Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 2090 - pubb. 26/03/2010

Concordato preventivo, azioni di accertamento e corso degli interessi

Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 08 Giugno 2009, n. 13181. Est. Ianniello.


Concordato preventivo – Azioni di accertamento – Interessi e rivalutazione monetaria – Efficacia endoconcorsuale – Par condicio creditorum.



Nel corso della procedura di concordato preventivo, è precluso ai creditori con titolo anteriore al decreto di ammissione alla procedura esclusivamente l'esercizio delle azioni esecutive e non anche quelle di accertamento e di condanna, le quali restano proponibili davanti al giudice competete anche per ciò che riguarda gli interessi moratori e la svalutazione, il cui corso non è sospeso per effetto di tale procedura. Il principio di cristallizzazione anche dei crediti risarcitori alla data di presentazione della domanda di concordato per via del richiamo all'applicazione dell’art. 55 legge fallimentare, operato dall'art. 169, ha infatti portata interna alla procedura concorsuale. Nè dalla pronuncia di condanna nei confronti dell'imprenditore ammesso al concordato preventivo potrebbe derivare alcun pregiudizio alla "par condicio creditorum", considerato che il credito giudizialmente accertato nella sua integrità, con sentenza passata in giudicato dopo l'omologazione del concordato stesso, potrà essere soddisfatto - se non assistito da cause di prelazione (o di prededucibilità) - nei limiti della percentuale concordataria. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)



 

omissis

Fatto

A.A., dipendente della C.E.P. - Conceria Est Partenio - s.p.a., con qualifica di dirigente, era stato licenziato in data 29 ottobre 1999 "a causa del perdurare della grave crisi della nostra azienda in CIGS riconosciuta con decreto del Ministero del lavoro", con preavviso di durata annuale decorrente dal 1 novembre 1999, interrotto, come da comunicazione del 2 maggio 2000 dalla società, a seguito della cessazione definitiva dell'attività aziendale avvenuta in data 14 aprile 2000.

Con ricorso depositato il 9 maggio 2002 presso la cancelleria del Tribunale di Avellino, adito quale giudice del lavoro, l' A., invocando, tra l'altro, l'applicazione nei propri confronti dell'accordo sindacale 27 aprile 1995 relativo ai dirigenti, aveva chiesto l'erogazione della "indennità supplementare al trattamento di fine rapporto pari al corrispettivo del preavviso individuale maturato prevista da tale accordo per il dirigente licenziato per motivi legati, in particolare, alla situazione di crisi dell'impresa datrice di lavoro.

La domanda in questione, respinta dal giudice di primo grado con sentenza del 29 febbraio 2002, è stata accolta, su appello di A.A., dalla Corte d'appello di Napoli con sentenza depositata il 22 luglio 2005 e notificata il 1 febbraio 2006, che ha conseguentemente condannato la CEP a pagare all' A. la somma di Euro 74.163,04 "oltre rivalutazione secondo indici ISTAT e interessi al saggio legale della somma via via rivalutata dalla data di maturazione del credito al saldo".

La Corte territoriale ha argomentato la propria decisione sulla base dell'interpretazione resa in ordine all'accordo del 27 aprile 1995 - del quale ha riprodotto il contenuto -, concludendo nel senso che il diritto all'indennità supplementare nascerebbe con l'adozione di un licenziamento motivato con riferimento alla situazione di crisi della azienda o di ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione della stessa, senza che su tale diritto incida, per estinguerlo, la successiva dichiarazione di fallimento o l'ammissione al concordato preventivo o la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa, eventi che, alla stregua della disciplina contrattuale, escluderebbero invece la nascita stessa del diritto unicamente nel caso in cui il licenziamento sia stato originariamente motivato come dovuto ad essi.

Avverso tale sentenza propongono distinti, identici ricorsi per cassazione (notificati e depositati alla medesima data) la società in persona del legale rappresentante della stessa e il liquidatore giudiziale del relativo concordato preventivo, ognuno affidato a tre motivi, illustrati poi con distinte memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

Resiste alle domande A.A. con due distinti rituali controricorsi.

