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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 21048 - pubb. 10/01/2019.

La previsione in un contratto di finanziamento del piano di ammortamento 'alla francese' o 'a rata costante' non è sufficiente a determinare il piano di rimborso


Tribunale di Massa, 13 Novembre 2018. Est. Provenzano.

Ammortamento alla francese – Indeterminatezza per mancata specificazione del regime finanziario e del criterio di calcolo degli interessi – Usura bancaria: verifica unitaria – Gratuità del finanziamento


Le espressioni “ammortamento alla francese” o “a rata costante” o “a capitale crescente e interessi decrescenti” non valgono ad esplicitare le modalità di funzionamento del piano, ai fini del controllo di legalità, in difetto di specificazione del regime finanziario e del criterio di calcolo degli interessi.

Il regime finanziario della capitalizzazione composta, adottato nella quasi totalità dei mutui predisposti con ammortamento alla francese concessi dagli istituti di credito, prevede l’attualizzazione dei flussi finanziari sulla base di una funzione di matematica esponenziale ed è caratterizzato da leggi finanziarie dotati della proprietà della scindibilità (a differenza di quello della capitalizzazione semplice, fondato su leggi additive), in forza delle quali la sua adozione comporta necessariamente (fatta eccezione per le ipotesi di scuola di mutuo uniperiodale o di pattuizione di tasso d’interesse nullo, in concreto non configurabili nella casistica giudiziaria) un effetto anatocistico, in virtù della produzione di interessi su interessi precedentemente maturati; e ciò in quanto, per effetto dell’applicazione di tale regime, gli interessi precedentemente maturati, a causa della loro capitalizzazione nel debito residuo, sono causa di ulteriori interessi.

Deve ritenersi che il divieto di anatocismo non attenga esclusivamente all’accordo preventivo che preveda direttamente la produzione di interessi su interessi, ma altresì a quelli - anch’essi in ipotesi riconducibili al momento genetico contratto (e quindi integranti una convenzione, ai sensi dell’art. 1283 c.c.) – che producano comunque, sotto il profilo economico, il medesimo effetto della produzione di interessi su interessi. Ciò che rileva, a ben vedere, è l’identità degli effetti economico-finanziari delle due modalità operative suindicate, comportando entrambe, anche in ragione del computo degli interessi sul capitale residuo (anzichè su quello in scadenza), un valore della rata di ammortamento superiore rispetto a quello che si presenterebbe adottando il regime di capitalizzazione semplice.

La verifica dell’usura deve essere condotta con riferimento unitario agli interessi corrispettivi e di mora, senza il ricorso ad una “fantomatica” soglia usuraria specifica per gli interessi moratori, determinando il costo complessivo del finanziamento nel “worst case” (scenario più oneroso per il soggetto finanziato). Se tale costo eccede il limite previsto dalla legge 108/96 alla stipula del contratto, il finanziamento deve ritenersi a titolo gratuito in applicazione della sanzione ex art. 1815 c.c. (Antonio Giulio Pastore) (riproduzione riservata)

Segnalazione del Dott. Antonio Giulio Pastore

TRIBUNALE DI MASSA

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Tribunale di Massa, in persona del Giudice Unico dott. Domenico Provenzano, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 2475/2014 R.G.A.C. promossa da:

omissis

Oggetto: azione di ripetizione di indebito

 

CONCLUSIONI

Per gli attori (cfr. foglio allegato al verbale di udienza di p.c. in data 13.12.2017 ed atto di citazione): “Voglia l’Ill.mo Tribunale adito, per le motivazioni esposte in atti e verbali di causa e che qui si richiamano, contrariis reiectis, accogliere le seguenti conclusioni: In via principale: accertare e dichiarare l’usurarietà del contratto per cui è causa e la conseguente non debenza di interessi dichiarando, ex art. 1815 c.c., che in relazione al mutuo per cui è causa non sono dovuti interessi; per l’effetto condannare la convenuta alla restituzione in favore degli attori di tutte le somme da questi pagate a titolo di interessi in forza del mutuo de quo, alla data del 4.2.14, ammontanti ad € 42.346,57 oltre quelle versate medio tempore, maggiorate di rivalutazione ed interessi con decorrenza dal momento dei singoli pagamenti al saldo effettivo o in quella misura che risulterà di giustizia. Oltre al risarcimento del danno morale conseguente alla perpetrazione del reato di usura nei suoi confronti da quantificarsi in misura non inferiore all’importo indebitamente pagato dal mutuante o in quella maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia ed eventualmente in via equitativa. Eventualmente imputando i pagamenti effettuati, tempo per tempo, a pagamento del capitale prestato per il contrato di mutuo. In ogni caso dichiarare la restituzione del solo residuo capitale e, quindi, la rata a scadere composta dal solo capitale. In via subordinata: Dichiararsi nulla la clausola di determinazione degli interessi perché posta in violazione degli artt. 1346 – 1418 – 1419 c.c., nonché incompatibile con i principi di inderogabilità in tema di determinabilità dell’oggetto nei contratti formali e/o per violazione degli artt. 1283 e 1284 c.c. e/o per violazione dell’art. 1322 c.c. in quanto non meritevole di tutela prevista dall’ordinamento giuridico. Individuare conseguentemente il tasso di interesse applicabile sulle rate scadute e già versate e, per l’effetto, condannare la convenuta alla restituzione del 3 maggior importo versato all’attore, oltre rivalutazione ed interessi dal dovuto al saldo. Dichiararsi comunque che la convenuta, con la previsione di un piano di ammortamento alla francese, ha applicato tassi di interesse difformi da quelli pattuiti e per l’effetto, individuato il saggio di interesse applicabile in sua sostituzione, condannare la convenuta alla restituzione in favore dell’attore del maggior importo da questi versato, oltre rivalutazione ed interessi dal dovuto al saldo. In entrambi i casi determinare un piano di ammortamento a tasso legale con quote capitali costanti. Con vittoria di tutte le spese, diritti ed onorari ivi comprese quelle relative alla fase stragiudiziale da liquidarsi in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., riconoscendo il rimborso della somma di € 2.800,00 versato dall’attore per la perizia stragiudiziale di parte, il rimborso della spesa di € 1.220,00 quale spesa sostenuta dall’attore per il consulente tecnico di parte, ponendo le spese di CTU definitivamente a carico di parte convenuta.” Per la convenuta (cfr. foglio allegato al verbale di udienza di p.c. in data 13.12.2017): “Voglia l’Ill.mo Tribunale adito, contraris reiectis, Nel merito e in via principale: rigettare integralmente tutte le istanze ex adverso proposte in quanto infondate in fatto ed in diritto per tutti i motivi indicati in narrativa.

In via subordinata: in caso di accoglimento totale o parziale della domanda attrice: compensare l’importo eventualmente dovuto con il maggior credito della convenuta e rappresentato dal saldo debitore dei rapporti bancari in contestazione.

Salvis iuribus.

Con riserva di ulteriormente produrre e dedurre in via istruttoria.

Con vittoria di spese, competenze ed onorari.”

 

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

....................e ....................... convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Massa, ........................, chiedendo che - previo accertamento della pattuizione di un tasso di interesse eccedente la soglia antiusura nel contratto di mutuo fondiario stipulato inter partes con atto a ministero Notaio .........in data 22.02.2007, avuto riguardo al disposto di cui all’art. 644 c.p. e tenuto quindi conto anche degli interessi moratori concordati e di tutti gli altri oneri e costi contemplati in tale ultima previsione normativa, nonché accertata la divergenza tra il tasso di interesse effettivo globale superiore rispetto a quello nominale stabilito in contratto (anche per effetto della tipologia di piano di rimborso e del regime finanziario attraverso il quale era stato predisposto l’ammortamento) - in via principale venisse fatta applicazione della disciplina posta dall’art. 1815 c.c., con conseguente trasformazione del mutuo da feneratizio in gratuito e declaratoria della non debenza di qualsivoglia interesse, inclusi quelli corrispettivi, e con condanna della banca convenuta alla ripetizione delle somme versate a titolo di interessi fino al 04.02.2014 (ammontanti ad € 42.346,57), oltre che di quelle che fossero state da allora corrisposte dagli stessi mutuatari a tale titolo, oltre rivalutazione monetaria ed interessi maturati con decorrenza dalle date dei singoli pagamenti fino al saldo effettivo, o comunque nella misura che fosse stata ritenuta di giustizia e ciò eventualmente imputando le somme versate in eccedenza rispetto al dovuto al debito inerente alle rate del mutuo non ancora scadute, da rideterminare in importo costante privo di quota interessi (in virtù del succitato art. 1815 comma 2 c.c.); instando, altresì, per la condanna di ........................ al risarcimento del danno morale in proprio favore, ex art. 2059 c.c., da liquidarsi secondo equità (ex art. 1226 c.c.), risultando integrato il reato di usura. In via subordinata, chiedevano venisse accertata e dichiarata la nullità della clausola di 5 determinazione del tasso di interesse contenuta nel richiamato contratto di mutuo, per indeterminatezza dell’oggetto dello stesso, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1346, 1418 e 1419 c.c., anche per violazione degli artt. 1283 e 1284 c.c. e/o dell’art. 1322 c.c., dovendosi detta clausola considerare non meritevole di tutela giuridica, e conseguentemente che fosse rideterminato il tasso di interesse applicabile al rapporto contrattuale, con condanna della banca alla restituzione delle maggiori somme versate dagli stessi mutuatari, maggiorate di rivalutazione monetaria ed interessi maturati e maturandi fino al saldo effettivo.

Si costituiva ........................, resistendo alle avverse pretese. Negava che al mutuo fossero stati applicati interessi a tasso usurario, essendo l’assunto attoreo in proposito fondato sull’ipotetica sommatoria del tasso degli interessi corrispettivi e di quello degli interessi moratori, dovendosi questi ultimi considerare sostitutivi dei primi (venendo in rilievo soltanto a fronte dell’inadempimento del mutuatario) e quindi alternativi rispetto ad essi, assumendo funzione del tutto diversa, ciò che valeva ad escludere in radice il cumulo tra gli uni e gli altri; ragion per cui, non a caso, gli interessi moratori non erano contemplati tra i costi e gli oneri da prendere in considerazione ai fini del calcolo del T.E.G. di ciascuna operazione finanziaria in base alle istruzioni della Banca d’Italia. In subordine, rilevava che, qualora si fosse tenuto conto anche degli interessi moratori ai fini della determinazione del T.E.G., l’art. 1815 comma 2 c.c. avrebbe comportato l’eliminazione dei soli interessi moratori, non già anche di quelli corrispettivi. Negava, inoltre, che il sistema di ammortamento alla francese adottato si configurasse, illegittimo, essendo esso, in realtà, privo di effetti anatocistici di sorta, rappresentando in ogni caso l’esigenza di fare ricorso, ai fini della verifica del rispetto della disciplina antiusura, della formula predisposta in base alle istruzioni diffuse dalla Banca d’Italia presso gli operatori finanziari, da considerare norme tecniche autorizzate.

Contestava la pretesa risarcitoria degli attori.

6 La causa, istruita in forma documentale ed a mezzo di C.T.U. contabile, è stata trattenuta in decisione, all’udienza del 19.01.2018, previo deposito di comparse conclusionali ed all’esito di discussione orale tenutasi alla stessa udienza, ex art. 281 quinquies c.p.c., sulle conclusioni precisate come in epigrafe trascritte.

 

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Ricostruita la materia del contendere nei termini sin qui sintetizzati, giova evidenziare, innanzitutto, che il petitum oggetto di domanda si sostanzia, in via principale, nella richiesta declaratoria di usurarietà del tasso di interesse applicato al contratto di mutuo fondiario oggetto di determinazione, con la conseguente determinazione giudiziale del contenuto dell’obbligazione dedotta mediante eliminazione di qualsivoglia interesse, in conformità al disposto di cui all’art. 1815 comma 2 c.c. e, per l’effetto, con condanna della banca contenuta alla ripetizione di tutte le somme corrisposte dai mutuatari a titolo di interessi nel corso del rapporto; essendo stato soltanto in via subordinata chiesto l’accertamento della nullità della clausola inerente alla pattuizione del tasso di interesse, in quanto asseritamente predisposta “in violazione degli artt. 1346 – 1418 – 1419 c.c., nonché incompatibile con i principi di inderogabilità in tema di determinabilità dell’oggetto nei contratti formali e/o per violazione degli artt. 1283 e 1284 c.c. e/o per violazione dell’art. 1322 c.c.”, con conseguente rideterminazione, secondo il principio di eterointegrazione normativa del contratto limitatamente alla clausola nulla, ex artt. 1419 comma 2 e 1339 c.c., del tasso di interesse applicabile al rapporto in sostituzione di quello pattuito e con condanna dell’accipiens alla ripetizione delle somme percepite in eccedenza a titolo di interessi rispetto al tasso stabilito in sede giudiziale.

Ciò posto, è poi opportuno delineare gli elementi essenziali del contratto di mutuo fondiario inter partes, quali emersi all’esito dell’istruttoria ed, in particolare dell’analisi contabile compita in sede di C.T.U.; trattasi di 7 mutuo concesso per l’importo di € 190.000,00, con durata trentennale del relativo piano di restituzione, in base a rate mensili di uguale importo (pari ad € 360,00 ciascuna), con previsione convenzionale di tasso nominale annuo variabile (T.A.N.) corrispondente al 5,45% e di tasso di mora, applicabile all’intera rata non tempestivamente onorata, concordato ai sensi dell’art. 4 del contratto (cfr. doc. 1 allegato alla citazione) in misura pari alla maggiorazione di 2 punti percentuali in ragione di anno (“In caso di ritardato pagamento di ogni importo a qualsiasi titolo dovuto, in dipendenza del mutuo, anche in caso di decadenza dal beneficio del termine e di risoluzione del contratto, decorreranno di pieno diritto, a partire dal giorno di scadenza, interessi di mora a favore della Banca nella misura del tasso contrattuale maggiorato di due (due) punti percentuali in ragione di anno”); la metodologia di rimborso della somma concessa in mutuo pattuita dai contraenti è l’ammortamento alla francese, il cui piano (allegato al contratto e dallo stesso richiamato) risulta predisposto in applicazione del regime finanziario dell’interesse composto.

Atteso il suevidenziato ordine logico-giuridico delle domande (principale e subordinata) spiegate, ai fini della decisione il piano di ammortamento adottato ed il relativo regime finanziario vanno presi in considerazione, in primo luogo, quali elementi di valutazione rilevanti per la verifica del rispetto della disciplina imperativa antiusura invocata dagli attori, in particolare per accertare se dalla loro applicazione derivi un effetto anatocistico e se esso assuma rilievo in riferimento al controllo di legalità di cui alla L. n. 108/1996.

In generale, le espressioni “ammortamento alla francese” o “a rata costante” o “a capitale crescente e interessi decrescenti” non valgono ad esplicitare le modalità di funzionamento del piano, ai fini del controllo di legalità, in difetto di specificazione del regime finanziario e del criterio di calcolo degli interessi.

La metodologia di ammortamento di un mutuo corrisponde alla regola con la quale si procede al rimborso del capitale finanziato, ovvero nel programma di rateizzazione dell’obbligazione restitutoria.

L’ammortamento alla francese, in particolare, prevede il pagamento 8 periodico di rate costanti (equi-intervallate), ciascuna delle quali comprensiva di una quota di interessi sul debito non ancora rimborsato e di una quota del debito per sorte capitale residuo, quote di ammontare rispettivamente decrescente (la prima) e crescente (la seconda).

Il regime finanziario della capitalizzazione composta, adottato nella quasi totalità dei mutui predisposti con ammortamento alla francese concessi dagli istituti di credito, prevede l’attualizzazione dei flussi finanziari sulla base di una funzione di matematica esponenziale ed è caratterizzato da leggi finanziarie (ovvero da formule, algoritmi) dotati della proprietà della scindibilità (a differenza di quello della capitalizzazione semplice, fondato su leggi additive), in forza delle quali la sua adozione comporta necessariamente (fatta eccezione per le ipotesi di scuola di mutuo uniperiodale o di pattuizione di tasso d’interesse nullo, in concreto non configurabili nella casistica giudiziaria) un effetto anatocistico, in virtù della produzione di interessi su interessi precedentemente maturati; e ciò in quanto, per effetto dell’applicazione di tale regime, gli interessi precedentemente maturati, a causa della loro capitalizzazione nel debito residuo, sono causa di ulteriori interessi. Quanto appena esposto deriva, in particolare, dalla condizione di “equivalenza assoluta” tra prestazioni finanziarie che caratterizza la capitalizzazione composta, in ragione delle leggi scindibili da cui è governata (condizione in virtù della quale l’equivalenza finanziaria tra il debito iniziale e la somma delle varie quote capitali che compongono le singole rate può realizzarsi in qualsiasi momento); ciò a differenza di quanto accade in base al regime finanziario (lineare) della capitalizzazione semplice, connotato dalla condizione di “equivalenza relativa” (potendo essa verificarsi in un determinato momento, in particolare al tempo finale, e non in altri) e caratterizzato dal fatto che gli interessi precedentemente maturati non generano ulteriori interessi, con assenza quindi del fenomeno anatocistico. L’adozione dell’uno o dell’altro regime finanziario costituisce presupposto decisivo per il calcolo della rata di ammortamento di un mutuo, per il quale la 9 condizione di equivalenza finanziaria va necessariamente verificata al termine del rapporto.

Nel regime semplice, in virtù del principio di additività che lo caratterizza, gli interessi, anche se vengono calcolati sul capitale in scadenza (con periodicità mensile, annuale o in base a diversi intervalli temporali) e contabilizzati, divengono esigibili soltanto alla scadenza del capitale finanziato e contestualmente al debito inerente a quest’ultimo, restando improduttivi fino a quel momento; la sterilità degli interessi maturati a ciascuna scadenza lascia invariato il capitale di riferimento, realizzando una crescita del montante di tipo lineare, proporzionale al tempo, oltre che al capitale, di modo che il montante procede secondo una progressione aritmetica. Nel regime composto, invece, per effetto della principio di scindibilità sul quale si fonda (corrispondente alla capitalizzazione periodica degli interessi), gli interessi vengono calcolati periodicamente sul montante maturato (comprensivo degli interessi in precedenza scaduti rimasti impagati) e, al momento in cui maturano, o vengono pagati, o si fondono immediatamente con il capitale, che così lievita di periodo in periodo, in successive capitalizzazioni degli interessi fino alla scadenza del finanziamento; di tal che, nell’interesse composto il montante è proporzionale al capitale e funzione esponenziale della durata.

Un’operazione si svolge in regime di capitalizzazione semplice quando l’interesse è disponibile solamente alla fine del periodo di impiego, mentre si svolge in regime di capitalizzazione composta quando l’interesse è disponibile alla fine di ogni periodo di capitalizzazione.

E’ invero consolidato nella letteratura scientifica in materia il principio secondo cui l’anatocismo (o, quanto meno, l’effetto dell’incremento esponenziale degli interessi nel quale si sostanzia, sotto il profilo finanziario, tale termine giuridico) deriva non già dalla natura dell’operazione finanziaria e, quindi, dalla tipologia del relativo contratto (conto corrente, leasing, mutuo, ecc.), bensì dall’utilizzo del regime finanziario della capitalizzazione composta, in virtù della proprietà di scindibilità che caratterizza le leggi che regolano siffatto regime.

10 L’anatocismo è un concetto prettamente giuridico, in quanto tale non riconducibile al lessico della scienza matematica, che invece conosce, come appena evidenziato, il regime finanziario dell’interesse composto, che, per quanto appena chiarito, può realizzarsi anche con l’operazione che l’art. 1283 c.c. qualifica come anatocismo, vale a dire con la produzione di interessi su interessi. Più precisamente, l’anatocismo consiste in un possibile effetto del regime finanziario dell’interesse composto, essendo, in buona sostanza, la regola del mutamento degli interessi in capitale, vale a dire della trasformazione della natura degli importi nel corso del tempo che permette la capitalizzazione degli interessi, di modo che essi generino, a loro volta, nuovi introiti sempre sotto forma di interessi. In base al regime finanziario di capitalizzazione composta, l’interesse che matura su una somma capitale evolve secondo una regola di dipendenza esponenziale dalla variabile temporale e ciò in virtù del fatto che gli interessi, nell’istante stesso in cui maturano, fruttano altri interessi che si cumulano nel capitale, generando a loro volta interessi ulteriori. Una situazione di tal genere è in palese contrasto con la disciplina imperativa posta dall’art. 1283 c.c., a norma del quale, come noto, “In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi”. In forza della disposizione appena citata, gli interessi da corrispondere su un mutuo devono essere applicati soltanto sul capitale che rimane da restituire e non sugli interessi in precedenza maturati; ciò, come verrà più diffusamente precisato nel prosieguo della trattazione, fatta salva la peculiare disciplina degli interessi moratori in relazione al mutuo fondiario, che possono essere applicabili (a seconda della specifica normativa cui occorra avere riguardo ratione temporis, in virtù dei vari interventi novellatori dell’art. 120 T.U.B. succedutisi nel tempo) anche sulla quota interessi delle singole rate rimaste insolute alla loro scadenza, come per l’appunto nel caso di specie.

11 Va peraltro precisato che, a stretto rigore, l’anatocismo non si identifica tout court con la capitalizzazione composta degli interessi, costituendo tale ultimo regime finanziario il genus nel contesto del quale è riconducibile l’anatocismo come species, atteso che esso, inteso come produzione di interessi su interessi (ex art. 1283 c.c.), non esaurisce l’intero ambito applicativo dell’interesse composto: la previsione pattizia in virtù della quale interessi che vengono in scadenza vanno pagati ancor prima della scadenza del capitale risponde (anche) al regime di capitalizzazione composta, ma non necessariamente una pattuizione di tal genere comporta la spirale ascendente di lievitazione degli interessi, che, contrastando con il principio di proporzionalità di cui all’art. 821 c.c. (in forza del quale gli interessi vengono legittimamente prodotti in ragione della durata del diritto, vale a dire purchè proporzionali al tempo di annullamento del debito capitale residuo), caratterizza e qualifica l’anatocismo. Nei piani di rimborso rateale dei finanziamenti l’impiego del regime finanziario della capitalizzazione composta determina il venir meno della suddetta proporzionalità rispetto al tempo e comporta la conseguente maggiorazione della rata di ammortamento, per effetto della quale il monte interessi lievita esponenzialmente. E’ per l’appunto in tale fenomeno che si annida l’essenza dell’anatocismo, per quanto “celato” nel valore della rata pattuita, quantificata applicando il T.A.N. contrattuale secondo la formula dell’interesse composto; operazione questa che, nello sviluppo del piano, comporta la sostanziale equiparazione al capitale finanziato (C) del corrispondente valore futuro (M, comprensivo di interessi anatocistici), espresso dalla formula M = C(1+i) k , in luogo del valore futuro che lascerebbe improduttivi gli interessi maturati, espresso dalla diversa formula M = C(1+ki).

La criticità della ravvisabilità, sotto il profilo giuridico, del fenomeno anatocistico implicato da siffatto meccanismo sta nel fatto che la soluzione consistente nel pagare, alla scadenza di ciascuna rata, tutti gli interessi maturati sul capitale in essere, pur configurandosi nella sostanza in contrasto con il criterio di proporzionalità ex art. 821 c.c., non 12 determina, almeno formalmente, produzione di interessi su interessi scaduti (ciò che, ai sensi del tenore testuale dell’art. 1283 c.c., integra anatocismo), pur comportando comunque i medesimi effetti economici di tale ultima operazione. In realtà, attraverso tale meccanismo, già nel momento genetico del vincolo negoziale (quindi già all’atto della stipulazione del contratto) vengono pattuite due obbligazioni a carico dell’accipiens, quella relativa al debito principale per sorte capitale e quella, accessoria, inerente al monte interessi, che in ragione dell’adozione del regime di capitalizzazione composta, risulta già comprendere gli effetti anatocistici, consistenti nella maggiorazione apportata al valore della rata rispetto a quello che essa avrebbe avuto in base al monte interessi che si sarebbe presentato applicando il regime semplice. In tal modo, la pattuizione anatocistica rimane intrinsecamente contenuta - per quanto non esplicitata (e quindi celata) nel testo contrattuale, frequentemente privo di menzione di sorta anche del regime finanziario utilizzato (ciò che rappresenta palese indice rivelatore dell’asimmetria informativa tra le parti del rapporto, innegabilmente contrastante con i principi di correttezza, buona fede e trasparenza che l’operatore bancario è tenuto ad osservare) - e quindi, in buona sostanza, assorbita nel valore stesso della rata di ammortamento. Sul piano matematico-finanziario, il complessivo monte interessi previsto nella totalità delle rate include quindi (già ab origine, fin dal momento della conclusione dell’accordo negoziale) la maggiorazione anatocistica, per l’appunto in ragione del regime finanziario adottato. In altri termini, l’anatocismo sussiste nella stessa pattuizione, ovvero nel valore della rata concordata al momento della stipulazione del contratto in base al piano di ammortamento (ad esso allegato e dallo stesso richiamato), in virtù dell’applicazione del T.A.N. contrattuale in regime di capitalizzazione composta; regime che, attraverso un’alchimia matematica consentita dalla proprietà della scindibilità che lo caratterizza, comporta la maggiorazione della rata in virtù del calcolo degli interessi sul debito capitale residuo (oggetto di obbligazione restitutoria non ancora scaduta, in quanto 13 destinata ad essere adempiuta con il pagamento delle rate successive, secondo la periodicità pattuita), anziché sul capitale in scadenza; ciò che rende possibile, in buona sostanza, sostituire la produzione di interessi su interessi (che ai sensi del tenore testuale dell’art. 1283 c.c. determinerebbe anatocismo) con la produzione di interessi sul capitale.

