Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1965 - pubb. 30/01/2007

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Cassazione civile, sez. I, 09 Marzo 1996, n. 1876. Est. Bibolini.


Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Apertura (Dichiarazione) di fallimento - Iniziativa - D'ufficio - Dichiarazione d'ufficio di fallimento - Ammissibilità - Condizioni.



Il Tribunale, a norma dell'art. 6 legge fall., non può dichiarare d'ufficio il fallimento in base alla conoscenza di uno stato di insolvenza in qualsiasi modo ricevuta. Tuttavia, le ipotesi dell'iniziativa d'ufficio non sono limitate ai casi in cui i presupposti per la dichiarazione di fallimento fossero già stati accertati su iniziativa di una parte interessata (come si verifica nei casi di conversione di altra procedura concorsuale alternativa al fallimento ovvero di annullamento della stessa, ovvero ancora nei casi di estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili), in quanto l'art. 8 legge fall. conferisce all'iniziativa d'ufficio un'apertura estesa a tutte le ipotesi in cui il tribunale competente, nell'esercizio della sua ordinaria attività, acquisisca la conoscenza di un'insolvenza di un imprenditore, ovvero gli indicati presupposti gli risultino dal rapporto di un altro giudice per situazioni emerse in un altro procedimento giurisdizionale. (fonte CED – Corte di Cassazione)


Massimario, art. 8 l. fall.


omissis

FATTO

Il Tribunale di Oristano, che aveva dichiarato il fallimento della S. tra F. F. e D. G., in sede di opposizione revocava il fallimento per ritenuta propria incompetenza territoriale dovendosi individuare la sede principale dell'impresa nella circoscrizione del tribunale di Sassari; rimetteva, quindi, gli atti al Tribunale di Sassari.

Il Tribunale di Sassari, procedendo a seguito della ricezione degli atti, con sentenza n. 403-91 in data 17 maggio 1991 dichiarava a sua volta il fallimento della società di fatto predetta, nonché dei soci limitatamente responsabili, dando atto che il socio F. F. era già stato dichiarato fallito con sentenza del 20 marzo 1987 del Tribunale di Oristano per diversa attività svolta (nella veste di socio di altra società fallita).

L'opposizione alla dichiarazione di fallimento proposta dal sig. D. G., per sè e per la società, veniva rigettata dal tribunale di Sassari con sentenza n. 38-93.

L'appello proposto ancora dal sig. D. G., nel contraddittorio della curatela fallimentare, veniva rigettato dalla Corte d'Appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, con sentenza n. 132-93.

In ordine alle posizioni in cui si articolava l'impugnazione (che verranno poi essenzialmente riproposte in sede di legittimità), la Corte d'Appello così motivava:

A) si era doluto l'appellante che il tribunale di Sassari avesse proceduto e provveduto d'ufficio alla dichiarazione di fallimento al di fuori dei casi consentiti dalla legge, ritenendo che l'art. 6 L.F. non consentisse all'organo giudicante di provvedere, qualunque fosse stato il modo di presa di conoscenza della situazione di insolvenza di un'impresa, ma detto potere fosse circoscritto alle previsioni codificate, da individuarsi negli artt. 137, 138, 147, 162, 173, 179, 181, 186, 192 e 193 L.F.

Riteneva, per contro, la Corta del merito che alla dichiarazione di fallimento d'ufficio non vi fossero limiti ne' tecnici ne' pratici, in quanto la dichiarazione d'ufficio postula l'assenza di limiti dipendenti da istanze di terzi.

Inoltre riteneva la Corte del merito che, anche se la presa di coscienza per la dichiarazione d'ufficio non dovesse considerarsi completamente libera, nella specie la rimessione degli atti da parte del tribunale di Oristano assumeva rilievo sotto i profilo dell'art. 8 L.F..

