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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22726 - pubb. 21/11/2019.

Risoluzione del contratto di leasing e applicazione dell’articolo 1, comma 138 della Legge n. 142 del 2017


Cassazione civile, sez. III, 12 Settembre 2019. Pres. Travaglino. Est. Anna Moscarini.

Risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore in data anteriore alla entrata in vigore della Legge n. 124 del 2017 -  Applicabilità della nuova disciplina

Contratto di leasing - Penale - Mancata riconsegna del bene - Contemperamento degli interessi del concedente e dell’utilizzatore - Principi di buona fede e correttezza


La disciplina tipica del contratto di leasing introdotta dalla Legge n. 124 del 2017 deve ritenersi applicabile anche ai contratti risolti prima della sua entrata in vigore.

Trattandosi di normativa volta a regolare in via generale gli effetti economici della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore, deve ritenersi infatti che essa sia applicabile anche nei giudizi in corso, pur se pendenti nella fase di legittimità, essendo sufficiente che la nuova disciplina interferisca con questioni ancora dibattute tra le parti.

L’articolo 1, comma 138, L. n. 124/2017 afferma il diritto dell’utilizzatore sul ricavato della vendita del bene oggetto del contratto di leasing e stabilisce che il concedente debba corrispondere in favore del primo tale ricavato dedotte le somme pari all'ammontare dei canoni scaduti, del capitale a scadere, del prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale e degli ulteriori crediti maturati sino alla vendita; viene così implicitamente stabilita una postergazione del diritto di credito della concedente all’avvenuta collocazione sul mercato del bene.

Tale meccanismo, però, funziona e ha un senso solo se l’utilizzatore restituisce il bene. Evidenti ragioni di logica e un’interpretazione della nuova disciplina ispirata ai principi di buona fede e correttezza impediscono un’applicazione della normativa che consenta all’utilizzatore di beneficiare dei propri inadempimenti per bloccare il tutto e impedire alla concedente l’incasso dei canoni scaduti, di quelli a scadere e delle restanti somme che le spettano.

La restituzione del bene è invece il presupposto per l’esercizio dei diritti da parte dell’utilizzatore; ove questa non sia avvenuta, non si può in alcun modo ostacolare il diritto della concedente al pagamento della penale contrattuale. (Andrea Santambrogio) (riproduzione riservata)

Segnalazione del Dott. Andrea Santambrogio

Fatti di causa

La società Unicredit Leasing S.p.A. (già Locat S.p.A) convenne in giudizio davanti al Tribunale di Milano l'impresa individuale " G.G." assumendo di aver acquistato dal Consorzio per lo Sviluppo Industriale di Bari un immobile avente una destinazione ad attività industriale e di averlo concesso in leasing, con contratto del 17/11/2005, alla ditta individuale G.G..

Quest'ultima, preso in consegna l'immobile, si era resa morosa del pagamento di diversi canoni di leasing sicchè la concedente, avvalendosi di una clausola risolutiva espressa, aveva comunicato l'avvenuta risoluzione del contratto, intimando l'immediata restituzione dell'immobile, il pagamento dei canoni scaduti e a scadere con i relativi interessi. Dopo aver agito in sede di art. 700 c.p.c. davanti al Tribunale di Trani la concedente aveva, per l'appunto, convenuto la G. dinanzi il Tribunale di Milano. La convenuta costituendosi in giudizio sollevò varie eccezioni - tra cui l'incompetenza territoriale del Tribunale di Milano, la nullità del contratto di leasing per violazione del divieto di patto commissorio ai sensi dell'art. 2744 c.c., la nullità del medesimo per abuso del diritto, etc.

Il Tribunale di Milano, in parziale accoglimento delle domande di Unicredit Leasing S.p.A., dichiarò la risoluzione del contratto per effetto della clausola risolutiva espressa contenuta nell'art. 21 del medesimo, condannò il G. al rilascio e al pagamento dei canoni scaduti per un importo di Euro 100.369,08, mente rigettò la domanda di condanna al pagamento dei canoni ancora a scadere per un importo di Euro 1.695.077,77 a titolo di penale.