Per l’equivalenza finanziaria connessa al principio di scindibilità risultano infatti compresi nel regime composto sia l’ipotesi (riconducibile alla definizione letterale dell’anatocismo giuridico desumibile dall’art. 1283 c.c.) in cui gli interessi vengano, alla scadenza, cumulati al capitale, sia quella nella quale essi vengano alla scadenza pagati, costituendo un distinto capitale nel portafoglio del creditore; anche questa seconda variante del regime della capitalizzazione composta, a ben vedere, riproduce i medesimi effetti finanziari della lievitazione esponenziale degli interessi che qualifica l’anatocismo giuridico. Elemento qualificante il regime di capitalizzazione composta è proprio la disponibilità delle quote interessi – alternativamente (ma con i medesimi identici effetti sotto il profilo finanziario) in virtù del loro pagamento o della loro capitalizzazione - alla fine di ciascun periodo in cui è frazionato il finanziamento, a prescindere dalla scadenza dell’obbligazione principale avente ad oggetto il capitale. Tale caratteristica qualificante trova espressione, nei finanziamenti a rimborso graduale, nelle formule matematiche che fissano i rapporti fra Capitale (C), Rata (Rk k = 1, 2, ….. n) e Montante (M) alla scadenza: In definitiva, con il regime composto, anche nella variante costituita dal pagamento degli interessi (in alternativa alla loro capitalizzazione), svanisce, a ben vedere, la distinzione tra capitale ed interessi, restando indifferente all’atto del pagamento periodico l’individuazione del titolo per il quale esso avviene (se inerente all’obbligazione principale o a quella accessoria) e, correlativamente, quale sia la specifica composizione della rata (nella sua ripartizione tra quota capitale e quota interessi), essendo 14 comunque invariato il montante sul quale si producono nuovi interessi; e ciò proprio perchè, sotto il profilo finanziario, adottando il regime composto la composizione della rata è pressochè ininfluente. Attraverso il piano di ammortamento alla francese strutturato secondo il regime di capitalizzazione composta assume infatti rilievo, sotto il profilo finanziario, esclusivamente l’importo della rata costante del piano di rimborso, potendo quest’ultima essere suddivisa in vario modo fra quota capitale e quota interessi; dando luogo, in ogni caso, alla medesima somma periodica di debito residuo ed allo stesso importo complessivo di interessi e capitale nei vari possibili scenari di composizione delle rate, tutti finanziariamente equivalenti, in quanto comunque fondati sul regime composto di produzione degli interessi. Con il paradossale risultato che la sostanziale intercambiabilità tra capitale ed interessi nell’ambito delle rate, dovuta all’equivalenza finanziaria che caratterizza il regime finanziario utilizzato, ove si presti attenzione esclusivamente alla forma implica che lo stesso monte interessi del piano di ammortamento in regime composto con una modalità dovrebbe risultare illegittimo, in quanto ricomprendente interessi su interessi, con l’altra sarebbe legittimo, in quanto prodotto esclusivamente da capitale e ciò sebbene in quest’ultimo caso tale risultato venga conseguito attraverso la determinazione della rata secondo un valore più elevato, in virtù dell’impiego del T.A.N. convenuto in regime composto ed in base ad una ripartizione tra quota capitale e quota interessi che consente di traslare sul capitale la produzione di interessi anatocistici. In altri termini, privilegiando, tra le varie possibili alternative di composizione della rata quella che prevede il pagamento di tutti gli interessi maturati sul debito residuo, non si verifica formalmente la produzione di interessi su interessi, ancorché la capitalizzazione composta applicata determini invariato il medesimo monte interessi che risulterebbe dall’operazione vietata ex art. 1283 c.c.. Con siffatta opzione di composizione della rata, a ben vedere, viene quindi illegittimamente elisa (se non elusa) la discriminazione operante sul piano giuridico fra obbligazione principale e obbligazione accessoria, riservando al capitale 15 ed agli interessi lo stesso identico trattamento e, in definitiva, vanificando in tal modo, anche per effetto della deroga al principio di proporzionalità posto dall’art. 821 c.c., il beneficio che ordinariamente deriva al mutuatario dal pagamento anticipato degli interessi rispetto al capitale. A tale proposito, è importante rilevare che la Suprema Corte ha sempre rimarcato la distinzione ontologica e giuridica tra l’obbligazione principale (avente ad oggetto la restituzione del capitale mutuato) e quella accessoria (relativa agli interessi), distinzione che non può essere evidentemente posta in non cale in ragione della tipologia di piano di ammortamento e/o del regime finanziario adottato: “In ipotesi di mutuo per il quale sia previsto il pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sull'intera somma, integra un fenomeno anatocistico, vietato dall'art. 1283 c.c. Con riferimento alla disciplina dell'art. 1283 c.c., usi contrari non avrebbero potuto formarsi successivamente all'entrata in vigore del codice civile, perché la natura della norma stessa, di carattere imperativo e quindi impeditiva del riconoscimento di pattuizioni e di comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente, impediva la realizzazione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente le caratteristiche dell'uso normativo. ….”; quanto all’ammortamento alla francese, “trattandosi di una pattuizione che ha il solo scopo di scaglionare nel tempo le due distinte obbligazioni del mutuatario (capitale e interessi), essa non è idonea a mutarne la natura nè ad eliminarne l'autonomia” (cfr. Cass. n. 2593/2003, conf. Id. n. 3479/1971, n. 1724/1977, n. 9653/2001, n. 28663/13, n. 2072/2013, n. 603/2013, n. 11400/2014). In altri termini, “Nei mutui ad ammortamento, la formazione delle rate di rimborso, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene alle mere modalità di adempimento di due obbligazioni poste a carico del 16 mutuatario, aventi ad oggetto l'una la restituzione della somma ricevuta in prestito e l'altra la corresponsione degli interessi per il suo godimento, che sono ontologicamente distinte e rispondono a diverse finalità; di conseguenza, il fatto che nella rata esse concorrano, allo scopo di consentire all'obbligato di adempiervi in via differita nel tempo, non è dunque sufficiente a mutare la natura né ad eliminarne l'autonomia” (cfr. Cass. n. 11400/2014 cit.). E’ ben vero che il mutuo oggetto di giudizio, essendo stato stipulato in data 22.02.2007, è soggetto alla disciplina di cui all’art. 3 della delibera C.I.C.R. del 09.02.2000 (emanata in attuazione della delega contenuta nell’art. 25 comma 2 del T.U.B. - D.Lgs. n. 395/21993, nella formulazione a quel tempo vigente), ai sensi del quale, nelle operazioni di finanziamento con rimborso del prestito mediante rate a scadenze predefinite, “l'importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento” (comma 1), ovvero “a decorrere dalla data di risoluzione” qualora “il mancato pagamento determina la risoluzione del contratto di finanziamento” (comma 2); disciplina che, in buona sostanza, legittima l’addebito di interessi moratori sull’intera rata rimasta insoluta, comprensiva anche della quota interessi. Tale disciplina, nondimeno, non vale ad escludere la suevidenziata diversità ontologica, giuridica e contabile dell’obbligazione relativa agli interessi rispetto a quella inerente al capitale, reiteratamente ribadita nei richiamati arresti della Corte regolatrice; diversità che, come dianzi evidenziato, sostanzialmente è destinata a svanire attraverso l’applicazione del regime di capitalizzazione composta nei mutui con ammortamento a rate costanti.

Se il divieto di anatocismo previsto dall’art. 1283 c.c. si riferisce letteralmente alla produzione di interessi su interessi scaduti, parrebbe allora non esservi preclusione normativa di sorta alla pattuizione (concretantesi nel richiamo e nell’approvazione, attraverso il contratto di 17 mutuo, del piano di ammortamento allegato formulato in regime composto) dell’obbligo di pagamento degli interessi ancor prima di quello relativo al capitale di riferimento. Tale constatazione sottende ed implica, a ben vedere, un varco elusivo nel presidio costituito dalla succitata norma imperativa codicistica.

Secondo quanto già in precedenza accennato, infatti, in matematica finanziaria il regime composto ricomprende due diverse modalità operative attraverso le quali esso può in concreto realizzarsi: la prima in base alla quale gli interessi vengono capitalizzati ed, in quanto tali, assoggettati al medesimo trattamento del capitale, producendo quindi, a loro volta, ulteriori interessi, pagati congiuntamente alla scadenza del capitale (cd. finanziamento tipo zero coupon bond); la seconda, per l’appunto solitamente adottata nei finanziamenti a rimborso graduale, attraverso la quale il regime composto viene utilizzato, fin dalla fase genetica del vincolo obbligatorio, per determinare la rata (costante) di rimborso in modo che il pagamento periodico degli interessi venga realizzato, sia pure in forma semplice, su tutto il capitale (oggetto di restituzione frazionata nel tempo), a prescindere dalla scadenza dell’obbligazione restitutoria di quest’ultimo (o delle singole frazioni di capitale che compongono le rate del piano), senza che ciò comporti formalmente produzione di interessi su interessi. In realtà, considerato che trattasi di disciplina imperativa, in quanto tale cogente ed inderogabile (la deroga al disposto di cui all’art. 1283 c.c. consentita all’autonomia negoziale in base al precitato art. 3 della Delibera C.I.C.R. 09.02.2000 e, più recentemente, all’art. 17 bis del D.L. n. 18/2016, convertito in L. n. 49/2016, si riferisce infatti soltanto agli interessi moratori, non già a quelli corrispettivi), deve ritenersi che il divieto di anatocismo non attenga esclusivamente all’accordo preventivo che preveda direttamente la produzione di interessi su interessi, ma altresì a quelli - anch’essi in ipotesi riconducibili al momento genetico contratto (e quindi integranti una convenzione, ai sensi dell’art. 1283 c.c.) - che producano comunque, sotto il profilo economico, il medesimo effetto della produzione di interessi su interessi. Ciò che rileva, a ben vedere, è 18 l’identità degli effetti economico-finanziari delle due modalità operative suindicate, comportando entrambe, anche in ragione del computo degli interessi sul capitale residuo (anzichè su quello in scadenza), un valore della rata di ammortamento superiore rispetto a quello che si presenterebbe adottando il regime di capitalizzazione semplice. Nei finanziamenti a rimborso rateale costante (cd. alla francese) strutturati secondo il regime finanziario della capitalizzazione composta, quindi, nella determinazione dell’importo complessivo della rata ottenuta mediante l’applicazione del T.A.N., attraverso l’impiego della formula - e quindi già al momento della stipulazione del contratto, in virtù dell’esplicito richiamo al piano di ammortamento ad esso allegato e predisposto attraverso l’uso di quella formula - è insita, in definitiva, una convenzione anatocistica, che trova espressione in una forma accelerata di produzione di interessi (nella quale la proporzionalità viene rapportata non già capitale finanziato, in conformità al disposto di cui all’art. 821 c.c., bensì al montante maturato, comprensivo della quota interessi); pattuizione replicante, in equivalenza finanziaria, il medesimo monte interessi prodotto dal computo di interessi su interessi, a prescindere da quale sia la specifica (e finanziariamente indifferente) distribuzione tra capitale ed interesse all’interno della singola rata, ciò che vale a determinare, sotto il profilo economico, lo stesso identico effetto vietato dell’anatocismo giuridico preso in considerazione dall’art. 1283 c.c.. Sul piano tecnico-finanziario, anche in quest’ultimo caso l’ammontare complessivo degli interessi risulta infatti maggiorato di un importo corrispondente esattamente agli interessi anatocistici, effetto riconducibile, per l’appunto, al regime finanziario prescelto, impiegato per la determinazione della rata. La ragione della produzione di interessi (tutti soltanto primari) maggiori di quelli che deriverebbero dall’applicazione del regime della capitalizzazione semplice consiste nella stessa struttura della rata, in rapporto al regime finanziario adottato: tecnicamente la rata è già 19 caricata degli interessi anatocistici ma, accelerando l’incasso di tutti gli interessi maturati (in quanto resi esigibili, quale quota interessi delle singole rate, anteriormente alla scadenza dell’obbligazione restitutoria del capitale residuo, sul quale gli stessi interessi sono calcolati), si protrae (per un pari ammontare) il pagamento del capitale, con conseguente sostituzione alla produzione di interessi su interessi della produzione di interessi su capitale; operazione che determina surrettiziamente, sotto il profilo economico, il medesimo effetto vietato dall’art. 1283 c.c. (consistente nella crescita esponenziale degli interessi, con velocità rapportata al montante maturato, anziché al capitale finanziato). Ne deriva che, risultando la rata costante, di quanto si maggiora l’ammontare degli interessi spesati nella rata, di altrettanto si riduce la quota capitale pagata.

Rimanendo invariato il capitale da rimborsare, appare evidente che la maggiorazione della rata, indotta dall’impiego del regime finanziario della capitalizzazione composta, si riversa interamente sull’ammontare complessivo degli interessi, quale che sia la composizione della rata; l’incremento indotto nel monte interessi complessivo corrisponde esattamente agli interessi anatocistici, rispetto a quelli (soltanto) primari che maturerebbero in base al regime della capitalizzazione semplice.

Nella previsione stessa dell’importo della rata pattuita in contratto – quindi ancor prima di fissarne la composizione (ovvero alla ripartizione all’interno della stessa tra quota capitale e quota interessi) ed a prescindere dalla stessa composizione - si sostanzia pertanto la convenzione anatocistica, che precede la scadenza degli interessi (essendo radicata nella fase genetica del rapporto contrattuale).

In definitiva, le modalità di calcolo degli interessi si risolvono in un roll-over sul capitale finanziato, chiudendo ad ogni scadenza periodica il finanziamento, introitando gli interessi e “riaccendendo” (di fatto) il finanziamento per il successivo periodo; operazioni con le quali si evita solo formalmente la produzione di interessi su interessi, ma si conserva sostanzialmente l’effetto anatocistico: di scadenza in scadenza occorre ricalcolare l’ammontare del debito che genera interessi, sicché questi, 20 ancorché semplici nell’intervallo temporale tra due scadenze successive, finiscono per incorporarsi nel capitale che li ha generati, secondo lo schema tipico della capitalizzazione composta: alla scadenza di ciascuna rata, l’aggiornamento del debito residuo prevede che gli interessi generati tra le scadenze succedutesi vengano incorporati nel debito, esattamente come nel consueto schema della capitalizzazione composta. In tal modo, l’ammortamento del finanziamento viene di fatto condotto con l’applicazione di interessi (sul debito residuo) in apparenza (o comunque soltanto formalmente) semplici, ma con effetti economici analoghi a quelli che si verificherebbero applicando interessi composti. Più precisamente, la suenunciata formula inversa esprime chiaramente un meccanismo anatocistico, determinando nei rapporti intertemporali fra il capitale finanziato ed i successivi rimborsi graduali un’equivalenza finanziaria comprensiva dell’anatocismo. Il ricorso a siffatto meccanismo stabilisce matematicamente l’equivalenza fra capitale (C) oggi e C*(1+i) k fra k periodi, in violazione del divieto posto dall’art. 1283 c.c. e dall’art. 120 T.U.B.. In altri termini, con la suddetta formula, attraverso il tempo (k) all’esponente, si calcola l’interesse espresso dal T.A.N. (i) in regime esponenziale, vale a dire proporzionale non già al capitale finanziato (in conformità all’art. 821 c.c.), bensì al montante ad ogni scadenza (montante composto da capitale + interessi). Peraltro, tale operazione viene solitamente attuata in difetto di relativa specificazione nel contratto, il più delle volte in mancanza anche della semplice menzione del regime finanziario applicato – e ciò in palese contrasto con il fondamentale canone di correttezza, buona fede e trasparenza che deve improntare l’attività dell’operatore bancario (specie ove si consideri che l’art. 117, 4 comma del T.U.B. prevede che “i contratti indicano il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati”, che, a norma dell’art. 125 bis, comma 5 dello stesso D.Lgs. n. 385/1993 “nessuna somma può essere 21 richiesta o addebitata al consumatore se non sulla base di espresse previsioni contrattuali’ e che, ai sensi dell’art. 6 della Delibera C.I.C.R. del 09.02.2000, “le clausole relative alla capitalizzazione degli interessi non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto”); ciò che vale in molti casi a rendere dubbia, se non altro, l’effettività dell’ in idem placitum consensum sul quale si fonda l’accordo contrattuale e/o, comunque, la validità dello stesso in riferimento al requisito della determinatezza dell’oggetto.

In realtà, l’indicazione del T.A.N. nel contratto non è di per sé sola esplicatrice del prezzo del finanziamento se non viene integrata con la specifica menzione del regime finanziario adottato e, se questo è composto, con una compiuta spiegazione del modello di calcolo degli interessi; sono per l’appunto tali aspetti che, combinati tra loro, determinano la divergenza del monte interessi (espressione del prezzo effettivo del finanziamento) tra il piano di rimborso predisposto secondo il regime della capitalizzazione composta e quello sviluppato secondo il medesimo T.A.N. ma basato su quello della capitalizzazione semplice.

Non a caso, la Direttiva 2008/48/CE prescrive la specificazione, oltre che delle condizioni di calcolo, dell’importo complessivo da rimborsare, essendo invece dato di comune esperienza che il più delle volte nei finanziamenti a rimborso graduale il prezzo – espresso dal totale interessi da corrispondere sul capitale mutuato - non viene esplicitamente riportato né nel contratto, né nella documentazione ad essa allegata. Qualora la rata venisse determinata impiegando il T.A.N. in regime semplice, invece, la scelta di calcolare gli interessi sul debito residuo, per i vincoli di chiusura del piano, comporterebbe l’impiego di un tasso inferiore, vale a dire del tasso composto finanziariamente equivalente al tasso espresso dal T.A.N.. L’incremento esponenziale del monte interessi complessivo conseguente all’adozione del regime di capitalizzazione composta – integrante il fondamento degli effetti economici vietati dall’art. 1283 c.c. - emerge nella sua lampante chiarezza ove si consideri che lo stesso 22 regime e la corrispondente formazione di un monte interessi anatocistici si verificano sia con la produzione di interessi su interessi, ottenuta dall’applicazione del T.A.N. (contrattuale) sul capitale che si rende esigibile ad ogni scadenza (ovvero quello che compone la quota capitale di ciascuna data), sia, alternativamente, con la produzione semplice degli interessi, ottenuta applicando lo stesso T.A.N. ad ogni scadenza sull’intero capitale residuo; in questa seconda ipotesi, il pagamento anticipato (rispetto alla scadenza dell’obbligazione di restituzione del capitale) degli interessi maturati ad ogni scadenza non impedisce affatto l’ascesa esponenziale dell’obbligazione accessoria: il monte interessi rimane invariato, alimentato dagli interessi successivi ad ogni scadenza traslati sul maggior capitale residuo. In definitiva, il piano di rimborso, in entrambe le due suindicate ipotesi, è perfettamente identico negli effetti economici, seppur invertito nella ripartizione (o, per meglio dire, nell’ordine di successione temporale) di quota capitale e quota interessi.

Che il disvalore della clausola anatocistica, posto a fondamento della sua nullità, consista nell’effetto vietato, piuttosto che nella specifica modalità operativa contabile con la quale esso è realizzato, emerge chiaramente dalla vicenda giurisprudenziale che ha condotto la Corte di Cassazione ad affermare l’illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi nei conti correnti bancari ed a stabilire la necessità di procedere alla depurazione del conto dagli addebiti registrati in base a tale capitalizzazione e ciò ancorché l’effetto anatocistico (inteso nel senso di produzione di interessi su interessi, secondo la previsione di cui all’art. 1283 c.c.) venga realizzato in modo indiretto, vale a dire, per l’appunto, rendendo capitale gli interessi debitori maturati nel trimestre. La ratio decidendi che ha portato a tale conclusione risiede - a ben vedere valorizzando la sostanza della norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c., più che il dato letterale della stessa - nella consapevolezza che anche un meccanismo che comporta, sul piano finanziario, i medesimi risultati vietati dalla predetta disposizione attraverso una contabilizzazione che replica e consente, in sostanziale funzione elusiva del disposto imperativo 23 di Legge, le stesse conseguenze economiche di una produzione in forma esponenziale degli interessi, realizza l’effetto che il Legislatore ha inteso per l’appunto evitare con l’art. 1283 c.c.; ciò che vale ad integrare, attraverso la clausola che consente alla banca la capitalizzazione de qua, un’ipotesi di pattuizione in frode alla legge (art. 1344 c.c.), in quanto destinata a realizzare per altra via il risultato, vietato dalla disposizione appena citata, di conseguire la produzione di interessi su interessi (accumulatisi nel corso dei periodi trimestrali), a prescindere dalla proposizione di apposita domanda giudiziale o dalla stipulazione di idonea convenzione successiva alla scadenza degli interessi primari. Del resto, proprio in virtù dell’equiparazione sotto il profilo degli effetti economici al fenomeno anatocistico (quale prefigurato in chiave giuridica dallo stesso art. 1283 c.c.), con riferimento alla pratica della capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori maturati nei conti correnti bancari la Suprema Corte ha avuto modo di sottolineare che la violazione della disposizione appena citata - la quale, giova precisare, limita espressamente il richiamato divieto alla sola di produzione di interessi su interessi scaduti - non discende da un’espressa pattuizione anatocistica (vale a dire da una clausola che deroghi in modo esplicito e diretto al divieto appena richiamato), bensì dalla previsione, contenuta nel contratto, della chiusura trimestrale dei conti debitori: la mancata liquidazione del saldo trimestrale vale a configurare il saldo medesimo quale prima rimessa del nuovo conto, sulla quale, ai sensi dell’art. 1825 c.c., decorrono gli interessi convenzionali; di modo che la capitalizzazione degli interessi a favore della banca si pone come naturale (e, in base alla relativa clausola, inevitabile) conseguenza della periodica chiusura del conto corrente. E’ ben vero che nel finanziamento a rimborso graduale, rispetto al conto corrente, ricorre una sostanziale differenza, atteso che mentre in quest’ultimo interviene un’automatica capitalizzazione degli interessi, nel primo gli interessi rimangono sistematicamente pagati ad ogni scadenza; ma, a ben vedere, è proprio nell’obbligo di adempimento di un debito accessorio (quale è, per l’appunto, quello inerente agli 24 interessi maturati anteriormente alla scadenza del debito principale relativo al capitale) che si risolve la sostanziale equiparazione degli interessi al capitale, in virtù del medesimo trattamento riservato agli uni come all’altro: il pagamento degli interessi periodicamente maturati in base al piano (pagamento che può essere possibile soltanto in riferimento ad un debito “maturato”), infatti, viene in tal modo reso obbligatorio (e quindi la relativa obbligazione resa esigibile), realizzando per lo più in modo immediato e diretto quell’incremento della sfera giuridica patrimoniale del mutuante (per effetto della percezione dello stesso) che la capitalizzazione di quegli stessi interessi è destinata a determinare soltanto al momento del termine del piano di rimborso (o della risoluzione del rapporto conseguente all’estinzione anticipata o alla decadenza dal beneficio del termine).

Sebbene la tematica dell’anatocismo nei finanziamenti a rimborso graduale non sia mai stata affrontata in modo diretto dalla Suprema Corte, in talune pronunce della stessa è ravvisabile l’affermazione esplicita di una tendenziale estensione – fondata sulla ratio, più che sul dettato letterale della norma imperativa (incentrato sulla produzione di interessi su interessi scaduti) - dell’ambito del divieto ex art. 1283 c.c. all’impiego del regime composto nei mutui, in considerazione dell’assimilazione dei relativi effetti. Nella sentenza n. 12507/1999 si fa riferimento ripetutamente al concetto di capitalizzazione ed in quella n. 2374/1999, richiamata dalla successiva n. 2593/2003, nel qualificare il citato art. 1283 c.c. come norma imperativa e di natura eccezionale (in quanto tale non derogabile al di fuori dei casi contemplati dalla stessa disposizione), pare prospettata un’espressa applicazione del relativo divieto al tasso composto dei mutui: “Le finalità della norma sono state identificate, da una parte, nella esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurari, e dall’altra, nell’intento di consentire al debitore di rendersi conto del rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell’inadempimento (onere della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di 25 sottoscrivere l’apposita convenzione, l’esatto ammontare del suo debito.

Richiedendo che l’apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi, il legislatore mira anche ad evitare che l’accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per poter accedere al credito.

(…) pur rimanendo nei limiti del tasso soglia, le conseguenze economiche sono diverse a secondo che sulla somma capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti. E’ stato, infatti, osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del cinque per cento si raddoppia in venti anni, mentre con la capitalizzazione degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa quattordici anni’ (cfr. Cass. n. 2593/2003 cit.).

Del resto, lo stesso disposto di cui all’art. 120, comma 2 lett. b) del T.U.B., nella formulazione derivata dall’art. 1 comma 629 della L. n. 147/2013, nello stabilire il divieto di produzione di “interessi ulteriori” sugli “interessi debitori maturati”, quale criterio direttivo cui il C.I.C.R. è stato demandato ad attenersi nel regolare “la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria” (e quindi anche in riferimento ai finanziamenti non correlati ai conti correnti), ha fatto esplicito riferimento, per l’appunto, alla nozione di “interessi maturati”, nozione che risulta più ampia di quella relativa agli interessi propriamente “scaduti” (richiamata dall’art. 1283 c.c.); ciò che consente di desumere ragionevolmente che il principio sul quale si fonda la succitata disposizione del T.U.B. presuppone una portata precettiva del divieto posto dall’art. 1283 c.c. più ampia di quella meramente formale (basata sul mero dettato letterale) limitata all’ambito degli interessi “scaduti”, e quindi estesa anche a quelli resi esigibili attraverso un artificioso meccanismo contabile; divieto, in tal guisa ricostruito, tale quindi da costituire un più rigoroso presidio del principio di proporzionalità che governa l’ordinaria fruttuosità del denaro in forza dell’art. 821 c.c., al fine 26 di impedire pratiche elusive attraverso forme, indirette o implicite, di produzione accelerata di interessi in contrasto con il su enunciato principio.

Non essendo ragionevolmente revocabile in dubbio che, nel porre la disciplina appena citata, il Legislatore abbia inteso armonizzarla al richiamato tradizionale divieto codicistico di anatocismo, la (verosimilmente non casuale) divergenza lessicale dianzi evidenziata (“interessi maturati” nell’art. 120 T.U.B. – “interessi scaduti” nell’art. 120 c.c.) costituisce pertanto indice rivelatore della consapevolezza, da parte del Legislatore, del rischio intrinseco nell’abituale ricorso nella gestione dei rapporti bancari a meccanismi di produzione esponenziale degli interessi caratterizzati da effetti analoghi a quelli cui il divieto prescritto dall’art. 1283 c.c. conferisce lo stigma di illiceità, per quanto tali effetti non paiano (almeno formalmente) realizzati attraverso la produzione di interessi su interessi scaduti; quanto appena esposto specie ove si consideri che nel conto corrente bancario l’obbligazione inerente agli interessi deve ritenersi in scadenza, così come quella principale concernente il capitale, soltanto al momento della chiusura del conto. Per consolidata giurisprudenza, infatti, il rapporto di conto corrente bancario “è soggetto ai principi generali di cui all'art. 1283 cod. civ. e ad esso non è applicabile l'art. 1831 cod. civ., che disciplina la chiusura del conto corrente ordinario”, risultando quindi il primo “diverso per struttura e funzione dal contratto di conto corrente ordinario”, considerato anche che “l'art. 1857 cod. civ. non richiama l'art. 1831 cod. civ.” (che consente alle parti, in riferimento a quest’ultimo, di concordare scadenze periodiche ai fini della liquidazione del saldo) “tra le norme applicabili alle operazioni bancarie regolate in conto corrente” (cfr. Cass. n.15135/2014, conf. Id. n. 6187/2005, n. 870/2006, n. 15218/2007, n. 15135/2014).

Senza considerare che, a ben vedere, il pagamento degli interessi anticipatamente rispetto alla scadenza dell’obbligazione restitutoria del capitale di riferimento trova giustificazione in una pattuizione negoziale in tal senso (integrata, nel contratto di mutuo, dall’approvazione del piano di 27 ammortamento che contempla la composizione delle rate che il mutuatario è tenuto a pagare alle scadenze periodiche, incluse le rispettive quota interessi, di modo che queste ultime, così come le quote capitali, scadono per l’appunto contestualmente alla rata che esse concorrono a comporre); potendosi quindi, sotto tale profilo, detti interessi considerare “scaduti”, in quanto per l’appunto oggetto di un’obbligazione esigibile, tanto che l’omesso tempestivo pagamento di una determinata rata configura innegabilmente inadempimento contrattuale (originando, di conseguenza, l’obbligo di corrispondere interessi di mora, peraltro, come già precisato, sull’intero importo della rata insoluta, comprensiva di quota capitale e quota interessi, ove ciò sia pattuito). Risulta del pari integrato l’altro presupposto del divieto ex art. 1283 c.c., rappresentato dalla pattuizione dell’effetto anatocistico anteriormente alla scadenza degli interessi, trattandosi di effetto intrinsecamente implicato – fin dal momento della stipulazione del contratto, pertanto ancor prima che il rapporto abbia esecuzione - dalla determinazione dell’ammontare delle rate attraverso l’utilizzo del T.A.N. contrattuale secondo il regime finanziario composto in base al quale è predisposto il piano di ammortamento allegato al contratto di mutuo. Non pare revocabile in dubbio, in effetti, che detto piano abbia natura negoziale e valga, in quanto tale, ad integrare il contenuto dell’accordo trasfuso nel contratto, ove si consideri che esso, per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, “rappresenta l’elemento contrattuale al quale occorre far riferimento in via esclusiva ai fini del calcolo contrattuale delle somme riscosse dal mutuante imputabili alla restituzione del capitale ovvero al pagamento degli interessi’ (Cass. n. 5703/2002, conf. Id. n. 23972/2010).

