Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 2227 - pubb. 07/06/2010

Fallimento in estensione del socio e decorrenza degli effetti della sentenza anche ai fini della revocatoria

Cassazione Sez. Un. Civili, 07 Giugno 2002, n. 8257. Est. Morelli.


Fallimento – Società e consorzi – Società con soci a responsabilità illimitata – Fallimento dei soci – Successiva dichiarazione di fallimento di altro socio illimitatamente responsabile – Dichiarazione di fallimento "in estensione" di detto socio – Effetto "ex nunc" – Fondamento – Fattispecie.



In tema di procedure concorsuali, qualora, dopo la dichiarazione di fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata, si accerti l'esistenza di altro socio illimitatamente responsabile (ovvero, dopo la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale, risulti l'esistenza di una società di fatto tra lo stesso imprenditore ed altro od altri soci), la successiva dichiarazione di fallimento "in estensione" del socio occulto ha effetto soltanto "ex nunc", in virtù del carattere autonomo che (pur in seno al "simultaneus processus") va ad essa riconosciuta (nell'affermare il principio di diritto che precede, la S.C. ha per l'effetto ritenuto che, ai fini della revocabilità di un'ipoteca costituita dal socio occulto, il termine "dell'anno anteriore al fallimento", ai sensi dell'art. 67 primo comma n. 4 della legge fallimentare, andasse legittimamente computato con riferimento alla data del fallimento del socio occulto e non anche a quella della prima procedura concorsuale instaurata a carico degli altri soci). (fonte CED – Corte di Cassazione)


Massimario, art. 67 l. fall.

Massimario, art. 147 l. fall.


omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con separati ricorsi al Tribunale di Macerata tra il 15 ed il 21 ottobre 1994, il Banca1, la Banca2 e la Banca3 proponevano opposizione allo stato passivo del fallimento di M. B. e M. e B. D., soci occulti, illimitatamente responsabili, della ditta B. G., già M. B. G.& C., ai quali era stato esteso, con sentenza del 19 aprile 1994, il fallimento di quest'ultima impresa commerciale, dichiarato il 13 luglio 1993.

Gli opponenti lamentavano che i loro crediti erano stati ammessi, negli stati passivi individuali dei soci occulti, in chirografo anziché con privilegio ipotecario, come da essi richiesto, essendosi ritenuto dal g.d. che le ipoteche non si fossero consolidate, perché iscritte entro l'anno precedente alla dichiarazione di fallimento della società, pure se oltre un anno prima del fallimento in estensione.

Il Tribunale respingeva l'opposizione (ad eccezione del credito di L. 8.554.300 della Banca2 ammesso al privilegio), sostenendo che i termini del periodo sospetto devono essere computati dal primo fallimento: e che, ragionando a contrario, si determinerebbe violazione del "par condicio" ogni volta che fosse accertata con ritardo l'esistenza di soci occulti.

La Corte d'Appello di Ancona riformava, invece, detta pronunzia ed, in accoglimento dell'opposizione, ammetteva i crediti in via privilegiata, sostenendo che "la dichiarazione di fallimento in estensione ha effetto ex nunc e, dunque, il computo del periodo sospetto, ai fini dell'azione revocatoria, va effettuato dalla data in cui detta pronunzia è stata emessa". Il che conduceva, nella specie, a ritenere appunto consolidate le ipoteche in questione. Contro questa ultima sentenza, depositata il 13 marzo 1999, la curatela ha proposto ricorso affidato a due mezzi di cassazione:

resistiti con controricorso degli istituti di credito. La Banca3 ha proposto, a sua volta, ricorso incidentale, illustrato anche con memoria. Con ordinanza della Sezione 1^, in data 13 aprile 2001, la causa è stata rimessa al Primo Presidente, che l'ha, quindi, assegnata alle Sezioni Unite per la soluzione del ravvisato contrasto di giurisprudenza sulla questione, riproposta appunto con l'impugnazione della curatela, in ordine alla decorrenza, "ex tunc" ovvero l'ex nunc", degli effetti della dichiarazione del fallimento in estensione ex art. 147 L.F.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. - I due motivi vanno previamente riuniti ai sensi dell'art. 335 cpc.

