Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24995 - pubb. 16/03/2021

Determinazione del compenso dell’avvocato in controversia di valore superiore ad euro 1.500.000

Cassazione civile, sez. I, 02 Marzo 2021, n. 5674. Pres. Genovese. Est. Campese.


Avvocato – Compenso – Controversia di valore superiore ad Euro 1.500.000,00 – Modalità in concreto di determinazione da parte del giudice – Fase stragiudiziale antecedente al concordato preventivo



La liquidazione giudiziale del compenso spettante ad un avvocato, da effettuarsi alla stregua dei parametri sanciti dal D.M. n. 140 del 2012, ed in relazione all’attività professionale da lui svolta, nell’interesse del proprio cliente, in una controversia di valore superiore ad Euro 1.500.000,00, postula che l’operato del giudice, ai sensi dell’art. 11, comma 9, del D.M., predetto, consenta di individuare le modalità di determinazione del concreto importo originario - ricompreso tra quelli minimo, medio e massimo, riferiti, di regola, allo scaglione precedente (fino ad Euro 1.500.000,00) - successivamente da incrementarsi, specificandosene il criterio concretamente adottato, in funzione dell’effettivo valore della controversia, della natura e complessità della stessa, del numero e dell’importanza e complessità delle questioni trattate, nonché del pregio dell’opera prestata, dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


Fatti

1. Con decreto dell’11/13 marzo 2015, il Tribunale di Como, pronunciando sull’impugnazione promossa, L. Fall., ex art. 98, comma 3, da C.A. , nei confronti dell’Avv. A.B. , avverso l’avvenuta ammissione del credito di quest’ultimo, in prededuzione, al passivo del fallimento (*) s.r.l. in liquidazione, per complessivi Euro 16.726,26, la accolse e, per l’effetto, revocò tale ammissione.

