastone Parigi, nonché, con distinto controricorso, la Società Mineraria Sacilese s.p.a. Quest'ultima ha depositato una prima memoria.

Con ordinanza 11 dicembre 2002 la Prima Sezione civile, rilevato che sulla questione prospettata coi primi tre motivi del ricorso - se sia esercitatile il diritto di prelazione nell'ambito delle vendite effettuate nel corso di una procedura di concordato preventivo con cessione dei beni - sussiste un contrasto giurisprudenziale, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell'art. 374, secondo comma, c.p.c.. Il ricorso è stato quindi assegnato, per la soluzione del contrasto, alle Sezioni Unite.

I resistenti hanno depositato memorie.

 

Motivi della decisione

1.1. Nei rispettivi atti difensivi (controricorsi, memorie ex art. 378 Cod. proc. civ., interventi nella discussione orale) le controricorrenti hanno dedotto, preliminarmente:

- che con atto a rogito Bevilacqua del 19 dicembre 1985, il commissario liquidatore del concordato preventivo con cessione dei beni della s.p.a. Industrie Riunite e della s.r.l. S.I.L.C.A. aveva alienato alla s.r.l. Mineraria Sacilese le aziende di dette società;

- che la s.p.a. R. Giacomo & Figli, agendo sul presupposto che alla data della vendita le società cedenti fossero ancora socie, unitamente ad essa attrice, del Consorzio Produttori di Carbonato di Caneva e Sacile (CONCARB) aveva adito il Tribunale di Pordenone al fine della declaratoria (nonché delle statuizioni consequenziali) del proprio diritto ad esercitare la prelazione riconosciuta ai consorziati, al verificarsi delle alienazioni delle aziende di altri consorziati, dall'art. 8 dello statuto del CONCARB;

- che con sentenza n. 152 del 27 marzo 1998 il Tribunale di Pordenone aveva rigettato la domanda della s.p.a. R. per due distinte ed autonome ragioni: In via principale, perché alla data del rogito le società cedenti non facevano più parte del CONCARB, essendo ad esse subentrata la Mineraria Sacilese, con la conseguente insussistenza, in quel momento, del presupposto cardine per l'esercizio della prelazione, costituito dalla cessione di un'azienda di un soggetto consorziato; in ogni caso, perché il diritto di prelazione non può essere utilmente esercitato con riferimento alle alienazioni di beni effettuate - come nella specie -nella fase liquidatoria di un concordato preventivo con cessione di beni:

- che la s.p.a. R. aveva proposto appello avverso detta sentenza davanti alla Corte d'appello di Trieste;

- che, se è pur vero che nelle conclusioni dell'atto di appello la società R. aveva chiesto l'integrale riforma di quella sentenza, non è in alcun modo dubitabile che nella parte motiva dell'atto medesimo l'appellante non aveva sviluppato alcuna censura avverso la prima delle richiamate rationes decidendi;

- che la Corte di Trieste ha respinto l'appello sulla base della seconda delle ragioni valorizzate dal Tribunale.

Ciò premesso le controricorrenti hanno sostenuto che - tenuto anche conto della regola per cui nel corso della successiva fase del procedimento di secondo grado non si possono proporre ulteriori motivi rispetto a quelli formulati nell'atto introduttivo del giudizio - tale situazione processuale comporta che la ratio decidendi non censurata in modo specifico è divenuta definitiva; e che, attualmente, non può essere contestato che la s.p.a. R. Giacomo & Figli non ha diritto ad esercitare la prelazione della quale si controverte posto che, alla data della vendita, le cessionarie non erano più socie del consorzio CONCARB. Sulla base dei riassunti rilievi, infine, hanno sollecitato questa Corte Suprema a pronunciare sul ricorso in funzione di questo assorbente dato processuale, ed a confermare, anche per tale distinta ragione, la sentenza della Corte triestina.

