Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19309 - pubb. 11/01/2018

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Cassazione civile, sez. I, 22 Settembre 1995, n. 10056. Est. Proto.


Fallimento - Pendenza - Versamenti su un conto corrente del fallito - Titolo di acquisizione - Prova - Mancanza - Conseguenze



Il versamento su un conto corrente del fallito, in pendenza del fallimento, di somme delle quali non sia provato il titolo di acquisizione, importa che dette somme costituiscono bene sopravvenuto al fallito nel corso del fallimento e, pertanto, si considerano automaticamente acquisite alla massa, ai sensi dell'art. 42, secondo comma, legge fallimentare. La Banca, pertanto, è tenuta a restituirle al fallimento che ne faccia richiesta, senza poter dedurre l'ammontare dei pagamenti che essa su ordine del fallito ha eseguito a favore di terzi (ove non provi che i pagamenti effettuati dal fallito a mezzo assegni tratti sul conto corrente costituissero costi sostenuti per realizzare il reddito confluito sul conto) e senza poter invocare esonero da responsabilità per il fatto di aver osservato gli obblighi previsti dall'art. 124 R.D. 21 dicembre 1934 n. 1736 (introdotto dall'art. 141 della legge 24 novembre 1981 n. 689 e modificato dall'art. 6 della legge 15 dicembre 1990 n. 386) nella consegna al cliente dei moduli di assegno bancario, atteso che la finalità di queste ultime disposizioni è solo quella di rafforzare l'attuazione del divieto di emissione di assegni da parte di soggetti per i quali è stabilito il divieto. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Mario CORDA Presidente

" Rosario DE MUSIS Consigliere

" Vincenzo PROTO Rel. "

" Luigi ROVELLI "

" Mario CICALA "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

BANCO DI SICILIA SPA, FILIALE DI CATANIA in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliato in Roma via L. Mancinelli 65 c-o l'avv. Corrado Romano, rappresentato e difeso dall'avv. Ugo Monterosso giusta delega in calce al ricorso;

Ricorrente

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO DI TRISCARI MARIA TERESA, in persona del curatore Nino D'Angelo, elettivamente domiciliato in Roma via Leone XIII n. 464 c-o l'avv. Giuseppe Nuzzo, rappresentata e difesa dall'avv. Raffaele Abramo giusta delega in calce al controricorso;

Controricorrente

avverso la sentenza 597-93 della Corte di Appello di Catania dep.il 1.7.9.93;

il Cons. Dott. Proto svolge la relazione;

il P.M. Dott. Nicita conclude per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 28 settembre 1984 il curatore del fallimento di Triscari Maria Teresa convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Catania, il Banco di Sicilia. Espose che la Triscari, titolare di un conto corrente a Randazzo, presso l'agenzia della banca convenuta, aveva proseguito il relativo rapporto anche dopo la dichiarazione di fallimento pronunziata con sentenza del 14 luglio 1983, effettuando versamenti ed emettendo assegni, per complessive lire 10.757.000, dalla banca trattaria pagati ai beneficiari, con conseguente azzeramento sia del saldo attivo di lire 2.101.270 esistente alla data della dichiarazione di fallimento, sia delle somme successivamente affluite sul conto. Sostenne, quindi, che, dovendo il contratto di conto corrente considerarsi sciolto alla data del fallimento, i pagamenti effettuati con prelevamenti sul conto medesimo erano inefficaci nei confronti della massa e ad essa inopponibili. Concluse, chiedendo la condanna del Banco di Sicilia alla restituzione della somma di lire 10.757.000, con gli interessi legali e il maggior danno da svalutazione monetaria, con decorrenza dal 14 luglio 1983, quanto a lire 2.101.270, e, per il resto, dai singoli versamenti.

