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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 18904 - pubb. 10/01/2017.

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Cassazione civile, sez. I, 20 Gennaio 1995. Est. Rovelli.

Controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale - Interrogatorio formale del fallito - Inammissibilità


Nelle controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale l'interrogatorio formale del fallito è inammissibile, atteso che costui (tranne che nella ipotesi prevista dal II comma dell'art. 43 legge fallimentare) non assume la veste di parte e l'interrogatorio è finalizzato ad una confessione che sarebbe relativa a diritti di cui il fallito non può, nella pendenza del fallimento, disporre. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Mario CORDA - Presidente -

" Renato SGROI - Consigliere -

" Rosario DE MUSIS "

" Giovanni OLLA "

" Luigi ROVELLI Rel. "

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

Sul ricorso proposto da DE VINCENZO ENNIO ED AURORA ANNA MARIA, elettivamente domiciliati in Roma, P.zza Cola di Rienzo, 69, c/o l'Avvocato Aldo Ferretti che li rappresenta e difende con l'Avvocato Nunzio Cardile per delega a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO SCIMONE e GUGLIUZZA, in persona del Curatore Filippo D'Angelo, elettivamente domiciliata in Roma, V.le Regina Margherita, 37, c/o l'Avvocato Vincenzo Sepe, rappresentato e difeso dall'Avvocato Elio Caramazza per delega in calce al controricorso;

- controricorrente -

Avverso la sentenza n. 91/91 della Corte di Appello di Palermo depositato il 19.2.91;

Udito per il ricorrente l'avvocato Ferretti che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

Udito per il resistente l'avvocato Caramazza che ha chiesto il rigetto del ricorso;

Udito il P.M. nella persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Martone che conclude per il rigetto.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con l'atto introduttivo, il Curatore del fallimento di Scimone e Gugliuzza convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Palermo, Ennio De Vincenzo e Anna Maria Aurora esponendo che con convenzione 7 agosto 1981 i convenuti debitori della ditta fallita di L. 120.850.000 per forniture ricevute, si erano impegnati a pagare alla ditta creditrice - e allora in bonis - la predetta somma in quattro anni, con rimesse periodiche e contanti e senza interessi, ed essendo rimasto inadempiuta l'obbligazione assunta dai debitori, chiedeva ex art. 67 n.1 L.T., la revoca della conversione, e, quindi l'inefficacia, verso la Curatela della transazione intervenuta in subordine chiedeva che la convenzione venisse risolta per l'inadempimento dei convenuti con condanna, in ogni caso, di questi ultimi al pagamento, in favore della Curatela, della somma capitale di L. 120.850.000, detratti gli acconti effettivamente incassati con rivalutazione e interessi. I convenuti, costituendosi, contestavano la fondatezza della domanda e, in via riconvenzionale, chiesero che la conversione predetta e l'atto 25.7.1981 - contenesse promessa di vendita dell'Aurora, di un suo appartamento in Messina, a garanzia del pagamento della somma dovuta in base alla convenzione - venissero dichiarati nulli per contrarietà alla legge, per illiceità della causa e dei motivi, o, comunque, annullabili per vizi del consenso, o inefficaci. I convenuti, in riconvenzionale, chiesero anche che la Curatela venisse condannata al rimborso delle somme eventualmente incassata in più, e al risarcimento dei danni. Con separato ricorso 9.4.1984, la Curatela, richiamando le circostanze più esposte, e precisando che, a garanzia dei pagamenti l'Aurora aveva appunto sottoscritto promessa di vendita di un proprio appartamento a favore di Scimone Michelangelo, che aveva poi chiesto e ottenuto dal Presidente del Tribunale di Palermo sequestro giudiziario dell'immobile, chiese al Presidente del Tribunale di Palermo di autorizzare sequestro conservativo sull'appartamento di proprietà dell'Aurora. Autorizzato il sequestro, ed eseguito lo stesso, la Curatela convenne quindi per il giudizio di convalida l'Aurora che, costituendosi dedusse la litispendenza con il processo dell'esecuzione del sequestro giudiziario, ed eccepì l'improponibilità e comunque l'illegittimità del provvedimento cautelare. Disposta la riunione dei due giudizi, il Tribunale di Palermo, con sentenza depositata il 15.10.1988, dichiarò l'inefficacia verso la Curatela della transazione del 7.8.1991, condannò i De Vincenzo al pagamento della residua somma di L. 113.050.000 e al risarcimento del danno in ragione del 7% annuo oltre gli interessi legali; rigettò le domande riconvenzionali del De Vincenzo e convalidò il sequestro conservativo. Ritenne il Tribunale che la predetta conversione conteneva un riconoscimento di debito ed una transazione - omessa per la Curatela - come tale revocabile, ex art. 67 L.P. laddove prevedeva una dilazione del pagamento senza corresponsione di interessi. La sentenza fu appellata dai coniugi De Vincenzo. La Corte d'appello di Palermo, con sentenza depositata il 19.7.1991, pervenne a respingere la domanda di revoca della pattuizione circa la mortalità di adempimenti del debito di cui alla scrittura, ma a confermare nel resto l'impugnata sentenza, salva a ridurre in ragione del 5% annuo la misura del "maggior danno". La diversità di impostazione fu motivata col rilievo che la prima parte della convenzione, con cui i contraenti si danno atto che i De Vincenzo sono debitori della somma ivi indicata, altera il carattere bilaterale del negozio, integra uno specifico negozio di accertamento, con effetti vincolanti per le parti (oltre che riconoscimento di debito). La seconda parte, contenente la pattuizione in ordine alla modalità di pagamento, in quanto non prevede "reciproche concessioni", ma vantaggi solo per le parti, non integra una transazione bensì un vero e proprio atto a titolo gratuito, astrattamente revocabile ex art. 64 L. Fall., mentre il Curatore ha esercitato soltanto l'azione ex art. 67 della stessa legge. Ha poi confermato la sentenza del Tribunale laddove il primo giudice ha rigettato la domanda riconvenzionale di De Vincenzo. Ha ritenuto assorbita ogni altra censura dagli appellanti, dal rigetto della domanda di revoca proposta dalla Curatela: dando atto che non essendovi appello incidentale (subordinato) da quest'ultimo, non può essere esaminato l'originaria domanda di risoluzione. Ha poi escluso che dalla somma capitale portata sulla scrittura fosse detraibile altri acconti oltre quelli riconosciuti dal Tribunale.