1.1. Per quanto qui di interesse, quel tribunale, considerata tempestiva detta impugnazione alla stregua della documentazione depositata dalla C. , in forma soltanto cartacea, il 12 gennaio 2015, ritenne: i) incontroverso che l’Avv. A. avesse prestato la propria attività legale a favore della s.r.l. (*) , sia nella fase stragiudiziale, precedente l’apertura del giudizio per l’ammissione di quella società alla procedura di concordato preventivo, sia nella fase giudiziale. Circa quest’ultima, peraltro, appariva pacifico, nonché documentalmente provato (pur non essendo stata redatta una lettera di incarico ad hoc), che si trattasse di attività finalizzata all’assistenza legale nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 161, comma 6, L. Fall., nè poteva condividersi l’assunto della impugnante quanto all’asserita unicità dell’incarico conferito all’Avv. A. dalle società C.A. s.r.l. ed (*) s.r.l., "essendo state aperte due distinte ed autonome procedure giudiziali nei confronti delle due società, ed essendo duplice, quindi, il contenuto dell’attività professionale"; che, nella fase stragiudiziale, invece, l’Avv. A. aveva prestato la propria attività sulla base della lettera di incarico datata 19 maggio 2012, che gli aveva affidato la sola "consulenza legale" all’interno della più ampia operazione di ristrutturazione aziendale "già stata affidata, con separata lettera di incarico, al Dott. P.G. ", Anche in relazione a tale attività stragiudiziale non poteva trovare seguito l’analoga argomentazione dell’unicità di incarico conferito dalla C.A. s.r.l. e dalla (*) s.r.l., posto che, nonostante l’indubbio collegamento fra le due committenti, era incontestabile che fossero distinte le rispettive contabilità, il patrimonio, le posizione debitorie e creditorie, così come erano stati distinti i ricorsi per concordato e le sentenze di fallimento delle menzionate società; iii) che, per lo svolgimento di queste attività, l’Avv. A. aveva incassato due acconti: in particolare, la somma di Euro 105.840,00, per consulenza al piano di ristrutturazione, e quella di Euro 26.460,00 per assistenza alla procedura di concordato preventivo svoltasi davanti al tribunale lariano; iv) che, al fine della determinazione del compenso dovutogli per la fase giudiziale, al netto dell’acconto già incassato, in assenza di un accordo tra le parti (la lettera di incarico 19 maggio 2012 riguardava la sola fase stragiudiziale) ai sensi e per gli effetti dell’art. 2233 c.c., dovevano utilizzarsi i parametri di avvocato di cui al D.M. n. 140 del 2012, art. 2 e ss., vigenti al momento della domanda di ammissione allo stato passivo del fallimento della s.r.l. (*) , dovendosi, pertanto, disattendere la decisione del giudice delegato di applicare, in via analogica, le tariffe professionali dei dottori commercialisti; v) che, in relazione alla svolta attività giudiziale, il compenso spettante all’Avv. A. , da quantificarsi alla stregua degli artt. 1 - 4, 7 ed 11 del menzionato D.M., ed assumendo come valore della causa quello di Euro 5.188.837,40 (pari all’accertato passivo del fallimento della (*) s.r.l.), doveva determinarsi in complessivi Euro 21.600,00, da integrarsi ad Euro 24.300,00 in virtù del contributo forfettario per spese generali ex L. n. 247 del 2012, nella misura del 12,55%. Pertanto, detraendo da tale importo quanto da lui già ricevuto come acconto, superiore al compenso complessivo come appena liquidato, nulla poteva più questi pretendere, per tale causale, dal fallimento della s.r.l. (*) ; vi) che, circa l’attività stragiudiziale, muovendo dal rilievo che la lettera di incarico 19 maggio 2012 faceva espresso riferimento alle tariffe professionali degli avvocati (sicché, ai sensi dell’art. 2233 c.c., dovevano trovare applicazione i criteri di cui al D.M. n. 140 del 2012, art. 3), il relativo compenso poteva determinarsi in complessivi Euro 24.300,00. Da esso, quindi, doveva decurtarsi quanto già ricevuto in acconto (Euro 100.000,00, che l’Avv. A. aveva richiesto ad entrambe le sue clienti, C.A. s.r.l. ed (*) s.r.l., ritenendole obbligate in solido, ma che gli venne pagato solo da quest’ultima, pure per quanto di spettanza dell’altra coobbligata, da presumersi di entità pari alla propria in applicazione del criterio di cui all’art. 1298 c.c., comma 2) dall’Avv. A. , sicché, anche per detta fase, lo stesso alcunché poteva più pretendere dal fallimento della s.r.l. (*) , avendo ricevuto compensi esaustivi delle sue spettanze.

2. Avverso il descritto decreto, l’Avv. A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.. Il Fallimento (*) s.r.l. in liquidazione e la terza impugnante C.A. sono rimasti solo intimati.

 

Motivi

1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 99, comma 2". Ci si duole del fatto che la C. , nell’impugnazione L. Fall., ex art. 98, non aveva prodotto documentazione attestante la tempestività del ricorso e, nonostante ciò, il giudice relatore, piuttosto che decidere sulla base dei documenti prodotti unitamente a quest’ultimo, erroneamente le aveva assegnato un termine per integrare la produzione documentale originaria, così consentendole di sopperire alle preclusioni e decadenze in cui era incorsa;

II) "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16 bis, comma 1, come convertito con L. 17 dicembre 2012, n. 221, e del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art., comma 1, come convertito con L. 11.8.2014, n. 114". Si lamenta che la C. aveva prodotto, in data 12.1.2015, i documenti asseritamente attestanti la tempestività della sua impugnazione in forma cartacea, malgrado il divieto stabilito dalla indicata normativa che le avrebbe imposto il solo loro deposito telematico. Si assume, inoltre, che la produzione cartacea di atti e documenti successivi alla costituzione era da considerarsi totalmente inesistente, sicché sarebbe stato inapplicabile il meccanismo della sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo di cui all’art. 156 c.p.c., comma 3;