Il Banco di Sicilia, costituitosi, contestò la fondatezza della domanda. Dedusse (fra l'altro) che non poteva escludersi la validità degli atti compiuti dalla banca in esecuzione dell'incarico, prima dell'avvenuta conoscenza dell'estinzione del mandato; l'assenza di colpa della stessa banca, che aveva onorato gli assegni, ignorando la dichiarazione di fallimento intervenuta; e chiese di essere autorizzato a chiamare in causa i presentatori degli assegni della Triscari per essere rimborsato di quanto fosse stato eventualmente obbligato a pagare alla curatela.

Intervenuta l'autorizzazione, il Banco di Sicilia chiamò in causa i beneficiari degli assegni, nessuno dei quali si costituì. Nel corso del giudizio la Galbani s.p.a., beneficiaria di uno degli assegni, versò alla curatela la somma portata dall'assegno rilasciatole dalla Triscari.

Il Tribunale (sentenza 31 maggio 1989) accolse la domanda, dichiarando inefficaci nei confronti della massa dei creditori i pagamenti effettuati dal Banco di Sicilia con prelevamenti sul conto corrente intestato alla fallita e, detratta la somma restituita dalla s.p.a. Galbani, condannò la banca convenuta al pagamento di lire 9.922.570, oltre agli interessi e alle spese giudiziali. Condannò, inoltre, i terzi chiamati in causa (esclusa la Galbani) a restituire al Banco di Sicilia gli importi degli assegni da ciascuno riscossi e a rimborsare allo stesso le spese del giudizio. Dichiarò cessata la materia del contendere nei rapporti tra Banco di Sicilia e la Galbani e irripetibili, nei confronti di quest'ultima, le spese dell'istituto di credito.

Il Banco di Sicilia impugnò questa pronunzia davanti alla Corte di appello di Catania, insistendo per l'ammissione dei mezzi di prova già dedotti in primo grado, e chiese il rigetto della domanda del fallimento.

Disposta l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri soggetti già parti in causa nel primo grado del giudizio, l'appellante vi provvide, ma nessuno di essi si costituì. Con sentenza depositata il 17 settembre 1993 la Corte territoriale confermò, sostanzialmente, la decisione del tribunale, riducendo, tuttavia, l'importo dovuto dal Banco di Sicilia alla curatela fallimentare (da lire 9.922.570 a lire 9.908.500) e, correlativamente, gli interessi legali dovuti fino al soddisfo (calcolati, su lire 2.101.270, dal 15 luglio 1983 e, su lire 7.806.230, dalla data dei singoli versamenti). Condannò, inoltre, il Banco di Sicilia a corrispondere sulla somma di lire 848.700 gli interessi legali relativi al periodo 15 luglio 1983 - 17 luglio 1985, nonché a pagare l'ulteriore somma di lire 2.200.000 a titolo di maggior danno per ritardato pagamento. Infine. compensò per un quarto le spese di quella fase del giudizio, mentre condannò l'appellante al pagamento dei restanti tre quarti.

La Corte considerò (fra l'altro): a) che la disposizione dell'art. 141 della legge n. 689-1981 (relativa all'obbligo di sottoscrizione previsto all'atto del rilascio dei moduli di assegno bancario) non esonera la banca che l'abbia osservato, da responsabilità per l'ipotesi di inefficacia dell'ordine di pagamento del cliente dichiarato fallito; b) con riferimento alla rilevanza della disciplina dei beni sopravvenuti riguardo alle somme versate dalla fallita dopo la dichiarazione di fallimento, che la banca non aveva assolto all'onere di dimostrare che i pagamenti effettuati costituissero costi sostenuti per la realizzazione del reddito affluito sul conto; c) che, a tal fine, non era ammissibile l'interrogatorio formale del curatore e della Triscari, ne' la prova per testi dei beneficiari degli assegni emessi dalla fallita e del legale rappresentante della s r.l. Trinacria Carne; d) che, alla stregua della documentazione acquisita agli atti processuali, non risultava la prosecuzione dell'attività commerciale della Triscari dopo la dichiarazione di fallimento, ne' che le somme versate sul conto costituissero proventi di tale attività, ne', infine, che gli assegni fossero stati tratti a favore di fornitori in pagamento delle merci da essi fornite.