Avverso detta sentenza il De Vincenzo e l'Aurora hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi di annullamento. Resiste la Curatela, notificando controricorso. Memoriae utrimque.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, deducendo violazione degli artt. 112 c.p.c., 1418. 1427, 1428, 1433,1434,1438,1439 C.C., 64, e 67 L.F., nonché il vizio di motivazione su punti decisivi della controversia, i ricorrenti, esposta una ricostruzione dei loro rapporti con la detta creditrice, deducono che le domande proposte dalle parti, rispettivamente, di revoca, inefficacia inopponibilità dell'intera convenzione (Curatela), di nullità annullabilità e inefficacia della convenzione e della promessa di venduta (essi istanti), sono state completamente eluse, risultando così insito nella decisione il vizio di ultra petizione. Assumono poi di avere dato prova, un giudizio, della eccepita nullità, annullabilità ed inefficacia di due atti, prova che essi prospettono come revocabile della ricostruzione, da essi documentata ed offerta, dei rapporti con i creditori di nulla stipulazione delle due scritture private.

Con il secondo motivo, sotto il profilo della violazione degli artt.115,215,228,229,230,244 c.p.c, 2702,2722,2724 e 2727 C.C., 42 e 43 L.F., nonché lamentando il vizio di motivazione, i ricorrenti rilevano che la Corte di merito ha errato nell'omettere l'esame della "copiosa documentazione prodotta in primo grado" e per aver dichiarato inammissibili l'interrogatorio formale dei falliti e la prova testimoniale. deducono altresì che, tra i documenti esibiti erano compresi una scheda ed altri documenti redatti di pugno dalla Scimone che, in quanto non disconosciuti, hanno il valore probatorio attribuito loro dall'art. 215 n. 2, e di cui la Corte avrebbe omesso qualsiasi esame.