III) "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Nullità della sentenza per mancanza di motivazione. Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 118 disp. att. c.p.c.". Si ascrive al tribunale di avere totalmente omesso di motivare su di un punto fondamentale della controversia, ossia sul disposto aumento del 60% dei compensi medi previsti dalla tabella A del D.M. n. 140 del 2012, per le controversie di valore fino ad Euro 1.500.000,00. In particolare, non era dato di comprendere se quel coefficiente di maggiorazione fosse stato considerato come limite massimo invalicabile dettato dal menzionato D.M. per qualsiasi procedimento, a prescindere dal suo valore, oppure se, fermo restando che non esisterebbe alcun limite invalicabile, quel coefficiente fosse stato ritenuto congruo in relazione al valore dello specifico procedimento, della sua complessità e di tutti gli altri elementi indicati dall’art. 4, commi 2 - 5, del D.M. medesimo;

IV) "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, in relazione al D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140, art. 11, comma 7, e art. 27", affermandosi la necessità di parametrare il compenso dovuto al ricorrente all’attività di "assistenza in procedure concorsuali" di cui al D.M. n. 140 del 2012, art. 27, anziché, come erroneamente fatto dal tribunale, a quella giudiziale espletata nei "procedimenti caute/ari o speciali o non contenziosi" di cui all’art. 7 del medesimo decreto;

V) "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, in relazione al D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140, art. 1, comma 7, art. 11, comma 9, e art. 4, comma 2", censurandosi il decreto oggi impugnato nella parte in cui aveva ritenuto che, malgrado il valore della controversia fosse stato stabilito in Euro 5.188.000,00, il compenso invocato dall’Avv. A. , calcolato sullo scaglione di riferimento delle liti fino ad Euro 1.500.000,00, potesse essere aumentato solo nella misura massima del 60% dei suoi valori medi ai sensi dell’art. 11, del D.M. predetto;

VI) "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, e della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 13, comma 6, in relazione al D.M. Giustizia 10 marzo 2014, n. 55, artt. 28 e 6, e art. 4, comma 1". Si censura, per la non creduta ipotesi in cui l’adita Corte ritenga parificabile il concordato preventivo al giudizio contenzioso ordinario, la mancata applicazione dei parametri forensi dettati dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, malgrado la liquidazione del compenso in questione fosse avvenuta dopo la sua entrata in vigore.

2. I primi due motivi, scrutinabili congiuntamente perché connessi, si rivelano infondati alla stregua delle considerazioni tutte di cui appresso.

2.1. Questa Corte ha più volte statuito che la verifica della tempestività dell’opposizione allo stato passivo, L. Fall., ex art. 98, è questione rilevabile d’ufficio, indipendentemente dall’eccezione di parte e dalla eventuale contumacia del curatore, ed è pertanto dovere del giudice controllare la data di ricezione dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione dello stato passivo allegata al fascicolo fallimentare (previa sua acquisizione) o al ricorso in opposizione (cfr. Cass. n. 24551 del 2016 e Cass. n. 18496 del 2014, entrambe rese in relazione a fallimenti regolati dalla L. Fall., artt. 98 e 99, nei rispettivi testi post riforma di cui ai D.Lgs. n. 5 del 2006, e D.Lgs. n. 169 del 2007. Per il regime precedente, conclusioni analoghe erano state espresse da Cass. 2102:1 del 2013; Cass. 6799 del 2012; Cass. 17829 del 2005).

2.1.1. Il medesimo principio, poi, è stato recentemente applicato da Cass. n. 12171 del 2020 - resa in vicenda del tutto analoga a quella odierna, proveniente dallo stesso Tribunale di Como - anche in relazione alla fattispecie (qui concretamente in rilievo) dell’impugnazione del credito ammesso promossa da altro creditore ai sensi della L. Fall., medesimo art. 98, comma 3.

2.1.2. Pure in quell’arresto, peraltro, il giudice di merito, anziché acquisire il fascicolo fallimentare, aveva optato per l’assegnazione di un termine alla parte ricorrente per produrre la documentazione attestante la tempestività del deposito del ricorso, e la Suprema Corte ha opinato, affatto condivisibilmente, che "ciò non toglie che tale produzione, cui il ricorrente ha provveduto nell’adempimento del suo dovere di collaborazione con il giudice, è comunque riconducibile all’esercizio del potere officioso e la parte impugnante non è quindi incorsa in alcuna decadenza".