I principi contabili sin qui enunciati costituiscono ormai patrimonio consolidato della più accreditata letteratura matematica finanziaria (vedasi gli studi del prof. Antonio Annibali, ordinario di Matematica Finanziaria e Attuario presso la Facoltà di Economia dell’Università “La Sapienza” di Roma e del gruppo di docenti di Matematica Finanziarie ed Attuariale 28 dallo stesso coordinati della stessa Università - Dipartimento di Metodi e Modelli per l’Economia, il Territorio e la Finanza e dell’Università dell’Aquila - Dipartimento di Ingegneria Industriale, dell’Informazione e di Economia, i cui risultati sono stati condensati in due pubblicazioni, “Anatocismo e ammortamento di mutui “alla francese” in capitalizzazione semplice” e “Anatocismo e ammortamento di mutui “alla francese” – Manuale per le professioni di Magistrato, Dottore Commercialista e Avvocato”; vedasi anche lo studio intitolato “Sull’anatocismo nell’ammortamento francese” del prof. Gennaro Olivieri e della prof.ssa Paola Fersini, rispettivamente docente e ricercatore di Matematica Finanziaria presso l’Università Luiss Guido Carli, pubblicato sul n. 2/2015 della Rivista Banche e Banchieri - Rivista dell’Associazione Nazionale Banche Private; quelli del prof. Arcangelo Marrone e della prof.ssa Lara Oliva, docenti di Economia aziendale all’Università LUM J. Monnet, in “Algoritmi e formule di calcolo dell’interesse nel mercato legale”, quello dell’Ing. Das Warhe nel libro “Anatocismo nei mutui, le formule segrete”; vedasi anche gli studi di statistica del dott. Graziano Aretusi, Statistico, nel libro “Mutui e anatocismo – Aspetti matematici e tecnici” e quelli del dott. Luigi Spagnolo, esperto di tecnica bancaria, in “L’anatocismo mascherato”).

Il gruppo di studio coordinato dal prof. Antonio Annibali, in particolare, partendo da un piano di ammortamento “alla francese” in capitalizzazione composta, ha affrontato il problema della quantificazione ed eliminazione degli addebiti correlati all’anatocismo, tramite la costruzione di un analogo piano di ammortamento in capitalizzazione semplice, attraverso i seguenti passaggi: separazione del debito residuo nelle due componenti (debito in conto capitale e debito in conto interessi) e conseguente separazione e quantificazione della quota di interessi non anatocistici e di quella interessi anatocistici; eliminazione di questi ultimi e costruzione di un piano di ammortamento (in capitalizzazione semplice e quindi privo di anatocismo), che verifichi i vincoli finanziari e contrattuali (chiusura del piano di 29 ammortamento, costanza delle rate, mantenimento dell’importo prestato, del tasso di interesse concordato e della durata dell’ammortamento); considerazione delle soluzioni praticabili nell’ipotesi che, essendo stato già pagato un certo numero di rate del piano di ammortamento stilato in capitalizzazione composta, si voglia provvedere al recupero dei maggiori pagamenti effettuati. Da ultimo, lo stesso gruppo di studio, con l’articolo intitolato “Rivisitazione del modello di ammortamento alla francese di un mutuo in capitalizzazione semplice”, ha preso posizione su taluni rilievi critici mossi al modello prefigurato nelle precedenti pubblicazioni scientifiche del medesimo gruppo, sostanzialmente sintetizzati dalla considerazione per la quale, nell’originario modello, a fronte della possibilità di presentazione di importi negativi del debito residuo in conto capitale (e dei conseguenti interessi non anatocistici) si era prospettata l’utilizzazione di un tasso nullo, con conseguente modifica dell’importo della rata calcolata in capitalizzazione semplice, comportando l’applicazione di tale tasso nullo nell’evoluzione del piano di rimborso, da una certa rata in poi, la presenza di quote interessi nulle; ciò che sarebbe risultato di per sè incompatibile con la struttura del piano di ammortamento a rate costanti (o alla francese), nel quale ciascuna rata è necessariamente composta da una quota capitale e da una quota interessi (non potendo quest’ultima essere nulla, in quanto in ipotesi già versata in misura compensativa nei periodi precedenti). Al riguardo, i suddetti studiosi hanno quindi elaborato una versione alternativa del piano di ammortamento alla francese in capitalizzazione semplice, in base alla quale le quote interessi sono calcolate sul residuo debito relativo al tempo precedente, ma, a differenza della formula utilizzata nel piano in capitalizzazione composta (nel quale, in quanto pagate contestualmente alle rate, producono ulteriori interessi fino al termine del piano di rimborso), in capitalizzazione semplice esse andrebbero solo contabilizzate e pagate alla scadenza del mutuo; al fine di non pagare interessi contenenti interessi maturati (che produrrebbero ulteriori interessi) ed, al contempo, di effettuare il loro pagamento contestualmente 30 al pagamento della rata (della quale gli stessi interessi costituiscono parte integrante), occorre quindi pagare il loro valore attuale, in capitalizzazione semplice, per il lasso temporale intercorrente tra il pagamento ed il tempo finale (tempo nel quale tali quote interesse non attualizzate si sarebbero comunque dovute pagare). Con riferimento a tale versione alternativa del piano, attraverso l’analisi compiuta dalla predetta equipe matematica, la “chiusura” dello stesso piano risulta assicurata dal fatto che la somma delle quote capitali e la somma dei valori attualizzati delle rate coincidono con il debito iniziale e che, al tempo stesso, la somma dei montanti delle rate (comprensivi di quote capitali e quote interessi) coincide con il montante finale del debito iniziale.

Sulla scorta dei suenunciati principi di matematica finanziaria è quindi possibile evidenziare le numerose incongruenze ed erronee affermazioni che caratterizzano un pur diffuso orientamento della giurisprudenza di merito, che ha escluso aprioristicamente, con argomentazioni ultronee - il più delle volte scorrette sotto il profilo scientifico e senza adeguata valutazione del rilievo assunto in materia dal regime finanziario applicato al rapporto - che possa verificarsi il fenomeno anatocistico nei contratti di mutuo con ammortamento alla francese. In buona sostanza, siffatto indirizzo si fonda sulle seguenti considerazioni.

1) Per ogni rata, l’interesse corrispettivo sarebbe calcolato solo sul debito per sorte capitale residuo non ancora scaduto, oggetto delle rate successive (le cui quote capitali sono via via decrescenti nel corso del tempo), debito che, di volta in volta, si riduce progressivamente per effetto del pagamento della quota capitale delle rate precedenti; ragion per cui nell’ammortamento alla francese non sarebbe concettualmente configurabile il fenomeno dell’anatocismo, difettando nella fase genetica del rapporto il presupposto stesso di tale fenomeno, ovvero la presenza di un interesse giuridicamente definibile come “scaduto” sul quale operare il calcolo dell’interesse composto ex art. 1283 c.c. (cfr. Trib. Verona, 24.03.2015 n. 759).

31 2) Gli interessi di periodo che compongono ciascuna rata verrebbero quindi calcolati in base al regime di capitalizzazione semplice unicamente sulla parte del capitale residua (in quanto tale non ancora restituita e “spalmata” nelle rate successive non ancora scadute) e per il periodo di riferimento della singola rata, non essendo quindi le quote di interessi che compongono le rate successive affatto determinate capitalizzando in tutto o in parte gli interessi corrisposti con il pagamento delle rate precedenti, bensì, per l’appunto, di volta in volta versate come componenti delle rate di riferimento; in altri termini, ciascun pagamento periodico esaurirebbe la totalità degli interessi fino ad allora maturati, mentre, corrispondentemente, con il progredire del piano di rimborso, la corresponsione di ciascuna rata (comprensiva della quota capitale che la compone) determinerebbe la riduzione del capitale residuo dovuto dal mutuatario, ciò che darebbe luogo ad un fenomeno inverso rispetto alla capitalizzazione (cfr. Trib. Venezia 27.11.2014, Trib. Benevento 19.11.2012, Trib. Torino 17.09.2014, Id. 27.04.2016, Trib. Treviso 12.11.2015). In talune pronunce annoverabili nell’indirizzo giurisprudenziale in esame si pone in particolare in evidenza che, sebbene le rate vengano determinate applicando il regime composto, ciò non andrebbe in alcun modo ad incidere sul conteggio (o calcolo) degli interessi, che nel piano di ammortamento alla francese verrebbe operato con il regime dell’interesse semplice (Trib. Isernia, 17.03.2014, Trib. Milano 05.05.2014, Id. 26.10.2017, Trib. Padova 12.01.2016).

3) Con il pagamento di ciascuna rata verrebbe corrisposta la totalità degli interessi maturati (sul capitale residuo) nel periodo cui la stessa rata si riferisce, che, quindi, per l’appunto in ragione di tale versamento, non verrebbero capitalizzati, ma per l’appunto pagati, sub specie di quota interessi della rata di rimborso; così come, analogamente, gli interessi conglobati nella rata successiva sarebbero anch’essi calcolati esclusivamente sulla residua sorte capitale, ovvero sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata precedente (cfr. Trib. Torino, 17.09.2014 cit., Trib. Siena, 17.09.2014, Trib. Arezzo, 24.11.2011).

32 4) Il fatto che il piano di ammortamento alla francese comporti un maggiore ammontare complessivo degli interessi che il mutuatario è tenuto a corrispondere rispetto a quello dovuto per effetto del piano di ammortamento all’italiana (caratterizzato dal pagamento periodico di quote capitali costanti e contemporanea corresponsione degli interessi) dipende non già dall’applicazione di interessi composti, ma dalla diversa costruzione della rata (Trib. Milano 30.10.2013).

5) Il presunto (e negato) effetto anatocistico parrebbe apparentemente derivare, in base al metodo di ammortamento alla francese, dalla più lenta riduzione del debito per sorte capitale residua, rallentamento indotto dalla prioritaria imputazione dei periodici pagamenti agli interessi di tempo in tempo maturati; caratteristica quest’ultima, che in realtà garantirebbe il rispetto della regola stabilita dall’art. 1194 c.c., secondo cui “il debitore non può imputare il pagamento al capitale, piuttosto che agli interessi e alle spese, senza il consenso del creditore” (comma 1) e “Il pagamento fatto in conto di capitale e d'interessi deve essere imputato prima agli interessi” (comma 2). In altri termini, trattandosi di criterio di restituzione del debito che privilegia sotto il profilo cronologico l’imputazione più ad interessi che a capitale, la legittimità dello stesso sarebbe rivelata dalla sua conformità al disposto di cui al citato art. 1194 c.c. (In tal senso, la pronuncia dell’A.B.F. n. 1127 del 25.02.23014 - Collegio di Napoli, Trib. Padova, 23.02.2009, Trib. Monza, 19.06.2017 n. 1911 cit., Trib. Venezia, 27.11,2014 Trib. Mantova, 11.03.2014, Trib. Treviso, 12.01.2015, Trib. Modena, 11.11.2014, Trib. Pescara 10.04.2014, Trib. Mantova, 11.03.2014).

La più avveduta letteratura ha posto in luce i profili di criticità e le incongruenze, sotto il profilo scientifico, delle affermazioni giurisprudenziali sin qui esposte, in quanto contrastanti con i più elementari principi della matematica finanziaria.

Con riguardo all’argomentazione sub 1), in primo luogo, si è osservato che la formazione della quota di interessi che compone ciascuna rata 33 successiva alla prima nel piano di ammortamento alla francese predisposto in regime di capitalizzazione composta implica che il debito residuo per sorte capitale del periodo precedente (sul quale si calcolano gli interessi che compongono la rata successiva moltiplicando detto debito residuo per il cd. tasso periodale, ad esempio mensile) contiene, a sua volta, per costruzione, gli interessi maturati nei periodi precedenti, ovvero quelli da considerare giuridicamente “scaduti”; più precisamente, ogni quota interessi di ciascuna rata successiva alla prima risulta costituita dalla somma di due componenti: una determinata dalla maturazione degli interessi sul debito capitale residuo nel periodo di riferimento della medesima rata e l’altra prodotta dalla maturazione degli interessi sugli interessi relativi ai periodi precedenti (questi ultimi, in quanto tali, già pagati quali oggetto delle relative quote interessi delle rate pregresse di riferimento), ciò che costituisce conferma del fatto che il metodo di formazione degli interessi in un piano di ammortamento a rate costanti stilato in capitalizzazione composta implica, per costruzione, il fenomeno della capitalizzazione degli interessi e quindi anatocismo. Il debito residuo che risulta a seguito del pagamento delle varie rate, infatti, è composto da una quota parte di interesse già pagato, secondo quanto dianzi chiarito e, dunque, la quota interessi di pertinenza di ciascuna rata, anche se calcolata (in ipotesi in regime di capitalizzazione semplice) sul solo debito residuo, risulta di ammontare maggiore rispetto a quella che sarebbe dovuta in base all’utilizzo di un tasso di interessi pattuito in regime di capitalizzazione semplice ai fini della preventiva determinazione dell’ammontare delle rate di rimborso; e ciò, per l’appunto, in ragione di un debito residuo in tal modo illegittimamente incrementato. In altri termini, ogni debito residuo risultante dal pagamento delle rate già versate si ottiene sottraendo dal debito precedente (quale risultante dal pagamento della rata immediatamente anteriore) la quota capitale corrente (quella che compone la rata che si prende in considerazione), vale a dire sottraendo (contabilizzando) la rata ed aggiungendo (capitalizzando) la quota interessi. A ben vedere, l’indirizzo giurisprudenziale che trascura di 34 considerare siffatta modalità di determinazione del debito residuo conseguente al pagamento delle rate precedenti si basa sull’erroneo presupposto secondo cui ad ogni pagamento periodico di una determinata rata si verifichi una sorta di chiusura della contabilità finanziaria del mutuo ed il successivo riavvio della stessa, senza attribuire alcuna rilevanza all’avvenuta capitalizzazione degli interessi. In realtà, come ha avuto modo di sottolineare il Supremo Collegio, nel mutuo convenuto con piano di rimborso rateale e quindi con obbligo restitutorio differito nel tempo (sotto il profilo esecutivo) “acquista il carattere di contratto di durata e le diverse rate in cui quel dovere è ripartito non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica obbligazione”; di modo che “il beneficio del pagamento rateale è solo una modalità prevista per favorire il mutuatario attraverso l’assolvimento ripartito nel tempo della propria obbligazione, ma non ne consegue l’effetto di frazionare il debito in tante autonome obbligazioni”, decorrendo, non a caso, il termine di prescrizione ex art. 1957 c.c. non già dalla scadenza delle singole rate, “bensì dalla scadenza dell’ultima” (cfr. Cass. n. 2301/2004, conf. Id. n. 17798/2011).

L’affermazione contenuta nelle sentenze dianzi richiamate, secondo cui l’anatocismo risulterebbe escluso dal fatto che nel piano di ammortamento alla francese si pagherebbero gli interessi solo sul capitale ancora da restituire, restando preclusa la possibilità di calcolo degli interessi sulla componente di interessi, non tiene conto della considerazione per la quale il tasso applicato al debito residuo è funzione della quota capitale, che a sua volta dipende dal calcolo della rata costante, il cui importo, giova ribadire, è quantificato utilizzando il T.A.N. in regime di capitalizzazione composta (cfr., per analoghi rilievi, cfr. Trib. Milano, sentenza n. 5733/2014). Né, al fine di escludere l’equivalenza dell’incremento del monte interessi a quello corrispondente alla produzione di interessi su interessi può valere l’argomento secondo cui ciascuna rata comprende interessi semplici computati sul capitale residuo. In realtà, applicare il 35 tasso definito dal T.A.N. riportato in contratto per calcolare gli interessi sul debito capitale residuo comporta necessariamente l’impiego del regime composto per determinare la rata, salvo poi fare ricorso, piuttosto che al T.A.N. applicato in regime composto sul capitale in scadenza, alla soluzione, finanziariamente equivalente, dell’applicazione dello stesso T.A.N. in regime semplice sul debito residuo; soluzione, quest’ultima, che sotto il profilo matematico (ed economico) conduce al medesimo monte interessi anatocistico.

Il merito dell’approccio metodologico in esame – che va ben oltre la dianzi ricordata teorica dell’equivalenza degli effetti, sotto il profilo economico ed in dipendenza della deroga al principio di proporzionalità di cui all’art. 821 c.c., dell’applicazione del regime composto al fenomeno della produzione di interessi su interessi scaduti (nel quale si sostanzia, a norma dell’art. 1283 c.c., l’anatocismo) - consiste per l’appunto nell’aver disvelato con rigoroso criterio scientifico, in quanto tale verificabile, che una parte della quota interessi di ciascuna rata successiva alla prima è determinata dalla maturazione degli interessi sugli interessi già scaduti (e già pagati) nei periodi precedenti; conclusione che, a ben vedere, sotto il profilo giuridico si riflette nel riconoscimento di una dinamica anatocistica tout court, esattamente secondo il modello vietato dal precitato art. 1283 c.c., non già nell’affermazione di una semplice spirale esponenziale di incremento degli interessi finanziariamente equivalente al fenomeno anatocistico quale definito da tale ultima disposizione.

Con riferimento alla considerazione sub 2), tenuto conto di quanto appena precisato, è agevole rilevare che in matematica finanziaria l’ipotetico fenomeno inverso alla capitalizzazione è costituito dall’attualizzazione, che, nel contesto in esame, non assume alcuna rilevanza.

Ciò che soprattutto rileva è che risulta scorretta, sotto il profilo algebrico e finanziario, l’affermazione secondo cui nei piani di ammortamento alla francese, per quanto stilati in capitalizzazione composta nella determinazione delle rate, le quote interessi che compongono le varie rate sarebbero (necessariamente) calcolate in regime di capitalizzazione 36 semplice (in quanto ottenute come prodotto tra il tasso periodale di interesse ed il debito relativo al periodo precedente), ciò che varrebbe ad escludere in radice la possibilità di produzione di interessi anatocistici.

Tale affermazione, infatti, si attaglia soltanto all’ipotesi nella quale si abbia riguardo ad un tasso di interesse riferito ad un tempo unitario, ipotesi nella quale le funzioni del regime di capitalizzazione semplice e di quello di capitalizzazione composta coincidono; ed è proprio detta coincidenza tra tassi di interesse derivati dall’adozione dell’uno o dall’altro regime finanziario che - giova ribadire nel caso che venga prefigurato un tempo unitario - non consente di verificare in modo univoco se il calcolo degli interessi sia effettuato in base al regime della capitalizzazione semplice o a quello della capitalizzazione composta. Procedendo all’analisi escludendo la suddetta ipotesi del tempo unitario, è dato invece constatare che nell’ammortamento alla francese predisposto secondo le regole del regime della capitalizzazione composta anche le quote interessi delle singole rate sono necessariamente calcolate in base a tale regime e, per converso, in quello stilato secondo le regole della capitalizzazione semplice le quote interessi sono invece necessariamente calcolate, in termini attualizzate, in applicazione del regime di capitalizzazione semplice.

In ordine all’argomentazione n. 3), ribadita la suevidenziata struttura composita di ciascuna quota interessi delle varie rate successive alla prima (quota per una parte effettivamente calcolata sul debito capitale residuo e per l’altra proveniente dalla maturazione degli interessi sugli interessi del periodo precedente), è stato rimarcato che il meccanismo della produzione degli interessi su interessi nel regime di capitalizzazione composta è dovuto proprio alla sottrazione delle quote capitali dal debito residuo e non dall’intera rata, come dovrebbe essere.

Con riguardo all’argomentazione n. 4), non può che ribadirsi che, come già chiarito, la distinzione tra la metodologia di ammortamento alla francese e quella all’italiana, di per sé sola, non assume alcuna effettiva rilevanza rispetto al verificarsi o meno del fenomeno anatocistico, che non 37 è prodotto dalla tipologia di ammortamento, conseguendo piuttosto dalla proprietà della scindibilità delle leggi finanziarie del regime della capitalizzazione composta adottato, di modo che anche un piano di ammortamento all’italiana, ove strutturato in base a tale ultimo regime finanziario, comporta analogamente la produzione di interessi anatocistici.

Infine, in merito alla considerazione n. 5), va in primo luogo osservato che l’aderenza del piano di ammortamento alla francese al principio posto dall’art. 1194 c.c., in forza del quale i pagamenti vanno imputati prima al debito a (accessorio) per sorte interesse e dopo a quello (principale) per sorte capitale è, a ben vedere, soltanto parziale, atteso che, come già evidenziato, i pagamenti periodici, in base al medesimo piano, sono destinati ad estinguere contemporaneamente entrambe le obbligazioni, ciascuna per le quote (pre)stabilite nelle singole rate che si succedono, rate che sono composte, per l’appunto, sia da capitale che da interessi.

L’operatività del criterio di imputazione legale dell’art. 1194 c.c. (in particolare quello previsto dal comma 2, secondo cui “il pagamento fatto in conto di capitale e d'interessi deve essere imputato prima agli interessi”), peraltro, viene tradizionalmente circoscritta da consolidata giurisprudenza alle ipotesi di contemporanea sussistenza dei requisiti di liquidità e di esigibilità, sia del credito per capitale che di quello a titolo di interessi (cfr., ex plurimis, Cass. n. 10941/2016, Id. n. 6022/2003, n. 20904/2005, n. 9510/2007 e n. 16448/2009); presupposto quest’ultimo che, per quanto chiarito, non è invece ravvisabile qualora il piano sia predisposto in regime di capitalizzazione composta (in virtù del quale, giova ribadire, la quota interessi di ciascuna rata deve essere pagata prima che giunga in scadenza il capitale di riferimento sul quale sono calcolati i medesimi interessi). La disciplina posta dal citato art. 1194 c.c. è, nell’intenzione del Legislatore, per un verso norma di favore per il debitore, in quanto destinata ad assicurare allo stesso adeguata tutela sul presupposto che l’adempimento dell’obbligazione restitutoria del prestito venga regolato in sede convenzionale (ed in concreto attuato) nel rispetto del principio di proporzionalità (art. 821 c.c.) e del regime finanziario fondato 38 sull’applicazione dell’interesse semplice, corrispondente al modello legale tipico prefigurato dal Codice Civile; regime, quest’ultimo, che, in chiave matematico-finanziaria, risponde alla regola dell’additività e che, in quanto tale, prevede che l’interesse sia sempre direttamente proporzionale al capitale iniziale ed al tempo. Lo stesso art. 1194 c.c., pertanto, è una disposizione la cui ratio giustificatrice (e, di conseguenza, la cui portata applicativa) non può che essere ricostruita alla luce di un criterio interpretativo sistematico in rapporto alla complessiva disciplina legale di riferimento, dalla quale emerge l’immanente esigenza, avvertita dal Legislatore, per l’appunto di salvaguardare, sotto tale profilo, la sfera giuridica del debitore dal rischio di un eccessivo e gravoso incremento della fruttuosità del denaro (pertanto limitata al solo capitale ed esclusa in relazione agli interessi corrispettivi). Per altro verso, anche il creditore risulta adeguatamente tutelato in modo specifico proprio dall’artt. 1194 c.c., sempre che, tuttavia, in virtù di un elementare principio di coerenza sistematica, venga adottato il regime di interesse semplice: dal momento che, applicando quest’ultimo regime, gli interessi rimangono improduttivi sino alla scadenza del capitale (al quale si cumuleranno soltanto al termine del rimborso, concorrendo in tal modo a determinare il totale dell’obbligazione gravante sul mutuatario), lo stesso creditore subirebbe un danno soltanto se con il pagamento effettuato dal debitore venisse estinto il capitale (che invece è destinato per sua natura a fruttare) prima degli interessi. E’ proprio in virtù di tale considerazione (e dell’evidenziata e bilanciata ratio protettiva sottesa alla complessiva disciplina in esame, retta da un meccanismo di checks and balances) che il citato art. 1194 c.c. prevede che il debito per sorte capitale può essere saldato soltanto dopo il pagamento degli interessi, salvo che il creditore presti il consenso ad invertire tale ordine legale. L’art. 1194 c.c., pertanto, si pone come norma di chiusura di un sistema fondato sulla netta distinzione – sia sotto il profilo contabile che giuridico – tra l’obbligazione avente ad oggetto il capitale e quella relativa agli interessi, distinzione non a caso costantemente ed opportunamente ribadita nella giurisprudenza della 39 Suprema Corte; parte integrante di tale sistema (e rispetto ad esso del tutto coerente, integrandone un pilastro portante) è per l’appunto il principio per il quale gli interessi sono frutti e non si incorporano con il capitale fino al momento della domanda giudiziale o della convenzione posteriore alla loro scadenza (cfr. art. 1283 c.c.).

In virtù di tali principi, non pare quindi revocabile in dubbio che quanto disposto dall’art. 1194 c.c. risulta coerente con il sistema delineato dal Legislatore soltanto in ipotesi di simultanea ricorrenza di esigibilità e liquidità sia del capitale che degli interessi, secondo consolidata giurisprudenza della Corte regolatrice (cfr. Cass. n. 29729/2017, Id. n. 6022/2003, n. 16448/2009, n. 3359/2099, n. 20904/2005, n. 5707/1997), situazione questa che si configura sicuramente a fronte di un piano di ammortamento del finanziamento elaborato secondo il regime dell’interesse semplice. Diversamente, come già chiarito, in un piano di rimborso graduale a rate costanti (o cd. alla francese) predisposto secondo il regime dell’interesse composto le quote interessi che compongono ciascuna rata sono calcolate (per quanto, in ipotesi, in forma semplice) sul debito residuo per sorte capitale (oggetto di obbligazione non ancora scaduta, in quanto destinata ad essere estinta gradualmente con il pagamento delle rate successive), di tal che l’anticipazione della scadenza, ovvero dell’esigibilità (e quindi del pagamento) di tali quote interessi restituisce sistematicamente un monte interessi complessivo che esprime comunque, quale che sia la partizione interna della rata prescelta (tra le ipotetiche infinite variabili possibili, tutte finanziariamente equivalenti), una spirale ascendente della crescita degli interessi in chiave esponenziale, corrispondente a quella che si verifica attraverso la produzione di interessi su interessi; ciò che comporta, in siffatto scenario, il sostanziale venir meno della differenza tra capitale ed interesse, contribuendo entrambe le relative obbligazioni a determinare, in ugual modo, il prezzo del finanziamento e risultando pertanto (l’uno come gli altri) proporzionali al montante maturato anziché al capitale finanziato.