Diritto

1 - I ricorsi vanno riuniti a norma dell'art. 335 c.p.c., avendo ad oggetto la medesima sentenza.

2 - Va preliminarmente esaminata l'eccezione formulata dal controricorrenti, di inammissibilità del ricorso proposto dal commissario liquidatore del concordato preventivo della società, per non avere questi chiesto e ottenuto l'autorizzazione a proporlo dal giudice delegato della procedura, necessario in quanto si tratterebbe di un atto di straordinaria amministrazione.

L'eccezione è infondata, risultando comunque dalla sentenza di omologazione del concordato preventivo relativo alla società, prodotta ex art. 272 c.p.c., dal liquidatore con la memoria ex art. 378 c.p.c., l'autorizzazione al liquidatore giudiziale del concordato a esperire, a tutela del patrimonio del ceduto, "tutte le eventuali necessarie azioni giudiziarie".

3 - Col primo motivo dei due ricorsi, viene dedotta la violazione dell'art. 132 c.p.c., per omessa motivazione della sentenza impugnata in ordine ad un punto decisivo.

La società, nel costituirsi nel giudizio di merito di primo grado, avrebbe eccepito la inapplicabilità al rapporto dedotto dell'accordo collettivo del 27 aprile 1995, per non essere essa società iscritta alla associazione sindacale dei datori di lavoro stipulante tale accordo.

Tale eccezione sarebbe stata reiterata in sede di costituzione nel giudizio di appello, ma la Corte avrebbe omesso sul punto ogni pronuncia.

La deduzione in esame, la quale, in quanto investe l'omessa pronuncia su di una eccezione di merito, relativa ad un fatto indicato come impeditivo del diritto azionato, sarebbe più propriamente riconducibile alla violazione dell'art. 112 c.p.c., (cfr., sull'argomento, Cass. S.U. 18 dicembre 2001 n. 15982 e le successive, tra cui la recente Cass. 11 febbraio 2009 n. 3357) non appare rilevante.

Come è noto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., per tutte, Cass. 29 marzo 1982 n. 1965, 4 marzo 1996 n. 1672), le norme dei contratti collettivi di lavoro di diritto comune sono soggettivamente vincolanti unicamente per i soggetti iscritti alle associazioni sindacali stipulanti il relativo accordo ovvero per coloro che a tali norme prestino adesione o che le stesse abbiano implicitamente recepito in via di fatto.

Nel caso in esame, pertanto, per poter ottenere da questa Corte la cassazione della sentenza, in ragione della non vincolatività per la società dell'accordo collettivo su cui fonda la domanda dell' A., la CEP avrebbe dovuto dedurre non solo la mancata pronuncia della Corte territoriale in ordine alla eccezione di mancata iscrizione della società ad alcuna delle associazioni stipulanti l'accordo del 27 aprile 1995, ma altresì in ordine alla deduzione di non avere aderito a tale accordo e di non averlo recepito in azienda in via di fatto, deduzione viceversa non indicata come proposta in appello.

2 - Col secondo motivo, la sentenza impugnata viene censurata "per erronea interpretazione e applicazione dell'accordo sindacale del 27 aprile 1995 e degli artt. 1362 c.c. e segg.".

Le difese sostengono che nell'interpretare l'accordo collettivo relativo alla indennità supplementare dei dirigenti in caso di licenziamento per crisi aziendale o liquidazione dell'azienda "con esclusione delle ipotesi di fallimento, di concordato preventivo, di liquidazione coatta amministrativa e di altre forme di procedure concorsuali", la Corte territoriale avrebbe fatto erronea applicazione delle norme codicistiche di ermeneutica contrattuale, fermandosi semplicisticamente alla rilevazione di un dato testuale assolutamente parziale, senza procedere ad una lettura integrale dell'accordo, nelle possibili interconnessioni tra le relative componenti.