La Corte d'Appello di Milano, adita in via principale dal G. ed in via incidentale da Unicredit Leasing ha, con sentenza n. 3835 del 2017, per quel che ancora qui di interesse, rigettato l'appello principale ed accolto l'incidentale, condannando la G. a pagare a titolo di penale i canoni ancora a scadere per un importo di Euro 1.695.077,77, oltre che alle spese del grado.

Avverso la sentenza G.G. propone ricorso per cassazione sulla base di sei motivi illustrati da memoria. Resiste la Unicredit Leasing S.p.A. con controricorso. Il P.G. deposita conclusioni scritte nel senso del rigetto del ricorso.


Ragioni della decisione

1.Con il primo motivo - violazione e/o falsa applicazione degli artt. 18,19,20 e 21 c.p.c., nonchè degli artt. 11821362 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - censura la sentenza per non aver dichiarato l'incompetenza territoriale del foro di Milano.

1.1. Il motivo è infondato perchè la competenza del Tribunale di Milano era prevista da una clausola contrattuale, vessatoria ma specificamente approvata per iscritto. Sul punto manca una reale censura. Quanto all'argomento che vi sarebbe stata un'implicita rinuncia alla competenza territoriale di Milano per aver proposta una domanda cautelare a Trani, si tratta di censura anch'essa infondata perchè il giudizio di merito era del tutto autonomo rispetto al cautelare. La giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata nel senso di escludere che sia ipotizzabile una rinuncia a far valere la clausola determinativa della competenza territoriale per il semplice fatto che venga promosso altrove giudizio cautelare ante causam. L'omessa rilevazione dell'incompetenza territoriale da parte del giudice o l'omessa proposizione della relativa eccezione ad opera delle parti nel procedimento cautelare "ante causam" non determina il definitivo consolidamento della competenza in capo all'ufficio adito anche ai fini del successivo giudizio di merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni e al rilievo d'ufficio dell'incompetenza, stabilito dall'art. 38 c.p.c. in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena. Ne consegue che il giudizio proposto ai sensi degli artt. 669-octies e novies c.c. all'esito della fase cautelare "ante causam" può essere validamente instaurato davanti al giudice competente ancorchè diverso da quello della "cautela" (Cass.,n. 2505 del 2010, Cass. n. 24869 del 2010 e n. 797 del 2015). Risulta quindi superato il diverso e non condivisibile avviso di Cass. n. 5335 del 20%07 che inferiva tale rinuncia dal nesso di stretta strumentalità tra giudizio cautelare ante causam e giudizio di merito ex art. 669 octies c.p.c. nesso tuttavia inesistente nei procedimenti ex art. 700 c.p.c. per i quali l'art. 669 octies, comma 6 esclude l'obbligo di instaurare il giudizio di merito e tanto più inesistente nel caso, come quello in esame, in cui la misura cautelare non venga accolta perchè solo dopo l'accoglimento sorge l'obbligo di iniziare il giudizio di merito.

2. Con il secondo motivo - violazione e/o falsa applicazione degli artt. 133 e 153 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 - censura la sentenza per aver rigettato la propria istanza di remissione in termini, assumendo che, in mancanza di comunicazione della sentenza di primo grado da parte della cancelleria, l'appellante si sarebbe visto ingiustamente contrarre il tempo per predisporre una adeguata difesa, sì da richiedere, per l'appunto, una remissione in termini. Cita giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il procedimento di pubblicazione della sentenza produce effetti nei riguardi della parte solo dal momento dell'avvenuta comunicazione della sentenza da parte della cancelleria, anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale che ha stigmatizzato come gravemente lesiva del diritto di difesa della parte la separazione temporale del deposito della sentenza da quello della sua comunicazione alla parte.

Il motivo è inammissibile perchè privo di decisività. Pur a voler ammettere che la parte non fu notiziata del deposito della sentenza, la stessa parte notificò tempestivamente l'appello, di guisa da non avere alcun interesse ad invocare la remissione in termini che è istituto che presuppone una decadenza dal termine. Nè si indicano in concreto quali siano le compromissioni del diritto di difesa che sarebbero derivate dalla riduzione dei termini per studiare la causa prima di proporre appello, appello viceversa presentato con varie ed articolate doglianze.