40 Sempre in tale contesto argomentativo, appare quindi oltremodo scorretto sotto il profilo giuridico argomentare la legittimità del piano di ammortamento alla francese (rectius, del ricorso al regime finanziario della capitalizzazione composta nel piano di rimborso graduale del finanziamento) con il laconico e semplicistico rilievo, contenuto in talune sentenze di merito, secondo cui esso risulterebbe conforme al principio posto dall’art. 1194 c.c. In realtà, non può confondersi la disciplina dell’imputazione dei pagamenti a fronte della compresenza del debito principale per sorte capitale e di quello accessorio relativo agli interessi (art. 1194 c.c.) con il criterio legale di produzione e di calcolo degli interessi (art. 1283 c.c.). In altri termini, le due disposizioni citate operano su piani diversi e non risultano affatto in contrasto tra loro: l’art. 1283 c.c. si riferisce al criterio per il calcolo degli interessi e da esso si evince, per quanto sin qui chiarito, l’inammissibilità del regime di capitalizzazione composta nella costruzione del piano di rimborso graduale del finanziamento a rate costanti, trattandosi di soluzione in contrasto con il divieto di anatocismo posto dalla stessa previsione; l’art. 1194 c.c., invece, si applica come criterio di imputazione del pagamento che presuppone necessariamente – in conformità alla giurisprudenza della Corte regolatrice dianzi citata – che il credito principale per capitale e quello accessorio per interessi siano “simultaneamente liquidi ed esigibili”, presupposto che, come in precedenza evidenziato, a ben vedere non si configura nel caso di mutuo con ammortamento alla francese delineato in base al regime finanziario della capitalizzazione composta; ipotesi nella quale, in costanza di applicazione del piano di rimborso concordato, la scadenza del debito per interessi (che compongono le singole rate) precede quella del capitale residuo di riferimento, sul quale essi sono computati. Ne deriva che, a ben vedere, alla disciplina posta dall’art. 1194 c.c. può aversi riguardo, in riferimento ai piani di ammortamento a rate costanti in regime di capitalizzazione composta, soltanto nelle ipotesi di chiusura anticipata del rapporto contrattuale, ad esempio, nel caso in cui il mutuo venga estinto anticipatamente dal cliente o in quello nel quale la 41 banca, a fronte dell’’inadempimento nella corresponsione delle rate di cui si sia reso responsabile quest’ultimo, eserciti il diritto potestativo di recesso anticipato dal contratto (avvalendosi della clausola risolutiva espressa solitamente nello stesso contenuta), iniziativa che vale a rendere esigibile immediatamente anche l’obbligazione inerente al capitale, proprio per effetto dell’esercizio di tale facoltà attribuita al mutuante e della conseguente decadenza del debitore dal beneficio del termine; evenienze, quelle appena menzionate, nelle quali i pagamenti effettuati fino a quel momento andranno per l’appunto imputati prima agli interessi e poi al capitale (che ormai, per l’appunto in ragione dell’intervenuta decadenza dal beneficio del termine implicata dall’effetto risolutivo e della conseguente esigibilità della relativa obbligazione, non potrà più fruttare), secondo quanto prescritto dal succitato art. 1194 c.c..

In definitiva, attraverso l’adozione, nella predisposizione del piano di ammortamento alla francese, del T.A.N. contrattuale in regime di capitalizzazione composta ai fini della determinazione delle rate, in mancanza di esplicita menzione del ricorso a detto regime finanziario nel contratto, lo stesso potrebbe configurarsi nullo per indeterminatezza dell’oggetto, in forza del combinato disposto di cui agli artt. 1418 e 1346 e 1284 c.c. c.c.; a tale conclusione sarebbe dato pervenire ove si consideri che, come ha avuto modo di chiarire la Corte regolatrice, “in tema di contratti di mutuo, affinché una convenzione relativa agli interessi sia validamente stipulata ai sensi dell’art. 1284, 3° comma, c.c., che è norma imperativa, deve avere forma scritta ed un contenuto assolutamente univoco in ordine alla puntuale specificazione del tasso di interesse” (cfr. Cass. n. 12276/2010, conf. Id. n. 2072/2013, n. 25205/2014). Qualora, invece, vi fosse un’effettiva consapevolezza da parte del mutuatario (e quindi volontà in capo allo stesso) in ordine all’utilizzo di tale regime finanziario (ed agli effetti che ne derivano con riguardo alla quantificazione della complessiva obbligazione restitutoria, comprensiva dei relativi interessi), in ragione dell’esplicito riferimento a detto regime contenuto in 42 contratto, in siffatta ipotesi – tale, giova precisare, da consentire di escludere qualsivoglia asimmetria informativa tra i contraenti ed ogni possibile limite conoscitivo o equivoco di sorta in capo al mutuatario in ordine all’effettiva portata economica e giuridica del vincolo negoziale (in particolare, con specifico riferimento all’incremento esponenziale degli interessi, in misura superiore rispetto a quella che sarebbe rinveniente dall’applicazione della capitalizzazione semplice) – dovrebbe allora coerentemente concludersi che, attraverso l’adozione dello stesso regime composto e la correlata previsione del calcolo degli interessi sul debito che residua ad ogni scadenza, verrebbe realizzata una sostanziale elusione dell’art. 1283 c.c. e dell’art. 120 T.U.B., risolvendosi in tal caso la stipulazione del contratto in una violazione indiretta della stessa disciplina imperativa, compiuta con una pattuizione negoziale (per l’appunto in virtù del richiamo in contratto al piano di ammortamento allegato predisposto con quel regime finanziario) fondata su un comune e consapevole intento fraudolento dei contraenti; in altri termini, potrebbe in tal caso configurarsi un contratto in frode alla legge, tale essendo, ex art. 1344 c.c., quello diretto a perseguire uno scopo o un effetto vietato dalla Legge e che costituisce “il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa” (l’art. 1283 c.c.), con conseguente illiceità della causa dello stesso contratto. Nell’uno come nell’altro caso – vale a dire, giova precisare, sia ipotizzando l’indeterminatezza dell’effettivo costo del finanziamento (in quanto tale integrante una nullità attinente all’oggetto del contratto), sia ricostruendo la relativa pattuizione come connotata da consapevole e comune intenzione dei contraenti in contrasto con la disciplina imperativa posta dagli artt. 1283 c.c. e 120 T.U.B. e quindi elusiva della stessa (ipotesi riconducibile ad una nullità correlata all’illiceità della causa) - si configurerebbe comunque una nullità meramente parziale del contratto di mutuo, in quanto pertinente, per l’appunto, soltanto alla clausola relativa agli interessi applicati in funzione di remunerazione del finanziamento in favore della parte mutuante; con conseguente necessità di fare ricorso al meccanismo di eterointegrazione normativa in riferimento alla medesima 43 clausola nulla, vale a dire sostituendo il tasso (invalido) previsto in contratto con il tasso legale, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1419 comma 2, 1339 e 1284 comma 3 c.c..

Ciò posto, va peraltro ribadito che, nel caso di specie, parte attrice ha chiesto la declaratoria di nullità della clausola relativa agli interessi per indeterminatezza della relativa pattuizione soltanto in via subordinata, essendo la domanda principale tesa all’accertamento della nullità parziale della predetta clausola in ragione dell’usurarietà del tasso applicato al rapporto ed al conseguente ricorso della sanzione stabilita ex art. 1815 comma 2 c.c., consistente nella conversione ope legis del mutuo feneratizio in mutuo gratuito.

Le considerazioni in precedenza svolte – in particolare con riferimento all’effetto anatocistico del regime finanziario composto utilizzato nel piano di ammortamento – assumono comunque rilievo anche nel contesto da ultimo indicato, per le ragioni che si esporranno di seguito.

Dell’incremento esponenziale degli interessi indotto dal regime finanziario composto adottato nel piano di ammortamento, infatti, non può non tenersi conto ai fini del controllo antiusura in sede giudiziale. In particolare, in virtù della corresponsione anticipata delle rate (mensili) rispetto alla scadenza annuale, il costo effettivo del finanziamento per il mutuatario (espresso dal cd. T.A.E.) non è pari al tasso nominale previsto in contratto (T.A.N., nel caso in esame 5,45%), bensì superiore rispetto a quest’ultimo. Nella fattispecie, in base a quanto accertato dal C.T.U., il tasso mensile è pari a 0,0046% (5,45% / 12). Proiettando il predetto tasso mensile su base annuale, usando la formula del tasso equivalente in regime di interesse composto (secondo la formula i= (1+ik)k/h-1, dove k è il numero di periodi in un anno, h il numero di periodi di conversione ed i il tasso nominale), emerge che il T.A.E., vale a dire il costo effettivo annuo del finanziamento - al netto di spese, commissioni ed oneri accessori (la cui incidenza viene considerata nel T.A.E.G.) ed incluso anche il suevidenziato costo aggiuntivo determinato dall’applicazione del regime di 44 capitalizzazione composta nel piano di ammortamento alla francese - corrisponde al 5,67 (5,45% + 0,22%). Siffatta divergenza di tasso deriva per l’appunto dalla formula della capitalizzazione composta attraverso la quale vengono determinate le rate (già nel momento genetico della convenzione creditizia), formula che comporta l’incremento del tasso effettivo con il crescere del frazionamento del rimborso del debito; ciò che significa, in sostanza, che più sono le rate, più costa il mutuo.

Raffrontando il T.A.E.G. dell’operazione creditizia in esame - “comprensivo di commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse” (vale a dire, in particolare, in relazione al contratto di mutuo oggetto causa, comprensivo dell’incidenza percentuale delle spese di assicurazione (cfr. Cass. n. 8806/2017), di quelle di gestione della pratica, della commissione pattuita, delle spese per l’incasso delle rate, della commissione di estinzione anticipata), oltre che del T.A.E. suindicato – e ciò in conformità al disposto di cui all’art. 644 comma 3 c.p. (come novellato dall’art. 1 della L. n. 108/1996), il C.T.U. ha quindi concluso rimarcando il superamento del tasso soglia in vigore per la tipologia di finanziamento oggetto di causa (7,65%) alla data della stipulazione del contratto di mutuo (22.02.2007) – momento cui occorre avere riguardo ai fini della verifica antiusura, ai sensi del disposto di cui all’art. 1 del D.L. n. 394/200 (convertito in L. n. 24/2001) – del 2,53% o del 7,98%, a seconda che venga preso in considerazione, ai fini del calcolo del T.A.E.G., il solo spread in base al quale risulta concordato in contratto il tasso degli interessi moratori (pattuito in misura pari al 2% in più di quello degli interessi corrispettivi), ovvero l’intero tasso degli interessi di mora, tenuto conto che questi ultimi risultano pattuiti come dovuti sull’intero ammontare delle rate insolute (comprensive non soltanto della quota capitale, ma anche della quota interessi corrispettivi), in forza dell’espresso tenore dell’art. 4 del medesimo contratto di mutuo, ai sensi della quale, per l’appunto, “In caso di ritardato pagamento di ogni importo a qualsiasi titolo dovuto, in dipendenza del mutuo, anche in caso di 45 decadenza dal beneficio del termine e di risoluzione del contratto, decorreranno di pieno diritto, a partire dal giorno di scadenza, interessi di mora a favore della Banca nella misura del tasso contrattuale maggiorato di 2 (due) punti percentuali in ragione d’anno”. Siffatta previsione pattizia risulta invero conforme all’art. 3 della Delibera C.I.C.R. del 09.02.2000 (disciplina in vigore alla data di sottoscrizione del contratto di mutuo per cui è giudizio) – emanata in attuazione dell’art. 120, comma 2 T.U.B. all’epoca in vigore, come modificato dall’art. 25 del D.Lgs. n. 342/1999 (in virtù del quale allo stesso C.I.C.R. venne demandato il potere di determinare “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria”) - disposizione che, per l’appunto con riferimento ai finanziamenti con piano di rimborso rateale strutturato con scadenze periodiche predefinite, stabiliva espressamente che “in caso di inadempimento del debitore l'importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento”. Tale ultima previsione della succitata Delibera e la conseguente legittimità della pattuita maggiorazione del tasso moratorio sull’intera rata insoluta alla scadenza non valgono, evidentemente, ad escludere l’esigenza di tener conto dell’incidenza del tasso di interesse di mora concordato dalle parti, trattandosi pur sempre di voce rilevante, in quanto “collegata all’erogazione del credito”, ai sensi del succitato art. 644 comma 4 c.p., ai fini della determinazione del T.E.G. dell’operazione creditizia in esame e, quindi, del raffronto tra lo stesso ed il tasso soglia relativo alla predetta tipologia di operazione di riferimento, vale a dire ai fini della verifica del rispetto della disciplina antiusura.

In tale contesto, la questione fondamentale è accertare se, ai fini del vaglio antiusura, nel contratto di mutuo – e quindi nell’ambito del raffronto tra il tasso soglia ed il T.E.G. dell’operazione creditizia - gli interessi 46 corrispettivi e di quelli moratori debbano cumularsi (rectius, come verrà chiarito, vadano considerati come un unico aggregato omogeneo e ponderato), ovvero, più precisamente, se si debba tenere conto anche di questi ultimi per la finalità appena indicata.

Su tale questione, in giurisprudenza si sono formati vari orientamenti.

In talune pronunce di merito si afferma che degli interessi moratori non dovrebbero essere presi in considerazione ai fini del calcolo del T.E.G. e, quindi, del raffronto con il tasso soglia proprio della categoria di finanziamento di riferimento; e ciò sul rilievo della diversità ontologica e funzionale delle due tipologie di interessi in questione: necessaria e remunerativa quanto ai primi (costituendo essi il corrispettivo per la banca della concessione del prestito), eventuale, risarcitoria ed al contempo sanzionatoria quanto ai secondi (in quanto dovuti quale ristoro per il ritardo nell’inadempimento del mutuatario nel pagamento delle rate, ovvero a fronte del deterioramento del sinallagma del rapporto ed, al contempo, diretti a fungere da coazione indiretta per dissuadere il debitore dall’inadempimento, essendo quindi, sotto tale profilo, assimilabili alla clausola penale); di tal che, le due diverse tipologie di interessi si configurerebbero, per loro stessa natura, alternative tra loro, nel senso che, a fronte dell’inadempimento, sarebbero dovuti dal mutuatario esclusivamente quelli moratori (applicabili nella fase “patologica” del rapporto contrattuale), non già anche quelli corrispettivi (operanti invece nella fase di “fisiologica” esecuzione del vincolo obbligatorio), dovendosi quindi escludere in radice qualsivoglia possibilità di sommatoria degli uni e degli altri interessi ai fini del calcolo del T.E.G. e del raffronto dello stesso con la soglia antiusura. Le Istruzioni della Banca d’Italia del 30.09.1996 e quelle che ad esse sono seguite hanno per l’appunto escluso dal calcolo del T.E.G. oggetto di rilevazione (“gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente previsti per il caso di inadempimento di un obbligo”); analogamente, l’art. 3, comma 4 del D.M. del 27.06.2011 e quelli allo stesso succeduti, emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1 della L. 47 n. 108/1996 ed inerenti ai tassi effettivi globali medi relativi alle varie categorie di operazioni, hanno escluso gli interessi moratori dal novero delle voci di costo del finanziamento rilevanti ai fini della determinazione del T.A.E.G.M. (“ I tassi effettivi globali medi di cui all'articolo 1, comma 1, del presente decreto non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento”).

In realtà, vari argomenti ermeneutici, sia letterali che di ordine logico e sistematico, inducono l’interprete a considerare preferibile l’opposto indirizzo - del resto ormai recepito, con diversi recenti ed univoci arresti, anche dalla Corte di Cassazione – che riconosce la necessità di verificare il rispetto del tasso soglia anche in relazione agli interessi moratori.

In primo luogo, rileva l’ineludibile dettato normativo, atteso che l’art. 644 comma 4 c.c. fa espresso ed indistinto riferimento, come già evidenziato, a qualsiasi spesa, commissione o remunerazione che risulti, “a qualsiasi titolo”, collegata all’erogazione del credito; avendo in tale contesto l’articolo unico della L. n. 24/2001 (di interpretazione autentica della L. n. 108/1996), chiarito che “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 del codice penale e dell’art. 1815 del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”. Come ha avuto modo di evidenziare eloquentemente la Corte regolatrice, è proprio il succitato espresso riferimento agli “interessi a qualunque titolo convenuti”, che “rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto… secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori" (cfr. Cass. n. 5324/2003); di tal che “non v'è ragione per escluderne l'applicabilità anche nelle ipotesi di assunzione dell'obbligazione di corrispondere interessi moratori", atteso che "il ritardo colpevole non giustifica di per sé il permanere della validità di un'obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge" (cfr. Cass. n. 5286/2000). Trattasi di principio che costituisce ormai ius receptum nella giurisprudenza della 48 medesima Corte di legittimità (Cass. n. 14899/2000, Id. n. 5286/2000 cit., n. 8742/2001, n. 8442/2002, n. 17813/2002, 5324/2003, n.10032/2004, n.15497/2005, n. 6992/2007, n. 9896/2008 (in parte motiva), n. 9532/2010, n. 1748/2011, n. 11632/2010, n. 9532/2010, n. 602/2013, n. 350/2013, n. 5598/2017, n. 23192/2017 e, da ultima, Cass. n. 27442/2018). Come ha chiarito lo stesso Supremo Collegio, “non v'è ragione per escluderne l'applicabilità anche nelle ipotesi di assunzione dell'obbligazione di corrispondere interessi moratori", atteso che "il ritardo colpevole non giustifica di per sé il permanere della validità di un'obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge" (cfr. Cass. n. 5286/2000 cit.). ll principio appena enunciato, peraltro, ha trovato autorevole conferma anche nella fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 25.02.2002, pronuncia con la quale, nel valorizzare il succitato riferimento fatto dal Legislatore agli “interessi a qualunque titolo convenuti”, la medesima Consulta ha rimarcato, per l’appunto, che la previsione normativa del tasso soglia riguarda “anche gli interessi moratori”; più precisamente: “Va in ogni caso osservato – ed il rilievo appare in sé decisivo – che il riferimento, contenuto nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, agli interessi <> rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori” (cfr. Corte Cost., sent. n. 29/2002 cit.). La ricostruzione della fattispecie criminosa come reato istantaneo, nel senso che esso si consuma al momento della pattuizione degli interessi (non in quello della scadenza della relativa obbligazione o del suo pagamento), in conformità alla norma di interpretazione autentica (L. 24/2001), conferma che gli interessi moratori, per quanto eventuali (la relativa obbligazione sorge solo in caso di inadempimento), sono comunque convenuti ab origine, esattamente come quelli corrispettivi (essendo la ratio della norma integrata quindi per gli uni come per gli altri).

49 Va inoltre considerato che la L. n. 108/1996 ha individuato un unico criterio ai fini dell'accertamento del carattere usurario degli interessi (la formulazione dell'art. 1, comma 3 ha valore assoluto in tal senso), operando distinzioni secondo le diverse categorie di crediti per sorte capitale rispetto ai quali maturano gli interessi, non già secondo la natura e la funzione degli interessi medesimi (corrispettiva o moratoria), e che, già anteriormente all’entrata in vigore della richiamata disciplina legislativa antiusura, “nel sistema era già presente un principio di omogeneità di trattamento degli interessi, pur nella diversità di funzione, come emerge anche dell'art. 1224, 1 comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura" (cfr. Cass. n. 5286/2000 cit.). Non può inoltre trascurarsi di considerare, in tale contesto, il rilievo ermeneutico dei lavori preparatori concernenti la disciplina in esame, segnatamente il testo della Relazione Governativa di presentazione al Parlamento del D.L. n. 394/2000, convertito in L. n. 24/2001, nel quale si legge: “L’articolato fornisce al comma 1 l’interpretazione autentica dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 comma secondo c.c.. Viene chiarito che quando in un contratto di prestito sia convenuto il tasso di interesse (sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio) il momento al quale riferirsi per verificare l’eventuale usurarietà sotto il profilo sia penale che civile è quello della conclusione del contratto a nulla rilevando il pagamento degli interessi”; risultando evidente che la pattuizione degli interessi al momento della stipulazione si riferisce tanto a quelli corrispettivi quanto a quelli moratori, essendo volontà del Legislatore quella di prendere in considerazione, agli effetti della disciplina in esame, ogni tipo di interessi, a prescindere dalla loro funzione, costituendo anche la pattuizione o la promessa di interessi usurari per il caso della mora del debitore uno strumento di abuso della posizione del creditore mutuante e di sfruttamento della difficoltà economica del primo.

In tale contesto, la ricostruzione della fattispecie criminosa come reato 50 istantaneo, nel senso che si consuma al momento della pattuizione degli interessi (non a quello della scadenza della relativa obbligazione o del suo pagamento), in conformità alla succitata norma di interpretazione autentica (L. 24/2001), conferma ulteriormente che gli interessi moratori, per quanto eventuali (la relativa obbligazione sorge infatti solo in caso di inadempimento), sono comunque convenuti ab origine, così come quelli corrispettivi (essendo la ratio della norma integrata quindi per gli uni come per gli altri). La verifica del superamento del tasso soglia va quindi compiuta, per espressa voluntas legis, non già tenendo conto del tasso nominale applicato al rapporto, bensì del tasso effettivo globale, che comprende una serie, un aggregato di costi del finanziamento comunque collegati all’erogazione del credito, non assumendo pertanto a tal fine rilievo la mera remunerazione (nominale) del prestito (consistente negli interessi corrispettivi) ed essendo conseguentemente irrilevante il nomen juris delle varie voci di costo da prendere in considerazione; tanto che l’art. 644, al comma 1, nel descrivere la condotta tipica dell’ipotesi criminosa, fa espresso riferimento al farsi “dare o promettere”, “per sé o per altri”, “interessi o altri vantaggi usurari”, “sotto qualsiasi forma” ed “in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità”; valorizzando al comma 4, ai fini della relativa verifica, ogni voce che contribuisca a determinare il costo complessivo effettivo del finanziamento e che va quindi presa in considerazione allo scopo di raffrontare il tasso soglia con il T.E.G. della singola operazione creditizia (“Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”). In altri termini, per espressa voluntas legis, il paradigma del controllo antiusura è costituito da un aggregato di diverse componenti (nel loro complesso integrante il costo del finanziamento), aggregato nell’ambito del quale gli interessi (corrispettivi o moratori che siano), intesi nel tradizionale senso civilistico del termine, costituiscono soltanto uno dei vari elementi. Ed è proprio in 51 considerazione dell’omnicomprensività semantica e giuridica di tale aggregato di flussi finanziari - che, nel suo complesso, costituisce il costo del finanziamento e che si esprime nel T.E.G. - che emerge in tutta la sua inconcludenza il dibattito circa l’esigenza di tenere conto o meno degli interessi moratori ai fini del vaglio antiusura; e ciò in quanto, una volta constatato che anch’essi (così come quelli corrispettivi) risultano comunque “collegati all’erogazione del credito” (ai sensi dell’art. 644 comma 4 c.p.), sia pure nell’ambito di uno dei possibili scenari (quello dell’evoluzione “patologica” del rapporto conseguente all’inadempimento), ne deriva che non possono che essere compresi nel predetto T.A.E.G., rispetto al quale va operato il raffronto con il tasso soglia dell’operazione creditizia di riferimento.

In chiave sistematica, del resto, la disciplina civilistica (art. 1815 c.c.) e penalistica (art. 644 c.p.) in materia, così come la definizione generale di interessi moratori (artt. 1 e 2 della L. n. 108/1996), fa uso del termine “interessi” senza particolari declinazioni ed attributi, ciò che rende plausibile un’interpretazione massimamente espansiva della portata delle norme de quibus, tale da riferirsi a qualsiasi specie di "interessi" convenzionalmente previsti; mentre quando il Legislatore ha inteso escludere in materia di usura il rilievo di taluni oneri o costi - come, ad esempio, quelli fiscali - lo ha fatto con espressa previsione (art. 644 comma 4 c.p.). Alla luce di un’interpretazione logico-sistematica, attenta alla ratio protettrice ad essa sottesa, la stessa inclusione nel T.E.G. delle commissioni di massimo scoperto per effetto dell’art. 2 bis del D.L. 29.11.2008 n. 186, convertito in L. n. 2/2009, costituisce un significativo argomento a sostegno dell’irrilevanza della distinzione tra oneri economici fisiologici e patologici ai fini del controllo antiusura, atteso che dette commissioni (anch’esse collegate all’erogazione del credito) riflettono (esattamente come gli interessi di mora nel mutuo) la patologia del rapporto, che, in particolare, si esprime nello scoperto del conto corrente o nello sconfinamento di fido, come ha avuto modo di evidenziare la Corte 52 regolatrice, laddove ha l’appunto precisato che “il chiaro tenore letterale dell'art. 644 c.p., comma 4… impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito” (cfr. Cass. Pen. n. 12028/2010, parte motiva). Ricollegare l’illecito usurario alla dazione o alla promessa di “interessi o altri vantaggi” “in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità” varrebbe - almeno apparentemente - a circoscrivere il fenomeno usurario alla pattuizione dei soli interessi corrispettivi, ma tale rilievo trascura di considerare la dirimente (ed ineludibile) portata esegetica del già citato art. 1 del D.L. n. 394/2000 (convertito in L. n. 24/2001), in virtù dell’espresso riferimento ivi contenuto agli interessi “convenuti a qualunque titolo”; dovendosi quindi considerare che è proprio il riferimento agli “altri vantaggi” usurari presente nell’art. 644 c.p. che consente ragionevolmente di ricondurre all’ambito applicativo della stessa disposizione anche gli interessi moratori, avendo essi la funzione di ristoro predeterminato e forfettario del danno da ritardo nell'adempimento dell’obbligazione pecuniaria ed essendo sicuramente destinati, in quanto tali, ad incidere sull’onerosità del prestito. In buona sostanza, un’interpretazione dell'inciso "in corrispettivo" di tipo logico- sistematico consente di riconnettere tale espressione alla pattuizione tanto degli interessi quanto degli altri vantaggi, laddove si intenda la corrispettività non già quale mero attributo descrittivo degli interessi, bensì, in conformità al tenore logico-testuale del citato art. 644 c.p., come connotato afferente alla funzione degli stessi interessi o vantaggi nell’ambito della complessiva portata causale del rapporto contrattuale: l'inciso “in corrispettivo” ha, infatti, come punto di riferimento, nella struttura della fattispecie criminosa, la descrizione della condotta tipica del "farsi dare o promettere", sicché la corrispettività degli interessi, così come degli altri vantaggi, va valutata in rapporto al profilo causale della loro pattuizione ed in relazione a tutti i possibili scenari (fisiologici o patologici che siano) configurabili nell’evoluzione del rapporto medesimo in fase 53 esecutiva. Ne deriva che anche la previsione di interessi moratori (così come quella di una clausola penale), pur avendo l’intrinseca finalità di forfettaria ed anticipata liquidazione del danno da ritardato adempimento dell’obbligazione pecuniaria, assume di fatto, nell'ottica del creditore, una finalità di corrispettivo della concessione del credito. Ciò in quanto il creditore si cautela (attraverso la convenzionale stipulazione di un tasso moratorio più elevato di quello legale) contro i possibili effetti pregiudizievoli dell’inadempimento o dell’adempimento tardivo dell’obbligazione restitutoria del mutuatario; e tale previsione negoziale ben può assumere, nella complessiva economia concreta del contratto, un rilievo connesso al livello di rischio-inadempimento esplicitato già in fase di predisposizione dell’accordo contrattuale in relazione allo specifico contraente-debitore o alla categoria cui questi appartiene. Pertanto, il riferimento contenuto nell’art. 644 c.p. al “corrispettivo” – alla stregua di un’interpretazione logico-sistematica della disposizione, aderente alle esigenze di tutela sottese ed alla ratio della disciplina protettiva in esame - non significa affatto che solo gli interessi corrispettivi possono dare luogo al reato di usura. Il reato è infatti integrato qualora vi sia una “corrispettività” (id est, in termini contrattuali, un sinallagma causale) tra una dazione di denaro ed un vincolo giuridico (consistente anche solo in una promessa), che possa consentire al mutuante di ottenere vantaggi (tra i quali anche interessi) sproporzionati rispetto al valore del denaro; ciò che rende evidente che la nozione di “corrispettività”, nella portata precettiva della stessa disposizione, non attiene alla natura degli interessi o della utilità de quibus, bensì alla riferibilità degli interessi medesimi alla sfera giuridica della parte cui essi sono destinati ed alla correlazione degli stessi alla concessione del finanziamento (essendo essi, in tal guisa, pur sempre “correlati all’erogazione del credito”, ai fini della verifica antiusura di cui all’art. 644 comma 4 c.p.).