Tali motivi che, per la loro connessione, possono essere congiuntamente esaminati, non appaiono fondati e devono essere respinti. Ed invero, per ciò che concerne la censura fondata nella violazione dell'art. 112 c.p.c, in quanto la Corte di merito non avrebbe pronunciato ne' sulle domande proposte dalla curatela (di revoca e inefficacia della convenzione) ne' su quelle proposte in via riconvenzionale dagli odierni ricorrenti (nullità, annullabilità e inefficacia della convenzione stessa) occorre rilevare che, al contrario, la Corte ha preso in esame tali domande, respingendole. Il giudice di secondo grado, infatti, è pervenuto ad una nuova qualificazione della convenzione di cui alla scrittura 7 agosto 1981, che non ha formato oggetto di specifiche censure, in questa sede. Secondo tale ricostruzione, dunque, nella scrittura possono essere ravvisati due distinti negozi: il primo, contenente la declaratoria relativa all'esistenza e all'entità del debito dei coniugi De Vincenzo, integra "uno specifico negozio di accertamento con chiari effetti specificativi e vincolanti" nel rapporto tra le parti. Distinto ancorché collegata è la pattuizione relativa alla modalità di pagamento, contenente l'ampia dilazione di pagamento senza interessi accordati nei creditori. Tale pattuizione è stata individuata come l'oggetto della domanda di revoca proposta dalla curatela, ai sensi dell'art. 67. domanda che è stata rigettata perché fondata sull'erroneo presupposto che tale negozio integri una transazione, laddove, secondo la Corte di merito, si tratta di atti a titolo gratuito, comportando vantaggi solo per la parte debitrice. In base a tali qualificazioni giuridiche - che, si ripete, sono sfuggite ad ogni censura ad opera delle parti del giudizio di legittimità. La Corte palermitana ha correttamente rigettato la domanda della Curatela laddove, attraverso la revoca dell'accordo dilatorio, pretendeva di far decorrere gli interessi ( e il maggior danno) dalla data della scrittura, restando in tal modo assorbito quella eccezione dei De Vincenzo che miravano ad apporre alla curatela il negozio avente effetti dilatori.

Prendendo poi in esame la riconvenzionale riproposta dalle parti appellanti, la Corte di merito l'ha respinta non rinvenendo nella convenzione predetta alcuna ipotesi di nullità. Ha escluso pure che si tratti di negozio annullabile per vizi del consenso, avendo accertato, in punto di fatto, che "non è stata fornita la prova ne' di errore essenziale e riconciliabile ne' di errore indotto con raggiri o artifici, ne' tanto meno di violenza". Ora, anche in questa sede, le parti ricorrenti non individuano alcun errore di diritto circa quella parte del giudizio che ha escluso ipotesi di nullità. Quanto alla sussistenza di ragioni di annullabilità essi assumono che, dalle prove documentali prodotte, emerge la prova "dell'errore, del dolo e della minaccia". Occorre premettere che quando una dichiarazione di verità della parte ha per oggetto un fatto storico l'effetto, sfavorevole alla parte dichiarando, e cioè, l'efficacia di piena prova che ne discende può essere verità solo dimostrando l'errore (art. 2732 C.C.): vale a dire" sia l'elemento oggettivo della non rispondenza al vero del fatto, ne' l'elemento soggettivo dell'errore in cui il dichiarante è caduto" (Cass. 12.1.1980 n. 525). Quando, come nella specie, la dichiarazione ha poi per oggetto una situazione più complessa, che implica qualificazione giuridica del fatto, la sua efficacia vincolante, secondo la regola stabilita dall'art. 1988 C.C. può venir meno per la divergenza, che il dichiarante ha l'onere di dimostrare tra la situazione giuridica dichiarata a quella esistente. In ogni caso, la dichiarazione resta impugnabile per vizio della volontà negoziale. Ma nella specie, il giudice di merito ha accertato in punto di fatto l'inesistenza (prova) dell'errore o di altro vizio invalidante.