Avverso questa decisione il Banco di Sicilia ha proposto ricorso per cassazione in base a sette motivi, illustrati con memoria. Il curatore fallimentare resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo del ricorso si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art.42, comma sec., l. fall., in riferimento all'art. 44 l. fall., nonché carenza di motivazione. Il ricorrente deduce che la sentenza impugnata - ritenendo inefficaci nei confronti del fallimento tutti i pagamenti disposti dalla Triscari mediante l'emissione di assegni sul conto corrente a lei intestato, continuato anche dopo l'apertura della procedura concorsuale - non avrebbe considerato che per i beni sopravvenuti il principio di inefficacia degli atti compiuti dal fallito opera previa deduzione delle spese connesse al loro acquisto e che, quindi, il fallimento consegue il saldo attivo del conto, ma non le somme erogate a terzi nell'esercizio dell'impresa.

Col secondo motivo denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 44 e 42, comma sec., l. fall. e degli artt. 2702 e seg., 2712 e 2697 c.c., dell'art. 215 c.p.c., degli artt. 2727 e seg. c.c., nonché carenza di motivazione. E lamenta che la sentenza impugnata abbia omesso di rilevare come dalle prove documentali prodotte (assegni e moduli di versamento) risultasse chiaramente la specifica inerenza delle operazioni compiute sul conto corrente all'attività commerciale della Triscari, rappresentando gli assegni il mezzo utilizzato per pagare ai fornitori l'acquisto all'ingrosso della merce (carne ed alimentari), ed i versamenti i proventi realizzati con la rivendita in contanti al minuto.

I due motivi vanno esaminati insieme, in quanto prospettano profili, connessi, della stessa questione giuridica, relativa cioè alla possibilità di acquisire alla massa tutte le somme corrispondenti alle rimesse attive e ai pagamenti effettuati tramite il conto, quando il fallito disponga di un conto corrente bancario dopo la declaratoria di fallimento.

2. Il problema è stato più volte all'attenzione di questa Corte, che lo ha risolto, affrontandone i diversi aspetti, nell'ambito delle specifiche finalità degli artt. 42, sec. comma, e 44 l. fall., che regolano la disciplina dei beni del fallito sopravvenuti e gli atti da lui compiuti dopo la dichiarazione di fallimento. Per un verso, si è chiarito che, quando il fallito, dopo la data di apertura della procedura concorsuale, intraprenda una nuova attività di impresa, e si avvalga, per le operazioni finanziarie ad essa inerenti, di un conto corrente bancario, gli atti relativi sono regolati dal secondo comma dell'art. 42 cit., e la curatela ha facoltà di appropriarsi dei risultati positivi di tale attività, al netto delle spese incontrate per la loro realizzazione; essa può, pertanto, esigere dalla banca soltanto il versamento del saldo attivo, corrispondente all'utile dell'impresa (S.U. 10 dicembre 1993 n. 12159). In questa ipotesi, infatti, la movimentazione delle somme accede ad un servizio di cassa, nel cui ambito le entrate costituiscono provento derivante dall'esercizio di impresa e i pagamenti a favore di terzi, a mezzo di assegni bancari tratti sul conto rappresentano passività inerenti alla realizzazione di quel provento, da esso deducibile.

Per altro verso, si è anche precisato che, in difetto di prova del titolo di provenienza, le somme versate sul conto corrente del fallito, in pendenza del fallimento, si considerano automaticamente acquisite alla massa, e la banca è tenuta a restituirle al curatore, senza poter dedurre l'importo dei pagamenti che essa su ordine del fallito abbia eseguito a favore di terzi, tramite prelievi sul conto (Cass. 9 luglio 1994 n. 6517). In questa caso, infatti, le somme non possono essere considerati costi per realizzare proventi sopravvenuti, e i versamenti effettuati dalla banca sono privi di causa, stante la inefficacia, a norma dell'art. 44 l. fall. (e la conseguente inopponibilità alla massa), sia della emissione di assegni da parte del fallito, che del relativo mandato, da lui conferito alla banca.