In definitiva, è la stessa Legge a conferire omogeneità, ai fini del controllo antiusura, ai due diversi tipi di interesse, a prescindere dalla loro diversa 54 natura: se infatti geneticamente e funzionalmente gli interessi corrispettivi e quelli moratori sono tra loro diversi, è il Legislatore che li ha resi omogenei, al fine di evitare il grave fenomeno dell’usura bancaria, in riferimento all’identica sanzione civilistica imposta ex art. 1815, comma 2 c.c.. La diversa natura delle varie voci di costo del mutuo non impedisce certo, secondo il dettato e lo spirito della Legge, la loro aggregazione; diversamente opinando, del resto, per coerenza si dovrebbe escludere anche, ai fini della determinazione del T.E.G., la cumulabilità degli interessi con le commissioni di massimo scoperto e con le spese previste nel contratto di conto corrente bancario, cumulabilità che invece non pare ormai più revocabile in dubbio (come del resto riconosciuto nelle stesse più recenti istruzioni della Banca d’Italia).

In tale contesto, va rimarcato che, con la recente ordinanza n. 23192 del 04.06.2017, la Corte regolatrice ha ribadito, richiamando analoga precedente pronuncia (cfr. Cass., sentenza n. 5598 del 06.03.2017), che, “in tema di contratto di mutuo, l'art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (Cass. 4 aprile 2003, n. 5324)”; giudicando quindi espressamente erronea la decisione con la quale il Tribunale aveva invece ritenuto “in maniera apodittica che il tasso di soglia non fosse stato superato nella fattispecie concreta, solo perché non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori al fine di accertare il superamento del detto tasso”. Anche con riferimento agli interessi moratori (da sempre esclusi dal novero degli oneri e costi presi in considerazione nella formula elaborata in base alle circolari della Banca d’Italia ai fini del calcolo del T.E.G.), la giurisprudenza di legittimità ha quindi attribuito esclusiva rilevanza alla disciplina di Legge, piuttosto che alle istruzioni impartite dall’organo di vigilanza bancaria e dirette agli operatori finanziari.

55 Ancor più recentemente, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 27442/2018, pubblicata il 30.10.2018, ha ribadito ancora una volta l’esigenza di raffrontare il tasso soglia anche agli interessi moratori ai fini del controllo di legalità in sede giudiziale: “gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti a un tasso eccedente quello stabilito dall’art. 2, comma 4, l. 7.3.1996 n. 108, vanno qualificati ipso iure come usurari”, trattandosi di disciplina applicabile “sia agli interessi promessi come remunerazione d’un capitale o della dilazione d’un pagamento (interessi corrispettivi: art. 1282 c.c), sia agli interessi dovuti in conseguenza della costituzione in mora (interessi moratori: art. 1224 c.c.)”. A tale conclusione il Supremo Collegio è pervenuto operando un analitico excursus storico-giuridico inerente alla loro natura e funzione ed aderendo ex professo alle medesime considerazioni dianzi svolte, già da tempo sostenute da questo stesso giudicante in altre precedenti pronunce in materia, vale a dire passando diffusamente in rassegna gli argomenti interpretativi sin qui esposti: quello letterale, desunto dal tenore dell’art. 644 commi 1 e 3 c.p., dall’art. 2, comma 4 della L. n. 108/1996 e dall’art. 1 comma 1 del D.L. 29.12.2000 n. 394, convertito in L. n. 24/2001, non operando tali previsioni alcun discrimine di sorta in base alla natura ed alla funzione degli interessi, assumendo essi in tale contesto rilievo quale che sia il “titolo” per il quale siano promessi o convenuti, trovando del resto l’assoggettamento anche degli interessi moratori alla normativa antiusura riscontro anche nei lavori preparatori della citata L. n. 24/2001 (in particolare, nel § 4 del disegno di legge S-4941 presentato nella XIII legislatura, laddove si precisò che il testo normativo aveva per l’appunto la funzione di chiarire come dovesse essere valutata l’usurarietà di qualsiasi tipo di interesse, “sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio”, quindi senza limitazioni o eccezioni di sorta); quello sistematico, in considerazione del fatto che sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori hanno comunque la medesima funzione, consistente, in conformità alla tradizione giuridica romanistica, nel reintegrare la sfera 56 giuridica del creditore a fronte della rinuncia alla disponibilità del capitale concesso e quindi alla naturale fruttuosità dello stesso (compensando i primi e ristorando i secondi detta rinuncia): “così come chi dà a mutuo una somma di denaro legittimamente esige un interesse, perché deve essere compensato della privazione di un bene fruttifero (il capitale), allo stesso modo chi non riceve tempestivamente la somma dovutagli deve essere compensato dei frutti che quel capitale gli avrebbe garantito se ne fosse rientrato tempestivamente in possesso”, identificandosi del resto il danno da inadempimento o da ritardato adempimento dell’obbligazione pecuniaria, ex art. 1224 c.c., per l’appunto “nella perduta possibilità per il creditore di investire la somma dovutagli, e trarne un lucro finanziario” (“danno presunto dal legislature iuris et de iure nel suo ammontare minimo, che non può essere inferiore al tasso legale”, ai sensi dell’art. 1224 comma 1 c.c.), di tal che “tanto gli interessi compensativi, quanto quello convenzionali moratori, ristorano … il differimento nel tempo del godimento d’un capitale”, differendo tra loro esclusivamente nella fonte (“solo il contratto nel primo caso, il contratto e la mora nel secondo”) e nella decorrenza (“immediata per i primi, differita ed eventuale per i secondi”), non già nella funzione; il criterio interpretativo finalistico, fondato sulla ratio legis (consistente, al contempo, nel “duplice scopo di tutelare da un lato le vittime dell’usura e dall’altro il superiore interesse pubblico all’ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche”) induce a ritenere “incoerente con la finalità perseguita” l’esclusione della pattuizione inerente agli interessi moratori dall’ambito applicativo della disciplina antiusura, dovendosi del resto ragionevolmente escludere il “risultato paradossale” che, diversamente opinando, renderebbe per il creditore “più vantaggioso l’inadempimento che l’adempimento”, incentivando il ricorso a “pratiche fraudolente”, come quella di “fissare termini di adempimento brevissimi, per far scattare la mora e lucrare interessi non soggetti ad alcun limite”; anche l’analisi dell’istituto fondata sull’interpretazione “storica” della disciplina antiusura, infine, dimostra che 57 “gli interessi moratori sorsero per compensare il creditore dei perduti frutti del capitale non restituito e quindi per riprodurre, sotto forma di risarcimento, la remunerazione del capitale”, essendo la distinzione funzionale tra interessi corrispettivi e moratori sorta storicamente non per sottrarre questi ultimi “alle leggi antiusura”, bensì al fine di “aggirare il divieto canonistico di pattuire interessi tout court”. Con la stessa ordinanza, la Suprema Corte ha quindi esplicitamente qualificato “la pretesa distinzione ontologica e funzionale tra le due categorie di interessi” – che, in ogni caso, non varrebbe ad escludere l’assoggettamento degli interessi di mora all’applicazione della Legge n. 108/1996 – come un “aforisma scolastico” e persino come un “falso storico”; essendo il fatto che il danno (da lucro cessante) che il creditore subisce per l’adempimento tardivo dell’obbligazione pecuniaria da parte del debitore, così come quello che gli deriva dalla tardiva restituzione del capitale a quest’ultimo concesso a mutuo, venga liquidato in forma di interessi, a ben vedere, null’altro che “una convenzione”, ciò che vale ad elidere, in buona sostanza, agli effetti giuridici in trattazione, la distinzione funzionale tra interessi corrispettivi e moratori (cfr. Cass. ord. n. 27442/2018 del 30.10.2018 cit.). La medesima Corte, con la pronuncia in esame, ha quindi eloquentemente ricondotto siffatta distinzione a quelle “purtroppo non rare tralaticie affermazioni, spesso irriflessivamente reiterate”, dal cui abuso il monito delle Sezioni Unite Civili dello stesso Supremo Collegio, con la sentenza n. 12310 del 15.06.2015, hanno “messo in guardia” l’interprete, laddove è stata indicata, come “precondizione necessaria” dell’attività ermeneutica, la necessità di “sgomberare il campo di analisi da … espressioni sfuggenti ed abusate, che hanno finito per divenire dei mantra ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato”; ciò che “serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale, nonché la pigrizia esegetica” (cfr. Cass. SS.UU. n. 1531072015 cit.).

58 Né può rinvenirsi un argomento convincente a sostegno della esclusione degli interessi moratori dal T.E.G. ai fini della L. n. 108/1996 nella disciplina di cui all'art. 19, paragrafo 2 della Direttiva 2008/48 CR del 23 aprile 2008 in tema di credito al consumo, che stabilisce i criteri per determinare il T.A.E.G., chiarendo, per l’appunto, che “Al fine di calcolare il tasso annuo effettivo globale, si determina il costo totale del credito al consumatore, ad eccezione di eventuali penali che quest’ultimo sia tenuto a pagare per la mancata esecuzione di uno qualsiasi degli obblighi stabiliti nel contratto di credito e delle spese, diverse dal prezzo acquisto, che competono al consumatore all'atto dell'acquisto, in contanti o a credito, di merci o di servizi"; da tale norma si dovrebbe desumere l'esclusione dalla nozione unitaria di Tasso Annuo Effettivo Globale (T.A.E.G.) degli interessi moratori, da intendersi assimilati alle penali contrattuali.

L’argomento, per quanto suggestivo, non pare convincente, attesa l’evidente diversità di funzione della disciplina consumeristica appena citata rispetto a quella che caratteristica la legislazione antiusura. La prima, infatti, definisce il T.A.E.G. ai fini limitati della applicazione dell’anzidetta Direttiva, finalizzata ad assicurare una trasparente scelta del consumatore che acceda al mercato del credito, imponendo una serie di obblighi ai prestatori di servizi finanziari afferenti al credito al consumo: posto che, a tali fini, l’indicazione del T.A.E.G. deve consentire al consumatore un’oculata e ponderata valutazione delle prospettazioni dell'intermediario o dell'impresa bancaria, è ragionevole che in esso non siano presi in considerazione che i costi e gli oneri globali connessi al credito esclusivamente nella fisiologia del rapporto negoziale. Del tutto estranei e divergenti risultano, invece, le finalità della L. n. 108/1996; di tal che deve escludersi che la (limitata e specifica) nozione di T.A.E.G. di cui alla disciplina consumeristica di fonte europea condizioni la ricostruzione delle nozioni di Tasso Effettivo Globale Medio (ai fini delle rilevazioni imposte dal Ministero dell'Economia dall'art. 2 L. n. 108 del 1996) o di Tasso Effettivo Globale (ai fini della verifica in concreto del superamento 59 del tasso soglia di cui all'art. 644 c.p. ed all’art. 1815 comma 2 c.c.).

Quanto appena esposto trova riscontro nella stessa suindicata ordinanza 27442/2018 dianzi citata, con la quale, nell’escludere che al controllo di legalità inerente agli interessi moratori possa procedersi attraverso un incremento del tasso soglia previsto ex lege in misura corrispondente alla maggiorazione media dei tassi di mora praticati sul mercato per le varie categorie di operazioni creditizie, in modo da elaborare una sorta di tasso soglia moratorio, si è al riguardo rimarcato che “è impossibile, in assenza di una norma di legge in tal senso, pretendere che l’usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base non al saggio rilevato in base all’art. 2 l. n. 108/1996, ma in base a un fantomatico tasso, talora definito nella prassi di mora-soglia, ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia”. Giova ribadire, in proposito, che la normativa in materia non contempla la separata rilevazione in sede amministrativa del saggio convenzionale di mora medio quale presupposto per la determinazione di un tasso soglia moratorio al quale raffrontare la mora pattuita per le singole operazioni creditizie: la Legge n. 108/96 risulta infatti fondata sulla rilevazione dei tassi (fisiologici) medi per tipo di contratto, ciò che si configura di per sè incompatibile con l’ipotetica rilevazione dei tassi medi per tipo di titolo giuridico (vale a dire in base alla diversa funzione, compensativa o risarcitoria, e/o alla diversa fonte, convenzionale o legale, degli stessi).

La presunta necessaria omogeneità e simmetria delle formule relative al T.E.G. della singola operazione (ex art. 644 c.p.) e al T.E.G.M. della categoria contrattuale di riferimento (ai sensi dell’art. 2, comma 1 della medesima Legge) costituisce, nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale in materia, il principale argomento addotto a giustificazione dell’esclusione non soltanto degli interessi moratori, ma anche di altre voci ed oneri che, i chiave funzionale, integrano il costo del finanziamento. La questione riflette, a ben vedere, l’interpretazione dell’essenza stessa del meccanismo operativo attraverso il quale il Legislatore ha prefigurato 60 l’illecito usurario ed il controllo antiusura, anche in forza del principio di gerarchia delle fonti normative in materia, principio cui non può non attribuirsi fondamentale ed imprescindibile rilievo anche nella materia de qua.

L’art. 2 della L. n. 108/1996 prescrive che la rilevazione del Tasso Effettivo Globale Medio (T.E.G.M.) debba essere compiuta dal Ministero Economia e Finanza, “sentita la Banca d’Italia”. In materia, quindi, il Legislatore ha attribuito all’Istituto di vigilanza bancaria esclusivamente un ruolo consultivo, ovvero soltanto il compito di acquisire dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dall’Ufficio Italiano dei Cambi (U.I.C.) e dalla stessa Banca d’Italia ai sensi degli artt. 106 e 107 del D.Lgs. n. 385/1993 (“Operatori del Credito”) i tassi (effettivi globali) da questi mediamente applicati nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura e di comunicare i valori medi derivanti da tale rilevazione al medesimo Ministero, il quale, una volta “corretti” gli stessi “in ragione delle eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferimento”, stabilisce i tassi soglia di ciascun trimestre per le varie categorie di rapporti contrattuali e li pubblica senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale. In buona sostanza, l’art. 2 della L. n. 108/1996 conferisce alla Banca d’Italia il solo compito di “fotografare” l’andamento dei tassi medi di mercato, praticati da banche e intermediari finanziari sottoposti a vigilanza (comma 1), distinti per classi omogenee di operazioni “tenuto conto della natura, dell’oggetto, dell’importo, della natura, dei rischi e delle garanzie (comma 2)”, spettando poi al Ministero la classificazione delle varie tipologie di operazioni creditizie e la rilevazione trimestrale dei T.E.G.M. relativi a queste ultime (che, come già precisato, previa correzione “in ragione delle eventuali variazioni del tasso di sconto successive al trimestre di riferimento ”, vengono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale). Con particolare riferimento alla determinazione del tasso soglia, il Legislatore, attraverso disposizione di rango primario, non ha fatto pertanto alcun rinvio ad un aggregato di costi connessi al credito 61 stabilito in via autonoma dalla norma secondaria. Del resto, i primi D.M. attuativi dell’art. 2 della L. n. 108/1996, emanati il 23.09.1996 ed il 24.09.1997 (recanti la classificazione delle operazioni creditizie per categorie omogenee ed i T.E.G.M. dell’epoca), non prevedevano alcun compito per Banca d’Italia di predisporre specifiche istruzioni destinate agli operatori finanziari per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della Legge sull’usura; né risulta che una norma di rango legislativo abbia attribuito in seguito all’Istituto di vigilanza bancaria tale funzione di integrazione e/o di specificazione normativa al fine di stabilire le voci di costo da prendere in considerazione per procedere alla rilevazione del T.E.G.M., tanto meno derogatoria rispetto all’esaustiva elencazione ed omnicomprensiva contenuta nel comma 1 del citato art. 2 della L. n. 108/1996 (che fa espresso riferimento alle “commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse”); funzione integrativa della disciplina legislativa che lo stesso Legislatore, laddove ha invece inteso farlo in materia, ha conferito alle fonti di rango secondario attraverso disposizioni esplicite (ad esempio, con l’art. 117, comma 2 del Testo Unico Bancario, in relazione alla previsione da parte del C.I.C.R. di forme diverse da quella scritta per talune tipologie di contratti bancari). Non a caso, per l’appunto in virtù di tale ricostruzione del sistema delle fonti in materia, il Supremo Collegio ha avuto modo di chiarire che "Il delitto di usura, quale definito a seguito dell'intervento novellistico operato dalla legge n. 108 del 1996, non riserva affatto compiti "creativi" alla Pubblica Amministrazione, affidando a questa margini di discrezionalità che invaderebbero direttamente l'area penale riservata alla legge ordinaria”, atteso che “il legislatore si è fatto carico di introdurre e delineare una rigida "griglia" di previsioni e di principi, affidando alla normazione secondaria null'altro che un compito di "registrazione" ed elaborazione tecnica di risultanze, al di fuori di qualsiasi margine di discrezionalità”. In altri termini, “in tale prospettiva, il procedimento per la determinazione dei tassi soglia analiticamente descritto dal legislatore 62 della riforma, esclude, per puntualità di riferimenti, qualsiasi elusione del principio di riserva di legge in materia penale, nulla essendo lasciato a scelte di opportunità o a valutazioni non fondate su rigorosi criteri tecnici: al contrario, è proprio la linea di "obiettivizzazione" del fatto tipico che ora caratterizza la figura descritta dall'art. 644 cod. pen. a rendere la fattispecie senz'altro esente da quelle perplessità di insufficiente determinatezza che, in passato, erano state adombrate al suo riguardo”.

In definitiva, “il dettaglio dei criteri stabilito dalla legge è dunque tale da rendere la fonte non legislativa un atto meramente ricognitivo, destinato a "fotografare" l'andamento dei tassi finanziari distinti per classi omogenee di operazioni, secondo parametri di certezza ed obiettività, e con l'intervento degli organi istituzionalmente deputati a compiere siffatte registrazioni" (cfr. Cass. Pen. n. 20148/2003). Non può dunque affermarsi un'automatica equiparazione tra le risultanze delle rilevazioni della Banca d'Italia e il T.E.G.M., sia dal punto di vista formale, atteso che questo è rilevato dal Ministero con decreto solo “sentita la Banca d'Italia”, sia dal punto di vista sostanziale, perché la norma prevede comunque ipotesi di correttivi da apportarsi dal medesimo Ministero competente. Le cd. istruzioni della Banca d’Italia (rivolte soltanto alle banche ed agli operatori finanziari, non certo vincolanti per l’Autorità Giudiziaria) non possono quindi entrare in conflitto con la norma primaria (art. 644 c.p.), perché per la Legge le loro funzioni sono diverse: rispettivamente, quanto alle prime, quella indicare criteri operativi destinati agli istituti bancari ed agli intermediari finanziari affinchè essi possano comunicare al Ministero i tassi medi dagli stessi praticati con riferimento alle varie classi omogenee di operazioni creditizie, informazione in base alla quale il medesimo Ministero procede dapprima alla rilevazione del T.E.G.M., ai sensi dell’art. 2 comma 1 della L. 108/1996 (ovvero il Tasso Effettivo Globale Medio applicato per operazioni omogenee in un determinato periodo), per poi pubblicare i tassi soglia concernenti le stesse classi di operazioni (determinati attraverso la maggiorazione di “un quarto” del predetto 63 T.E.G.M. con l’aggiunta di “un margine di ulteriori quattro punti percentuali”, a norma del comma 4 dello stesso precitato art. 2); quanto alla seconda (giova ribadire, la Legge), quella di stabilire le voci di costo da prendere in considerazione ai fini del calcolo del T.E.G. di ciascuna categoria di operazioni, ai sensi dell’art. 644 comma 4 c.p.. Ne deriva che qualora emerga un conflitto di tal genere, esso non può che essere risolto attraverso la disapplicazione della fonte secondaria, atteso che la Legge non autorizza affatto il Ministero (e tanto meno la Banca d’Italia) a determinare con effetti vincolanti l’aggregato di costi rilevante ai fini della determinazione del T.E.G. rispetto al quale operare il riscontro di legalità in riferimento alla disciplina antiusura.

La rilevazione del T.E.G.M. (operazione spettante al Ministero “sentita la Banca d’Italia”) e la determinazione del T.E.G. relativo al singolo rapporto creditizio, ai fini della verifica di legalità, sono quindi operazioni distinte, rispondenti a funzioni diverse e basate su aggregati di costi che, seppure definiti con criterio omogeneo (“commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e … spese, escluse quelle per imposte e tasse”, in base alla locuzione contenuta sia nell’art. 2, comma 1 della L. n. 108/1996 che nell’art. 644, comma 4 c.p.), non sono perfettamente sovrapponibili. La funzione del T.E.G.M. (ex art. 2, comma 1 della L. n. 108/1996), infatti, è quella di fotografare l’andamento dei tassi di mercato praticato dalle banche, consistendo, quindi, in una mera rilevazione statistica che implica selezione e organizzazione di dati ed in tale ambito deve ritenersi esaurirsi la discrezionalità tecnica (limitata da rigorosi criteri tecnici) della Banca d’Italia (che ad es. ha escluso talune tipologie di rapporti bancari dalla rilevazione statistica, riconducibili a dinamiche “patologiche”, pertanto ritenuti tali da alterare il normale prezzo del credito applicato alla clientela, quali, a titolo esemplificativo, le posizioni classificate a sofferenza, i crediti ristrutturati, le operazioni a tasso agevolato o di favore, i finanziamenti revocati, i finanziamenti infragruppo, tipologie di rapporti che non è revocabile in dubbio essere comunque sottoposte, esattamente come le 64 altre, al vaglio antiusura, sebbene non siano state comprese nelle rilevazioni dell’Istituto di vigilanza relativi al T.E.G.M.); non assolvendo invece lo stesso T.E.G.M. la funzione di integrare l’aggregato di costi in attraverso il quale si determina il T.E.G. della singola operazione, rispetto al quale va compiuto il raffronto con il tasso soglia della categoria di riferimento, essendo le componenti di tale ultimo aggregato (autonomamente) desumibili - senza necessità di interventi integrativi di sorta affidati a fonti di rango secondario - dal chiaro dettato del comma 4 dell’art. 644 c.p., secondo cui “per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”. A ben vedere, il fatto che la specificazione per la quale tali voci di costo assumono rilievo in quanto, per l’appunto, “collegate all’erogazione del credito” (giusto il disposto di cui all’art. 644, comma 4 c.p. ai fini dell’individuazione del T.E.G. della singola operazione) non sia invece riportata nell’art. 2, comma 1 della L. n. 108/1996 (che contiene l’analoga elencazione di quelle rilevanti ai fini della determinazione del T.E.G.M relativo alle varie classi omogenee di operazioni) non pare casuale, ma assume una significativa valenza interpretativa, atteso che la rilevazione del T.E.G.M. è finalizzata ad enucleare un indicatore medio del mercato “fisiologico” del credito (essendo esso destinato a costituire la base per stabilire il tasso soglia usurario, attraverso i correttivi e la maggiorazione previsti ex lege); mentre per l’individuazione del tasso della singola operazione creditizia rispetto alla quale effettuare il raffronto con il tasso soglia ai fini della verifica antiusura il Legislatore ha piuttosto consapevolmente preso in considerazione l’intero costo del finanziamento complessivamente inteso, trovando la omnicomprensiva nozione di “collegamento” delle varie voci all’erogazione del credito – che esprime evidentemente un concetto di ampia correlazione “teleologica” - giustificazione, per l’appunto, in tale peculiare ed inequivoca voluntas legis.

65 Richiamate le considerazioni che precedono, pare quindi evidente che l’ipotesi criminosa di cui all’ art. 644 comma 1 c.p. (usura oggettiva) costituisce una fattispecie autosufficiente, in quanto la norma penale descrive in modo compiuto il nucleo dell’incriminazione (fondata sull’eccedenza, rispetto al tasso soglia, dell’ammontare complessivo delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese collegate all’erogazione del credito); e ciò senza alcun rinvio ad un ipotetico aggregato di costi stabilito o integrato dalla normazione secondaria (i Decreti Ministeriali) e tanto meno alle circolari della Banca d’Italia (del resto neanche menzionate nelle disposizioni di rango legislativo sin qui citate). Trattasi, pertanto, di norma penale (soltanto) parzialmente in bianco, nel senso che essa non può operare senza la pubblicazione in G.U. dei Decreti Ministeriali periodici che indicano il tasso soglia (ottenuto in base al T.E.G.M all’applicazione dei relativi coefficienti correttivi ed alla maggiorazione prevista dall’art. 2, comma 4 della L. n. 108/1996); non già, quindi, nel senso che alla normazione di rango secondario sia stato attribuito dal Legislatore il potere di stabilire quali specifici oneri e costi compongono l’aggregato che occorre considerare per individuare il T.E.G. della singola operazione creditizia, rispetto al quale va effettuata la verifica antiusura. In altri termini, il tasso medio pubblicato dal Ministero in relazione a ciascuna classe di operazioni finanziarie vale in quanto tale e non in funzione dell’aggregato di costi preso in considerazione dalla Banca d’Italia ed assunto quale base per l’enucleazione di quello stesso tasso medio, previa applicazione dei “correttivi” previsti dall’art. 2, comma 1 della L. n. 108/1996 in funzione delle variazioni periodiche del tasso ufficiale di sconto.

A fronte di un ipotetico contrasto tra norme amministrative (i Decreti Ministeriali) e disciplina legale (con particolare riguardo, per l’appunto, alle componenti dell’aggregato di costi da prendere in considerazione ai fini del calcolo del T.E.G. della verifica antiusura) e non vincolando le prime - prive di efficacia precettiva e derogatoria rispetto alla Legge - la 66 valutazione in sede giudiziale (a differenza della Legge), non resta al Giudice che disapplicare – ex artt. 4 e 5 dell'allegato E della L. n. 2248 del 1865 - gli atti di normazione secondaria (ovvero i D.M. che le hanno fatto proprie le indicazioni fornite con le istruzioni impartite dalla Banca d’Italia agli operatori finanziari) integrativi della norma di rango primario (art. 644 c.p.). Sotto tale profilo, l’art. 3 dei Decreti Ministeriali succedutisi negli ultimi anni, laddove prescrive che le banche e gli intermediari finanziari, al fine di verificare il rispetto del tasso soglia inerente alle varie operazioni creditizie, “si attengono ai criteri di calcolo delle «istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull'usura» emanate dalla Banca d'Italia”, si configura in realtà illegittimo, non potendo la discrezionalità tecnica affidata alla Banca d’Italia (ai fini della selezione dei criteri di calcolo e dei criteri di inclusione cui fare ricorso per l’individuazione del tasso medio di mercato delle varie categorie di operazioni) essere trasposta dal piano operativo della mera rilevazione statistica al ben diverso processo di verifica del rispetto della soglia legale antiusura, avente natura giuridica. E ciò in quanto, giova ribadire, la norma secondaria non è stata affatto autorizzata ad un intervento del genere, che si risolverebbe nella sostanziale ed arbitraria identificazione dei canoni e dei criteri statistici dettati dallo stesso Istituto di Vigilanza agli operatori bancari ai fini della rilevazione dei tassi medi (ex art. 2 della L. n. 108/1996) con le regole ed i principi giuridici in base ai quali il Legislatore ha prefigurato il controllo di legalità in relazione alla disciplina imperativa in materia; intervento che risulterebbe, in buona sostanza, integrativo del precetto legislativo (l’unico effettivamente vincolante anche nei confronti degli stessi operatori bancari) e ciò senza che lo stesso Legislatore abbia mai assegnato in materia alla normazione secondaria una funzione di tal genere. In ossequio all’ineludibile principio di legalità, pertanto, non può quindi ritenersi che le istruzioni della Banca d’Italia (sicuramente prive di efficacia vincolante per l’Autorità Giudiziaria) siano norme tecniche autorizzate ad integrare la disciplina di Legge, 67 esaurendosi la funzione della procedura amministrativa, per quanto chiarito, nel “fotografare” il T.E.G.M. delle varie tipologie di operazioni, non già nell’integrare il contenuto del precetto legislativo (che è già integralmente definito nell’art. 644 c.p., anche in relazione all’aggregato di costi da assumere quale parametro ai fini del riscontro del rispetto della disciplina antiusura). Laddove, del resto, il Legislatore ha inteso consentire ad organi amministrativi di integrare la disciplina legislativa sotto taluni profili inerenti alla materia bancaria, ovvero di dettare previsioni normative derogatorie rispetto alla stessa, lo ha fatto attraverso apposita ed espressa disposizione, ad esempio laddove, con riferimento al principio legale in virtù del quale i contratti bancari “sono redatti per iscritto” (art. 117, comma 1 del D.Lgs. n. 385/1993) – trattandosi di requisito formale prescritto “ad substantiam” (cfr., ex plurimis, Cass. n. 36/2017) - ha rimesso al C.I.C.R. l’individuazione di talune tipologie di contratti stipulabili in altra forma “per motivate ragioni tecniche”. Non si vede quindi per quale ragione, con riguardo all’aggregato di oneri e costi da prendere in considerazione ai fini della verifica dell’usurarietà, possa ritenersi attribuito alla Banca d’Italia il potere di integrare la disciplina di Legge in difetto di qualsivoglia previsione normativa attributiva di un potere d’intervento in tal senso; e ciò specie ove si consideri la riserva di Legge specificamente stabilita con riferimento alla disciplina antiusura, a norma dell’art. 644, comma 3 c.p. (come novellato dall’art. 1, comma 3 della L. n. 108/1996), in forza del quale “la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”. Risulterebbe invero evidente il rischio di criticità applicative, se non persino di gravi fenomeni elusivi, ove alla Legge fosse riservata soltanto la determinazione del tasso soglia antiusura, mentre la scelta e l’individuazione del parametro di valutazione ai fini del raffronto tra lo stesso tasso soglia ed i saggi di interesse praticati sul mercato in riferimento alle varie categorie di operazioni creditizie fosse rimessa ad organi amministrativi anche in deroga al chiaro ed univoco criterio legale imposto dal comma 4 del precitato art. 644 c.p..