2.2. L’Avv. A. , inoltre, nemmeno può invocare la violazione del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 1, (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 2012), per avere la C. (che al 30 giugno 2014 era già costituita) depositato i documenti richiesti in forma cartacea e non telematica.

2.2.1. In proposito, va osservato che Cass. n. 9772 del 2016 ha statuito che, nei procedimenti contenzioni incardinati dinanzi ai tribunale dal 30 giugno 2014, il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell’atto introduttivo del giudizio (il D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, aveva prescritto l’obbligo di deposito telematico solo per gli atti endoprocessuali e non per quelli introduttivi del giudizio) non dà luogo ad una nullità della costituzione dell’attore, ma ad una mera irregolarità, essendo stato comunque realizzato il raggiungimento dello scopo della presa di contatto tra la parte e l’ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti.

2.2.1.1. In particolare, nel proprio percorso argomentativo, la citata pronuncia ha osservato che il D.L. n. 179 del 2012, citato art. 16 bis, - inserito nella L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 19, n. 2, - pur prescrivendo la regola dell’obbligatorietà del deposito telematico per i soli atti endoprocessuali, non impedisce, in mancanza di una espressa sanzione di nullità, il deposito degli atti introduttivi in via telematica. Si è evidenziato che le forme degli atti del processo non sono prescritte dalla legge per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma sono previste per la realizzazione di un certo risultato, con la conseguenza che è irrilevante l’eventuale inosservanza della prescrizione formale se l’atto viziato ha egualmente raggiunto lo scopo cui è destinato. Alla luce di tale ragionamento, questa Corte, nella pronuncia in oggetto, ha concluso che essendo lo scopo di un atto processuale la presa di contatto tra la parte e l’ufficio giudiziario dinanzi al quale la controversia è instaurata, e nella messa a disposizione delle altre parti processuali, il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee dell’atto introduttivo di un giudizio di cognizione, si risolve in una mera irregolarità tutte le volte in cui l’atto sia stato inserito nei registri informatici dell’ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero di Giustizia.

2.2.2. Questa Corte, successivamente, ha parimenti applicato il principio del raggiungimento dello scopo, giusta l’art. 156 c.p.c., in un’altra fattispecie, esaminata da Cass. n. 18535 del 2019 (non massimata), in cui è stato ritenuto che la domanda di insinuazione allo stato passivo, pur depositata in cancelleria, e non inviata al curatore a mezzo p.e.c. - come richiesto dalla L. Fall., art. 93 - non incorre nella sanzione processuale della inammissibilità (non prevista dal legislatore) ove abbia comunque raggiunto il proprio scopo di determinare la costituzione di un contatto tra la parte e l’ufficio giudiziario dinanzi al quale la controversia è stata instaurata (in quel caso, tale domanda era stata inserita nel progetto di stato passivo del curatore, il quale, con tale condotta, aveva ha implicitamente attestato di averla regolarmente ricevuta).

2.2.3. Più recentemente, poi, la già menzionata Cass. n. 12171 del 2020 ha applicato il medesimo principio in una fattispecie perfettamente sovrapponibile a quella oggi all’esame di questo Collegio, opinando che la documentazione prodotta in giudizio dal creditore impugnante, benché depositata in forma cartacea e non telematica, era stata portata a conoscenza della controparte e del giudice, che aveva così potuto verificare la tempestività del deposito dell’ivi promosso ricorso L. Fall., ex art. 98, comma 3.