2. - Ancora in via preliminare va dichiarata l'inammissibilità del ricorso incidentale della TERCAS, integralmente vittoriosa nel giudizio a quo, per suo attuale difetto di interesse a proporre, in questa sede, questioni virtuali che (come sostanzialmente riconosciuto dalla stessa sua difesa) potrebbero venire in rilievo solo nella eventuale fase di rinvio, in relazione al dictum della sentenza che accogliesse il ricorso principale.

3. - Il contrasto che questa SS.UU. sono chiamate a comporre attiene, come in narrativa detta, alla esegesi dell'art. 147 L.F. per il profilo, in particolare, della decorrenza ex nunc (come ritenuto dalla Corte territoriale) ovvero ex tunc (come sostenuto dalla curatela con l'impugnazione principale) degli effetti del fallimento in estensione, dichiarato ai sensi della norma stessa, tanto del socio occulto illimitatamente responsabile di società di persone già dichiarata fallita, quanto (per consolidata esegesi, costituente diritto vivente) della società di fatto accertata successivamente al fallimento iniziale dell'imprenditore individuale. Sul punto, come ricordato nell'ordinanza di rimessione, a fronte di una trentennale indirizzo della giurisprudenza di questa Corte (risalente alla sentenza n. 583 del 15 marzo 1961 e ribadito dalle successive, nn. 1216 e 2048/1961; 2860/1972; 4883/1977, 3121/1980, 5394/1985, 8757/1991) - fermo nel ritenere la decorrenza "ex nunc" degli effetti della seconda dichiarazione di fallimento in ordine all'esercizio, in particolare, dell'azione revocatoria - la più recente sentenza n. 6971 dell'1 agosto 1996 ("tenendo anche conto dei rilievi espressi in dottrina e nella giurisprudenza di merito") è andata motivatamente in opposto avviso, postulando la decorrenza, invece, "ex tunc" dei predetti effetti.

Dal che, appunto, il contrasto che occorre rimuovere.

4. - Il problema della retrodatabilità o meno degli effetti della dichiarazione del fallimento in estensione divide, per altro, non solo (nei termini che si è detto) la giurisprudenza di legittimità ma, da un cinquantennio, anche la giurisprudenza di merito e la dottrina (al cui interno si ricorda anche un clamoroso revirement, per ripudio della tesi della retroattività da parte del medesimo illustre Autore che l'aveva ispirata e condivisa). - Alla radice del riferito contrasto interpretativo sta, innegabilmente, il conflitto che, nella specie, viene ad instaurarsi tra le esigenze di tutela di due valori del pari fondamentali: quello della "par condicio creditorum" e quello dell'affidamento dei terzi in buona fede. I quali (valori) si trovano ad essere inevitabilmente sacrificati - l'uno all'altro o viceversa - secondo, rispettivamente, che si escluda o si ammetta la retrodatazione del fallimento in estensione.

- Il che spiega anche il tendenziale maggior favore che la tesi della retroattività ha ricevuto, e continua a ricevere, presso i giudici di merito, più vicini, e comprensibilmente per ciò più sensibili, alle istanze della "par condicio", che costituisce l'obiettivo specifico della procedura concorsuale che, nel concreto, essi sono chiamati a gestire. Nel contesto della quale il peculiare rimedio revocatorio degli atti lesivi di quella parità, compiuti dal fallito nel biennio o nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 67, commi primo e secondo, L.F., può effettivamente trovare ostacolo nel fatto che, con riguardo agli atti compiuti dal socio occulto, il computo (a ritroso) dei suddetti termini venga ad essere spostato avanti nel tempo, con decorrenza dalla data della successiva dichiarazione di fallimento in estensione in luogo che da quella della dichiarazione originaria del fallimento della società (o della impresa individuale) palese. Con il conseguente vantaggio, che può derivarne, ai creditori che abbiano avuto rapporti con i soci tardivamente scoperti.