B) Sosteneva l'appellante che la società di fatto, indubbiamente esistita, aveva cessato ogni attività nel 1981, era stata cancellata dalla Camera di Commercio e dall'Ufficio IVA nel 1983 ed aveva disposto la propria cessazione per accordo diretto tra gli ex soci senza la nomina di un liquidatore. Di conseguenza all'atto della presa di conoscenza da parte del tribunale di Sassari non vi era più una società, ma solo un patrimonio indiviso ed alcuni debiti bancari senza che potessero più individuarsi ne' un patrimonio sociale, ne' debiti sociali. Da ciò la violazione dell'art. 10 L.F.. Riteneva la Corte d'Appello che non sussistessero violazione dell'art. 10 L.F., perché nessuna prova vi era in atti della avvenuta liquidazione, ne' del fatto che i soci stessi avessero concordato di procedere ai relativi adempimenti. Ciò è essenziale, perché per le società di fatto vige il principio dell'esistenza fino all'effettivo esaurimento della procedura di liquidazione intesa nel senso della soddisfazione dei crediti sociali.

C) Sosteneva l'appellante che, a seguito del fallimento di uno dei due soci della S., trovava applicazione il disposto dell'art. 2288 C.C., per cui il F. F., dalla data della dichiarazione del suo fallimento doveva considerarsi escluso dalla società, essendo devoluta la sua quota alla massa dei creditori. Inoltre non era stato applicato nella specie l'art. 149 L.F. secondo cui, dichiarato il fallimento del F. F., il curatore di tale procedura avrebbe dovuto chiedere la liquidazione della sua quota, anziché chiedere il fallimento della società.

Riteneva in proposito la Corte del merito che il fallimento di un socio non provoca lo scioglimento della società, posto che essa sopravvive fino alla chiusura della liquidazione, per cui la S., qualora non si sia provveduto alla ricostituzione della pluralità dei soci, rimane quale società obbligata al pagamento dei propri debiti ed è assoggettata alla procedura fallimentare. E) Sosteneva, ancora, l'appellante l'insussistenza dello stato di insolvenza della società contro la quale nessuna istanza di fallimento era stata proposta e che aveva un cospicuo patrimonio immobiliare.

Riteneva, per contro, la Corte del merito che lo stato di insolvenza, essenzialmente attinente alla liquidità, può ben sussistere in presenza di un'entità patrimoniale capiente rispetto alle situazioni debitorie, quando le attività non siano state liquidate, ne' vi sia la prova che le stesse fossero di pronta o rapida liquidabilità. La presenza di una situazione debitoria di circa 700 milioni in mancanza di adeguata liquidità era dimostrazione chiara della sussistenza dell'insolvenza della società.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, integrati da memoria, il sig. D. G.; depositava controricorso la curatela del fallimento indicato in premessa.

DIRITTO

I ) Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1, 5, 6 ed 8 R.D. 16 marzo 1942 n. 267, oltre a motivazione carente e contraddittoria;

propone, inoltre, subordinata eccezione di incostituzionalità da sollevare d'ufficio (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.).

a) Sostiene il ricorrente che, senza nulla lasciare allo spontaneismo giudiziario, l'art. 6 L.F. (a prescindere dalla richiesta del debitore, dei creditori e del P.M.), prevede un quantum genus dell'iniziativa del fallimento (d'ufficio) che è inserito, senza residui, nelle previsioni degli artt. 137, 138, 147, 162, 173, 179, 181, 186, 192 e 193 L.F..

b) In secondo luogo il ricorrente coglie criticamente il punto della sentenza impugnata in cui viene equiparata la conoscenza da parte del Tribunale fallimentare per avere ricevuto gli atti da giudice ritenutosi incompetente, all'ipotesi dell'art. 8 L.F.;