2.2.4. Infine, Cass. n. 26889 del 2020, dopo aver ricordato che il ricorso L. Fall., ex art. 98, è proposto da un soggetto - nella specie, si trattava di un creditore la cui domanda di ammissione al passivo era stata respinta; nulla impedisce, però, di opinare allo stesso modo anche per il creditore, già ammesso, che impugni l’avvenuta ammissione di un credito altrui - che è escluso dalla modalità telematica, non risultando tra quelli indicati nel citato D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 3, il quale dispone che, nelle procedure concorsuali, la disposizione di cui al comma 1 (in tema di deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti costituite "esclusivamente con modalità telematiche") si applica esclusivamente al deposito degli atti e dei documenti a cura del curatore, del commissario giudiziale, del liquidatore, del commissario liquidatore e del commissario straordinario (cfr. Cass. n. 19151 del 2019), ha giudicato rituale l’avvenuta produzione, ad opera del difensore creditore opponente, in forma cartacea anche dell’ulteriore documentazione poi utilizzata dal tribunale nella sua decisione, altresì precisando che, "...in ogni caso, come il deposito per via telematica dell’atto introduttivo del giudizio o della documentazione ad esso allegata, anziché con modalità cartacee, non dà luogo ad una nullità, rispettivamente, della costituzione dell’attore o della produzione, ma ad una mera irregolarità sanabile per raggiungimento dello scopo, in ragione della presa di contatto tra la parte e l’ufficio giudiziario e della messa dell’atto a disposizione delle altre parti secondo le previste modalità (...L ugualmente il deposito dell’atto introduttivo e della documentazione predetta con modalità cartacce anziché, in ipotesi, per via telematica, costituisce vizio sanabile per raggiungimento dello scopo della costituzione del rapporto processuale o del contraddittorio su quella documentazione, eventualmente mediante concessione di termine all’altra parte per svolgere le proprie difese (cfr. sostanzialmente in tal senso Cass. n. 19151 del 2019)".

2.3. Deve, dunque, ribadirsi, nella specie, il principio del raggiungimento dello scopo, atteso che la documentazione prodotta in giudizio dal creditore impugnante, pur depositata in forma cartacea e non telematica, era stata portata a conoscenza della controparte e del giudice, che aveva così potuto verificare la tempestività del deposito del ricorso L. Fall., ex art. 98. Nè l’odierno ricorrente ha lamentato di aver vanamente richiesto la concessione, a sua volta, di un termine al fine di esaminare quella documentazione.

3. Venendo, poi, all’esame degli altri motivi di ricorso, il quarto di essi merita esame logicamente prioritario perché invoca la necessità di parametrare il compenso dovuto al ricorrente all’attività di "assistenza in procedure concorsuali" di cui al D.M. n. 140 del 2012, art. 27, anziché, come fatto dal tribunale, a quella giudiziale espletata nei "procedimenti cautelari o speciali o non contenziosi" di cui all’art. 7 del medesimo decreto. Lo stesso si rivela infondato.

3.1. Questa Corte, infatti, ha già puntualizzato che l’art. 27 suddetto "si riferisce alla generica attività di assistenza in procedure concorsuali, vale a dire a quella attività che la norma individua nell’esecuzione di incarichi di complessiva assistenza al debitore nel periodo preconcorsuale (e nel corso di una procedura di concordato preventivo, accordo di ristrutturazione di debiti e di amministrazione straordinaria). Incarichi che, per non essere individuati in relazione a profili specifici, postulano che il compenso debba essere determinato "in funzione del totale delle passività", così da risultare liquidabile, "di regola, secondo quanto indicato dal riquadro 9 della tabella C - Dottori commercialisti ed esperti contabili"" (cfr. Cass. n. 16934 del 2018).

3.1.1. Ne consegue l’impossibilità di utilizzare analogicamente il menzionato art. 27, dettato per la liquidazione del compenso ai dottori commercialisti, per la quantificazione del compenso per la diversa ed affatto specifica attività (nella specie esclusivamente la redazione del ricorso L. Fall., ex art. 161, comma 6, e la partecipazione agli atti del conseguente procedimento. Cfr. pag. 2 del decreto impugnato) espletata da un avvocato in sede giudiziale.