1.2. La sollecitazione non può trovare accoglimento. Nella sua sentenza la Corte di Trieste ha affermato:

- che "rettamente il Tribunale di Pordenone ha reputato infondata le pretese della società appellante in quanto fondata sul patto convenzionale di prelazione", stante l'inapplicabilità di quel diritto in caso di vendita di cespiti di un'impresa ammessa al concordato preventivo;

- che tanto comportava il rigetto delle domande della società R. dirette o alla declaratoria della nullità dell'atto di vendita (nullità, tra l'altro, neanche configurabile in astratto), ovvero alla condanna delle appellate al risarcimento dei danni subiti per non aver potuto esercitare il diritto di prelazione;

- e che, con riferimento ad altra domanda di danni proposta dalla società R., "effettivamente, in atti, non risulta fornita la prova da parte della s.p.a. Mineraria Sacilese d'aver adempiuto alle condizioni prescritte dalle deliberazioni assembleari comunicatele con nota del 2/7/1983, sicché non può essere affermato che tale società subentrò effettivamente nel Consorzio al posto delle due società in concordato".

Alla stregua di siffatte affermazioni risulta incontestabile che, per la Corte di Trieste:

- con l'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, la s.p.a. R. Giacomo & Figli aveva investito la sentenza del Tribunale di Pordenone in ogni sua parte; diversamente, infatti, avrebbe dovuto confermare la sentenza di primo grado per l'assorbente motivo della sopravvenuta incontestabilità della prima delle avanti richiamate rationes decidendi;

- non poteva essere confermata la circostanza di fatto posta dal giudice di primo grado a sostegno di quella prima ratio decidendi, non sussistendo la prova dell'avvenuta uscita delle società cessionarie dal Consorzio in epoca precedente alla data della vendita.

Vale a dire, che per la Corte triestina, la prima delle due ragioni che il giudice di primo grado ha posto a fondamento della sua decisione era stata censurata in appello; inoltre, e soprattutto, non era corretta. Quest'ultimo rilievo, per un verso, rende ragione del perché il giudice d'appello abbia proceduto direttamente ed esclusivamente all'apprezzamento della seconda ratio decidendi, nonostante che la stessa fosse logicamente subordinata all'altra; per altro verso, ribadisce ed avvalora la conclusione che il giudice dell'appello ha ritenuto censurata anche la prima ratio. Di fronte a questo dato, la questione proposta dalle controricorrenti si traduce, in sostanza, nella prospettazione di un vizio processuale in cui sarebbe incorsa la Corte di Trieste: l'aver pronunciato su un punto della sentenza di primo grado che l'atto di appello non aveva investito con una censura specifica; il che ne aveva precluso il riesame.

In proposito, è utile tenere presente che si tratta di un vizio nettamente diverso da quello che si configura allorquando il giudice di secondo grado abbia proceduto all'esame di un appello generico in ogni sua parte (che ne determina l'inammissibilità), perché in questa ipotesi il giudice d'appello è stato validamente adito, ma il contenuto circoscritto dell'atto introduttivo determina l'insorgere di una preclusione al riesame di taluni punti della sentenza di primo grado.

Ebbene, in ordine alla natura del vizio nel quale sia incorso il giudice d'appello per aver ricostruito in modo erroneo l'ambito del giudizio d'appello, ed aver conseguentemente proceduto al riesame di un punto della sentenza di primo grado non censurato nell'atto introduttivo del giudizio, nella giurisprudenza di questa Corte si confrontano due diversi indirizzi.

Per il primo, prevalente, il vizio realizza la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato applicabile anche nel giudizio d'appello, stante anche la regola del tantum devolutum quantum appellatum. Dunque, un'ipotesi di extrapetizione ex art. 112 c.p.c. concretizzante un error in procedendo, che determina il potere del giudice di legittimità di apprezzare direttamente l'effettivo contenuto dell'atto di appello.