ritiene il ricorrente non condivisibile l'equipollenza tra la fattispecie legale e l'ipotesi in esame, sia perché il giudice del preteso giudizio non ha affatto chiesto al tribunale di Sassari di dichiarare il fallimento, sia perché l'art. 8 citato non autorizza adattamenti del tipo praticato dalla Corte del merito. c) n terzo luogo, sostiene il ricorrente che se l'interpretazione proposta dalla Corte d'Appello fosse da ritenere coerente con il sistema normativo, il sistema normativo sarebbe contrario agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sulla parità del trattamento, sul principio della domanda e sul corretto esercizio della giurisdizione. Il motivo di ricorso, nella sua articolazione, ripropone la questione generale, già ampiamente risolta dalla giurisprudenza di questa Corte, attinente all'estensione del potere del Tribunale di procedere d'ufficio all'accertamento dei presupposti soggettivi ed oggettivi del fallimento, ed alla dichiarazione conseguente. La tesi riproposta dal ricorrente, esclude che la previsione dell'art. 6 L.F. (nella parte in cui contrappone alle richieste - del debitore -, al ricorso - di uno o più creditori all'istanza - del P.M. - per la dichiarazione di fallimento, la dichiarazione "d'ufficio"), costituisca una norma aperta, dovendo essa, invece, trovare delimitazione nelle determinazioni concrete dello steso R.D. 16 marzo 42 n. 267. Conseguentemente il tribunale potrebbe provvedere d'ufficio solo nel caso in cui i presupposti per la dichiarazione di fallimento fossero già stati accertati su iniziativa di una parte interessata, come si verifica nei casi di conversione di altra procedura concorsuale alternativa al fallimento o di risoluzione ovvero di annullamento della stessa, ovvero ancora nei casi di estensione del fallimento, allorché venga coinvolta nell'insolvenza la realtà prurisoggettiva delle società con soci illimitatamente responsabili. La tesi è, in definitiva, espressione della tendenza volta a riportare la dichiarazione di fallimento sempre e comunque nell'ambito di un'iniziativa di una parte interessata, sia essa portatrice di un interesse privato o di natura pubblicistica (il P.M.), quanto meno nella fase iniziale di avvio di un procedimento volto all'accertamento dei due presupposti (imprenditorialità ed insolvenza), salve le fasi evolutive della stessa procedura nelle situazioni espressamente indicate dal ricorrente. Peraltro, contro la tesi limitativa propugnata, si pone la previsione dell'art. 8 L.F. in cui la dichiarazione di fallimento avviene su segnalazione di un giudice civile che "ne riferisce al Tribunale".

È indubbiamente questa una situazione prevista dalla stessa L.F., ma una situazione che delinea, più che un'ipotesi di giurisdizione senza azione, una situazione (secondo una più precisa indicazione) di esercizio differito dell'azione da parte dei creditori, dalla cui effettiva volontà espressa tramite la domanda di ammissione al passivo dipende la sorte della procedura, prevenuta dalla formazione del titolo esecutivo da parte del Tribunale.

Ponendo in correlazione l'interesse privatistico (dei creditori) all cui soddisfazione, in esecuzione dei principi di responsabilità e di parità di condizioni (artt. 2740 e 2741 C.C.), il fallimento essenzialmente tende quale procedura esecutiva istituzionalmente concorsuale, e l'interesse pubblicistico connesso all'esigenza che l'insolvenza dell'imprenditore, (quale situazione contraria all'utilità sociale costituente il limite della libertà dell'iniziativa economica), trovi la sua espressione, anche sanzionatoria, nell'istituto fondamentale dell'insolvenza istituzionalizzata, la disciplina dell'art. 8 L.F. esalta quest'ultimo aspetto consentendo che il titolo esecutivo concorsuale venga determinato senza l'iniziativa preventiva di un soggetto interessato all'azione esecutiva concorsuale, o portatore degli interessi della collettività dei creditori.

Il giudice che riferisce al tribunale fallimentare, ovviamente, non si pone come parte del processo di fallimento ne' come soggetto pubblico che insti per la dichiarazione di fallimento, ma come organo che nell'esercizio di un potere-dovere, "riferisce" semplicemente un fatto rilevato nell'esercizio della sua ordinaria attività. Si tratta quindi, di una semplice presa di conoscenza sulla cui base il tribunale fallimentare (quale tribunale territorialmente competente), senza l'esistenza di alcun soggetto istante, si attiva autonomamente per tutte le operazioni inerenti all'eventuale dichiarazione di fallimento, comprensive dell'accertamento dei presupposti soggettivo ed oggettivo dell'istituto.

