Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22403 - pubb. 27/09/2019

Prosecuzione della prestazione lavorativa dopo il fallimento e prededuzione per i crediti maturati dal lavoratore

Cassazione civile, sez. I, 12 Luglio 2019, n. 18779. Est. Loredana Nazzicone.


Crediti di lavoro - Fallimento del datore di lavoro - Prosecuzione della prestazione lavorativa - Obbligo di pagamento delle retribuzioni - Fondamento



La dichiarazione di fallimento dell'imprenditore non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro, in quanto l'azienda, nella sua universalità, sopravvive e l'impresa non cessa, passando soltanto da una gestione per fini di produzione, suscettibile peraltro di essere continuata o ripresa, ad una gestione per fini di liquidazione, sicché, nel caso in cui la prestazione lavorativa sia proseguita dopo la dichiarazione di fallimento e, di fatto, anche oltre il periodo di esercizio provvisorio dell'impresa autorizzato dal tribunale, i crediti maturati dal lavoratore devono essere ammessi al passivo in prededuzione. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Svolgimento del processo

La Corte d'appello di Palermo con sentenza del 20 giugno 2014, in riforma della decisione del Tribunale della stessa città, ha ammesso allo stato passivo del Fallimento (*) s.p.a. il credito dell'opponente, derivante da rapporto di lavoro, oltre interessi e rivalutazione, in prededuzione.

Ha ritenuto la corte territoriale, per quanto ancora rileva, che: a) in punto di fatto, l'istante prestò la propria attività di lavoro, in qualità di operaio, dal 6 maggio 1998 al 30 settembre 1998, in occasione del periodo di esercizio provvisorio dell'impresa autorizzato dal tribunale, e, poi, sino al 9 giugno 2003, in via di fatto, quando la curatela comunicò la cessazione del rapporto di lavoro con lettera di licenziamento; b) la prestazione lavorativa si è protratta, avendo la procedura mantenuto in vita il rapporto lavorativo sino al licenziamento, nulla rilevando che sia mancata l'autorizzazione all'esercizio provvisorio ed altro essendo eventuali profili di responsabilità del curatore, onde il rapporto fa capo al fallimento, rientrando nell'ambito della L. Fall., art. 111, n. 1,; c) il credito non è prescritto, non avendo la curatela provato la stabilità reale del rapporto di lavoro, onde il termine è iniziato a decorrere solo il 9 giugno 2003; d) il rapporto lavorativo è dimostrato dalla prova testimoniale assunta e dai documenti in atti, laddove il quantum dovuto è stato determinato sulla base della condivisibile c.t.u. espletata; e) l'ultimo motivo di appello, vertente sulla novità della domanda di arricchimento senza causa proposta con la memoria ex art. 183 c.p.c., è assorbito.

Avverso tale decisione propone ricorso la procedura, affidato a due motivi. Si difende con controricorso l'intimato.

La ricorrente ha depositato la memoria.

 

Motivi della decisione

1. - Il fallimento propone due motivi di ricorso, come di seguito riassunti:

1) nullità della sentenza per ultrapetizione, in violazione dell'art. 112 c.p.c., in quanto l'istante aveva chiesto l'ammissione del credito in prededuzione con riguardo alla prestazione resa nel corso dell'esercizio provvisorio dell'impresa, quale ipotesi tipica contemplata dalla L. Fall., art. 111, comma 1, mentre la domanda subordinata di arricchimento senza causa, dichiarata inammissibile per tardività dal tribunale, non fu riproposta in appello: dunque, pur avendo preso atto della cessazione dell'esercizio provvisorio il 30 settembre 1998, la corte del merito ha nondimeno accolto la domanda al di là di quanto richiesto; onde il generico richiamo alla L. Fall., art. 111, comma 1, n. 1, contenuto nell'impugnata decisione, non può giustificare l'ammissione in prededuzione con una diversa causa petendi, individuata nell'utilità della massa, a fronte di una richiesta attinente l'esercizio provvisorio dell'attività che ha invece caratterizzato il procedimento;

2) violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 111 (nel testo precedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 5 del 2006), avendo la sentenza impugnata omesso di considerare che i debiti contratti per l'amministrazione del fallimento necessitano di un preventivo provvedimento autorizzativo del giudice delegato; infatti, la dedotta "dipendenza causale con la procedura concorsuale" avrebbe presupposto una valutazione sull'utilità dei costi gestionali da sopportare e, quindi, l'autorizzazione del giudice delegato.

2. - Il primo motivo è inammissibile.

Esso, denunziando vizio processuale, non è adeguatamente specifico, onde viola il disposto dell'art. 366 c.p.c., noto essendo che (e multis, Cass. 13 marzo 2018, n. 6014; Cass. 20 luglio 2012, n. 12664) "(a)nche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo, in relazione ai quali la corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all'esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l'ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell'ambito di quest'ultima valutazione, la corte di cassazione può e deve procedere direttamente all'esame ed all'interpretazione degli atti processuali".

Nè viene proposta censura con riguardo alla eventuale violazione dei criteri previsti dagli artt. 1362 c.c. e ss..