3. Con il terzo motivo - violazione e falsa applicazione degli artt. 1325,1343,1344,1418 e 2744 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 - censura la sentenza per non aver pronunciato la nullità del contratto di leasing per violazione del divieto di patto commissorio. Ad avviso del ricorrente il contratto posto in essere sarebbe stato di mero finanziamento postergato, avendo l'utilizzatore realizzato in proprio la struttura ed avendo ottenuto un mutuo mentre la società concedente conservava la proprietà del bene. Il patto commissorio sarebbe stato violato perchè il bene era stato costruito in proprio dal G. il quale avrebbe avuto un rimborso solo inferiore ai costi sostenuti, avendo realizzato l'opera senza alcun contratto di appalto.

3.1 Il motivo è inammissibile perchè la questione involge apprezzamenti di merito compiuti dalla Corte d'Appello che ha escluso il patto commissorio rilevando l'esistenza di un contratto trilaterale e, per converso, l'inesistenza dell'assunta pregressa proprietà del bene da parte del G.; oltre a sottolineare l'irrilevanza del dato della conclusione del contratto di compravendita del bene successivamente a quello della stipula di leasing. E' dalla ricostruzione in fatto della vicenda negoziale, inquadrata nell'ambito della fattispecie del leasing traslativo che è derivata la conclusione circa l'insussistenza di un contratto dissimulante un patto commissorio vietato, ipotesi che viceversa può ravvisarvi in presenza della figura negoziale del sale and lease back.

4. Con il quarto motivo - violazione e falsa applicazione degli artt. 1175,1375 e 1337 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 censura la sentenza per non aver accolto l'eccezione di abuso del diritto, configurabile nei comportamenti tenuti dalla banca in spregio alla tutela della buona fede e dell'affidamento posto dal G. sulla tipologia di finanziamento ricevuta dalla finanziaria stessa. La censura erroneamente rapportata all'art. 360 c.p.c., n. 5 in quanto non viene contestato alcun fatto controverso e decisivo,è del tutto generica.

5. Con il quinto motivo di ricorso - violazione e falsa applicazione dell'art. 1384 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Necessità di applicazione dello ius superveniens - censura il capo di sentenza che ha accolto l'appello incidentale, condannando il G. a pagare, a titolo di penale, l'importo peraltro molto elevato di canoni a scadere. Si ricorda che il primo giudice aveva ritenuto di non poter accogliere la domanda perchè era previsto contrattualmente che, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore, il concedente poteva chiedere il valore attualizzato dei canoni a scadere ma con deconto del prezzo imponibile ricavabile dalla vendita del bene restituito, con l'ulteriore previsione della possibilità di corrispondere dalla concedente all'utilizzatore l'importo relativo all'eccedenza. Il Tribunale aveva ritenuto altresì "manifestamente eccessiva "la penale non essendoci prova del danno in ragione della chiesta restituzione degli immobili e del necessario accredito in favore dell'utilizzatore del valore realizzato dalla vendita.

La Corte d'Appello, invece, ha ritenuto la clausola legittima perchè in equilibrio con il sinallagma contrattuale, perchè conforme alla mancata restituzione del bene da parte dell'utilizzatore e perchè comunque rispettosa del diritto del medesimo ad ottenere il versamento del corrispettivo della vendita dell'immobile se e quando l'immobile sarebbe stato effettivamente restituito e riallocato. In caso contrario si determinerebbe un effetto in danno della concedente, esposta per le spese sostenute per l'acquisto del bene, privata del bene che rimane in possesso dell'utilizzatore moroso con la compromissione delle legittime aspettative di ricollocamento del bene sul mercato.