Peraltro se, secondo la chiara dizione dell'art. 8, la funzione del giudice esterno si traduce in una denuncia, in un rapporto, in un atto cognitivo volto ad informare il giudice del fallimento dell'esistenza di un'insolvenza imprenditoriale, sulla cui base il giudice competente possa autonomamente procedere alla dichiarazione di fallimento, sarebbe situazione arbitraria ritenere che analogo potere di procedere d'ufficio non competa al giudice fallimentare, quando allo stesso una situazione di insolvenza imprenditoriale consti in base all'attività da lui stesso normalmente svolta (è il caso dell'istanza di fallimento rigettata cui consegua comunque la dichiarazione di ufficio sulla base degli elementi emersi nell'istruzione dell'istanza stessa).

Identica soluzione può sostenersi in relazione all'insolvenza che emerga dai protesti bancari, volta che destinatario degli elenchi dei protesti, secondo la dizione dell'art. 13 L.F., è lo stesso presidente del tribunale.

Infine, se nella sistematica delineata dal R.D. 16 marzo 1942 n. 267, l'esistenza di un'insolvenza imprenditoriale assume tale rilievo pubblicistico da comportare un dovere di relazione al giudice per la dichiarazione di fallimento, la stessa disciplina dell'art. 8 è suscettiva di interpretazione estensiva con al previsione dello stesso dovere sia per il giudice amministrativo, sia per quello penale, dovendo coincidere alla stessa funzione ed allo stesso interesse di natura pubblicistica, lo stesso dovere. È quindi, vero, quanto enunciato dal ricorrente, secondo cui il potere di pronuncia di ufficio previsto dall'art. 6 L.F. non consente al Tribunale la dichiarazione di fallimento d'ufficio in base ad una qualsiasi conoscenza ricevuta di uno stato di insolvenza. È altresi vero, peraltro, che le ipotesi dell'iniziativa d'ufficio non è limitata ai casi espressamente indicati dal ricorrente stesso, in DIRITTO

quanto l'art. 8 L.F. conferisce all'iniziativa d'ufficio un'apertura estesa a tutte le ipotesi in cui il tribunale competente per il fallimento acquisisca la conoscenza di un'insolvenza imprenditoriale, nell'esercizio della sua ordinaria attività, ovvero ad esso risultino gli indicati presupposti dal rapporto di un altro giudice per situazioni emerse in altro procedimento giurisdizionale. Nella fattispecie legale, così delineata, è collocabile l'ipotesi in esame, in cui il giudice dichiaratosi incompetente, trasmettendo gli atti al Tribunale di Sassari, ha trasmesso allo stesso le situazioni di conoscenza emerse in altro procedimento giurisdizionale (nella specie la preventiva dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale di Oristano), integrando appieno, secondo le esatte indicazioni della Corte del merito, la fattispecie normativa dell'art. 8 L.F. Nè ha rilievo alcuno sottolineare che il Tribunale di Oristano non aveva chiesto il fallimento della società davanti al Tribunale di Sassari, posto che la funzione del giudice territorialmente incompetente, secondo la disciplina del più volte ricordato articolo 8, non è quella di instare o proporre il fallimento, ma di riferire soltanto situazioni emerse nell'esercizio della sua giurisdizione, ed è sufficiente detta situazione perché il giudice competente possa attivarsi d'ufficio.

Nè appare fondato il proposto vizio della norma dell'art. 6 L.F., come ora interpretata, per supposta violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione della Repubblica.

Non fondato in relazione al principio di eguaglianza, in quanto la specialità dell'azione esecutiva concorsuale, in relazione alle finalità pubblicistiche ad essa inerenti, nonché la modalità di estrema sollecitudine e di prontezza nel rilievo del fenomeno dell'insolvenza imprenditoriale che caratterizza lo statuto dell'impresa, giustificano un'anticipazione nel conferimento di un titolo esecutivo speciale a vantaggio di tutti i creditori concorsuali (la sentenza dichiarativa di fallimento), pur senza sottrarre a ciascun creditore l'iniziativa per il titolo della concorrenza (l'insinuazione al passivo delle rispettive posizioni creditorie). Proprio il rilievo pubblicistico dell'insolvenza dell'impresa delinea la diversità rispetto all'azione esecutiva, solo occasionalmente concorsuale, e conferisce giustificazione ad una modalità attuativa difforme, nella fase iniziale, rispetto all'azione esecutiva ordinaria.