Per il secondo (seguito, da ultimo, dalla sentenza 26 maggio 1995 n. 5829), la determinazione del contenuto e dell'estensione dell'atto di appello implica un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, sottratto al sindacato di legittimità quando sia sorretto da congrua motivazione. Dunque, un errore tipicizzante esclusivamente un vizio di motivazione.

Peraltro, anche per l'indirizzo prevalente, in tanto la Corte di Cassazione può procedere al sindacato di un siffatto vizio, in quanto questo sia stato denunciato con uno specifico motivo di impugnazione. Tanto in applicazione del principio secondo cui il vizio di extrapetizione non determina una nullità insanabile della sentenza; di modo che esso è denunciabile solo con gli ordinar mezzi di impugnazione e non è rilevabile d'ufficio dal giudice del gravame.

Da questo principio - che si ribadisce non ravvisandosi ragioni per discostarsene - deriva che le controricorrenti, totalmente vittoriose nel merito, al fine di ottenere una statuizione di questa Corte di legittimità sul lamentato vizio della sentenza d'appello e, per l'effetto, sull'avvenuto giudicato in ordine alla prima della rationes decidendi della sentenza del Tribunale di Pordenone, avevano l'onere di proporre un ricorso incidentale (eventualmente condizionato) denunciante siffatto error, e non potevano limitarsi a sollecitare una pronuncia d'ufficio.

Nè sulla mancata proposizione del ricorso incidentale possono sussistere dubbi. È, infatti, principio fermo che non è ravvisabile ricorso incidentale, per mancanza di un requisito essenziale ai sensi dell'art. 366 n. 4 c.p.c., in un controricorso in cui, come nella specie, sia pure prospettandosi ragioni ulteriori a giustificazione della richiesta di conferma della sentenza da controparte impugnata, non vi sia richiesta di cassazione della medesima.

Ne discende che al Collegio è precluso sindacare il vizio asserito.

2.1. La questione proposta coi primi tre motivi del ricorso - se, nelle vendite eseguite nell'ambito della procedura di concordato preventivo con cessione del beni, sia esperibile, da parte del terzo prelazionario, la prelazione prevista in via convenzionale - è stata effettivamente risolta, come segnala l'ordinanza della prima sezione civile, in modo contrastante dalla giurisprudenza di questa Corte. I precedenti richiamati (sent. 1 giugno 1988, n. 913; 6 aprile 1990, n. 2906 e 14 gennaio 1994, n. 339) vertono tutti sul diritto di prelazione previsto dall'art. 38 della legge 27 luglio 1978, n. 392, a favore del conduttore di immobili adibiti ad uso commerciale.

2.2. In base ad un primo indirizzo, la sostanziale differenza esistente tra la procedura fallimentare e quella di concordato preventivo non consente di adottare per quest'ultimo il criterio secondo cui per le vendite fallimentari è inoperante l'esercizio del diritto di prelazione. "Mentre, infatti, per la prima l'attività svolta dagli organi fallimentari è diretta a finalità pubblicistiche e non può soffrire impedimenti da norme regolanti rapporti privatistici, diverso è il caso del concordato preventivo, che importa una situazione di origine convenzionale, che non esclude la libera determinazione del proprietario di addivenire al trasferimento dell'immobile sotto il profilo privatistico attraverso il liquidatore, nell'osservanza delle norme regolanti l'istituto della prelazione commerciale" (Cass. 10 giugno 1988, n. 913). La sostanziale differenza tra le due procedure, "che esclude qualunque incompatibilità tra atti dispositivi e concordato preventivo", dalla giurisprudenza di legittimità è stata ripresa e sottolineata anche successivamente (Cass. 10 giugno 1999, n. 5306). Intervenendo sul tema dell'opponibilità alla procedura concordataria di una cessione di crediti anteriore all'instaurarsi della procedura, la S.C. ha precisato che nella procedura concordataria "il debitore non viene spossessato e conserva l'amministrazione del patrimonio, in quanto titolare dell'impresa, che resta in esercizio, mantenendo pur dopo l'ammissione alla procedura, la legittimazione a compiere atti di amministrazione senza distinzione, in termini di efficacia, tra quelli anteriori alla proposta di concordato, e quelli successivi, a differenza di quanto previsto dall'art. 44 l. fall. per il fallimento, se non per la presenza della direzione del giudice delegato e della vigilanza del commissario giudiziale e per la esigenza dell'autorizzazione del primo per gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione...". "Esclusa, dunque, qualunque incompatibilità tra atti dispositivi e concordato, giovando la verifica, compiuta in sede di giudizio di omologazione, della consistenza dei beni ceduti ad impedire che esso si concluda favorevolmente, ove appaia incongrua rispetto alla percentuale promessa, non è dato configurare il procedimento di concordato preventivo come soggetto terzo, dal momento che si apre su richiesta esclusiva del debitore, nel di lui interesse - pur se in quello concorrente dei creditori - e mira alla sua esdebitazione, nella più generale finalità di eliminare l'insolvenza, senza l'esigenza di sostituzione a lui degli organi della procedura, giacché l'imprenditore resta in bonis e i suoi atti pregressi, al pari di quelli successivi di gestione dell'impresa, conservano validità ed efficacia...".