68 Nessuna norma primaria stabilisce un raccordo – e tanto meno un principio di identificazione – tra le istruzioni dell’Istituto di Vigilanza sugli enti bancari (valide ai fini statistici) ed il T.E.G. dei singoli rapporti contrattuali, in modo da circoscrivere il perimetro dei costi rilevanti soltanto a quelli presi in considerazione ai fini della determinazione del T.E.G.M..

Non a caso, del resto, la Corte di Cassazione ha avuto modo di giudicare manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità della disciplina di legge in esame (sollevata in relazione agli artt. 3, 25 e 41 Cost.), in riferimento al ruolo assunto in tale ambito dagli organi amministrativi, sul rilievo per cui la L. 108/1996 “fissa limiti e criteri analitici e circoscritti … vincoli sufficienti a restringere la discrezionalità della P.A. nell’ambito di una valutazione strettamente tecnica, idonea a concorrere, nel pieno rispetto del principio della riserva di legge in materia penale, alla precisazione del contenuto della norma incriminatrice”; peraltro evidenziando espressamente che la suindicata disciplina di legge non riserva affatto “compiti creativi alla Pubblica Amministrazione”, né affida ad essa “margini di discrezionalità che invaderebbero direttamente l’area penale riservata alla legge ordinaria”, essendosi piuttosto il Legislatore “fatto carico di introdurre una rigida griglia di previsioni e di principi, affidando alla normazione secondaria null’altro che un compiti di registrazione e di elaborazione tecnica di risultanze, al di fuori di qualsiasi margine di discrezionalità” ed avendo la L. n. 108/1996 a tal fine fissato, per l’appunto, “limiti e criteri analitici e circoscritti … vincoli sufficienti a restringere la discrezionalità della P.A. nell’ambito di una valutazione strettamente tecnica, idonea a concorrere, nel pieno rispetto del principio della riserva di legge in materia penale, alla precisazione del contenuto della norma incriminatrice” (cfr. Cass. Pen. 18.03.2003 n. 20148).

Non pare persuasivo quindi l’argomento – pur recepito in talune sentenze di merito – secondo cui la disomogeneità tra le voci di costo prese in considerazione ai fini della determinazione del T.E.G.M. (attraverso rilevazioni effettuate in conformità alle circolari della Banca d’Italia) e, 69 conseguentemente (in virtù delle maggiorazioni e degli adattamenti previsti dalla legge), dei tassi soglia, da un canto, e delle voci di costo rilevanti ai fini del calcolo del T.E.G. delle singole operazioni creditizie (secondo il criterio funzionale recepito nell’art. 644, comma 4 c.p.), dall’altro, non consentirebbe il raffronto occorrente ai fini della verifica antiusura (trattandosi di confrontare valori incomparabili, in quanto ottenuti, per l’appunto, tenendo in considerazione costi ed oneri non esattamente identici); di tal che l’unica soluzione per rendere applicabile la disciplina di Legge risulterebbe quella di adottare la cd. formula della Banca d’Italia (fondata invece su un criterio di omogeneità) ai fini della determinazione del T.E.G. dell’operazione da prendere in esame.

Va al riguardo ribadito che T.E.G.M. (pubblicato nei D.M. trimestrali ex art. 2 della L. n. 108/1990) e T.E.G. relativo alla singola operazione finanziaria (ex art. 644 comma 4 c.p.), pur nella diversità di funzione, sono grandezze omogenee; ma tale omogeneità va affermata non già in quanto esse siano composte da un identico aggregato di costi (vale a dire composto dalle medesime voci), bensì in quanto sono stati definiti dalla Legge secondo un criterio analogo (“commissioni remunerazioni spese collegate all’erogazione del credito, escluse imposte e tasse”), non affatto identico; essendo decisiva, ai fini dell’individuazione del discrimine tra l’uno e l’altro criterio, l’evidenziata diversità delle rispettive funzioni nell’ambito della disciplina in esame. E’ per l’appunto in tale considerazione che trova giustificazione il fatto che, ai fini della determinazione del T.E.G.M., assumono rilievo oneri, costi ed operazioni “fisiologici” del mercato creditizio, mentre con riferimento al T.E.G., alla luce dell’inequivoco disposto di cui all’art. 644 comma 4 c.p., occorre considerare anche quelli dovuti in ragione dell’ipotetica evoluzione patologica del rapporto obbligatorio (quali, a titolo esemplificativo, gli interessi moratori, i crediti in sofferenza, revocati o in mora), o comunque quelli correlati a scenari di attuazione del rapporto obbligatorio alternativi o meramente eventuali rispetto allo svolgimento ordinario originariamente predicato in sede di stipulazione del contratto (quale la penale per l’estinzione anticipata nel 70 mutuo), ovvero ancora concordati o comunque previsti (talora per espressa previsione normativa) ai fini dell’erogazione del finanziamento, per quanto non integranti prestazione corrispettiva rispetto allo stesso (quali il premio assicurativo nel mutuo o il compenso in favore del mediatore finanziario nei contratti di finanziamento); e ciò in virtù dell’innegabile correlazione funzionale di tali ultimi oneri e costi con l’erogazione del finanziamento. Ne deriva, in definitiva, che le voci di costo escluse dal campo di rilevazione del T.E.G.M. - quale che sia la ragione di tale esclusione – devono trovare soddisfazione e collocazione nel cuscinetto (fino al 2011 pari al 50% del TEGM, ora pari al 25% del TEGM + 4 punti percentuali) esistente tra il medesimo T.E.G.M. ed il tasso soglia stabilito ai sensi di Legge, senza che possa, per converso, predicarsene l’esclusione dal T.E.G.. In altri termini, una volta individuato, attraverso la rilevazione del T.E.G.M., il costo fisiologico ed ordinario del credito relativo alle varie tipologie di operazioni, tutto ciò che deborda dall’ordinario – a vario titolo e quale che sia la ragione, se del caso anche in dipendenza di scenari patologici dell’evoluzione del rapporto obbligatorio e, comunque, anche se consistente in oneri non identificabili negli interessi intesi nel tradizionale senso civilistico e persino qualora integrati da remunerazioni o compensi destinati a terzi (il comma 1 dell’art. 644 c.p.c. fa espresso riferimento, non a caso, a “interessi o altri vantaggi usurari” dati o promessi, “per sé o per altri” e “sotto qualsiasi forma” ) – deve essere contenuto nel suindicato spread previsto ai sensi dell’art. 2, comma 4 della L. n. 108/1996. La formula normativa con la quale è stato predisposto l’art. 644 c.p. (evidentemente diretta ad evitare pratiche elusive), comporta, come già chiarito, il superamento della stessa nozione tradizionale di interesse – inteso come funzione del capitale e del tempo – in quanto non considera tanto il frutto del denaro per il finanziatore, quanto il costo (complessivamente) sopportato dal finanziato.

La scelta del modello di rilevazione statistica fondato sulla prassi ordinaria e fisiologica del credito costituisce, quindi, un’opzione metodologica corretta ed aderente alla funzione che la Legge attribuisce al T.E.G.M. ed 71 alla stessa finalità di calmierare il mercato del credito, in conformità alla ratio ispiratrice della disciplina introdotta dalla L. n. 108/1996.

Corrispondentemente, qualora venissero ricompre si, ai fini della determinazione del tasso medio di riferimento, oneri e costi “patologici”, ciò, piuttosto che evitare (o quanto meno contenere) i tassi anomali, limitandoli e tenendoli il più possibile prossimi a quelli ordinari di mercato, comporterebbe un tendenziale riallineamento (verso l’alto) del tasso “fisiologico” e del “tasso patologico”; pregiudicando così, nella complessa architettura normativa che sorregge il presidio antiusura, la funzione dello spread tra il T.E.G.M. ed il tasso soglia (spread nell’ambito del quale, come chiarito, vanno contenuti gli oneri ed i costi anomali, in particolare quelli correlati all’inadempimento); in tal modo vanificando la stessa ratio legis. In tale contesto, il limite fissato dalla Legge quale soglia antiusura deve consentire all’intermediario finanziario di conseguire il corrispettivo del servizio prestato e di coprire adeguatamente i costi ed i rischi ordinari dello stesso, dovendo invece quelli eventualmente eccedenti e/o ulteriori rispetto a questi ultimi, chiaramente in relazione alla categoria di operazioni creditizie di riferimento, trovare necessariamente collocazione (e comunque compenso o ristoro) entro lo spread stabilito dalla Legge.

A fronte del quadro normativo e delle problematiche interpretative sin qui ricostruite, in giurisprudenza si sono diffusi orientamenti contrastanti, anche in seno alla stessa Corte regolatrice, in ordine al rilievo da attribuire alle formule per il calcolo del T.E.G. elaborate secondo le istruzioni della Banca d’Italia succedutesi nel tempo e, correlativamente, in merito al controversa esistenza di un principio di simmetria ed omogeneità delle voci di costo del finanziamento rilevanti ai fini dell’art. 2 della L. n. 10871996 rispetto a quelle cui occorre avere riguardo ai fini della verifica antiusura secondo l’art. 644 comma 4 c.p..

Con specifico riguardo alle commissioni di massimo scoperto, come noto, a seguito dell’introduzione dell’art. 2 bis del D.L. n. 185/2008 (convertito in L. n. 2/2009) - con il quale è stato stabilito, al comma 1, che “sono 72 comunque rilevanti ai fini dell’applicazione dell’articolo 1815 del codice civile, dell’articolo 644 del codice penale e degli articoli 2 e 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108”, le commissioni di massimo scoperto (definite come “provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente”) - è sorto contrasto in giurisprudenza circa la portata innovativa o di interpretazione autentica della disposizione appena citata, essendo state, prima di allora, dette commissioni escluse dal novero delle voci di costo contemplate ai fini del calcolo del T.E.G. inerente ai rapporti di conto corrente bancario nella circolare della Banca d’Italia diffusa al momento dell’entrata in vigore della stessa succitata disposizione di Legge, ciò fino a quando la Banca d’Italia si è finalmente uniformata alla richiamata riforma normativa, modificando la formula ed includendo, attraverso le Istruzioni del 2009 ai fini del calcolo del T.E.G., le stesse commissioni di massimo scoperto nell’ambito degli oneri (non assimilandoli quindi agli interessi) e ciò in sostanziale conformità all’originaria funzione causale delle stesse (consistente nel remunerare la banca per la messa a disposizione di fondi al cliente, indipendentemente dal loro effettivo utilizzo). Il comma 2 del citato art. 2 bis sembrerebbe dare per presupposta la portata innovativa della stessa norma, laddove demanda al Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, l’emanazione di “disposizioni transitorie in relazione all’applicazione dell’articolo 2 della legge 7 marzo 1996, n. 108, per stabilire che il limite previsto dal terzo comma dell’articolo 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono usurari, resta regolato dalla disciplina vigente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto fino a che la rilevazione del tasso effettivo globale medio non verrà effettuata tenendo conto delle nuove disposizioni”. Tale ultima opzione ermeneutica è stata in effetti recepita dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 12965/2016 e n. 22270/2016, avendo in quell’occasione il Supremo 73 Collegio ritenuto che “l’esclusione ai fini della verifica dell’usura della commissione di massimo scoperto (CMS), applicata fino all'entrata in vigore dell'art. 2 bis del d.l. n. 185 del 2008, introdotto con la legge di conversione n. 2 del 2009, è "in thesi" legittima, almeno fino al termine del periodo transitorio, fissato al 31 dicembre 2009, posto che i decreti ministeriali che hanno rilevato il tasso effettivo globale medio (TEGM) - dal 1997 al dicembre del 2009 - sulla base delle istruzioni diramate dalla Banca d'Italia, non ne hanno tenuto conto al fine di determinare il tasso soglia usurario (essendo ciò avvenuto solo dall'1 gennaio 2010); ne consegue che l'art. 2 bis del d.l. n. 185, cit. non è norma di interpretazione autentica dell'art. 644, comma 3, c.p., ma disposizione con portata innovativa dell'ordinamento, intervenuta a modificare - per il futuro - la complessa disciplina, anche regolamentare (richiamata dall'art. 644, comma 4, c.p.), tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari” (cfr. Cass. n. 12965/2016 cit.). La Corte regolatrice, in sostanza, con le pronunce appena menzionate ha in tal modo desunto la portata innovativa della nuova disposizione (che ha incluso le commissioni di massimo scoperto nel novero delle voci di costo rilevanti ai fini del controllo antiusura) dalla mera circostanza per la quale le Istruzioni della Banca d’Italia - in base alle quali erano state effettuate le rilevazioni statistiche prese in considerazione dai Decreti Ministeriali inerenti alla determinazione dei tassi soglia anteriormente all’entrata in vigore del citato art. 2 bis del D.L. n. 185/2008 convertito - escludevano le anzidette commissioni dal calcolo del T.E.G.: “se la novella del 2009 si riferisce alla "legge" che stabilisce i limiti superati i quali i tassi divengono ex se, cioè oggettivamente, usurari, non vi è dubbio che detta normativa integri un vero e proprio mutamento innovativo nella disciplina complessivamente intesa (inclusi ovviamente gli atti di valore regolamentare, fino a quel momento lasciati dal legislatore a regolare la materia) e dunque in tema di CMS, laddove il congegno ricognitivo- determinativo primario, fino all'entrata in vigore della riforma, 74 espressamente escludeva quest'ultima dal calcolo del TEGM; constatazione che persuade nell'essere di fronte ad una norma non di interpretazione autentica, ma appunto innovativa e come tale - in ogni sede sanzionatoria - non applicabile retroattivamente”. A ben vedere, un primo evidente profilo di criticità delle pronunce in esame consiste nel fatto che la portata precettiva della disciplina di riferimento è stata di fatto desunta dalla Suprema Corte dalla prassi attuativa dell’art. 644 comma 4 c.p. diffusasi in ambito bancario, piuttosto che dal tenore logico-testuale della stessa disposizione di rango legislativo; ciò che pare obiettivamente poco aderente ai principi ordinamentali che regolano la gerarchia delle fonti, in virtù dei quali la Legge non può che prevalere sulla fonte secondaria, salvo che la prima non affidi a quest’ultima, con espressa previsione, il compito di integrarne o completarne il precetto normativo; presupposto questo che, per quanto sin qui chiarito, non può ritenersi sussistere con riguardo alla tematica in esame. Per altro verso, le sentenze “gemelle” n. 12965/2016 e n. 22270/2016 risultano fondate sull’apodittico postulato della presunta necessaria omogeneità dell’aggregato di costi ed oneri rilevanti ai fini della determinazione del T.E.G.M. rispetto a quello finalizzato al calcolo del T.E.G. della singola operazione creditizia, laddove la stessa Corte ha per l’appunto ritenuto “ragionevole … attendersi simmetria tra la metodologia di calcolo del T.E.G.M. e quella di calcolo dello specifico T.E.G. contrattuale” – presupposto che, per quanto chiarito, non trova in realtà riscontro nel diritto positivo e tanto meno nella ratio legis – per inferire da siffatta petizione di principio la conclusione per la quale “se detto raffronto non viene effettuato adoperando la medesima metodologia di calcolo, il dato che se ne ricava non può che essere in principio viziato”; conclusione che riflette, evidentemente, l’apodittico postulato sulla quale essa pare fondata. Al riguardo, va invece considerato che il raffronto attraverso il quale va compiuto il controllo di legalità del tasso di interesse applicato ad una determinata operazione non è tra il T.E.G.M. della categoria cui essa 75 è riconducibile ed il T.E.G. della medesima operazione, bensì tra quest’ultimo ed il tasso soglia proprio della categoria di riferimento. Infatti, la verifica circa la usurarietà o meno di un T.E.G., va effettuata mediante il procedimento di comparazione con il tasso soglia proprio della categoria di riferimento, quale stabilito dal D.M. in relazione ad un determinato periodo e risulta, per espressa voluntas legis, strettamente ancorata ad un parametro di natura oggettiva, costituito appunto dal tasso soglia pubblicato con D.M. sulla Gazzetta Ufficiale; in altre parole, la norma integratrice della fattispecie penale di cui all’art. 644 c.p., con riflessi anche civilistici, è costituita dall’art. 2 della L. 108/1996 e quest’ultima disposizione fa esclusivo riferimento al dato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale per il periodo di riferimento a cura del Ministero. In tale contesto, il procedimento finalizzato alla fissazione del tasso soglia trimestrale con D.M. del Tesoro non prevede l’automatica assunzione dei dati rilevati dalla Banca d’Italia, la quale ha funzione semplicemente consultiva, al pari dell’Ufficio Italiano Cambi, avendo inoltre il Legislatore in tale contesto previsto anche un correttivo, riferito al tasso ufficiale di sconto, per pervenire alla definizione del tasso soglia. Non può dunque effettuarsi un’automatica equiparazione fra i risultati delle rilevazioni della Banca d’Italia ed il T.E.G.M. e ciò sia dal punto di vista formale, atteso che quest’ultimo è stabilito con D.M. del Ministro competente solo “sentita la Banca d’Italia”, sia dal punto di vista sostanziale, perché, come appena precisato, la norma prevede comunque correttivi da apportarsi da parte del Ministero competente. Ai sensi della L. n. 108/1996, l’integrazione dell’art. 644 c.p. – norma penale in bianco – non viene effettuata certamente dalle circolari della Banca d’Italia emanate nel corso del tempo (delle quali risultano almeno dieci versioni a far tempo dall’entrata in vigore della precitata Legge), bensì, per il tramite dell’art. 2 della medesima Legge, dalla rilevazione del T.E.G.M. ad opera del Ministero competente (rettificata in ragione di eventuali oscillazioni del tasso ufficiale di sconto) pubblicata trimestralmente sulla Gazzetta Ufficiale con Decreto Ministeriale (dato statistico cui va applicata la maggiorazione 76 prevista dal comma 4 dell’art. 2 della stessa L. n. 108/1996). Non può quindi ritenersi corretto il rilievo secondo cui la comparazione ai fini dell’accertamento del superamento del tasso soglia dovrebbe essere effettuata tra il T.E.G. e il T.E.G.M. rilevato dalla Banca d’Italia e ciò in quanto detta comparazione va piuttosto condotta, per l’appunto, tra il T.E.G. ed il tasso soglia fissato per il periodo indicato con D.M. pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, alla cui determinazione certo concorrono le rilevazioni della Banca d’Italia, le quali, tuttavia, non valgono certo ad individuare le voci di costo che compongono l’altro termine di paragone (il T.E.G. del lo specifico rapporto contrattuale preso in considerazione), con conseguente irrilevanza dell’eventuale illegittimità del procedimento di formazione delle suddette rilevazioni. Il parametro cui va raffrontato il tasso della singola operazione è quindi soltanto il tasso soglia proprio della categoria di riferimento, non essendo l’Autorità Giudiziaria autorizzata ad effettuare altri raffronti ai fini del controllo di legalità che le è demandato. In particolare, eventuali errori dei criteri di rilevazione dei tassi medi praticati nel mercato creditizio per le varie tipologie di operazioni (in ipotesi dovuti all’applicazione delle istruzioni diffuse dalla Banca d’Italia) che abbiano comportato, all’esito della complessa procedura amministrativa prefigurata dal Legislatore, la pubblicazione di un determinato T.E.G.M. sulla Gazzetta Ufficiale in relazione ad una determinata categoria di operazioni creditizie - T.E.G.M. a sua volta preso in considerazione, previa adozione dei correttivi suindicati e della maggiorazione previsti dall’art. 2, comma 1, ultimo inciso e dal comma 4 della medesima disposizione, ai fini della fissazione del tasso soglia antiusura attraverso decreto ministeriale - non può certo impedire che, in ossequio al principio di legalità, la verifica del rispetto della disciplina imperativa in sede giudiziale venga compiuta esclusivamente facendo riferimento a detto tasso soglia (e, quindi, al D.M. integrativo del precetto legale, nel senso sin qui chiarito); del lavoro di elaborazione dati che costituisce la base attraverso la quale viene stabilito il tasso soglia antiusura, infatti, ciò che la Legge recupera e recepisce (attraverso il 77 combinato disposto di cui all’art. 644 c.p. ed all’art. 2 della L. n. 108/1996) è soltanto il risultato di sintesi, il dato finale che esprime il costo medio del finanziamento. Come del resto chiarito dalla stessa Suprema Corte in altra precedente pronuncia, “la materia penale è dominata esclusivamente dalla legge e la legittimità si verifica solo mediante il confronto con la norma di legge (art. 644 comma 4 c.p.) che disciplina la determinazione del tasso soglia che deve ricomprendere le <>, ricomprendendo tutti gli oneri che l'utente sopporti in connessione con il credito ottenuto”, non potendo l’intervento dell’Istituto di vigilanza bancaria e della stessa normazione secondaria (i D.M. in materia) contrastare con il principio di riserva di Legge - ciò che si risolverebbe in un “aggiramento della norma penale che impone alla legge di stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari” – precisando in tale contesto, con perentoria ed icastica eloquenza, che, nella materia in esame, “le circolari e le istruzioni non rappresentano una fonte di diritti ed obblighi” (cfr. Cass. Pen. n. 46669/2011). Non a caso, verosimilmente, le stesse precitate sentenze gemelle della Corte di Cassazione n. 12965/2016 e n. 22270/2016 non hanno fatto alcuna menzione dell’art. 3 dei Decreti del già citato Ministero dell’Economia e delle Finanze, in tal modo escludendo implicitamente la legittimità di tale norma secondaria.

La pronuncia n. 12965/2016 della Corte regolatrice, infine, nell’affermare il principio di omogeneità e simmetria degli aggregati di costi ed oneri rilevanti ai fini della rilevazione del T.E.G.M. e della determinazione del T.E.G. della singola operazione, contiene l’affermazione secondo la quale, qualora le istruzioni della Banca d’Italia in base alle quali risulta rilevato il T.E.G.M. contenessero carenze o profili di scorrettezza di sorta, il suddetto principio di omogeneità e simmetria imporrebbe una nuova rilevazione statistica del T.E.G.M. da parte del Giudice e, nell’impossibilità di effettuarla, non potrebbe che derivarne l’inapplicabilità della Legge: “In definitiva, può sostenersi che quand'anche le rilevazioni effettuate dalla Banca d'Italia dovessero considerarsi inficiate da un profilo di illegittimità 78 (per contrarietà alle norme primarie regolanti la materia, secondo le argomentazioni della giurisprudenza penalistica citata), questo non potrebbe in alcun modo tradursi nella possibilità, per l'interprete, di prescindervi, …, dovendosi allora ritenere radicalmente inapplicabile la disciplina antiusura per difetto dei tassi soglia rilevati dall'amministrazione.

Ed in effetti, l'utilizzo di metodologie e formule matematiche alternative non potrebbe che riguardare tanto la verifica del concreto TEG contrattuale, quanto quella del TEGM: il che significa che il giudice - chiamato a verificare il rispetto della soglia anti-usura - non potrebbe limitarsi a raffrontare il TEG ricavabile mediante l'utilizzo di criteri diversi da quelli elaborati dalla Banca d'Italia, con il TEGM rilevato proprio a seguito dell'utilizzo di questi ultimi, ma sarebbe tenuto a procedere ad una nuova rilevazione del TEGM, sulla scorta dei parametri così ritenuti validi, per poi operare il confronto con il TEG del rapporto dedotto in giudizio”.

Pare innegabile che attraverso tale affermazione, che risente evidentemente della petizione di principio fondata sulla presunta necessaria omogeneità e simmetria degli algoritmi di riferimento, si è ipotizzata un’inammissibile sovrapposizione del potere giudiziario a quello riservato dalla Costituzione al Legislatore quale unica soluzione per superare l’impasse evidenziato; ciò che rivela, a ben vedere, l’erroneità del postulato di partenza di siffatto iter motivazionale, cui è sottesa una petizione di principio che non trova riscontro nel diritto positivo, né nella ratio legis.