3.2. Ad una diversa conclusione nemmeno può condurre la circostanza, assolutamente pacifica, che l’Avv. A. avesse svolto anche attività stragiudiziale. Il tribunale, infatti, ha precisato, da un lato, che la lettera di incarico del 19 maggio 2012, "firmata dallo stesso A. , attribuiva a quest’ultimo la sola consulenza legale all’interno della più ampia operazione di ristrutturazione aziendale che si legge essere stata già stata affidata, con separata lettera di incarico, al Dott. P.G. " (cfr. pag. 2 del menzionato decreto); dall’altro, che la stessa faceva "espresso riferimento alle tariffe professionali degli avvocati" (cfr. pag. 4 del decreto citato), sicché, "in conformità a detto accordo, devesi quindi, ai sensi dell’art. 2233 c.c., applicare il D.M. n. 140 del 2012, che, all’art. 3, fa riferimento all’attività stragiudiziale svolta dall’avvocato, individuando criteri di massima ai fini della quantificazione: il valore e la natura della causa, numero ed importanza delle questioni, pregio dell’opera, ore complessive prestate. Considerato che, per la determinazione del valore effettivo della causa, non può che farsi riferimento, anche in questa fase, al passivo della società, considerato che non vengono prodotte in giudizio schedari indicanti le ore lavorative, considerato, infine che l’impegno profuso dall’esperto nella fase pregiudiziale può essere assimilato a quello svolto nella fase giudiziale dal punto di vista dell’importanza dell’opera, nulla osta ad un’applicazione, in via analogica, dei criteri di liquidazione previsti per la fase giudiziale..." (cfr., ancora pag. 4 del decreto suddetto). Appare, dunque, affatto ragionevole opinare nel senso che quell’attività stragiudiziale fosse strumentale, propedeutica e funzionale alla intrapresa attività giudiziale, così potendo trovare pure nelle tariffe giudiziali adeguata e specifica remunerazione.

4. Passando, poi, al sesto motivo, anch’esso da esaminarsi prioritariamente rispetto al terzo ed al quinto, - in ragione della già ritenuta inapplicabilità del D.M. n. 140 del 2012, art. 27, (dovendo, invece, farsi riferimento, come meglio si dirà oltre, all’art. 11, comma 9, del medesimo decreto) ed invocando lo stesso l’utilizzazione del D.M. n. 55 del 2014, in luogo, appunto, di quello n. 140 del 2012 di cui si era avvalso il tribunale - la corrispondente doglianza si rivela infondata.

4.1. Posto, invero, che tanto il D.M. n. 140 del 2012, all’art. 41, che il 55/2014, all’art. 28, prevedono come criterio temporale di applicazione quello del momento della liquidazione dei compensi, stabilendo che le rispettive disposizioni si applichino per le liquidazioni avvenute successivamente alla corrispondente data di entrata in vigore, è sufficiente rimarcare che questa Corte ha già chiarito, affatto condivisibilmente, che "i parametri introdotti dal D.M. n. 55 del 2014, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti, trovano applicazione ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto, ancorché la prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa regolamentazione, purché a tale data la prestazione professionale non sia stata ancora completata" (cfr. Cass. n. 31884 del 2018; Cass. n. 21205 del 2016).

4.1.1. Ne consegue che, nella specie, poiché è pacifico che l’attività professionale giudiziale svolta dall’Avv. A. nell’interesse della (*) s.r.l. in liquidazione si era conclusa anteriormente al marzo 2014, prima, dunque, della entrata in vigore del citato D.M. n. 55 del 2014, i nuovi parametri di liquidazione sanciti da quest’ultimo non potevano trovare applicazione, dovendo invece utilizzarsi, per quantificare il compenso per l’attività, giudiziale e stragiudiziale, da lui svolta, il D.M. n. 140 del 2012.

5. I motivi terzo e quinto, infine, riguardando entrambi l’avvenuta quantificazione del compenso riconosciuto all’Avv. A. per l’attività professionale giudiziale (come precedentemente descritta) da lui svolta nell’interesse della già indicata società in bonis, possono essere esaminati congiuntamente perché chiaramente connessi. Gli stessi si rivelano fondati nei limiti ed alla stregua delle considerazioni tutte di cui appresso.