Inoltre il procedimento logico seguito sarebbe viziato dalla mancata considerazione che l' A. in data 29 ottobre 1999 non era stato licenziato ma unicamente preavvertito del licenziamento, il quale avrebbe avuto pertanto effetto al termine del preavviso in data 31 ottobre 2001, poi in realtà azzerato con la cessazione della attività aziendale avvenuta il 14 aprile 2000, come da comunicazione della società del 2 maggio 2000, quindi comunque successivamente all'ammissione alla procedura di concordato preventivo del 15 febbraio 2000, omologata il 27 luglio 2000.

Secondo la ricorrente, se la Corte avesse considerato tali dati, avrebbe dovuto valutare la fondatezza della domanda con riguardo alla situazione esistente alla data di effettiva cessazione del rapporto e non a quella del preavviso di licenziamento, conseguentemente rigettandola, in quanto in quel momento, essendo in corso la procedura di concordato preventivo della società, era escluso il diritto del dirigente alla indennità supplementare, alla stregua dello stesso contenuto dell'accordo collettivo.

Il motivo è infondato.

Va in proposito ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte l'interpretazione di una norma contrattuale, come è quella contenuta in un contratto collettivo di diritto comune, è operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto, come tale riservato al giudice di merito e pertanto incensurabile in cassazione se non per vizi attinenti ai criteri legali di ermeneutica o ad una motivazione carente o contraddittoria nella relativa applicazione.

Va altresì ribadito che i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, quelli strettamente interpretativi (artt. 1362 e 1365 c.c.) prevalgono su quelli interpretativi - integrativi (artt. 1366 e 1371 c.c.) ove la concreta applicazione degli stessi risulti da sola sufficiente a rendere pienamente conto della comune intenzione delle parti (cfr., al riguardo, ex plurimis, Cass. 9 febbraio 2006 n. 9553).

Nell'ambito dei canoni strettamente interpretativi risulta poi, nella legge, prioritario il criterio fondato sul significato letterale delle parole, di cui all'art. 1362 c.c., comma 1, con la conseguenza che questo può in alcuni casi orientare in maniera conclusiva, da solo, l'operazione ermeneutica.

Non va peraltro taciuto con riguardo alla interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune - che costituiscono sovente il frutto di una faticosa e non sempre efficace ricerca di un compromesso -, che il dato letterale della norma possa risultare ambiguo, per cui si rende necessario ricorrere agli altri canoni strettamente interpretativi e, in caso di insufficienza, a quelli interpretativi - integrativi.

Ciò premesso, la norma contrattuale collettiva decisiva per la soluzione della controversia e riprodotta nella sentenza impugnata è del seguente tenore:

"... in presenza delle specifiche fattispecie di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione ovvero crisi aziendale di cui alla L. n. 223 del 1991... l'azienda che risolva il rapporto di lavoro a tempo indeterminato motivando il proprio recesso come dovuto alle situazioni sopra indicate erogherà al dirigente, oltre alle spettanze di fine lavoro, un'indennità supplementare al trattamento di fine rapporto pari al corrispettivo del preavviso individuale maturato...

La medesima disciplina trova altresì applicazione... nei casi di messa in liquidazione previsti dal codice civile, con esclusione delle ipotesi di fallimento, di concordato preventivo, di liquidazione coatta amministrativa e di altre forme di procedure concorsuali".

Procedendo all'interpretazione di tale accordo, la Corte territoriale ha mosso dalla considerazione del dato testuale, esaminato poi anche nelle interconnessioni istituibili tra le varie parti del testo, giungendo ai risultati indicati nella parte narrativa della presente sentenza sulla base di ampie, approfondite argomentazioni, sviluppate secondo una linea logica coerente e priva di soluzioni di continuità.

La relativa attività interpretativa viene ora censurata dalla società con l'affermazione astratta di talune regole che dovrebbero presiedere, per legge, alla interpretazione dei contratti, senza peraltro specificare le ragioni per cui tale regole non sarebbero state osservate dai giudici di merito nel caso concreto sottoposto al loro esame e formulando accuse di parzialità nell'applicazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale del tutto generiche.