L'omesso esame di documenti, dedotto dalle parti, e riconducibile al vizio di omessa valutazione su punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.) ricorre solo nel caso che il documento il cui esame è stato omesso, si riveli idoneo a fornire la prova mancata (nella specie del fatto estintivo del rapporto in contestazione) in modo da condurre ad una diversa pronunzia. Nella specie, non si specifica quali è stata omessa. E, secondo la giurisprudenza di questa Corte (V. Cass. 15.2.1991 n. 1860), qualora, con il ricorso per cassazione, venga dedotta l'omessa od insufficiente motivazione della sentenza impugnata, è necessario, al fine del sindacato di legittimità un non apprezzamento del fatto compiuto dal giudice del merito, che il ricorrente precisi - ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso - la risultanza asseritamente non valutata, dato che alla Corte di cassazione, salva l'ipotesi degli " errores in procedendo" e precluso l'esame diretto dei fatti di causa. Questa motivazione è del tutto mancata e concerne anche l'individuazione del documento la cui sottoscrizione si dovrebbe intendere tacitamente riconosciuta e il contenuto di esso. Quanto alla mancata ammissione dell'interrogatorio formale del fallito, corretta è la decisione della Corte palermitana, in quanto nelle controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale, il fallito ( tranne che nell'ipotesi scrutinata al II comma dell'art. 43 L.F.) non assumono veste di parte; e l'interrogatorio è finalizzato ad una confessione che sarebbe relativa a diritti di cui il fallito ne' può, nella pendenza del fallimento disporre. Così pure non emerge alcuna violazione di legge per avere il giudice del merito ritenuta inammissibile la dedotta prova testimoniale in quanto diretta a provare fatti contrari al contenuto della scrittura - la ricorrenza dell'eccezione di cui il n. 1 dell'art. 2724, non avendo il ricorrente evidenziato il contenuto dell'atto scritto di cui scaturirebbe il principio di prova "idoneo a rendere attendibili il fatto oggetto della prova orale. Con il terzo motivo di ricorso, viene dedotto il vizio di violazione dell'art. 1284 C.C. in relazione all'art. 11 delle preleggi, nonché violazione degli artt.39 e 91 c.p.c., nonché il vizio di motivazione su punti decisivi della controversia.

In particolare, la Corte avrebbe errato a confermare che "il debito accertamento è di L. 120.850.000" e a condannare gli odierni ricorrenti al pagamento di tale somma a liquidare un ulteriore 5% a titolo di maggior danno, a non dichiarare la dedotta litispendenza, e nel regolamento delle spese dei gradi di giudizio. Si assume, al riguardo: - che "non v'era stato nessun debito accertato ne' riconoscimento di debito; che altre somme avrebbero dovuto essere detratte; - che nessuna somma avrebbe dovuto essere liquidata a titolo di danno e che "l'ulteriore 5% di interessi su quello legale del 10% avrebbe dovuto essere computato, semmai, dalla promulgazione della legge che elevava il 10% quello legale - che intendono riportare integralmente le eccezioni riproposte in appello di litispendenza, inammissibilità, improcedibilità e infondatezza dell'istanza e del provvedimento di sequestro conservativo e del giudizio di convalida.

Il motivo appare complessivamente inammissibile, tale essendo il motivo del ricorso per cassazione quanto non siano precisate le ragioni della censura proposta, ma siano richiamate soltanto le allegazioni difensive contenute negli atti del giudizio di merito, in quanto il legislatore, nel sancire, sotto pena di inammissibilità, l'obbligo della specificazione dei motivi, ha inteso assicurare che il ricorso presente l'autonomia necessaria "consentiva, senza il sussidio di altre fonti, l'individuazione delle questioni da risolvere" (Cass. 29.3.1982 n. 1931). Potendosi comunque in base alle ragioni percepibili dal ricorso, rilevare quanto segua.

Il debito ed il suo ammontare sono stati accertati in base alla dichiarazione negoziale che tale accertamento conteneva. Sulla somma riconosciuta in base a tale fonte negoziale, il giudice di merito ha accertato che "gli appellati hanno versato soltanto L. 7.800.000", dando atto che non sono detraibili ulteriori L. 31.000.000 di cui a due assegni girati e non onorati. La litispendenza va esclusa per la diversità di causa petendi del sequestro conservativo e di quello giudiziario.

Dal contesto della sentenza emerge come la decorrenza degli interessi è a partire dal della stipula della conversione. Quanto alla determinazione del maggior danno derivante dalla nella misura del 5% oltre il tasso legale, occorre rilevare che tale percentuale è stata calcolata nel presupposto che "le somme depositate producono interessi del 10% sicché il maggior danno, oltre agli interessi legali del 5% è di un ulteriore 5%". A tale stregua, dopo l'entrata in vigore della novella che ha notificato l'art. 1284 C.C., elevando al 10% il tasso legale (e cioè a far data dal 16.12.1990) il nuovo tasso legale assorbe interamente il maggior danno.

Quanto al regolamento delle spese poste a carico delle parti appellanti nella misura dei due terzi - la valutazione dei giusti motivi rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, insindacabile quando non risulti fornita su motivi erronei o illogici. Alla reiezione del ricorso consegue la condanna della soccombente parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese 150.900 oltre L. 2.500.000 per onorari di avvocato.

Roma lì 10.5.1994.

DEPOSISTATA IN CANCELLERIA IL 20 GENNAIO 1995 .