In tale prospettiva la cessione dei beni in ambito concordatario è ricondotta alla figura generale della cessione dei beni ai creditori, prevista dall'art. 1977 c.c., che si sostanzia in un mandato irrevocabile a gestire e a liquidate i beni del debitore, senza alcuna efficacia traslativa della proprietà, con il quale si conferisce agli organi della procedura la legittimazione a disporre dei beni dell'imprenditore al fine di soddisfare il ceto creditorio (Cass. 21 febbraio 1995 n. 1909 e 21 gennaio 1993, n. 709, ex plurimis).

2.3. Un altro indirizzo, inaugurato da Cass. 6 aprile 1990, n. 2900 e ripreso da Cass. 14 gennaio 1994 n. 339 - muovendo dal principio, enunciato da questa Corte in riferimento sia alla prelazione prevista per le locazioni urbane (Cass. 13 gennaio 1981, n. 295; 30 maggio 1984, n. 3298; 16 dicembre 1996, n. 11225), sia alla prelazione ereditaria (Cass. 7 luglio 1999, n. 7056), e anche alla prelazione convenzionale (Cass. 19 novembre 2003, n. 17523), secondo cui lo ius prelationis non trova applicazione quando gli atti di alienazione non siano riconducibili ad una libera determinazione del proprietario - afferma che l'art. 38 della legge 27 luglio 1978, n. 392, così come non trova applicazione nel caso in cui, dichiarato il fallimento del locatore, l'immobile sia venduto coattivamente, allo stesso modo non può trovare applicazione nell'ipotesi in cui il locatore sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo con cessione di beni ai creditori. Rilevato che il carattere pubblicistico della tutela delle ragioni dei creditori in un regime di par condicio informa anche il concordato preventivo e che in questa procedura esso si attua mediante il negozio di concordato, soggetto all'approvazione dell'autorità giudiziaria, e la sua attuazione, Cass. 2900/1990 osserva che "nella fase finale della procedura, quella della liquidazione, manca qualsiasi possibilità per il debitore di intervenire con atti di volontà nell'alienazione dei beni ceduti ai creditori": anche in questa ipotesi, infatti, "il debitore perde sostanzialmente la disponibilità del patrimonio, perché, come nel fallimento, egli non può più liberamente disporne". Cass. 2900/1990 osserva che, superata positivamente l'omologazione, l'attività di liquidazione resta "sottratta alla disponibilità dell'insolvente, il quale, pur conservando la titolarità dei beni fino all'alienazione, non ha più potere alcuno di scelta tra vendere e non vendere, ne' ha possibilità alcuna di determinare le modalità e il tempo della vendita, nonché il prezzo e il soggetto cui alienare". Ancorché, infatti, nel concordato il debitore non perda la capacità e l'amministrazione dei beni, la liquidazione patrimoniale nella forma concordataria è sottratta alla sua capacità dispositiva per rientrare nei poteri di un organo all'uopo nominato dal tribunale.