Non è individuabile, poi, violazione del diritto di difesa: non del creditore, in relazione alle situazioni ora evidenziate; non del debitore, con il quale la contestazione davanti al giudice della fallimento, per l'esercizio preventivo del diritto di difesa, deve pur tuttavia sussistere in base alla disciplina dell'art. 15 L.F., quale risulta dalla sentenza 16 luglio 1970 n. 141 della Corte Costituzionale

Conseguente è il rigetto del primo motivo di ricorso, nelle varie prospettazioni proposte.

II ) Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1 e 10 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 nonché degli artt. 2275 e 2888 C.C., oltre a motivazione carente e contraddittoria ed omesso esame di un punto determinante della controversia (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.).

Con la doglianza, si evidenziano le seguenti situazioni:

a) La Corte del merito ha omesso di prendere in esame le emergenze del fascicolo d'ufficio allorché ha dichiarato che nessuna prova sarebbe stata data della messa in liquidazione della società di fatto, e ciò in quanto dal fascicolo d'ufficio risulta che la S. aveva cessato la propria attività nel 1981, si era cancellata dalla C.CI.A. nel 1983, provvedendo alla liquidazione senza bisogno di procedere alla nomina di un liquidatore (art. 2275 C.C.). b) Era stato dedotto che nelle S., dopo il verificarsi della causa di scioglimento, la sopravvivenza deve essere ricercata solo nella prosecuzione dell'attività, non già nella procedura di liquidazione e sul punto la Corte del merito non ha motivato. c) Egualmente carente è la motivazione nel punto dedotto, secondo cui non esisteva più patrimonio sociale, ma solo una comunione di beni e non esistevano più creditori sociali, ma solo la persistenza della responsabilità solidale ed illimitata di due soci nei confronti di creditori ipotecari, giammai una responsabilità diretta della società in quanto tale.

d) Il punto fondamentale della violazione di legge e della carenza motivazionale, peraltro, coinvolge la situazione disciplinato dall'art. 2288 C.C., per avere la Corte del merito affermato che il fallimento di uno dei due soci non provoca l'automatico scioglimento della società, posto che essa sopravviverebbe fino alla chiusura della liquidazione..

Una volta, peraltro, che si sia verificata la fattispecie dell'art. 2288 C.C., la sopravvivenza della società non è ipotizzabile con il curatore; e se la società rimane in testa ad un'unico socio, diviene un'impresa individuale alla quale applicare nella pienezza il disposto dell'art. 10 L.F.

 

III ) Con il terzo mezzo di cassazione il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1, 5 e 10 L.F., dell'art. 112 c.p.c., oltre ad omesso esame di punti decisivi della controversia, lacunosa e contraddittoria (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.) La Corte d'Appello non avrebbe confutato, in tesi, una serie di motivi pur dedotti in sede di appello e, cioè:

l'applicazione della disciplina dell'art. 2288 cc;

l'applicazione dell'art. 42 e dell'art. 149 L.F.;

l'inesistenza di creditori sociali, nel senso che l'Istituto Bancario, titolare di un mutuo ipotecario non risultava essere portatore di un credito derivante dall'attività imprenditoriale. I due mezzi di cassazione meritano una trattazione congiunta, stante la necessaria correlazione delle varie situazioni dedotte, e delle qualificazioni proposte, con il regime disciplinato dall'art. 10 L.F.