Ad avviso del ricorrente, nell'ipotesi in cui si riconoscesse esistente un leasing traslativo, la giurisprudenza di questa Corte sarebbe consolidata nel ritenere che la clausola penale che attribuisce al concedente, nel caso di inadempimento dell'utilizzatore l'intero importo del finanziamento e la proprietà del bene, non deve attribuire allo stesso concedente vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto, tenuto conto che, anche alla stregua della Convenzione di Ottawa, il risarcimento del danno spettante al concedente deve essere tale da porlo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l'utilizzatore avesse esattamente adempiuto.

5.1 La censura rapportata al vizio di motivazione è inammissibile perchè la Corte ha diffusamente motivato sul punto. In ogni caso il mancato esercizio da parte della Corte milanese del potere di ridurre ex art. 1384 c.c. per manifesta eccessività la penale di cui alla clausola n. 21 del contratto inter partes, rientra nell'apprezzamento di merito e spetta dunque, esclusivamente al giudice del merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità se non negli aspetti relativi alla motivazione, cosa che nel caso in esame non può essere censurata a seguito della presenza di un'ampia motivazione.

Costituisce, invece, una questione di diritto la questione dell'applicabilità o meno dello ius superveniens di cui alla L. n. 124 del 2017 che, all'art. 1, commi 138 e 139 ha dettato una disciplina unica per l'ipotesi della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell'utilizzatore, individuando tra le altre cose gli importi richiedibili dal concedente. Trattandosi di normativa volta a regolare in via generale gli effetti economici della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell'utilizzatore deve ritenersi che essa sia applicabile anche nei giudici in corso, pur se pendenti nella fase di legittimità bastando che la nuova normativa interferisca con le questioni ancora dibattute. L'applicabilità della nuova disciplina nella vicenda in esame non incide tuttavia sul risultato finale, in quanto la clausola del contratto di leasing che consente in caso di risoluzione di pretendere il valore attualizzato dei canoni a scadere appare in linea con l'art. 1, comma 138 che legittima il concedente a pretendere anche "....i canoni a scadere, solo in linea capitale".

Così come il comma 138, anche la clausola n. 21 prevede che alle ragioni creditorie della concedente si contrapponga il diritto dell'utilizzatore di pretendere il ricavato della vendita dell'immobile. L'unica differenza è che il comma 138 afferma il diritto dell'utilizzatore sul ricavato della vendita e stabilisce che il concedente deve corrispondere tale ricavato dedotte le somme dovute per canoni scaduti e non pagati mentre la clausola n. 21 individua prima le ragioni di credito del concedente e prevede che, solo una volta soddisfatte queste ultime, l'utilizzatore ha diritto a richiedere il controvalore del ricavato della vendita senza possibilità di opporre in compensazione il credito. Senonchè il meccanismo normativo funziona ed ha un senso se l'utilizzatore restituisce il bene, perchè solo in tale caso il concedente è messo in condizioni di vendere il bene e di corrispondere il ricavato all'utilizzatore. Se questo non accade l'iter si inceppa. Orbene la ratio legis, evidenti ragioni di logica e un'interpretazione ispirata ai principi di buona fede e correttezza impediscono di pensare che l'utilizzatore possa beneficiare dei propri inadempimenti appunto per bloccare tutto, negando alla concedente la corresponsione dei canoni scaduti, di quelli da scadere e di tutto il resto che le spetta. La restituzione del bene è il presupposto per l'esercizio dei diritti da parte dell'utilizzatore. Una diversa conclusione non avrebbe senso. Nel caso in esame, dove è pacifico che la restituzione non sia avvenuta, non si può ostacolare il diritto della concedente al pagamento della penale contrattuale. Da qui l'infondatezza della doglianza.

6. Con un ultimo motivo relativo alle spese di lite il ricorrente si duole della mancata compensazione delle medesime, che però costituisce un potere discrezionale insindacabile. Il ricorrente è risultato soccombente e quindi legittimamente ha subito, ex art. 91 c.p.c., la condanna alla refusione delle spese di lite nei confronti della controparte. Sicchè anche questo motivo è da rigettare.

7. Conclusivamente il ricorso va rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento della spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, ed al cd. "raddoppio" del contributo unificato.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 10.200, più Euro 200 per esborsi), accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2019.