3. Muovendo da tali principi, la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che spettava al Banco di Sicilia provare che i pagamenti effettuati dalla Triscari a mezzo degli assegni tratti sul conto corrente, costituissero costi sostenuti per la realizzazione del reddito confluito sul conto stesso. E, con apprezzamento di fatto, sostenuto da ampie e articolate argomentazioni, ha stabilito, sulla base delle risultanze documentali acquisite agli atti processuali, che non era emerso alcun elemento idoneo a dimostrare un qualsiasi rapporto di inerenza delle somme versate sul conto e dei pagamenti eseguiti a favore di terzi con la supposta attività di impresa, continuata o intrapresa dalla Triscari dopo la dichiarazione di fallimento o che, comunque, le somme versate sul conto costituissero in qualche modo proventi di tale attività e che gli assegni rappresentassero pagamenti di merci a favore di fornitori. La Corte ha esaminato, in particolare, le dichiarazioni rese dalla fallita al giudice delegato con riferimento agli assegni da lei emessi a favore di tale Russo Salvatore, commerciante di pollame all'ingrosso, pervenendo alla conclusione che la circostanza non era indicativa di una prosecuzione dell'attività commerciale della fallita dopo l'apertura della procedura, in quanto la loro data di emissione era anteriore alla dichiarazione di fallimento e gli assegni erano stati rilasciati per merci consegnate in precedenza. Analizzando, poi, gli altri elementi emergenti dalla tenuta del conto corrente intrattenuto dalla fallita (quali, la modesta entità delle operazioni e la costante approssimazione degli importi dei versamenti e dei prelevamenti), ha argomentato che nessuno di essi consentiva di stabilire un collegamento circa la loro inerenza ad un'attività di impresa della fallita.

In questo quadro le doglianze della ricorrente si rivelano senza fondamento, perché esse tendono in realtà non a contestare l'esattezza dei principi interpretativi applicati dalla sentenza impugnata, ma, piuttosto, a rimettere in discussione in questa sede la valutazione delle risultanze probatorie già esaurientemente compiuta dal giudice del merito.

4. Egualmente infondate, ai fini del controllo che compete a questa Corte sull'iter logico e giuridico seguito dal giudice del merito nell'apprezzamento delle risultanze processuali, sono le censure (quarto e quinto motivo del ricorso) mosse alla mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti dal Banco di Sicilia (acquisizione di chiarimenti sulle modalità di pagamento delle attrezzature dell'esercizio di macelleria da parte dell'acquirente e istanza di produzione delle bollette ENEL nel periodo gennaio-dicembre 1983, dirette a dimostrare la prosecuzione dell'attività commerciale della fallita), perché non è possibile cogliere nella doglianza il carattere decisivo dei mezzi stessi, idoneo a determinare una soluzione della controversia diversa da quella adottata.

5. Col terzo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 246 c.p.c., degli artt. 2721 e 2724 c.c., nonché carenza di motivazione. Il ricorrente sostiene che la Corte di appello abbia errato nel non ammettere la prova testimoniale del legale rappresentante della Trinacria Carni s.r.l., ormai non più incapace di deporre, a seguito del fallimento della società stessa; prova da cui sarebbe potuto emergere che i vari assegni erano stati emessi e rilasciati in pagamento di esposizioni della fallita e che anche gli altri ordinatari erano commercianti di carni. La censura non ha consistenza.