2.4. Infine, recentemente, Cass. 11 febbraio 2004, n. 2576, in un caso in cui il curatore era subentrato, ai sensi dell'art. 80 l. fall., in un contratto di affitto con clausola di prelazione, ha ritenuto compatibile con l'esercizio del diritto di prelazione convenzionale anche la vendita del bene alienato in sede fallimentare e, in generale, nelle procedure liquidatorie.

3. La soluzione della questione non può prescindere dall'esame della fattispecie concreta.

In punto di fatto deve ritenersi pacifico che la prelazione di cui si discute è stata prevista dalla clausola dello statuto di un consorzio industriale, il Concarb (secondo cui "fermi restando tutti gli obblighi derivanti dal presente statuto alle ditte aderenti, le stesse sono tenute, in caso di successione, alienazione...a trasferire negli aventi causa ogni diritto ed obbligazione, con le seguenti precisazioni:...qualora una delle imprese consorziate decida la vendita dell'azienda, la stessa è impegnata a concedere alle altre imprese consorziate un diritto di prelazione per l'acquisto..."), e che la questione si è posta in una controversia nella quale - in relazione alla cessione, da parte di due società consorziate (Industrie Riunite e S.I.L.C.A.), delle rispettive aziende nell'ambito della procedura di concordato preventivo cui esse erano state ammesse - si assumeva violata la clausola che aveva attribuito ai soggetti partecipi del consorzio (nella specie, R. Giacomo & Figli) il diritto di prelazione nell'ipotesi di vendita dell'azienda da parte di altro consorziato.

4. L'indagine deve, quindi, muovere dalla natura del diritto di prelazione esercitato nella specie dal prelazionario, considerando che la varietà di forme e di disciplina che l'istituto può assumere (nella prelazione legale e in quella convenzionale, ed anche all'interno di esse) in concreto, non consente di stabilire in via generale criteri interpretativi uniformi, validi per tutte le ipotesi.

Il diritto di prelazione resta, fondamentalmente, un diritto di credito al comportamento del soggetto obbligato a preferire il titolare della prelazione, se egli vorrà concludere un determinato contratto. Se manca l'offerta e il contratto è concluso col terzo, il diritto di prelazione si concreta nel diritto ai risarcimento del danno verso il soggetto obbligato (cfr. Cass. 1 luglio 1997, n. 5895), e, se il diritto è opponibile al terzo, anche nei confronti del terzo. Nella prelazione legale è, poi, previsto che il prelazionario possa esercitare il diritto di prelazione nei confronti dell'acquirente iniziale, rimuovendone l'acquisto, (cfr., per la prelazione agraria, oltre la sent. cit., Cass. 18 dicembre 1998, n. 12685). Mentre il patto di prelazione risponde sempre ad un interesse privatistico, nella prelazione legale non mancano ipotesi in cui (come nella prelazione prevista a favore dello Stato, nei casi di alienazione di beni di interesse artistico e storico di proprietà privata a norma dell'art. 31 l. 1 giugno 1939, n. 1089, e, ai sensi dell'art. 59 d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, oggi abrogato dall'art. 184, co. 1 d.lgs. 42/04, di alienazione di beni culturali) è considerato prevalente il fine di tutela di preminenti interessi pubblicistici. Proprio in relazione a tali interessi il legislatore ha previsto in taluni casi (così nell'affitto di azienda, a norma dell'art. 3 l. 223 del 1991, e per le cooperative di dipendenti nell'abrogato art. 14 l. n. 49 del 1985, a salvaguardia dei livelli occupazionali, nonché, come si ricavava in via interpretativa dal rinvio dell'art. 73 l. 1089/1939 all'art. 60 r.d. 363/1913 nella vendita di beni di interessi artistico o storico); ma ha escluso (o limitato) in altri (art. 8 l. 26 maggio 1965, n. 590, sullo sviluppo della proprietà coltivatrice) che la prelazione possa essere esercitata anche nella procedura di fallimento e di concordato preventivo con cessione di beni, e, in genere, nelle ipotesi di vendita forzata.

