Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19306 - pubb. 11/01/2018

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Cassazione civile, sez. V, tributaria, 18 Aprile 2000, n. 4957. Est. Graziadei.


Inefficacia ex art. 44 della legge fallimentare dei pagamenti effettuati dopo il fallimento - Portata - Fondamento - Conseguenze - Versamenti all'esattore delle imposte, degli acconti IRPEF trattenuti sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti prima del fallimento - Assoggettamento alla disciplina dell'inefficacia - Esclusione



L'art. 44, primo comma della legge fallimentare, nel prevedere l'inefficacia, rispetto ai creditori, dei pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, configura logico corollario della perdita della disponibilità dei beni acquisiti al fallimento stesso (art. 42) e mira a preservare l'integrità dell'attivo, assicurando la "par condicio creditorum". La norma in questione, alla luce della valenza letterale dell'espressione "pagamenti eseguiti dal fallito", nonché del presupposto sul quale essa norma si basa e della finalità da essa perseguita, è riferibile agli atti estintivi di obbligazioni del solvens, compiuti con prelievo dal suo patrimonio e con connesso trattamento preferenziale dello accipiens. Da ciò consegue che essa non si riveli applicabile rispetto alle somme che il datore di lavoro devolva all'esattore delle imposte ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 602 del 1973, in relazione all'art. 23 del d.P.R. n. 600/73, dopo averle trattenute a titolo di acconto IRPEF sulla retribuzione corrisposta ai dipendenti prima del fallimento. Esse somme, infatti, fanno parte del compenso lavorativo, sono ritenute dal datore di lavoro nella sua veste di "sostituto d'acconto", e vengono versate in nome e per conto dei lavoratori "sostituiti" i quali restano i soggetti passivi dell'obbligazione tributaria e dovranno definire la loro posizione al termine del corrispondente periodo d'imposta computando, appunto, le anticipazioni effettuate attraverso il "sostituto". (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Corrado Carnevale Presidente

" Enrico Altieri Consigliere

" Giulio Graziadei "

" Giuseppe Marziale "

" Eugenio Amari "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da Amministrazione delle finanze, in persona del Ministro, per legge difesa dall'Avvocatura generale dello Stato e presso la medesima domiciliata in Roma via dei Portoghesi n. 12;

ricorrente

contro

Fallimento di Alessandro Morelli, in persona del curatore Dott. Alessandro Bandini, elettivamente domiciliato in Roma, via Merulana n. 234, presso l'avv. Giuliano Bologna, che, con l'avv. Angelo Foggia, lo difende per procura in calce al controricorso;

resistente

per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Firenze n. 1319 del 14 giugno-18 novembre 1996;

sentiti il cons. Dott. Graziadei, che ha svolto la relazione della causa;

l'avv. Sclafani, per la ricorrente;

il Pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. Carmine Di Zenzo, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

La Corte, considerato:

- che Alessandro Morelli è stato dichiarato fallito con sentenza del Tribunale di Pisa del 17 aprile 1996;

- che il Fallimento, nell'ottobre 1991, ha citato davanti a detto Tribunale l'Amministrazione delle finanze, per ottenere la restituzione della somma di lire 3.451.000, dallo stesso Morelli ritenuta a titolo di acconto-irpef sulle retribuzioni erogate ai propri dipendenti e poi versata il 23 aprile ed il 14/15 maggio 1986 all'Esattoria di Pontedera, deducendo che tale versamento era inefficace verso i creditori ai sensi dell'art. 44 primo comma del r.d. 16 marzo 1942 n. 267;

- che il Tribunale ha accolto la domanda, riconoscendo all'istante anche gli interessi legali a partire dalla costituzione in mora;

- che il gravame proposto dall'Amministrazione finanziaria è stato respinto dalla Corte d'appello di Firenze;

- che l'Amministrazione medesima, con ricorso notificato il 4 luglio 1997, ha chiesto la cassazione della pronuncia di secondo grado, con tre motivi d'impugnazione, tornando a sostenere, rispettivamente, la devoluzione della pretesa del Fallimento alla giurisdizione delle commissioni tributarie, l'inapplicabilità del citato art. 44 rispetto a somma che il datore di lavoro detenga e versi quale sostituto e non debitore d'imposta, nonché la non computabilità degli interessi prima dell'accertamento giudiziale dell'eventuale obbligo restitutorio;

- che la Curatela ha replicato con controricorso;

- che le Sezioni unite, con sentenza n. 399 dell'11 marzo - 15 luglio 1999, hanno respinto il primo motivo del ricorso, affermando la giurisdizione del giudice ordinario;

- che la causa è stata rimessa a questa Sezione per la decisione sulle altre questioni;

- che l'art. 44 primo comma della citata legge fallimentare, prevedendo l'inefficacia rispetto ai creditori dei pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, configura logico corollario della perdita della disponibilità dei beni acquisiti al fallimento stesso (art. 42 di detta legge), e mira a preservare l'integrità dell'attivo, assicurando la par condicio creditorum;

- che la norma, alla luce della valenza letterale dell'espressione "pagamenti eseguiti dal fallito", del presupposto su cui si basa e della finalità perseguita, è riferibile agli atti estintivi di obbligazioni del solvens, compiuti con prelievo dal suo patrimonio e connesso trattamento preferenziale dello accipiens;

- che la norma medesima non è dunque applicabile rispetto alla somma che il datore di lavoro, dopo aver doverosamente trattenuto a titolo di acconto-irpef sulla retribuzione corrisposta ai dipendenti prima del fallimento (senza che sia in discussione la validità ed efficacia di tale erogazione), devolva successivamente all'esattore delle imposte, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. 29 settembre 1973 n.602, in relazione all'art. 23 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, atteso che essa fa parte del compenso lavorativo, è ritenuta dal datore di lavoro nella veste di sostituto d'acconto, e viene versata in nome e per conto del lavoratore sostituito, il quale resta l'unico soggetto passivo, dell'obbligazione tributaria (e dovrà definire la propria posizione al termine del corrispondente periodo d'imposta computando le anticipazioni effettuate per il tramite del sostituto);

- che tale interpretazione dell'art. 44 primo comma della legge fallimentare si appalesa coerente con la responsabilità anche penale del datore di lavoro, ove ometta di versare le ritenute in discorso (art. 2 del d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito con modificazioni in legge 7 agosto 1982 n. 516), ed inoltre trova conferma a contrario nel rilievo che l'inefficacia del versamento della ritenuta d'acconto porterebbe all'anomala conseguenza di acquisire a vantaggio dei creditori del fallito una somma di pertinenza del lavoratore, senza che questi possa opporre all'Amministrazione finanziaria, a scomputo del debito d'imposta, il prelievo, già subito sul proprio reddito;

- che il principio sopra enunciato implica, con l'accoglimento del secondo motivo del ricorso e l'assorbimento del terzo motivo, la cassazione della pronuncia impugnata, ed inoltre esige, in applicazione dell'art. 384 primo comma cod. proc. civ., una conforme pronuncia nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto per la reiezione della pretesa del Fallimento;

- che la natura e la sostanziale novità del quesito affrontato rendono equa la compensazione delle spese dell'intero giudizio;

P.Q.M.

- accoglie il secondo motivo del ricorso, dichiara assorbito il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata, e, pronunciando nel merito, respinge la domanda del Fallimento, compensando le spese dell'intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2000.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2000