La tutela calibrata delle esigenze della certezza del diritto, da un lato, e del condizionamento dell'operato dell'imprenditore cessato, dall'altra, tutela che costituisce la funzione della disciplina dell'art. 10 L.F., trova una chiara applicazione nel caso dell'imprenditore commerciale individuale, come definito dall'art. 2082 C.C. e qualificato dall'art. 2195 C.C.. Poiché l'impresa è un'attività, l'inizio dell'attività e la cessazione della stessa, con carattere di certezza e di definitività, costituiscono i limiti temporali iniziale e finale cui ragguagliare (con il decorso del termine annuale dell'art. 10 L.F.) l'applicabilità dello statuto dell'impresa in relazione alle situazioni di insolvenza. La cessazione dell'esercizio dell'impresa, peraltro, assume una particolare configurazione di fronte all'impresa collettiva, sia essa munita, o non, di personalità giuridica. La società commerciale, in quanto essenzialmente imprenditore commerciale, perde la qualità suddetta solo a seguito della cessazione dell'esistenza della società stessa, che si verifica con il compimento della fase liquidatoria e dell'attività di disorganizzazione Il compimento della fase liquidatoria, peraltro, secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (si veda Cass. 20 dicembre 1988 n. 6953; 14 giugno 1979 n. 3345; Cass. 20 novembre 175 n. 3879), non coincide con la chiusura formale della liquidazione, ma con la liquidazione effettiva dei rapporti che facciano capo alla società, per cui l'esistenza della società permane finché vi siano rapporti, attivi o passivi, da definire.

Ritiene questa Corte di dovere dare attuazione e continuità all'indirizzo giurisprudenziale richiamato, non essendo stati adottati dal ricorrente argomenti specifici che già non siano stati trattati nell'affermarsi dell'indirizzo giurisprudenziale richiamato, e che abbiano il carattere di novità argomentativa.

Nè può sperarsi il principio enunciato rilevando che nella specie i soci sarebbero ricorsi, secondo la possibilità consentita dalla disciplina dell'art. 2275 C.C., non alla nomina di un liquidatore, ma ad un accordo per la definizione dei rapporti inerenti alla società. Anche l'accordo tra i soci, infatti, non si sottrae agli obblighi previsti, in favore dei terzi, dagli artt. 2278 e 2279 C.C., situazione che coinvolge anche le ipotesi dei soci illimitatamente responsabili. Quando, quindi, l'accordo non porti all'esaurimento dei rapporti attivi e passivi che facciano capo alla società, la società tuttavia persiste ed è soggetta al regime dell'insolvenza istituzionalizzata.

Così inquadrata la questione, diviene irrilevante la prova degli elementi formali di cessazione dell'impresa collettiva irregolare (cancellazione dalla Camera di Commercio, estinzione della partita IVA), fin quando sussista un patrimonio destinato alla garanzia dei creditori sociali e l'insoddisfazione dei creditori stessi. Egualmente infondata appare l'argomentazione, secondo cui, nella specie non vi sarebbe stato, dopo l'evidenziazione della cessazione, un patrimonio sociale ed obbligazioni sociale, ma solo un patrimonio indiviso ed un regime di responsabilità. La qualificazione dei rapporti patrimoniali nell'un senso o nell'altro, dipende dal postulato di premessa di tutta la motivazione, in relazione alla disciplina dell'art. 10 L.F.. Se si da rilievo agli elementi formali della cessazione dell'impresa collettiva, conseguono le qualificazioni sostenute dai ricorrenti. Se, per contro, il postulato ancora la cessazione dell'impresa sociale all'effettività dell'ultimazione dalla liquidazione, al fine evidente di evitare manovre facilmente elusive dei diritti dei creditori, anche attraverso accordi interni tra i soci, e si ritiene che la società sussiste finche esistano situazioni debitorie insolute che ad esse facciano capo, la qualificazione data dai ricorrenti ai rapporti patrimoniali diviene inaccettabile.

Da ciò consegue anche il regime applicabile in relazione alla disciplina dell'art. 2288 C.C., verificatosi nella specie con il fallimento personale del socio F. F., oltre un anno prima della dichiarazione di fallimento d'ufficio della società. Basti rilevare che in una società con due soci, lo scioglimento del rapporto relativamente ad uno di essi (decorso inutilmente il termine di sei mesi per la ricostituzione della compagine), costituisce una delle cause di scioglimento della società (art. 2272 n. 4 C.C.).

Lo scioglimento, peraltro, non implica automatica estinzione della società che, in relazione alle situazioni patrimoniali attive e passive, rimane pur tuttavia esistente.