I dati normativi non consentono, dunque, di trarre conclusioni univoche in ordine alla oggettiva incompatibilità dell'esercizio del diritto di prelazione con la vendita coattiva (secondo la tesi seguita dalla sentenza impugnata), occorrendo piuttosto fare riferimento all'interesse specifico oggetto di concreto regolamento, considerato meritevole, secondo l'ordinamento, di tutela. Giova, in proposito, considerare che anche la vendita all'incanto della partecipazione, se questa non è liberamente trasferibile, era (art. 2480 c.c.), ed è tuttora prevista (art. 2471 c.c.), nella disciplina delle società a responsabilità limitata, anche in caso di fallimento di un socio.

Il problema si pone, ovviamente, allorché non sia la legge a stabilire, in relazione a specifiche situazioni giuridiche, le modalità dell'esercizio del diritto di prelazione con effetto anche di fronte ai terzi.

5.1. In questo contesto deve essere risolto il contrasto sottoposto all'esame del Collegio, tenendo conto della natura del concordato preventivo con cessione dei beni, e della configurazione che il patto di prelazione assume nell'ambito dell'indirizzo che afferma il perdurare dei rapporti giuridici preesistenti all'apertura della procedura concorsuale (cfr. cass. 29 settembre 1993, n. 9758). Si tratta cioè di stabilire se, di fronte a situazioni astrattamente idonee a giustificare un limite al principio della libera disposizione da parte del titolare del bene, il limite stesso possa incidere direttamente sul potere di disposizione.

5.2. Secondo il Collegio, questo limite nella fattispecie in esame non è configurabile.

5.3. Nella giurisprudenza di questa Corte il concordato preventivo con cessione di beni (come si è già segnalato sub p. 2.2.) è ricondotto, sia pure nel quadro di un procedimento complesso e articolato con pecularietà sue proprie, alla figura generale della cessione dei beni ai creditori prevista dall'art. 1977 c.c., la quale si sostanzia in un mandato irrevocabile, perché conferito anche nell'interesse dei creditori, a gestire e a liquidare i beni ceduti (Cass. 21 gennaio 1993, n, 709; Cass. 16 aprile 1996, n. 3588; Cass. giugno 1999, n. 5306; ex plurimis).

Durante la procedura il debitore conserva la titolarità e la disponibilità del patrimonio, mantenendo, sia pure sotto la direzione del giudice delegato e la vigilanza del commissario, l'amministrazione dei propri beni e l'esercizio dell'impresa (Cass. 19 novembre 1998, n. 11662).

I limiti alla opponibilità degli atti compiuti sul patrimonio sono soltanto quelli previsti dagli artt. 167 e 168 l. fall. (Cass. 5306/99, cit.). Come è stato ulteriormente precisato, il concordato con cessione dei beni non ha alcuna efficacia traslativa della proprietà, e comporta soltanto il trasferimento dei poteri finalizzati alla liquidazione e, conseguentemente, della legittimazione a disporre dei beni ceduti (Cass. 5306/99, cit.). Il debitore conserva, infatti, il diritto di esercitare le azioni e di resistervi, nei confronti dei terzi, a tutela del proprio patrimonio; ciò anche quando, venuti meno quei poteri con la chiusura del concordato, l'esercizio di tutti i crediti è restituito alla piena disponibilità del debitore cedente, che torna ad assommare in sè la titolarità giuridica e i poteri di gestione, e conserva, conseguentemente, la legittimazione (sia dal lato attivo che da quello passivo) all'esercizio delle azioni relative alle attività cedute (Cass. 11 agosto 2000, n. 10738). 5.4. In tale quadro non vi sono ragioni per ritenere fondatamente che il diritto del prelazionario resti caducato (o sia reso comunque inoperante) con l'apertura della procedura di concordato preventivo; nè che esso venga comunque meno, dopo la sua omologazione, con il trasferimento della disponibilità dei beni al liquidatore, dato che gli effetti della liquidazione conseguono in ogni caso (anche) alle determinazioni del debitore.