- Il punto di equilibrio tra i due valori, qui così in conflitto, non può, evidentemente, essere però fissato da questo Giudice della nomofilachia in base a proprie ed autonome opzioni assiologiche, ma va bensì enucleato dal diritto positivo, disvelando l'opzione in esso espressa dal legislatore, attraverso l'interpretazione della disposizione in esame, nel quadro delle norme contermini, condotta alla stregua dei canoni di ermeneutica della legge (art. 12 disp. prel. c.c.).

Con la precisazione, per altro, per quanto in particolare attiene al canone della interpretazione sistematica, che il "sistema" di riferimento non può essere, in questo caso, solo il sub - sistema (a circuito chiuso) del processo fallimentare, ma deve essere quello più generale (dal quale il primo non può prescindere perché con esso interagisce) della dinamica stessa delle situazioni soggettive e del traffico giuridico.

E con l'ulteriore puntualizzazione, sul piano metodologico, che gli "inconvenienti" che, nella prospettiva di ciascuna delle due tesi interpretative, si addebitano all'altra rilevano appunto, ed esclusivamente, ai fini ermeneutici, come indici di incompatibilità di una data lettura del testo normativo con il sistema delle disposizioni ad esso collegate, e non come mere patologie fattuali, nella applicazione della legge, che, in quanto tali, non possono incidere sulla interpretazione della stessa come sulla sua legittimità.

5. - Alla luce di tali premesse, ritiene dunque il Collegio che debba confermarsi l'indirizzo (trentennale) risalente alla richiamata sentenza n. 583 del 1961, per la ragione, appunto, che l'interpretazione letterale, logica e sistematica (allargata, nel senso che si è detto) dell'art. 147 L.F. non consente di inferire, ed anzi esclude, la retrodatazione degli effetti del fallimento in estensione auspicata nella prospettiva dell'orientamento in contrasto.

5/1. - Nel disporre testualmente che "se, dopo la dichiarazione di fallimento della società, risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il Tribunale, su domanda di curatori o d'ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi", la disposizione in esame non enuncia, infatti, ne' per implicito presuppone, alcun meccanismo di estensione automatica degli effetti del fallimento originario al socio occulto (una volta individuato per tale) ma inequivocabilmente richiede, invece, una distinta ed autonoma "dichiarazione" del fallimento di questi, sia pur in dipendenza e sulla base dei medesimi presupposti fattuali della dichiarazione precedente.

E poiché, nel sistema della legge fallimentare, ogni effetto - nei confronti del fallito (artt. 42, 44), dei creditori e dei terzi (art. 51, 64, 67 L.F.) - si produce "alla (e dalla) data di dichiarazione del fallimento" (che va, all'uopo, comunicata e pubblicata nelle forme di cui all'art. 17 stessa legge), è conseguente che anche per il fallito in estensione gli effetti in questione decorrano "ex nunc", dalla "dichiarazione", appunto, del fallimento che gli si riferisce.

Per cui - se è vero che la sentenza ex art. 147 cpv. LF. ha una funzione in senso lato correttiva (rectius: integrativa) della decisione precedente per il profilo della individuazione dei soggetti da sottoporre alla procedura concorsuale, - essa resta, nella lettera e nella logica della predetta norma, pur sempre provvedimento distinto ed autonomo rispetto al provvedimento originario, al quale si affianca e che non sostituisce.

Come ulteriormente, del resto, dimostrato dal fatto che, pur essendo previsto per i due fallimenti un simultaneus processus, con un unico giudice ed un unico curatore (art. 148, co. 1^., L.F.), gli effetti sostanziali della sentenza, c.d. di estensione, richiedono la separazione dei patrimoni (della società e del socio) con mosse attive e passive distinte (co. 2^ art. cit.), con la (possibile) nomina di più comitati di creditori (co. 1, ultima parte, art. 148) e con la possibilità di separata chiusura dei due fallimenti: che, quindi, coesistono, restando però autonomi, nella medesima procedura.