A fronte dell’unitarietà di disciplina che connota l’art. 644 c.p. nell’enunciazione omnicomprensiva dei costi e degli oneri rilevanti ai fini del controllo antiusura, la Corte regolatrice, con la successiva sentenza n. 8806 del 05.04.2017, ha del resto affermato principi assolutamente contrapposti rispetto a quelli richiamati nelle succitate pronunce “gemelle” n. 12965/2016 e n. 22270/2016; sconfessando, in tal modo, ogni stereotipo di omogeneità e simmetria degli aggregati di oneri e costi del finanziamento rilevanti per diverse finalità suindicate ed anteponendo, in 79 chiave ermeneutica, l’imprescindibile “centralità sistematica” della formulazione onnicomprensiva attraverso la quale risulta congegnato l’art. 644 c.p.: partendo, per l’appunto, dalla fondamentale bussola ermeneutica rappresentata dalla disposizione appena citata (che, nella definizione della fattispecie usuraria sotto il profilo oggettivo”, “considera rilevanti tutte le voci del carico economico che si trovino applicate nel contesto dei rapporti di credito”) ed evidenziando che tale “carattere omnicomprensivo per la rilevanza delle voci economiche - nel limite esclusivo del loro collegamento all'operazione di credito - vale non diversamente per la considerazione penale e per quella civile del fenomeno usurario”, con l’arresto in esame il Supremo Collegio ha precisato che detto principio “non può non valere … pure per l'intero arco normativo che risulta regolare il fenomeno dell'usura e quindi anche per le disposizioni regolamentari ed esecutive e per le istruzioni emanate dalla Banca d'Italia”; ponendo pertanto opportunamente in luce “l'esigenza di una lettura a sistema di queste varie serie normative”; ciò fermo restando che “al centro di tale sistema si pone la definizione di fattispecie usuraria tracciata dall'art. 644, alla quale si uniformano, e con la quale si raccordano, le diverse altre disposizioni che intervengono in materia”. Con la stessa sentenza, la Corte di Cassazione – con ratio decidendi applicabile, mutatis mutandis, anche al caso oggetto di giudizio - ha quindi valutato “antitetica” al disposto dell’art. 644 c.p., l’interpretazione secondo la quale le spese di assicurazione sarebbero escluse dal calcolo del T.E.G., interpretazione fondata sulle istruzioni della Banca d’Italia vigenti al momento della stipulazione del contratto di finanziamento sottoposto al suo vaglio (in epoca antecedente alla diffusione delle istruzioni dello stesso Istituto di vigilanza bancaria del 2009, con le quali sono state invece incluse nel T.E.G. “le spese per assicurazioni o garanzie intese ad assicurare il rimborso totale o parziale del credito..., se la conclusione del contratto avente ad oggetto il servizio assicurativo è contestuale alla concessione del finanziamento”). Con la medesima pronuncia, la Corte ha 80 peraltro ribadito il principio di diritto fondato sull’inerenza del costo all’erogazione del credito, elemento “necessario e sufficiente” per il vaglio antiusura, concludendo pertanto nel senso che “in relazione alla ricomprensione di una spesa di assicurazione nell'ambito delle voci economiche rilevanti per il riscontro dell'eventuale usurarietà di un contratto di credito, è necessario e sufficiente che la detta spesa risulti collegata all'operazione di credito”, precisando, altresì, che “la sussistenza del collegamento, se può essere dimostrata con qualunque mezzo di prova, risulta presunta nel caso di contestualità tra la spesa e l'erogazione”. Analoghe considerazioni non possono che valere anche con riguardo alle commissioni di massimo scoperto, dovendosi anch’esse considerare, in ragione della loro concreta funzione, collegate all’erogazione del credito. L’inclusione del premio assicurativo (in particolare quello inerente alla polizza assicurativa stipulata in riferimento ai contratti di cessione del quinto dello stipendio) nelle voci del carico economico del credito rilevanti ai fini del calcolo del T.E.G. è stata peraltro ribadita dal Supremo Collegio, sempre in virtù dell’affermata centralità ed esaustività precettiva dell’art. 644 comma 4 c.p. in funzione interpretativa della disciplina antiusura, anche con la successiva sentenza n. 22458 del 24.09.2018; e ciò in considerazione del fatto che l’obbligatorietà della stipulazione della relativa polizza (prescritta per Legge) non è incompatibile con una sua connotazione propriamente remunerativa, anche indiretta, che va accertata in concreto utilizzando il diverso canone della sua effettiva incidenza economica diretta ed indiretta - sulle obbligazioni assunte dalle parti in relazione al contratto di finanziamento” ed essendosi in tale contesto eloquentemente rimarcato che l’inderogabilità della fondamentale disposizione appena citata trova fondamento nell’esigenza di evitare condotte elusive del precetto imperativo: “nella prospettiva della repressione del fenomeno usurario, l'esclusione di talune delle voci per sè rilevanti potrebbe indurre naturalmente il risultato di spostare - al livello di operatività pratica - la 81 sostanza del peso economico del negozio di credito dalle voci incluse verso le voci escluse, con evidente elusione delle prescrizioni dettate”.

Traendo ancora spunto dal contrasto circa la portata innovativa o interpretativa del già citato art. 2 bis comma 2 del D.L. n. 185/2008, convertito in L. n. 2/2009, in relazione alle commissioni di massimo scoperto, la Sezione I della Corte di Cassazione, con ordinanza interlocutoria del 20.06.2017 n. 15188, ha poi sollecitato un intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, individuando quale “nodo essenziale” della tematica in esame la controversa questione della omogeneità o meno “dei dati comparati in punto di usura”, vale a dire, “da un lato, gli oneri economici presi in considerazione ai fini delle rilevazioni dei TEGM, di cui ai decreti di rilevazione trimestrale del ministero dell'economia; dall'altro, gli oneri economici su cui si deve esercitare la verifica dell'eventuale usurarietà dei negozi posti in essere dall'autonomia dei privati”. Nell’occasione, nel ribadire il principio già espresso dalla stessa Corte con la ricordata sentenza n. 8806/2017 (secondo cui “l'intera normativa di regolamentazione della materia usuraria - comprese le istruzioni dettate dalla Banca d'Italia - va letta in termini di unitarietà sistematica, come focalizzate sulle regole manifestate dalla norma dell’art. 644 c.p.”), il Supremo Collegio ha evidenziato che, come più volte segnalato anche dalla giurisprudenza di merito, “la normativa della L. n. 108 del 1996 contempla espressamente l'eventualità della non omogeneità dei dati da porre a confronto”; precisando che “il contesto della vigente legge antiusura non esplicita una regola di omogeneità dei dati in comparazione; e neppure la suppone in via necessaria” e che “le stesse istruzioni della Banca d'Italia - che, per la verità, non risultano prese in considerazione nell'ambito della normativa di cui alla L. n. 108 del 1996 - … sono in via espressa rivolte esclusivamente agli intermediari”; di tal che esse “non hanno, nè propongono, alcun contatto o interferenza con i negozi dell'autonomia dei privati”. In coerenza con il principio appena enunciato, con l’ordinanza interlocutoria in esame la medesima Corte di 82 legittimità, nel sollecitare un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, ha chiaramente mostrato di aderire all’ “orientamento più consistente”, vale a dire a quello secondo cui devono ritenersi rilevanti ai fini della determinazione del tasso “tutti gli oneri che l’utente sopporta in relazione all’utilizzo del credito”, pertanto ad un criterio fondato “su un’impostazione opposta, rovesciata rispetto a quella adottata” nelle succitate precedenti sentenze n. 12965 e n. 22270 del 2016; evidenziando in tale contesto, attraverso il richiamo alla pronuncia n. 5609/2017 della medesima Corte, che la commissione di massimo scoperto rappresenta “quale costo addossato al debitore, una specifica forma di remunerazione del credito” (integrando sicuramente un “costo collegato all’erogazione” dello stesso, secondo quanto già esplicitamente precisato dalle sentenze penali del Supremo Collegio n. 12028/2010 e n. 28743/2010 ed in conformità all’espresso tenore dell’art. 644 comma 4 c.c.); ragion per cui l’esclusione della predetta commissione dai costi di rilevanza usuraria, “dovrebbe comunque trovare … una oggettiva e forte giustificazione” e ciò anche con riferimento al periodo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 2 bis comma 2 del D.L. n. 185/1008, convertito in L. n. 2/2009. A ben vedere – a prescindere dalla loro inclusione o meno dell’algoritmo delle formule predisposte in base alle istruzioni della Banca d’Italia - la riconducibilità delle commissioni di massimo scoperto al novero delle voci di costo stabilite dall’art. 644 comma 4 c.p. non è revocabile in dubbio sia che si abbia riguardo alla definizione tradizionale delle medesime commissioni, contenuta nella (originaria) circolare della stessa Banca d’Italia del 1996 (nella quale esse vennero indicate come giustificate dalla facoltà di utilizzo da parte del cliente dello scoperto di conto corrente, rectius del <> ed integranti, in tal guisa, il corrispettivo per l'onere, a cui l'intermediario finanziario si sottopone, di procurarsi la provvista di liquidità all’uopo necessaria e di tenerla a disposizione del cliente, indipendentemente dall’effettività dell’utilizzo della stessa), sia che si consideri la funzione che le commissioni in questione hanno in concreto abitualmente assunto nella 83 prassi bancaria, ovvero quella di remunerazione sostanzialmente collegata all’intensità di utilizzo del credito (e quindi giustificata non già dal credito “accordato”, bensì da quello “utilizzato”), per quanto a prescindere dalla sua estensione nel tempo (sotto tale ultimo profilo diversamente dagli interessi). Tale conclusione, del resto, trova perspicua ed eloquente conferma nella già richiamata sentenza della Corte di Cassazione n. 5609/2017: “la commissione sul massimo scoperto o è un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi, come potrebbe inferirsi anche dall'esser conteggiata, nella prassi bancaria, in una misura percentuale dell'esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate e dalla sovente pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale; o ha una funzione remunerativa dell'obbligo della banca di tenere a disposizione dell'accreditato una determina somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo”; risultando evidente ad avviso di questo Giudice, nell’uno come nell’altro caso, che si tratti comunque di voci di costo “collegate all’erogazione del credito” (effettivo o potenziale che sia), ai sensi e per gli effetti dell’art. 644, comma 4 c.p.. Non a caso, la stessa Banca d’Italia (ed è una circostanza evidentemente non presa in considerazione nelle citate sentenze “gemelle” del 2016 della Corte regolatrice) – al punto C5 della circolare n. 12 del 2.12.2005, riteneva la C.M.S. “storica”, per l’appunto, un costo collegato all’erogazione del credito correlato al puro e semplice utilizzo dei fondi indipendentemente dalla durata del tempo di utilizzo (indicandola in modo espresso come “compenso … calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento” e come “commissione strutturalmente connessa alle sole operazioni di finanziamento per le quali l’utilizzo del credito avviene in modo variabile, sul presupposto tecnico che esista uno scoperto di conto”); pur considerandola e rilevandola “separatamente” dalle altre voci di costo (comprese nel T.E.G.) e motivando tale ultima soluzione metodologica con il rilievo per cui “la scelta di separata rilevazione è coerente con la 84 circostanza che l’entità della CMS dipende dalle modalità di utilizzo del credito da parte del cliente, limitandosi l’intermediario unicamente a predeterminare la misura percentuale”. Tale ultima considerazione (vale a dire la “variabilità” del ricorso al credito in ragione delle esigenze del cliente), in realtà, non vale, di per sé sola, ad escludere che la commissione in parola, in virtù della funzione sua propria, costituisca comunque un costo collegato all’erogazione del credito; essendo pertanto, in quanto tale, annoverabile tra quelli contemplati dall’art. 644, comma 4 c.p.. Non a caso, del resto, la succitata circolare della Banca d’Italia del 2005, sempre al punto C5, precisava esplicitamente che, invece, “analoghe commissioni applicate ad altre categorie di finanziamento” - nelle quali, cioè, il momento del ricorso al credito non fosse determinato dalla scelta del cliente – avrebbero dovuto essere “incluse nel calcolo del T.E.G..” Pare invero innegabile che la “variabilità” o la “predeterminazione” del ricorso al credito risultano indifferenti rispetto alla concreta funzione della commissione, che, nell’uno come nell’altro caso, risultava comunque – già allora, così come ancora adesso – collegata alla erogazione del credito. La stessa circolare della Banca d’Italia del 2005, del resto, al punto C4, richiamava espressamente, nell’indicare le voci di costo da computare per stabilire il T.E.G., il disposto di cui all’art. 644, comma 4 c.p. (“Ai sensi della legge, il calcolo del tasso deve tener conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, collegati all’erogazioni del credito”); ciò che vale a confermare quanto fosse scorretto non inserire le commissioni di massimo scoperto nell’algoritmo da utilizzare per il raffronto tra lo stesso T.E.G. e la soglia antiusura stabilita ex lege.

Analoghe considerazioni valgono – secondo quanto già dianzi esposto - con riguardo agli interessi moratori, anch’essi da sempre esclusi dall’algoritmo risultante dalle istruzioni della Banca d’Italia ai fini del calcolo del T.E.G. della singola operazione - e ciò sempre sul presupposto della presunta necessaria omogeneità delle formule di riferimento relative 85 a quest’ultimo ed al T.E.G.M. della categoria di riferimento e, correlativamente, sull’affermazione della diversità ontologica e funzionale degli stessi rispetto a quelli corrispettivi - ma che non possono che essere ricondotti alle voci integranti il costo del finanziamento in base al disposto di cui all’ineludibile art. 644, comma 4 c.p.. Come evidenziato, del resto, anche con riferimento agli interessi moratori, la Corte regolatrice, laddove ha rimarcato la loro soggezione al rispetto del tasso soglia, ha attribuito esclusiva rilevanza alla disciplina di Legge, piuttosto che alle istruzioni impartite dall’organo di vigilanza bancaria e dirette agli operatori finanziari.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono finalmente intervenute, con la sentenza n. 16303 del 20.06.2018, emanata in riferimento alle questioni sollevate con la già richiamata ordinanza interlocutoria della Prima Sezione Civile della stessa Suprema Corte, enunciando principi che assumono fondamentale rilevanza ai fini dell’ermeneutica della disciplina, potendo trovare applicazione anche al di là del limitato ambito operativo delle commissioni di massimo scoperto. In buona sostanza, pur affermando la natura innovativa (non già quindi di interpretazione autentica dell’art. 644 c.p.) dell’art. 2 bis del D.L. n. 185/2008 (convertito in L. n. 2/2009), le Sezioni Unite hanno comunque evidenziato che ciò non assume rilievo decisivo ed assorbente al fine di accertare se per i rapporti contrattuali già in essere alla data del 01.01.2010 le commissioni de quibus dovessero essere o meno considerate ai fini del calcolo del T.E.G. da utilizzare per la verifica antiusura: “L'esclusione del carattere interpretativo, e quindi retroattivo, del D.L. n. 185 del 2008, art. 2 bis, non è decisiva, però, per la soluzione della questione, che qui interessa, della rilevanza o meno delle commissioni di massimo scoperto ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell'usura presunta secondo la disciplina vigente nel periodo anteriore alla data dell'entrata in vigore di tale disposizione. ….. ”; precisando inequivocabilmente che, in ragione della sua natura funzionale, le commissioni in parola dovevano essere prese in considerazione, ai fini appena indicati, anche anteriormente 86 all’entrata in vigore del citato art. 2 bis: “Infatti la commissione di massimo scoperto, quale <> … , non può non rientrare tra le "commissioni" o "remunerazioni" del credito menzionate sia dall'art. 644 c.p., comma 4, (determinazione del tasso praticato in concreto) che dalla L. n. 108 del 1996, art. 2, comma 1 (determinazione del TEGM), attesa la sua dichiarata natura corrispettiva rispetto alla prestazione creditizia della banca”. A ben vedere, l’affermazione di tale principio rappresenta la definitiva ed autorevolissima conferma della centralità dell’art. 644 c.p. (in particolare dell’esclusiva rilevanza della nozione di collegamento funzionale rispetto all’erogazione del credito) ai fini del criterio di individuazione dei costi e degli oneri delle operazioni creditizie, quale norma di Legge autosufficiente e che non necessita di integrazione alcuna, ai fini appena indicati, da parte della normativa secondaria, tanto meno tramite le istruzioni della Banca d’Italia. In tale contesto, peraltro, le Sezioni Unite paiono aver recepito la teorica della necessaria omogeneità e simmetria tra costi e gli oneri rilevanti ai fini della determinazione del T.E.G.M. e quelli da computare ai fini del calcolo del T.E.G. (“L'indicata esigenza di omogeneità, o simmetria, è indubbiamente avvertita dalla legge, la quale, come si è già osservato, disciplina la determinazione del tasso in concreto e del TEGM prendendo in considerazione i medesimi elementi”), escludendo l’illegittimità dei Decreti Ministeriali di rilevazione del T.E.G.M. succedutisi nel corso degli anni, anteriormente al loro adeguamento alla riforma introdotta dal succitato art. 2 bis del D.L. n. 185/2008 convertito, nella parte in cui essi non ebbero ad includere le commissioni di massimo scoperto (come chiarito di per sé rilevanti in tale ambito, anche a prescindere dall’introduzione di tale ultima disciplina) tra le voci da computare per la determinazione del T.E.G.M. (e quindi per 87 stabilire il tasso soglia attraverso il quale operare il raffronto antiusura); e ciò sul rilievo per cui i predetti decreti, in realtà, contenevano la rilevazione delle commissioni de quibus, sia pure non già nell’ambito di tutti gli altri costi ed oneri delle operazioni creditizie a tal fine rilevanti, bensì, “separatamente” rispetto ad essi, in base alla prassi adottata nelle istruzioni della banca d’Italia: “L'ipotesi di illegittimità dei decreti sotto tale profilo … non avrebbe fondamento, perchè non è esatto che le commissioni di massimo scoperto non siano incluse nei decreti ministeriali emanati nel periodo, che qui interessa, anteriore all'entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008, art. 2 bis cit.. Dell'ammontare medio delle C.M.S., espresso in termini percentuali, quei decreti danno in realtà atto, sia pure a parte (in calce alla tabella dei T.E.G.M.), seguendo le indicazioni fornite dalla Banca d'Italia nelle più volte richiamate Istruzioni, come formulate sin dalla prima volta il 30 settembre 1996 e come successivamente aggiornate sino al febbraio 2006, le quali chiariscono che <> e che <>.” Sulla scorta di tali argomentazioni, con la medesima sentenza si è quindi evidenziato come la presenza nei Decreti Ministeriali di tale separata rilevazione delle C.M.S. “è sufficiente per escludere la difformità degli stessi rispetto alle previsioni di legge, perchè consente la piena comparazione - tenendo conto di tutti gli elementi che la legge prevede, comprese le commissioni di massimo scoperto - tra i corrispettivi della prestazione creditizia praticati nelle fattispecie concrete e il tasso soglia: nel che si sostanzia, appunto, la funzione propria dei decreti in questione, la quale è dunque adempiuta”; funzione che si risolve, essenzialmente, nella “rilevazione dei dati necessari ai fini della determinazione del tasso soglia, in vista della 88 comparazione, con questo, delle condizioni praticate in concreto dagli operatori”. Risultando quindi comunque possibile la verifica antiusura, nonostante la separata rilevazione delle C.M.S. nei Decreti Ministeriali emanati nel periodo antecedente al 01.01.2010, le Sezioni Unite hanno quindi rimarcato come “la comparazione di cui trattasi si rivela soltanto più complessa (peraltro non eccessivamente), perchè le commissioni di massimo scoperto, essendo rilevate separatamente secondo grandezze non omogenee rispetto al tasso degli interessi (a differenza degl'interessi, si calcolano sull'ammontare della sola somma corrispondente al massimo scoperto raggiunto nel periodo di riferimento e senza proporzione con la durata del suo utilizzo), devono conseguentemente essere oggetto di comparazione separata - ancorchè coordinata - rispetto a quella riguardante i restanti elementi rilevanti ai fini del tasso effettivo globale di interesse, espressi nella misura del T.E.G.M.)”. Nel richiamare espressamente il criterio già recepito nel Bollettino di Vigilanza n. 12 della Banca d’Italia – e rilevando che “l'applicazione di commissioni che superano l'entità della "CMS soglia" non determina, di per sè, l'usurarietà del rapporto, che va invece desunta da una valutazione complessiva delle condizioni applicate” – con la pronuncia in esame le Sezioni Unite hanno pertanto indicato il criterio attraverso il quale prendere in considerazione le commissioni di massimo scoperto ai fini del controllo di legalità: “per ciascun trimestre, l'importo della CMS percepita in eccesso va confrontato con l'ammontare degli interessi (ulteriori rispetto a quelli in concreto praticati) che la banca avrebbe potuto richiedere fino ad arrivare alle soglie di volta in volta vigenti (<>). Qualora l'eccedenza della commissione rispetto alla <> sia inferiore a tale <> è da ritenere che non si determini un supero delle soglie di legge)”; ed hanno infine enunciato il seguente principio: “Con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all'entrata in vigore delle disposizioni di cui al D.L. n. 185 del 2008, art. 2 bis, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009, ai fini della verifica del 89 superamento del tasso soglia dell'usura presunta come determinato in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, va effettuata la separata comparazione del tasso effettivo globale d'interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS) eventualmente applicata - intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento - rispettivamente con il tasso soglia e con la "CMS soglia", calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti ministeriali emanati ai sensi della predetta L. n. 108, art. 2, comma 1, compensandosi, poi, l'importo della eventuale eccedenza della CMS in concreto praticata, rispetto a quello della CMS rientrante nella soglia, con il "margine" degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza tra l'importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati". In altri termini – sempre con precipuo ed esclusivo riferimento al periodo del rapporto di conto corrente antecedente all’entrata in vigore del succitato art. 2 bis del D.L. n. 185/2008 convertito in Legge - occorrerà procedere ad una doppia comparazione, la prima tra il T.E.G. della singola operazione ed il tasso soglia proprio della categoria di riferimento (entrambi calcolati senza prendere in considerazione le C.M.S.) e la seconda tra la commissione di massimo scoperto concretamente applicata a quel medesimo rapporto in quel periodo ed un’ (ipotetica) commissione “soglia” (all’uopo appositamente determinata, pur in difetto di qualsivoglia riscontro normativo di un raffronto frazionato di tal genere nella disciplina legale in materia). Svolta questa operazione, occorrerà compensare l’importo dell’eventuale eccedenza della commissione di massimo scoperto con il margine degli interessi che sia eventualmente residuato, da calcolarsi sottraendo il T.E.G. alla soglia di legge: sussisterà usura qualora a seguito di detta compensazione dovesse sussistere ancora un importo residuale.

Non pare fuori luogo osservare che, in realtà, la Legge assegna ai Decreti Ministeriali in materia non già il compito di rilevare la percentuale media 90 delle commissioni di massimo scoperto applicate sul mercato “separatamente” rispetto a tutti gli altri costi ed oneri destinati a comporre il paniere del T.E.G.M., bensì quello di stabilire, per ciascuna categoria di rapporto contrattuale, detto T.E.G.M., quale dato di sintesi di tutti i predetti costi ed oneri: il tenore logico-testuale dell’art. 2 della L. n. 108/1996 pare al riguardo inequivoco.

Non è comunque revocabile in dubbio che la citata sentenza n. 16303 delle Sezioni Unite è destinata ad assumere una portata espansiva in relazione all’esegesi della disciplina in materia, potendo i principi in essa recepiti essere utilizzati quale chiave interpretativa degli altri profili di criticità e questioni controverse implicati dalla stessa disciplina.

L’affermazione del principio di omogeneità e simmetria dell’aggregato di costi ed oneri rilevanti ai fini della determinazione del T.E.G.M. e di quello cui occorre avere riguardo per il calcolo del T.E.G. della singola operazione finanziaria – trasposta sul piano dei finanziamenti strutturati con l’ammortamento alla francese - per un verso segna un’ulteriore conferma dell’infondatezza della teorica che esclude la possibilità (più che del cumulo o della sommatoria) della considerazione congiunta, ovvero dell’aggregazione ponderata degli interessi corrispettivi e di quelli moratori ai fini del vaglio antiusura (secondo quanto del resto già rimarcato dalla Suprema Corte nelle già citate pronunce n. 5324/2003, n. 23192/2017, n. 5598/2017, n. 27442/2017), atteso che predicare siffatta omogeneità non può che comportare, per coerenza logica, l’esigenza di tenere conto, per entrambe le suindicate operazioni, di tutti i costi del credito (e quindi sia quelli necessari e “fisiologici” che quelli eventuali e “patologici”): pare chiaro, infatti, che l’unico criterio di individuazione delle voci di costo del finanziamento aderente a tale soluzione ricostruttiva della disciplina in questione risulta essere quello più ampio, più inclusivo.

Per altro verso, l’adesione al principio di omogeneità dei costi ed oneri dell’attività creditizia, ove applicata in modo coerente in funzione chiave di lettura della disciplina in materia, dovrebbe condurre ad affermare l’inclusione degli interessi moratori non soltanto tra gli elementi da 91 considerare per calcolare il T.E.G. di una determinata tipologia di rapporto contrattuale (vale a dire ai fini dell’art. 644 comma 4 c.p.), ma anche tra i costi e gli oneri rilevanti per la determinazione del T.E.G.M. della categoria di operazioni finanziarie nel cui novero è riconducibile quello stesso rapporto; soluzione ricostruttiva che non può che comportare ragionevolmente, in chiave prospettica, il rischio di una tendenziale elevazione dello stesso T.E.G.M. (per l’appunto in quanto determinato in base a costi dell’operazione creditizia non soltanto “fisiologici”, ma anche eventuali e “patologici”) e, conseguentemente, un inevitabile incremento del tasso soglia di riferimento. Più precisamente, seguire la - pur autorevole - indicazione fornita dalle Sezioni Unite con la pronuncia in esame potrebbe indurre l’Istituto di Vigilanza sull’attività bancaria, attraverso le istruzioni diramate presso gli intermediari finanziari (e lo stesso Ministero competente), proprio in ossequio al richiamato principio di omogeneità, o ad inserire tutti i costi e gli oneri del finanziamento (inclusi quelli correlati all’evoluzione patologica del rapporto obbligatorio, come per l’appunto gli interessi moratori) tra gli elementi da prendere in considerazione per la determinazione del T.E.G.M., con conseguente alterazione della “fotografia” dell’ordinario costo del credito ed innalzamento del medesimo T.E.G.M. (che, comunque, in tal modo resterebbe pur sempre un dato sintetico unitario ed omnicomprensivo, in conformità al disegno prefigurato con l’art. 2 della L. n. 108/1996, in quanto derivato dalla sintesi ponderata e complessiva di tutte le voci di costo); ovvero, in alternativa, a rilevare “separatamente” tutti i costi e gli oneri de quibus, senza sintetizzarli nel T.E.G.M. unitario stabilito dal Legislatore per ciascuna categoria di operazione finanziaria e, quindi, facendo in modo che per ciascuno di essi venga in buona sostanza elaborato un tasso medio, destinato, previa applicazione della maggiorazione e degli adattamenti previsti dai commi 1 e 4 dell’art. 2 della citata Legge, ad essere raffrontato con il T.E.G. dello specifico rapporto contrattuale preso in considerazione ai fini del vaglio antiusura, per poi procedere a compensazioni tra le “eccedenze” ed i “margini” risultanti per 92 le varie voci, analogamente alla soluzione prospettata nella ridetta sentenza n. 16303 delle Sezioni Unite con riferimento alle commissioni di massimo scoperto. Tale ultima soluzione, oltre a porsi in palese contrasto con la lettera e la logica della Legge - che, per quanto chiarito, ha prefigurato il T.E.G.M. quale indice sintetico ed unitario, piuttosto che stabilire una pluralità di medie relative alle varie voci di costo del finanziamento, da sommare tra loro per determinare uno dei due parametri da raffrontare - si rivela anche in palese e radicale contrasto con la dichiarata ratio della disciplina imperativa in esame, atteso che, sotto il profilo matematico, frazionare il costo del credito nelle distinte componenti dello stesso (interessi propriamente detti, C.M.S., mora, spese e quant’altro), per poi calcolare per ciascuna di esse la media dei rispettivi valori di mercato, non potrebbe che comportare che la somma delle medie in tal modo ottenute risulti marcatamente più elevata della media che sarebbe derivata dal computo ponderato e sintetico di tutte le suddette componenti nell’ambito di un unico aggregato (secondo il modello recepito dal Legislatore); che implicherebbe, del pari, una sostanziale edulcorazione ed una tendenziale riduzione di efficacia del presidio antiusura. In realtà, come eloquentemente evidenziato dalla stessa Corte regolatrice con la già citata ordinanza n. 27442 del 30.10.2018, “la mancata previsione, nella legge 108/1996, dell’obbligo di rilevazione del saggio convenzionale di mora “medio” non solo non giustifica affatto la scelta di escludere gli interessi moratori dal campo applicativo della legge, 108/1996, ma anzi giustifica la soluzione opposta: il saggio di mora medio non deve essere rilevato non perché agli interessi moratori non s’applichi la legge antiusura, ma semplicemente perché la legge, fondata sul criterio della rilevazione dei tassi medi per tipo di contratto, è concettualmente incompatibile (con) la rilevazione dei tassi medi per tipo di titolo giuridico”.