Se, infatti, il rapporto giuridico preesistente non si scioglie (come è generalmente ritenuto, in virtù del mancato richiamo nella disciplina del concordato preventivo delle disposizioni dettate negli artt. 72-83 sul fallimento) per effetto del decreto di ammissione al concordato, ne' con l'omologazione della proposta, esso, evidentemente, perdura nei suoi contenuti, e, quindi, anche relativamente alla sua soggezione all'obbligo di accordare la prelazione. Nè i riferimenti normativi (richiamati sub p. 4) consentono di ricavare in via di interpretazione sistematica l'oggettiva incompatibilità della prelazione con la fase esecutiva del concordato: sia perché la forma e le modalità della liquidazione competono al debitore cedente (che può stabilire la vendita a trattava privata, e il tribunale interviene, ai sensi dell'art. 182 l. fall., solamente se il concordato non dispone diversamente); sia perché, non rispondendo la esclusione della prelazione nelle vendita forzata a ragioni di principio, è irrilevante che il trasferimento si attui con atti di carattere negoziale ovvero coattivo (cfr. Cass. n. 2576/2004, cit.). La norma che prevede l'esclusione (art. 8, comma secondo, l. 590/1965, cit.) è ritenuta, infatti, di stretta interpretazione (Cass. 1 aprile 2003, n. 4914), e non vieta che l'aggiudicazione del bene in asta pubblica sia condizionata al mancato esercizio della prelazione (Cass. 12 ottobre 1982, n. 5264). D'altronde (a prescindere dalla regola generale di cui all'art. 498 c.p.c., che impone al creditore espropriante di dare comunicazione dell'espropriazione ai soggetti aventi un diritto di prelazione sui beni pignorati), è già positivamente previsto (come si è rilevato sub p. 4), che il patto di prelazione possa essere inserito nella vendita forzata: alla società a responsabilità limitata, è, infatti, tuttora consentito (e non rileva qui soffermarsi sui limiti di operatività delle relative clausole statutarie) presentare, dopo l'aggiudicazione, altro acquirente che offra lo stesso prezzo (art. 2471, che riproduce, sostanzialmente, il previgente art. 2480 c.c., in tema di espropriazione di quote).

5.5. Infine, è da escludere che la prelazione incida, di per sè, negativamente sugli interessi dei creditori, perché essa comporta il solo onere della denunciatici e, in ogni caso, come è stato ripetutamente sottolineato in dottrina, si colloca in un momento successivo alla individuazione dell'acquirente e alla definitiva determinazione del prezzo. Cade così anche l'argomento (invocato dalla sentenza impugnata a sostegno della tesi qui censurata) dell'esigenza della maggiore remunerazione possibile per i creditori, che osterebbe alla configurabilità della prelazione nella liquidazione demandata al liquidatore.

6. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, si deve, dunque, affermare che il concordato preventivo con cessione dei beni non osta all'esercizio del diritto di prelazione previsto nella clausola statutaria.

La pronuncia impugnata, che ha affermato un diverso principio, va dunque cassata, in accoglimento dei primi tre motivi del ricorso. Rimane così assorbito l'esame degli ulteriori motivi. La causa deve essere in conseguenza, rinviata per un ulteriore esame ad altra Sezione della Corte d'appello di Trieste, che deciderà adeguandosi ai su enunciati principi di diritto.

Il giudice del rinvio deciderà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.


P.Q.M.

La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso, e dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra Sezione della Corte d'appello di Trieste anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 1 luglio 2004.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2004