5.2. - È stato - come ben noto - pur sostenuto in contrario in dottrina che, nella fattispecie disciplinata dall'art. 147 L.F. la diversità dei soggetti, dichiarati falliti in tempi successivi, non esclude, comunque, che il termine della revocatoria possa unitariamente decorrere dalla sentenza che per prima ha accertato l'insolvenza - e quindi ex tunc (per quanto attiene alla sentenza in estensione) - per avere le due decisioni in comune la "medesima impresa": (impresa) che la prima sentenza avrebbe erroneamente ritenuto gestita in forma individuale, mentre la seconda ne avrebbe poi accertato l'effettiva struttura collettiva, ovvero la prima avrebbe (del pari) erroneamente ritenuto composta da un numero di soci, illimitatamente responsabili, minore di quello accertato con la seconda decisione.

Dal che la costruzione dommatica del giudicato, relativo alla prima dichiarazione di fallimento, come limitato, nel contenuto, al solo (duplice) accertamento della qualità imprenditoriale del fallito e della sussistenza dello stato di insolvenza, e non anche esteso alla esaustiva individuazione del soggetto passivo, che sarebbe perciò suscettibile di successiva integrazione. Ora, però - a prescindere dalla opinabilità di tale, pur suggestiva, configurazione, soggettivamente "aperta", del giudicato sul fallimento (di cui resterebbero però da chiarire i meccanismi di chiusura in assenza, come nel più dei casi, di una dichiarazione in estensione) e dalla, problematicità del riferimento del fallimento alla "impresa" piuttosto che all'imprenditore (individuale o collettivo) - sta di fatto che l'efficacia retroattiva della sentenza in estensione che, su tali premesse, si teorizza è assolutamente comunque inconciliabile con principi fondamentali, sia del sistema processuale che di quello sostanziale, sia di settore che generale, delle vicende delle situazioni soggettive.

5.2.1 - Per il primo profilo, va invero rilevato che le sentenze costitutive - e tale è pacificamente la sentenza di fallimento che costituisce lo status di fallito, in tutte le sue implicazioni giuridiche - hanno di regola una, fisiologica, efficacia "ex nunc". E se è pur vero che l'ordinamento conosce anche isolate eccezioni a tale regola, vero è innegabilmente anche però che siffatte eccezioni, proprio in quanto tali, non possono prescindere da una norma che espressamente le introduca e disciplini (anche per i profili di tutela dei terzi nella cui sfera possa incidere la retrodatazione della pronuncia, in tesi, costitutiva "ex tunc"). Come nel caso, al riguardo ricorrentemente richiamato, della sentenza che risolve il contratto per inadempimento di una delle parti: il cui "effetto retroattivo" è positivamente stabilito dall'art. 1458, co. 1^, c.c., con la specificazione (sub co. 2^ art. cit.) che la "risoluzione non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi...".

5.2.2. - Sul piano dei principi sostanziali, si è poi già sottolineato la valenza generale delle regole di tutela dell'affidamento dei terzi di buona fede e della certezza dei rapporti giuridici in funzione delle quali la codificazione civile del 42 ha sancito invero un principio assolutamente pervasivo, di prevalenza della "dichiarazione", superando il dogma della "volontà" che ispirava la codificazione previgente, come dimostrato, ad esempio, dalla disciplina dell'errore - vizio, il cui rilievo invalidante del negozio resta così ora subordinato alla sua riconoscibilità da parte dei terzi.