La Corte di appello non ha ammesso la prova testimoniale del legale rappresentante della s.r.l. Trinacria, in quanto detta società - convenuta in giudizio dal Banco di Sicilia con l'azione di ripetizione e condannata a restituire all'attore l'importo risultante dal titolo - era parte in causa; ed il sopravvenuto fallimento della società non poteva incidere sul principio di incompatibilità tra la qualità di testimone e quella di parte del medesimo giudizio, perché (a prescindere da ogni altro rilievo) nella specie il fallimento non si era costituito in giudizio e l'apertura della procedura concorsuale nei confronti della Trinacria non privava, di per sè, il teste della qualità di rappresentante processuale della società, titolare del rapporto sostanziale dedotto con l'azione di ripetizione, chiamata in causa dalla banca.

6. Con il sesto motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 141 della legge 24 novembre 1981 n. 689. Il Banco di Sicilia sostiene che, avendo il correntista dichiarato, ai sensi dell'art. 141 della legge 689, di non essere interdetto alla emissione di assegni, la banca aveva facoltà di operare sul conto anche dopo la dichiarazione di fallimento, senza che le operazioni potessero essere dichiarate inefficaci in virtù dell'art. 44 l. fall., in quanto a questa norma si sovrapporrebbe la legge speciale posteriore.

Anche questo motivo è infondato.

L'art.6 della legge 15 dicembre 1990 n. 386 ("nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari") ha così modificato il primo comma dell'art. 124 del r.d. 21 dicembre 1933 n. 1736, introdotto dall'art. 141 della l. 24 novembre 1981 n. 689: "All'atto del rilascio di moduli di assegno bancario o postale il dipendente responsabile fa sottoscrivere al richiedente una dichiarazione dalla quale risulta che lo stesso non è interdetto dall'emissione di assegni bancari e postali e non ha riportato, nel semestre precedente, sentenza penale di condanna non definitiva o decreto penale di condanna anche non esecutiva per i reati di emissione di assegno senza autorizzazione o senza provvista".

Ha, inoltre, modificato il secondo comma dell'art. 125 del r.d. cit., stabilendo per "Il dipendente che consegna moduli di assegno bancario o postale", quando sussistono le circostanze previste nell'art. 124, "la reclusione da sei mesi a due anni", salvo che il fatto non costituisca più grave reato.

Come ha già sottolineato la sentenza impugnata, le disposizioni richiamate non prevedono, dunque, ne' direttamente, ne' indirettamente che la banca, quando sia osservato l'obbligo previsto, resti esonerata da responsabilità per la ipotesi di inefficacia dell'ordine di pagamento del cliente dichiarato fallito. Finalità di tali disposizioni è, infatti, quella di rafforzare l'attuazione del divieto di emissione di assegni da parte di soggetti per i quali è stabilito il divieto, ponendo a carico del dipendente responsabile la sanzione penale, per il caso di violazione dell'obbligo, che la legge (come del resto è reso palese anche dalla rubrica dell'art. 6 cit.) detta direttamente nei suoi confronti e non della banca. 7. Col settimo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 91 e seg. c.p.c.; nonché difetto di motivazione, censura la statuizione della sentenza impugnata, relativa alla conferma della pronuncia sulle spese emessa dal tribunale e alla condanna del Banco di Sicilia ai 3-4 delle spese del giudizio di appello.

La censura non ha consistenza, perché - indipendentemente dalla genericità della doglianza - nella regolazione delle spese processuali effettuata dal giudice del merito, il sindacato di legittimità è limitato alla violazione del principio per il quale le spese non possono essere posta a carico della parte totalmente vittoriosa. Esula, pertanto, da tale sindacato la valutazione della opportunità della compensazione parziale disposta dalla sentenza impugnata in relazione all'accoglimento (parziale) dell'appello. 8. In conclusione, non sussistono i vizi denunciati ed il ricorso, pertanto, non può essere accolto.

Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione integrale tra le parti delle spese di questa fase del giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dispone la compensazione integrale delle spese processuali di questa fase.

Così deciso in Roma, il 15 maggio 1995, nella camera di consiglio della prima Sezione civile.