Nè può porsi in evidenza il contrasto tra il regime di

liquidazione della quota del socio ed il regime di liquidazione della società. Se le due discipline si instaurano contemporaneamente o in consecuzione, la liquidazione della quota del socio non può andare a detrimento delle situazioni dei creditori sociali, ai quali non è consentito sottrarre la garanzia patrimoniale generica su patrimonio della società e di soci illimitatamente responsabili, a vantaggio delle situazioni particolari di un componente della compagine, o dei suoi creditori personali. Al contrario, la liquidazione comporta l'attribuzione solo di una quota di patrimonio netto, dopo che la fase liquidatoria sociale, coinvolgente anche la responsabilità dei soci illimitatamente responsabili, si sia uniformata al criterio dell'art. 2280 C.C..

Non sussiste, infine, il dedotto difetto motivazionale sulle varie situazioni indicate nel terzo motivo.

Ed invero, alcune situazioni vengono assorbite dalla motivazione data dalla Corte del merito in relazione all'individuazione dei presupposti soggettivi della dichiarazione pone di fallimento della società, secondo i criteri sopra indicati.

In rodine alla mancata individuazione di situazioni debitorie insolute facenti capo alla società, la sentenza dichiarativa del fallimento ne aveva fatto l'individuazione in debiti verso banche, debiti verso alcuni fornitori e verso l'Ufficio I.V.A. La sentenza emessa dal Tribunale di Sassari in fase di opposizione aveva confermato lo stato di insolvenza della società, rilevando che, per ammissione dello stesso opponente, non tutti i rapporti giuridici della società erano stati definiti, essendovi ancora residui creditori all'epoca della cessazione formale della società aventi una comune origine, situazioni debitorie che non erano state esaurite, non avendo sortito l'esito prefisso l'accordo tra i due soci per la definizione di tutti i rapporti pendenti. Con l'atto di appello gli attuali ricorrenti riproposero la questione sostenendo (pag. 5 dell'atto di appello) che "non sono emersi creditori sociali ne' è emerso un patrimonio sociale... ne' esistono pretese interne in ordine alla liquidazione della società", ribadendo (pag. 8 dell'appello) che "nessun rilievo acquista ... la tesi secondo la quale alcuni debiti accertati all'interno dello stato passivo che riguardava F. F. da solo o in società con altri fossero "derivanti dalle operazioni commerciali compiute in società con D. G." perché tale causale, semmai fosse vera, non comporta l'obbligo immediato ed automatico della società F. F. D. G. a pagare il terzo creditore..."

Il genere di contestazione sul punto, peraltro, non contrastava espressamente il dato di fatto evidenziato dal Tribunale in sede di giudizio di opposizione, secondo cui deriverebbe dalla stessa ammissione dell'opponente la sussistenza di debiti risalenti, per fonte e causa, all'epoca della fase operativa della società di fatto. La negazione della sussistenza di debiti di cui la società dovesse rispondere, per contro, veniva ancorata alla tesi svolta in ordine alla fallibilità della società dopo la formale cessazione e lo scioglimento della compagine a causa del diverso fallimento di uno dei soci. Conseguentemente la tesi dell'appellante trovava risposta adeguata nella motivazione della Corte del merito in relazione ai criteri della sottoponibilità a fallimento della società di fatto, e dei soci non ancora falliti, riportandosi la Corte del merito, in ordine al fatto della sussistenza di debiti risalenti alla fase operativa della società, ai dati emergenti della causa che, nella loro oggettività e nella loro fonte probatoria (l'avere ammesso gli stessi opponenti la mancata integrale definizione di situazioni debitorie, risalenti alla fase operativa della società) non aveva trovato specifica e puntuale contestazione. L'accertamento, quindi, dell'esistenza di situazioni debitorie pendenti, quantificate globalmente dalla Corte del merito, costituiva adeguata risposta alle doglianze dell'appello, nelle forme e secondo i modi con cui quell'impugnazione era stata svolta.

IV ) Con il quarto motivo il ricorrente deduce ancora la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1 e 5 R.D. 16 marzo 1942 n. 267, oltre a motivazione carente e contraddittoria (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.).