Da tali regole non poteva prescindere (nè di fatto prescinde) la (coeva) legge fallimentare, come testimonia la scelta, espressa appunto in quel corpus normativo, di legare gli effetti del fallimento al dato obiettivo formalmente certo e conoscibile (attraverso le prescritte forme di pubblicità) della sua "dichiarazione". E ciò (come risulta dai lavori preparatori) anche con specifico riguardo all'esercizio delle azioni revocatorie, essendosi preferito che i correlativi termini decorressero ancora una volta pure essi dalla dichiarazione del fallimento e non (come pure in quella sede proposto) dalla manifestazione della insolvenza. Per cui, quindi, anche nel sistema di disciplina delle procedure fallimentari, i riferiti valori - principi di tutela dell'affidamento e della certezza dei rapporti se possono risultare variamente bilanciati, nella conformazione dei singoli istituti, con il valore specifico della "par condicio" dei creditori non possono ne' potrebbero, invece, restare del tutto obliterati o sacrificati in funzione di quello.

- Ma ciò è proprio quanto viceversa accadrebbe nella prospettiva (che anche per questo aspetto si dimostra, quindi, incompatibile con il sistema della legge in esame) della decorrenza "ex tunc" degli effetti del fallimento in estensione. - Escluso, infatti, per la totale assenza di alcun referente normativo che l'autorizzi, l'ipotesi di una scissione, sul piano diacronico, di quegli effetti - nel senso (solo apoditticamente per altro) adombrato da recente dottrina e giurisprudenza di merito) di una loro retroattività limitata ai fini dell'esercizio delle azioni revocatorie e non estesa ai fini delle incapacità personali del fallito ex art. 147 cpv. L.F. - e posto, quindi, che la retroattività della sentenza dichiarativa del fallimento in estensione, ove in tesi configurabile, non potrebbe che essere integrale, ne conseguirebbe, inevitabilmente allora, che - retroagendo così alla data del primo fallimento (della società o della impresa palese) anche la incapacità di disporre del fallito in estensione - ne rimarrebbero invalidati, ex art. 44 L.F., tutti gli atti dal medesimo compiuti medio tempore, indipendentemente dalla consapevolezza chele controparti potessero o non avere della sua qualità di socio occulto di società già fallita.

Con la conseguenza paradossale, e assolutamente incompatibile con le esigenze di protezione e garanzia del traffico giuridico e della stessa economia nazionale, che nessun atto negoziale potrebbe, in astratto, sottrarsi all'alea di una sua successiva invalidazione, per sopravvenuti accertamento e dichiarazione della qualità, allo stato appunto "occulta", che uno dei contraenti rivestisse, di socio di società (od impresa individuale) già dichiarata fallita, assoggettabile, come tale, a successivo fallimento in estensione. - Per converso, la possibilità che - in conseguenza del disciplinato meccanismo di necessario formale aggancio degli effetti del fallimento ad una previa dichiarazione giudiziale dello stesso - derivino, anche per errori del giudice, negative conseguenze ai creditori è accettata dal sistema del diritto fallimentare, come dimostrato, tra l'altro, dalla fattispecie regolata dall'art. 22 L.F., in cui gli effetti del fallimento decorrono pur sempre dalla data della sua dichiarazione, anche se questa è avvenuta in ritardo, perché il Tribunale ha, errando, respinto l'istanza di fallimento e la pronuncia è poi seguita al decreto della Corte di appello che ha accolto il reclamo del creditore istante.

7. - Nel riproporre la tesi della retrodatabilità degli effetti della sentenza di fallimento in estensione ex art. 147 cpv. L.F., la più recente Cass. n. 6971/1996 è stata mossa, per altro, da una (pur condivisibile, in astratto) esigenza di "coerenza" del sistema, in funzione della quale soprattutto, ha ritenuto che la soluzione del quesito sulla decorrenza degli effetti della pronunzia in estensione - nel senso appunto della sua retroattività dovesse uniformarsi alla identica soluzione accolta nella analoga vicenda di "consecuzione delle procedure". Con riguardo alla quale ultima, per ius receptum, "il termine per l'esercizio dell'azione revocatoria, in ipotesi di fallimento di una società di fatto o dei suoi soci che consegua alla procedura di amministrazione controllata o di concordato preventivo, decorre (ex tunc) dalla data di ammissione della società alla prima procedura" (cfr. Cass. nn. 2983, 3614/79; 5025/91; 4240, 7157/94, 189/95; 4347/96).