In proposito, l'unica censura in qualche modo specificata sembra essere quella diretta ad evidenziare che la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare la circostanza, ritenuta decisiva, che il licenziamento avrebbe avuto effetto da epoca successiva all'avvio della procedura di concordato preventivo e che pertanto a tale data dovevasi far riferimento nell'applicazione dell'accordo collettivo.

Il motivo evoca in realtà, al riguardo, un vizio di motivazione della sentenza, sul piano della adeguatezza della interpretazione dell'accordo collettivo da essa resa ed è comunque infondato, pretendendo, in maniera non ammissibile in questa sede di legittimità, di contrapporre a quella della Corte d'appello una propria diversa interpretazione, senza formulare una specifica censura di illogicità o di inadeguatezza al relativo accertamento secondo cui ciò che rileva ai fini della nascita del diritto alla indennità alla stregua dell'accordo collettivo è l'esistenza di un licenziamento motivato come dovuto ad una delle situazioni menzionate.

3 - Col terzo, logicamente gradato motivo, viene dedotta dai due ricorsi la violazione o falsa applicazione della L. Fall., art. 169, in relazione all'art. 429 c.p.c., comma 3.

Il motivo riguarda la condanna della società a corrispondere al dirigente l'equivalente di rivalutazione monetaria e gli interessi legali sulla somma via via rivalutata, dalla maturazione del credito al saldo.

La statuizione sarebbe in contrasto col principio consolidato nel senso che interessi legali e rivalutazione sono dovuti unicamente fino alla data di presentazione della domanda di concordato da parte del debitore, L. Fall., ex artt. 169 e 55. In ogni caso, la decorrenza di tali accessori non potrebbe mai travalicare il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato preventivo.

Anche tale motivo è infondato. E' stato infatti ripetutamente affermato da questa Corte il principio secondo cui nel corso della procedura di concordato preventivo è precluso ai creditori per un titolo anteriore al decreto di ammissione alla procedura esclusivamente l'esercizio delle azioni esecutive e non anche quelle di accertamento e di condanna, le quali restano proponibili davanti al giudice competete anche per ciò che riguarda gli interessi moratori e la svalutazione, il cui corso non è sospeso per effetto di tale procedura. Il principio di cristallizzazione anche dei crediti risarcitori alla data di presentazione della domanda di concordato per via del richiamo all'applicazione della L. Fall., art. 55, operato dall'art. 169, ha infatti portata interna alla procedura concorsuale. Nè dalla pronuncia di condanna nei confronti dell'imprenditore ammesso al concordato preventivo potrebbe derivare alcun pregiudizio alla "par condicio creditorum", considerato che il credito giudizialmente accertato nella sua integrità, con sentenza passata in giudicato dopo l'omologazione del concordato stesso potrà essere soddisfatto - se non assistito da cause di prelazione (o di prededucibilità) - nei limiti della percentuale concordataria" (Cass. 30 marzo 2005 n. 6672, 22 dicembre 2006 n. 27489 e 14 marzo 2008 n. 6953).

E' pertanto in sede di adempimento del concordato preventivo che dovrà essere soddisfatto anche il credito per rivalutazione e interessi accertato e di cui alla condanna della sentenza impugnata, secondo le regole della legge fallimentare, tenendo altresì conto della sentenza della Corte Costituzionale 19 dicembre 1986 n. 300, dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 59, richiamato dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 169 e art. 429 c.p.c., comma 3, nonchè dell'art. 55, comma 1, richiamato dall'art. 169 e art. 54, comma 3, del medesimo Regio decreto.

In base alle considerazioni svolte i ricorsi vanno respinti, con le normali conseguenze anche in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M

La Corte:

Riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna la società ricorrente a rimborsare all' A. le spese di questo giudizio, liquidate in spese ed Euro 3.000,00, per onorari, oltre spese generali IVA e CPA.

Così deciso in Roma, il 15 aprile 2009

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2009


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