Quanto sin qui esposto senza considerare che la stessa Corte regolatrice, con la già citata sentenza n. 23192 del 04.10.2017, ha implicitamente 93 riconosciuto l’inammissibilità della metodologia di verifica della conformità della mora alla disciplina antiusura riveniente dalla rilevazione statistica campionaria compiuta dalla Banca d’Italia nel terzo trimestre del 2001, in base alla quale la maggiorazione mediamente prevista nei contratti di mutuo a titolo di interessi di mora venne rilevata corrispondente mediamente a 2,1 punti percentuali in più rispetto al tasso degli interessi corrispettivi, soluzione, questa, alla quale ha in sostanza aderito la comunicazione della Banca d’Italia del 03.07.2013 (ed, ancor prima, la circolare dell’A.B.I. n. 4681/2003); circolare con la quale, nella consapevolezza della presa di posizione della Corte di legittimità nel frattempo intervenuta (“in ogni caso anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti-usura”), si è ipotizzato, per l’appunto, che “in assenza di una previsione normativa che determini una specifica soglia in presenza degli interessi di mora, la Banca d’Italia adotta nei controlli sulle procedure degli intermediari il criterio in base al quale i T.E.G. medi pubblicati sono aumentati di 2,1 punti per poi determinare la soglia su tale importo” attraverso l’ulteriore aumento del 25% + 4 punti (ancor prima, di quello del 50%), ricorrendo alla maggiorazione prevista dal comma 4 dell’art. 2 della L. n. 108/1996 in relazione al tasso soglia tout court.

Trattasi, a ben vedere, di criterio privo di qualsivoglia sostegno normativo e contrastante con la disciplina legale in materia e con la ricostruzione della stessa operata dalla Corte regolatrice. Come precisato, infatti, la soglia d’usura viene distinta dalla Legge in funzione della natura del credito (ovvero della tipologia di operazione finanziaria cui è riconducibile il singolo rapporto preso in considerazione), non già della diversa funzione (compensativa o moratoria) del tasso praticato; la mora interviene successivamente alla pattuizione/erogazione del finanziamento ed emerge in una fase di criticità e di deterioramento del sinallagma del rapporto, che esula dall’ordinaria fisiologia. Ed è proprio per questo motivo che essa, come già chiarito, non viene ricompresa nella rilevazione del T.E.G.M., pur dovendosene tenere conto ai fini della verifica del rispetto 94 della disciplina antiusura. All’obbligazione accessoria derivante dal mutuo (relativa, per l’appunto, agli interessi) vanno congiuntamente riferiti i costi corrispettivi e moratori, senza discriminazione alcuna fra la fase fisiologica e quella patologica del rapporto. Risulta quindi incongruente ipotizzare, per gli stessi interessi di mora, un tasso soglia più elevato (di quello pubblicato nei Decreti Ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2 della L. n. 108/1996) al verificarsi della patologia del rapporto obbligatorio.

Concependo un ipotetico "tasso usurario della patologia" più elevato, infatti, comporterebbe, da un lato, far assurgere la mora ad una specifica categoria di credito con sue proprie soglie d'usura (laddove la mora si configura, invece, come una semplice modifica del piano di ammortamento pattuito, dovuta al contegno inadempiente del debitore); dall'altro lato, si "vanificherebbe l'intero sistema, perché il limite dell'usura crescerebbe proprio al crescere del rischio, mentre la Legge intende invece proprio tutelare il cliente in tali ipotesi" (cfr. Tribunale di Udine 13.11.2014). In altri termini, appare più coerente con il sistema normativo ritenere che il Legislatore, nel ricomprendere entro la soglia d'usura tutti i costi dell’operazione creditizia a qualunque titolo convenuti o promessi, lungi dal disconoscere la diversa funzione degli interessi di mora e degli interessi corrispettivi, abbia, piuttosto, inteso porre un unico ineludibile limite tassativo, entro il quale ricomprendere, per l’appunto, tutti i costi del credito, inclusi quelli relativi ad ogni eventuale criticità e/o patologia del rapporto.

La questione appena trattata introduce ad un’ulteriore tematica che occorre affrontare ai fini della decisione della presente controversia, vale a dire - una volta acclarata la rilevanza anche degli interessi di mora ai fini del vaglio antiusura – quella inerente alle modalità ed al criterio di computo di questi ultimi in rapporto agli interessi corrispettivi pattuiti in contratto. Al riguardo, presupposto necessario ed ineludibile di un corretto approccio metodologico (sia sotto il profilo matematico-finanziario che in termini giuridici) è costituito dall’inammissibilità di un’ipotetica sommatoria algebrica, nel piano di ammortamento alla francese, tra interessi 95 corrispettivi e moratori nell’ambito del calcolo del T.E.G. della singola operazione creditizia cui raffrontare il tasso soglia della rispettiva categoria. Ove si consideri, infatti, che l’omesso pagamento di una rata fa decorrere gli interessi di mora, che subentrano agli interessi corrispettivi all’atto della scadenza della rata stessa, mentre il residuo capitale mutuato, qualora non intervenga la risoluzione o la decadenza dal beneficio del termine, continua a produrre degli interessi corrispettivi nell’ambito delle rate successive, in conformità al piano di ammortamento prefissato, non può che derivarne, per l’appunto, che l’automatica sommatoria dei due tassi risulta logicamente scorretta: il tasso corrispettivo è infatti riferito al capitale finanziato (residuo) e copre il periodo della rata; il tasso di mora, invece, è riferito alla quota capitale della singola rata scaduta (rectius, in base alla specifica normativa applicabile ratione temporis al mutuo oggetto di causa, riveniente dall’art. 3 della Circolare C.I.C.R. del 09.02.2000, all’intera rata scaduta) ed è dovuto per il periodo successivo alla scadenza degli stessi; di tal che, il tasso di mora (qualora applicato, nella ricorrenza delle condizioni suindicate) non si cumula – nel senso di somma aritmetica - con il tasso corrispettivo, subentrando ad esso dal momento della scadenza della rata rimasta insoluta. Ciò considerato ed atteso che il tasso d’interesse è il rapporto tra interesse e capitale in funzione del tempo, risulta palese che il fattore tempo non è omogeneo per i due tipi di interesse, né è omogenea la base sulla quale si calcolano i due tipi di interessi (il capitale nel caso degli interessi corrispettivi, il capitale cumulato con gli interessi nel caso degli interessi moratori). Per altro verso, per quanto possa apparire astrattamente ragionevole, nell’ottica dell’esclusione del cumulo algebrico tra i due tassi, procedere a scrutinare separatamente quello corrispettivo e quello moratorio rispetto al tasso soglia concernente la tipologia di rapporto contrattale di riferimento, va evidenziato che siffatto approccio metodologico potrebbe ragionevolmente valere, in ipotesi, soltanto qualora l’applicazione (rectius, ancor prima, la pattuizione nella quale si sostanzia l’illecito usurario) degli interessi moratori fosse effettivamente 96 destinata a "sostituire" (nella fase patologica del rapporto) quella degli interessi corrispettivi (vale a dire nell’ipotesi in cui la mora si risolvesse nel mero incremento degli interessi corrispettivi con lo spread, ovvero con la percentuale di maggiorazione rispetto a questi ultimi attraverso la quale viene determinato il tasso degli interessi moratori); non anche quando l’aggregazione delle due tipologie di interessi discenda, già in fase genetica, dalla stessa espressa previsione contrattuale che contempli l'interesse moratorio come applicato sull’intera rata (comprensiva anche della quota interessi) attraverso una maggiorazione percentuale di quello corrispettivo, pertanto non già in sostituzione, bensì, più precisamente, in funzione di aggregazione additiva, ciò che risulta consentito ai sensi della citata disciplina posta dall’art. 3 della delibera C.I.C.R. del 09.02.2000 (applicabile ratione temporis al mutuo oggetto di giudizio), disciplina integrante una sostanziale deroga al divieto di anatocismo ex art. 1283 c.c. giustificata dalla funzione risarcitoria degli interessi moratori (la cui natura giuridica, sotto tale profilo, recupera la propria automa rilevanza), sostanzialmente analoga a quella di una clausola penale, tale da consentire all’autonomia privata di riservare loro un trattamento diverso da quello riveniente da sistema normativo (riservato dal Legislatore agli interessi corrispettivi) fondato sul principio di proporzionalità e sul regime dell’interesse semplice (art. 821 c.c.).

Una volta evidenziata la scorrettezza metodologica sia della non applicabilità del vaglio antiusura agli interessi di mora, sia dell’ipotetica verifica separata del rispetto del relativo tasso ad una fantomatica specifica soglia usuraria (parcellizzando in tal modo il controllo di legalità, in contrasto con la ratio legis), sia della sommatoria algebrica (sic et simpliciter) dei tassi delle due tipologie di interessi ai fini di un unico vaglio antiusura, va sottolineato che, a fronte dell’omesso tempestivo pagamento di taluna delle rate previste dal piano di rimborso - quale che sia, tra i vari possibili, lo scenario di insolvenza che si venga in concreto a configurare - il rendimento effettivo del mutuo (parte integrante dell’aggregato di costi rilevante ai fini del vaglio antiusura, ex art. 644 comma 4 c.p.) sarà in ogni 97 caso costituito da una media ponderata del tasso corrispettivo, applicato al capitale (nel caso di specie quello residuo nel piano di rimborso alla francese predisposto secondo il regime di capitalizzazione composta, come dianzi chiarito) e riferito ai periodi convenuti e del tasso di mora, applicato al capitale scaduto (compreso nella rata insoluta) e riferito al periodo nel corso del quale si protrae l’inadempimento. E ciò in quanto, in ragione della sostituzione del T.E.G. al tasso nominale degli interessi corrispettivi quale grandezza da confrontare con il tasso soglia di riferimento, l’unica modalità concreta con la quale gli interessi di mora possono assumere rilievo nell’ambito del vaglio antiusura è calcolarne l’effetto, l’incidenza sul T.E.G. dei flussi finanziari dagli stessi generati, congiuntamente a quelli delle altre voci di costo; ciò salvo che il tasso moratorio, così come pattuito in contratto (e, quindi, fin dalla fase genetica del vincolo obbligatorio, indipendentemente da qualsivoglia possibile scenario di evoluzione “patologica” del rapporto) non si configuri di per sé solo usurario.

Una volta fissate le condizioni del mutuo (capitale finanziato, durata, periodicità delle rate, tasso corrispettivo e di mora), nel peggiore degli scenari (worst case) per il debitore, si può matematicamente dimostrare che il tasso effettivo annuo – corrispondente (a parte gli oneri fissi) alla media ponderata del tasso corrispettivo e del tasso di mora – tendenzialmente si avvicina, con il decorso del tempo ad un tasso determinato, che possiamo denominare worst rate. Questo tasso, in virtù del criterio della media ponderata, è compreso fra il tasso corrispettivo e quello di mora. Ogni altro scenario possibile del mutuo presenterà un tasso effettivo annuo inferiore al “tasso asintotico” che si presenta nel cd. worst case (generalmente integrato dall’ipotesi nella quale l’istituto di credito non si avvalga della facoltà, di solito convenzionalmente riconosciutagli, di risolvere il contratto facendo decadere il debitore dal beneficio del termine, facendo protrarre l’inadempimento di quest’ultimo fino al termine del piano di ammortamento ed in relazione a tutte le rate maturate). Risulta quindi intuitivamente percepibile che, tanto più il tasso corrispettivo è prossimo alla soglia d’usura, tanto più anche l’applicazione 98 di un modesto spread di mora comporta un worst rate eccedente rispetto alla medesima soglia. Ne deriva che, in definitiva, una volta determinato il worst rate del finanziamento, corrispondente al worst case, possono verificarsi varie situazioni: a) se il tasso soglia risulta superiore al worst rate, in ogni possibile scenario (anche il peggiore per il debitore), ciò evidentemente comporterà sempre il rispetto della soglia; b) se il tasso soglia si pone al di sotto del tasso corrispettivo, ovviamente in ogni possibile scenario (anche il migliore), risulterà accertato il debordo della soglia d’usura; c) qualora il tasso soglia si collochi nella zona grigia di criticità, compresa fra il tasso corrispettivo e il worst rate, sussiste un ventaglio, più o meno ampio, di possibili scenari evolutivi del piano di ammortamento che conducono il costo del credito in usura.

Va infine trattata la questione se, una volta acclarata l’usurarietà del tasso degli interessi moratori pattuito, la sanzione dell’eliminazione degli interessi prevista dall’art. 1815 comma 2 c.c. debba attenere soltanto a quelli moratori o si riferisca anche a quelli corrispettivi.

Al riguardo, un diffuso indirizzo giurisprudenziale ha negato l’esistenza di un vincolo di interdipendenza tra la pattuizione dei due tipi di interessi ai fini della verifica antiusura, trattandosi di interessi dovuti in alternativa; in particolare, nell’ipotesi di interessi moratori superiori al tasso soglia e di interessi corrispettivi legittimi, si è osservato che “ad essere sanzionata con la nullità totale della clausola che determina la misura degli interessi è solo la previsione relativa al tasso da applicare per gli interessi moratori, ma non anche quella per gli interessi corrispettivi, che, comunque sono dovuti”, essendo questi ultimi pattuiti “in misura …inferiore al tasso usurario all’epoca stabilito …”, di tal che, la clausola ad essa relativa resta valida ed efficace Trib. Siena 09.10.2018, Trib. Como 17.07.2018, Trib. Taranto 15.06.2018, Trib. Ferrara 6.6.2017, Trib. Bari 27.09.2016, Trib. Bologna 24.02.2016, Trib. S Maria Capua Vetere 23.02.2016, Trib. 99 Novara 08.10.2015, Trib. Chieti 23.04.2015, Trib. Trani 10.03.2014, Trib. Reggio Emilia 24.02.2015, Id. 23.07.2015, Trib. Milano 28.01.2014, Trib. Treviso 11.04.2014. Tale ricostruzione, che nelle pronunce appena citate si fonda sulla distinzione funzionale delle due tipologie di interessi, ha trovato riscontro nella recentissima, già richiamata, ordinanza della Corte di Cassazione 30.10.2017 n. 27442, sia pure attraverso un mero obiter dictum – cui, in quanto tale, non può quindi attribuirsi rilievo nomofilattico - atteso che la decisione in proposito contenuta nella sentenza sottoposta al vaglio dello stesso Supremo Collegio non costituiva oggetto di motivo di impugnazione. Gli argomenti cui si è fatto ricorso in tale ultima pronuncia a sostegno del predetto obiter dictum non risultano affatto convincenti, sostanziandosi, per un verso, nell’apodittica affermazione secondo cui l’art. 1815 comma 2 c.c. “si riferisce solo agli interessi corrispettivi” - assunto di per sé contraddetto dallo stesso tenore letterale della disposizione, che non contiene distinzioni di regime di sorta in ragione della diversa natura degli interessi (“se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”) – e, dall’altro, nell’asserita diversità di fondamento giustificativo causale di quelli moratori rispetto a quelli corrispettivi (“la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale”). Vari e di non poco momento risultano i profili di criticità che connotano tale ultima considerazione: in primo luogo, essa si configura in palese contraddizione con l’affermazione, cui pure si è fatto ricorso nel medesimo contesto argomentativo, circa “l’identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori” agli effetti della specifica disciplina in esame, evidenziata nella motivazione della stessa ordinanza (funzione consistente nel compensare o ristorare, in favore del creditore, la mancata fruttuosità del capitale concesso in prestito o dell’omesso tempestivo adempimento dell’obbligazione pecuniaria); non è dato poi comprendere 100 quale siano le “norme generali” (in luogo della sanzione prevista dall’art. 1815 comma 2 c.c.) che dovrebbero applicarsi agli interessi corrispettivi nell’ipotesi in cui il tasso soglia risulti superato dal (solo) saggio degli interessi moratori pattuiti, ove si consideri che il testo dell’art. 1815 comma 2 c.c. ante riforma (che recitava testualmente “se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e gli interessi sono dovuti solo nella misura legale”) – unica previsione cui pare aver fatto riferimento la Suprema Corte in tale contesto - non è più in vigore ormai da più di venti anni, proprio per effetto dell’introduzione della disciplina novellata dalla L. n. 108/1996, in particolare in forza dell’art. 4 (il cui testo recita “il secondo comma dell'art. 1815 del codice civile è sostituito dal seguente ); non pare di immediata percepibilità, del resto, la ragione per la quale, a fronte della pattuizione di interessi moratori usurari e della conseguente nullità della relativa clausola, il mutuante possa essere definito contraente “danneggiato”, considerato che l’incriminazione dell’illecito usurario (dal quale il mutuante è destinato a trarre vantaggio) e la correlata tutela civilistica trovano fondamento, oltre che in un principio di ordine pubblico, nell’esigenza di assicurare protezione alla sfera patrimoniale del mutuatario.

Per un diverso orientamento – cui questo giudicante ritiene da aderire, in quanto aderente all’effettiva ratio della Legge ed alla funzione sanzionatoria della disposizione in esame, la previsione di cui all’art. 1815 comma 2, c.c. non si limita a sancire la nullità della clausola usuraria, ma preclude in via generale e sanzionatoria, ogni remunerazione del credito mutuato (cfr. Trib. Napoli, 28.01.2014, conf. App. Bari 04.06.2018, Trib. Udine 13.11.2014, Trib. Pesaro 05.10.2017, Trib. Massa 23.03.2016). La sanzione consistente nella conversione del mutuo usurario in mutuo gratuito – fondata sull’obiettivizzazione della fattispecie criminosa, con abbandono del presupposto soggettivo dello stato di bisogno del debitore, a favore del limite oggettivo della "soglia" di cui all'art. 2, comma 4 della L. n. 108/1996 - implica il necessario abbattimento di qualunque somma 101 prevista a titolo di interesse, legale o convenzionale, di natura compensativa o risarcitoria, pertanto sia a titolo di interessi corrispettivi che di interessi moratori, con la sola esclusione dei rapporti contrattuali già esauriti alla data dell’entrata in vigore della medesima Legge (cfr. Cass. n. 5324/2003, Id. n. 14899/2000, n. 603/2013 cit., App. Venezia, 18.02.2013, n. 342). La formula in cui si esprime l’art. 1815 comma 2 c.c., in difetto di esclusioni o specificazioni di sorta, non consente alcuna distinzione tra interessi corrispettivi ed interessi moratori, né tra le corrispondenti pattuizioni; per altro verso, essendo il tasso moratorio pattuito attraverso una maggiorazione del tasso di quelli corrispettivi, la sanzione della nullità prevista dalla disposizione in questione non può che travolgere necessariamente tutti i suoi componenti e quindi anche il tasso corrispettivo di riferimento. Non pare revocabile in dubbio, del resto, che, in base ad un fondamentale criterio di coerenza sistematica, la nozione di interesse contemplata da tale ultima disposizione è univocamente determinata dall’art. 644 c.p.. Ciò posto, non si vede per quale ragione lo stesso art. 644 c.p. dovrebbe riguardare tutti gli interessi “convenuti a qualunque titolo”, secondo quanto precisato dal D.L. n. 394/2001 (convertito nella Legge di interpretazione autentica n. 24/2001) e l’art. 1815 c.c. prendere in considerazione, invece, soltanto quelli di mora.

D’altra parte, essendo il finanziamento unico, pare ragionevole che tutti gli oneri inerenti al credito concesso, a qualsiasi titolo pattuiti, concorrano congiuntamente a formare lo squilibrio contrattuale sanzionato sia dall’art. 644 c.p. che dall’art. 1815 comma 2 c.c.; previsione, quest’ultima, che, a fronte della violazione del tasso soglia, colpisce quindi l’intero plesso dei costi, costituente l’interesse “allargato” previsto dall’art. 644 c.p., non i singoli addendi che lo compongono. Lo stretto collegamento fra i due articoli appena citati, che definisce ineludibilmente il raggio di azione della sanzione, è puntualizzato dalla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 24675/17, laddove, nel declinare i riflessi indotti dalla suindicata norma di interpretazione autentica, in parte motiva si è espressamente precisato: “Una sanzione (che implica il divieto) dell’usura 102 è contenuta, per l’esattezza, anche nell’art. 1815, secondo comma, cod. civ. – pure oggetto dell’interpretazione autentica di cui si discute – il quale però presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma penale integrata dal meccanismo previsto dalla L. n. 108”. In tale contesto, pare poi dirimente il rilievo per cui la stessa precitata previsione di cui al D.L. n. 394/2001 convertito in Legge, nel definire in senso oggettivo la nozione di usurarietà (incentrata sul superamento del tasso soglia) e nel focalizzare l’incriminazione nella fase genetica del vincolo obbligatorio, quale che sia il titolo e la funzione giustificativa degli interessi, ha precisato espressamente che l’interpretazione autentica in questione vale “ai fini dell'applicazione dell'art. 644 del codice penale e dell'art. 1815, secondo comma, del codice civile”, ciò che costituisce chiara ed inequivoca conferma che, in difetto di riserve o eccezioni di sorta, una volta riscontrato l’illecito usurario vanno decurtati sia gli interessi moratori che quelli corrispettivi; non valendo la diversità funzionale delle due tipologie di interessi a giustificare un’ipotetica diversità di trattamento in tale contesto di disciplina, trattandosi di previsione sanzionatoria. Il tenore di quest’ultima previsione normativa, del resto, si configura assolutamente coerente con la ratio legis, atteso che, una volta acclarato, secondo quanto sin qui chiarito, che il termine di raffronto cui avere riguardo ai fini del vaglio antiusura è costituito (semanticamente e giuridicamente) non già dal tasso nominale, bensì il T.E.G. (ovvero il costo complessivo del finanziamento, comprensivo anche degli onere economici riconducibile a scenari divergenti dall’evoluzione “fisiologica” del rapporto), il disposto di cui all’art. 1815 comma 2 c.c., in forza del quale “se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi” deve essere inteso - nella sua effettiva portata precettiva ed in aderenza alla natura sanzionatoria della medesima disposizione - nel senso che se è convenuto un costo complessivo usurario la clausola è nulla e tale costo (nella sua totalità) 103 non è dovuto. Non può che derivarne, in definitiva, che anche gli interessi corrispettivi non sono dovuti.

In conclusione, ai fini della decisione della presente controversia, stante l’accertamento compiuto dal C.T.U. circa il superamento del tasso soglia in relazione al contratto di mutuo inter partes, previa declaratoria della conversione del medesimo mutuo da oneroso a gratuito, ex art. 1815 comma 2 c.c., ........................ va dichiarata tenuta e condannata al pagamento in favore degli attori, a titolo di indebito, degli importi corrisposti da questi ultimi per interessi, ammontanti alla complessiva somma di € 42.313,68 al 22.12.2013, indicata dal C.T.U. quale data di scadenza della rata n. 82.

La suddetta somma capitale va maggiorata dei soli interessi legali, con decorrenza dalla data della domanda giudiziale (30.09.2014, data di notificazione della citazione), non già anche della pretesa rivalutazione monetaria, in difetto di specifica allegazione e di prova dell’ipotetico maggior danno ex art. 1224 comma 2 c.c.. In materia di indebito oggettivo, la buona fede dell' "accipiens", rilevante ai fini della decorrenza degli interessi dal giorno della domanda, va intesa in senso soggettivo, quale ignoranza dell'effettiva situazione giuridica, derivante da un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave, non trovando applicazione l'art. 1147 comma 2, c.c., relativo alla buona fede nel possesso, sicché, essendo essa presunta per principio generale, grava sul "solvens", che intenda conseguire gli interessi dal giorno del pagamento, l'onere di dimostrare la malafede dell' "accipiens" all'atto della ricezione della somma non dovuta, quale consapevolezza della insussistenza di un suo diritto a conseguirla (cfr. Cass. n. 23543/2016, Id. n. 10815/2013, n. 12211/2007, n. 5330/2005).

Dalle allegazioni difensive delle parti non è dato evincere quale sia stata la sorte del contratto di mutuo successivamente alla scadenza della ottantaduesima rata, momento con riferimento al quale è stata compiuta l’analisi contabile del C.T.U. posta a fondamento della presente decisione.

104 Qualora il rapporto contrattuale risultasse comunque ancora in essere, il relativo piano di ammortamento non potrà che essere costituito dalle rate di uguale importo, complessivamente ammontanti alla sola sorte capitale residua, con possibilità di compensazione, fino a concorrenza di importi corrispondenti, tra la somma capitale oggetto della condanna ex art. 2033 c.c. emessa a carico di ........................ e quelle dovute dai mutuatari (giova ribadire limitatamente alla sola sorte capitale) in riferimento alle rate di rimborso residue.

L’azione risarcitoria fondata sulla prospettata perpetrazione del reato di usura (pare doversi ragionevolmente intendere ex art. 2059 c.c.), infine, non può trovare accoglimento, in difetto di prova dell’elemento soggettivo della fattispecie criminosa di cui all’art. 644 c.p., per la ragione dianzi indicata.

Il regime delle spese processuali viene definito in conformità al principio di soccombenza, ex art. 91 c.p.c.. In applicazione del medesimo principio, il compenso in favore del C.T.U. – già provvisoriamente liquidato con decreto del 25.03.2016 agli atti, viene posto definitivamente a carico della banca convenuta. Ai fini della liquidazione delle spese di lite, si stima equo e conforme a giustizia applicare i parametri medi corrispondenti allo scaglione di valore proprio della controversia in base al D.M. n. 55/2014, aumentati del 50%, tenuto conto dei criteri e dei parametri di maggiorazione di cui all’art. 4 del medesimo D.M.. Agli attori va altresì riconosciuto, come da domanda, la rifusione della spesa sostenuta a titolo di compenso del proprio C.T.P., ammontanti ad € 1.220,00 (attestata dalla documentazione prodotta dalla difesa attorea all’udienza del 13.12.2017, peraltro non contestata ex adverso), trattandosi di esborso funzionale alle esigenze difensive e congruo in rapporto all’attività da quest’ultimo svolta, quale desumibile dagli atti di causa, essendo in quanto tale annoverabile tra quelle che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsate (cfr., ex plurimis, Cass. n. 84/2013). Va invece disattesa la richiesta di rimborso del compenso asseritamente corrisposto per la redazione della perizia contabile di parte (quantificato nelle conclusioni rassegnate nell’importo di 105 € 2.800,00) in difetto di prova circa l’effettività di tale pagamento, del quale non si ravvisa traccia documentale in atti.


P.Q.M.

Il Tribunale di Massa, in composizione monocratica, definitivamente decidendo nella causa di cui in epigrafe, ogni diversa e contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa: - Accertata l’usurarietà del tasso di interessi pattuito nel contratto di mutuo oggetto di giudizio, dichiara l’inesistenza, in capo agli attori .................... e ......................., dell’obbligo di pagamento di interessi sulla somma loro mutuata in forza del suddetto contratto, dichiarando altresì tenuta e condannando la convenuta ........................ al pagamento, in favore dei predetti attori della somma complessiva dai medesimi versata a titolo di interessi in esecuzione del suindicato contratto di mutuo, quantificata in € 42.313,68 alla data del 22.12.2013, oltre interessi legali maturati e maturandi sulla stessa somma con decorrenza dal 30.09.2014 fino al saldo effettivo.

- Condanna ........................ alla rifusione in favore degli attori delle spese processuali, che liquida, in applicazione del D.M. n. 10.03.2014 n. 55, in complessivi € 7.808,63, di cui € 556,13 per esborsi ed anticipazioni ed € 7.252,50 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali ed oltre I.V.A., C.P.A., se dovuti come per legge.

- Pone definitivamente a carico di ........................ il compenso provvisoriamente liquidato in favore del C.T.U. dott. Germinara con decreto del 25.03.2016 agli atti, dichiarando altresì tenuta e condannando la stessa banca convenuta al rimborso in favore degli attori della somma di € 1.220,00 da questi ultimi sostenuta a titolo di compenso per il proprio C.T.P..

Così deciso in Massa, il 07.11.2018.

IL GIUDICE UNICO dott. Domenico Provenzano