- Ma l'antinomia di indirizzi interpretativi, paventata dalla riferita sentenza del '96, a cui essa ha inteso porre riparo, in realta' non sussiste, per essere solo apparente l'omogeneità delle due fattispecie comparate.

La ratio decidendi nell'ipotesi di fallimento consecutivo si lega, infatti, ad una interpretazione estensiva della espressione "nei due anni (o nell'anno) anteriori alla dichiarazione di fallimento", di cui all'art. 67 L.F.. Nel senso che il legislatore "minus dixit quam. voluit" e, menzionando la dichiarazione di fallimento come modo normale di accertamento dello stato di insolvenza, abbia invece inteso riferirsi anche ad ogni altro accertamento giudiziale del detto stato, quale indubbiamente è il decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo, la quale presuppone lo stato di insolvenza dell'imprenditore che ha proposto il concordato (art. 160 L.F.). Mentre, nell'ipotesi di sentenza in estensione, la precedente dichiarazione di fallimento non accerta affatto l'insolvenza del socio o della società di fatto, che a quel momento rimangono ignoti, ma quella di un diverso soggetto. Cosicché è solo con l'estensione che i presupposti per la dichiarazione di fallimento del socio o della società occulti vengono accertati.

Per cui, in altre parole, vi è nella fattispecie della consecuzione di procedure quel referente normativo - per quanto detto insussistente, invece, per la sentenza in estensione - che consente, in via eccezionale, la retrodatazione dell'efficacia della sentenza di fallimento.

Dovendosi, per di più, escludere nella prima ipotesi - a differenza che nella seconda - che sia arrecato alcun vulnus all'affidamento dei terzi. Ai quali sono invero noti sin dall'inizio - e, cioè, dalla data stessa di apertura della prima procedura - i soggetti potenzialmente soggetti al fallimento, in esito a quella. 8. - Nè è del pari sussistente l'ulteriore profilo di "incoerenza", con la tesi della decorrenza "ex nunc" dell'efficacia della pronuncia in estensione, pure ravvisato dalla sentenza del 1996, con riguardo alla qualità di litisconsorti necessari, nel giudizio di opposizione alla decisione dichiarativa del fallimento in estensione, riconosciuta ai creditori istanti per la dichiarazione del primo fallimento (cfr. Cass. n. 10431/92).

L'esigenza di un tale contraddittorio attiene, infatti, esclusivamente, nella specie, agli effetti procedurali della sentenza di estensione; attiene, cioè, a quel simultaneus processus che - come già detto - non esclude la distinzione e separatezza degli effetti sostanziali delle due procedure.

9. - L'esaminato contrasto va conclusivamente, quindi, risolto con la (ri)affermazione del principio per cui quando, dopo la dichiarazione di fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata, risulti l'esistenza di altro socio illimitatamente responsabile (ovvero, dopo la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale, risulti l'esistenza di una società di fatto tra lo stesso imprenditore ed altro od altri soci), la successiva dichiarazione di fallimento (c.d. in estensione) del socio occulto ha effetto "ex nunc", in virtù del carattere autonomo che (pur nel simultaneus processus) va ad essa riconosciuto. Con la conseguenza, tra l'altro, che, per la revocabilità di ipoteca costituita da detto socio, l'anno anteriore al fallimento, ai sensi dell'art. 67, primo comma, n. 4, del r.d. 1942 n. 267, va computato con riferimento alla data del fallimento del socio stesso. 10 - La sentenza impugnata, che a tale principio si è correttamente uniformata, si sottrae, pertanto, alle censure ad essa rivolte con il ricorso principale: che va, per l'effetto, respinto. 10. - Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso incidentale e rigetta quello principale. Spese compensate.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2002.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2002


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