Invero, costituisce principio costantemente affermato che l'interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, in quanto la sua statuizione attiene al momento logico relativo all'accertamento in concreto della volontà della parte: nè si verte, pertanto, in tema di violazione dell'art. 112 c.p.c. o si pone un problema di natura processuale - per la soluzione del quale la suprema corte ha il potere-dovere di procedere all'esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta - al contrario potendosi censurare in sede di legittimità detta individuazione del contenuto della domanda, quale tipico accertamento di fatto riservato al giudice del merito, solo mediante il controllo della completezza dell'esame dei fatti decisivi oppure del rispetto delle regole legali di interpretazione degli atti dei privati (cfr. Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 21 dicembre 2017, n. 30684; v. pure Cass. 16 novembre 2018, n. 29609).

Nella interpretazione della domanda giudiziale, infatti, il giudice deve avvalersi degli stessi criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 c.c. e ss. per i contratti ed i negozi giuridici in genere (Cass. 12 agosto 2005, n. 16888).

Ed anche con riguardo al rito del lavoro, le cui peculiarità il ricorrente ha inteso richiamare, è stato affermato che "l'esame del ricorso deve riguardare, ai fini dell'interpretazione della domanda, la valutazione complessiva dell'atto; ove, tuttavia, difetti una chiara omogeneità delle allegazioni esposte nel contenuto complessivo del ricorso stesso rispetto alla domanda formulata nelle conclusioni, espressamente e senza condizioni circoscritte, il giudice non può d'ufficio, in contrasto con l'art. 112 c.p.c., pronunciarsi in difformità" (Cass. 14 maggio 2018, n. 11631; Cass. 10 settembre 2013, n. 20727).

In definitiva, l'invocato sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul mancato rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli artt. 1362 c.c. e ss..

3. - Il secondo motivo è infondato.

Questa Corte ha per vero stabilito che "in caso di fallimento del datore di lavoro, salvo che sia autorizzato l'esercizio provvisorio, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, sicchè il lavoratore non ha diritto di insinuarsi al passivo per le retribuzioni spettanti nel periodo compreso tra l'apertura del fallimento e la data in cui il curatore abbia effettuato la dichiarazione L. Fall., ex art. 72, comma 2, in quanto il diritto alla retribuzione non sorge in ragione dell'esistenza e del protrarsi del rapporto di lavoro ma presuppone, in conseguenza della natura sinallagmatica del contratto, la corrispettività delle prestazioni" (Cass. 30 maggio 2018, n. 13693; Cass. 11 gennaio 2018, n. 522).

Ma tali pronunce presuppongono, appunto, la mancanza di ogni prestazione lavorativa.

Al contrario, in caso di prosecuzione dell'attività lavorativa, questa Corte ha affermato (Cass. 23 giugno 2001, n. 8617; nello stesso senso, Cass. 6 maggio 2009, n. 10400) che "il sistema normativo è chiaramente nel senso che i rapporti di lavoro continuano con l'azienda in quanto tale" e che "anche quando l'amministrazione della procedura concorsuale non opti per l'esercizio provvisorio dell'impresa, può ben permanere il bene giuridico azienda, inteso come il complesso di elementi materiali e giuridici organizzati al fine dell'esercizio di un'impresa, poichè la mera cessazione dell'attività per un periodo più o meno lungo, non implica di per sè il venire meno dell'organizzazione aziendale".

Ed è stato altresì ritenuto, nel sistema anteriore alle riforme della legge fallimentare, spettare l'indennità sostitutiva del preavviso al lavoratore, il cui rapporto di lavoro sia continuato con l'amministrazione fallimentare per le esigenze del fallimento dopo la dichiarazione di questo, da soddisfare in prededuzione: ciò, in quanto "a norma dell'art. 2119 c.c., comma 2, (...) il fallimento dell'imprenditore non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro e la ratio di tale disposto si fonda sulla considerazione della unitarietà della azienda e della sua sopravvivenza alla dichiarazione di fallimento, alla quale non consegue la cessazione dell'impresa "che passa soltanto da una gestione per fini di produzione, suscettibile per altro di essere continuata o ripresa (come non infrequentemente accade), ad una gestione per fini di liquidazione" (Cass. n. 3493 del 1979)" (Cass. 7 febbraio 2003, n. 1832).

Nel caso di specie, in punto di fatto, come accertato dal giudice del merito, l'azienda non è venuta mai meno e, del pari, la prestazione lavorativa è stata pacificamente e continuativamente svolta, dapprima nell'esercizio provvisorio autorizzato dell'impresa, e, poi, per la prosecuzione in fatto del medesimo.

All'epoca dei fatti, la L. Fall., art. 90 prevedeva che il tribunale potesse disporre la continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa (c.d. esercizio provvisorio) "quando dall'interruzione improvvisa può derivare un danno grave ed irreparabile", fattispecie progressivamente intesa con riguardo non solo all'interesse dei creditori, ma anche a quello all'occupazione in capo agli stessi lavoratori dell'azienda, secondo una prospettiva più attenta agli interessi generali sottesi all'impresa che opera sul mercato, nel convincimento che la preservazione del valore del patrimonio si consegua attraverso la conservazione del complesso produttivo al fine della sua proficua liquidazione.

La natura sinallagmatica del contratto di lavoro fa sorgere dunque l'obbligo del pagamento delle retribuzioni nell'ipotesi di utilizzazione della controprestazione da parte del curatore.

Ne consegue l'infondatezza del motivo.

4. - Le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate nella somma di Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.

Dà inoltre atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 6 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2019.