Il ricorrente coglie criticamente il punto della sentenza della Corte d'Appello di Cagliari, relativo all'individuazione dell'insolvenza, anche in presenza di entità patrimoniali superiori ai debiti. Sostiene il ricorrente che la Corte del merito non ha minimamente tenuto conto delle deduzioni dell'appellante, non avendo motivato in ordine alla mancanza degli elementi tipici dello stato di insolvenza che devono corrispondere ad una debitoria sociale di carattere imprenditoriale, ad una anormalità nel fare fronte alle obbligazioni in sede ordinaria "ma con tutta evidenza il fallimento di F. F. (che dalla sentenza impugnata viene considerato ancora socio illimitatamente responsabile della società di fatto con D. G.) non aveva alcuna possibilità di provvedere al pagamento dei debiti, dovendo attenersi alle disposizioni concernenti la procedura di fallimento istituita ed ancora dinanzi il Tribunale di Oristano dal quale F. F. era stato dichiarato fallito nel 1987 non solo come socio di altra società, ma anche in proprio". Non riesce del tutto agevole cogliere il senso della doglianza, ove si tengano presenti i principi cui si è attenuta la Corte d'Appello di Cagliari nel confermare la dichiarazione di fallimento della società, se non nel senso della contestazione di detti principi, di cui ci si è già occupati. L'oggetto della presente causa, svolta in opposizione alla dichiarazione di fallimento, DIRITTO

attineva all'individuazione dei presupposti soggettivo ed oggettivo della procedura concorsuale, riferita ad una società di fatto ed ai suoi soci, in presenza di situazioni indubbiamente particolari, quali la cessazione formale dell'attività da oltre un anno, lo scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio per fallimento dello stesso, anch'esso oltre un anno prima della dichiarazione di fallimento oggetto di opposizione.

Una volta individuato il presupposto soggettivo per la mancata cessazione effettiva della società nella permanenza di situazioni debitorie non definite facenti capo alla fase operativa dell'attività; una volta accertato che ette situazioni debitorie non erano state definite con l'accordo liquidatorio assertivamente intervenuto tra i soci; una volta, infine, ritenuto che lo stato di insolvenza attiene alla mancanza di liquidità della società, mancanza di liquidità ritenuta sussistente espressamente dalla Corte del merito in relazione all'entità del passivo (L. 700.000.000), insoluto per mancanza di liquidità e mancata dimostrazione della possibilità di sollecita trasformazione in denaro del patrimonio;

una volta ciò accertato da parte della Corte d'Appello di Cagliari, l'iter logico era completo ed adeguato a sorreggere la pronuncia. Poco rileva al fine la mancanza di istanze di fallimento da parte di creditori ovvero delle tipiche manifestazioni esteriori dell'insolvenza, che l'art. 5 L.F. richiama in via semplicistica, ma non preclusiva della possibilità di accertare altrimenti la sussistenza del presupposto oggettivo del fallimento. Nè incide sul presupposto oggettivo il fallimento personale del socio per altra causa, sia perché la società è stata dichiarata fallita per situazioni debitorie a lei ritenute addebitabili, con esclusione quindi della fattispecie dell'art. 149 L.F., sia perché dato il lungo periodo di tempo trascorso, la persistenza dell'inadempimento per rilevante entità era di per se dimostrativo sia della carenza di liquidità da parte della società, oltre che del socio illimitatamente responsabile non ancora fallito, sia della mancanza di mezzi di facile e rapida liquidabilità.

Con ciò la Corte del merito aveva dato coerente e completa risposta alle doglianze degli appellati, assorbendo tutte le diverse situazioni prive di rilevanza, con motivazione che era completa e coerente in relazione all'oggetto della controverso, quale era emerso dal dibattito giudiziale.

Conseguente il rigetto del ricorso. Sussistono giustificati motivi, ricollegabili all'abnorme intreccio di situazioni che portarono all'inizio della procedura concorsuale controversa, per dichiarare la completa compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.

Roma 10 ottobre 1995.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 9 MARZO 1996


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