5.1. È rimasto incontroverso, emergendo dal tenore letterale dello stesso provvedimento impugnato (senza che, sul punto, siano state oggi sollevate specifiche contestazioni), che il valore della controversia in relazione al quale quell’attività era stata prestata era di circa Euro 5.188.837,40 (pari all’accertato passivo del fallimento della (*) s.r.l.). Muovendo da ciò, il tribunale, premettendo che detto valore andava "ben oltre il valore massimo" preso in considerazione dall’ultimo scaglione di riferimento previsto dal D.M. n. 140 del 2012 (quello, cioè, delle liti di valore ricompreso tra Euro 500.000,01 ed Euro 1.500.000,00), e senza nulla puntualizzare (come, invece, avrebbe dovuto, giusta il combinato disposto del menzionato D.M. n. 140 del 2012, art. 11, commi 9, e 4, di cui pure aveva dichiarato di dover fare applicazione) quanto alla natura ed alla complessità della controversia, oppure al numero ed all’importanza delle questioni trattate dal professionista, nè al pregio dell’opera prestata dall’Avv. A. , ha quantificato il compenso riconosciuto a quest’ultimo (per le fasi di studio, introduzione ed istruzione, uniche riconoscibili in rapporto alla concreta attività giudiziale da lui svolta) procedendo alla mera maggiorazione del 60% degli importi medi previsti, rispettivamente, per quelle fasi, per le controversie di valore ricompreso tra Euro 500.000,01 ed Euro 1.500.000,00.

5.2. Va poi considerato che: i) in assenza di un preventivo accordo tra le parti, la cui centralità, ribadita dal D.M. n. 140 del 2012, era già enucleabile dall’incipit dell’art. 2233 c.c., comma 1, l’adito tribunale doveva fare applicazione (ratione temporis) dei parametri di cui all’appena citato decreto, il cui art. 11, comma 1, sancisce che "I parametri specifici per la determinazione del compenso sono, di regola, quelli di cui alla tabella A - Avvocati, allegata al presente decreto. Il giudice può sempre diminuire o aumentare ulteriormente il compenso in considerazione delle circostanze concrete, ferma l’applicazione delle regole e dei criteri generali di cui agli artt. 1 e 4"; ai sensi dell’art. 1, u.c., del medesimo decreto, "in nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa"; iii) nella specie, tenuto conto del valore della controversia pari a circa Euro 5.188.837,40, occorre tenere conto, altresì, di quanto stabilito dal comma 9 del medesimo articolo, a tenore del quale "per le controversie il cui valore supera Euro 1.500.000,00, il giudice, tenuto conto dei valori di liquidazione riferiti di regola allo scaglione precedente, liquida il compenso applicando i parametri di cui all’art. 4 commi da 2 a 5..."; iv) per quanto qui di effettivo interesse, l’art. 4, commi 2 e 3, del medesimo decreto dispongono, rispettivamente, che "2. Nella liquidazione il giudice deve tenere conto del valore, della natura e della complessità della controversia, del numero e dell’importanza delle questioni trattate, con valutazione complessiva anche all’esito di riunione delle cause, dell’eventuale urgenza della prestazione" e che "3. Si tiene altresì conto del pregio dell’opera prestata, dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente"; v) questa Corte ha già precisato che, "in tema di liquidazione delle spese giudiziali ai sensi del D.M. n. 140 del 2012, la disciplina secondo cui i parametri specifici per la determinazione del compenso sono, di regola, quelli di cui alla allegata tabella A, la quale contiene tre importi pari, rispettivamente, ai valori minimi, medi e massimi liquidabili, con possibilità per il giudice di diminuire o aumentare ulteriormente il compenso in considerazione delle circostanze concrete, va intesa nel senso che l’esercizio del potere discrezionale del giudice contenuto tra i valori minimi e massimi non è soggetto a sindacato in sede di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice medesimo decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili sia le ragioni dello scostamento dalla forcella di tariffa, sia le ragioni che ne giustifichino la misura" (cfr. Cass. n. 12537 del 2019).

5.3. Alla stregua del riportato contesto normativo e giurisprudenziale, allora, l’iter procedimentale e motivazionale complessivamente seguito dal tribunale per la quantificazione del compenso liquidato all’Avv. A. per l’attività professionale giudiziale di cui oggi si discute non può essere condiviso.

5.3.1. Quel giudice, invero, come si è già anticipato: i) ha preso le mosse dallo scaglione delle controversie di valore fino ad Euro 1.500.000,00 (come gli imponeva la prima parte dell’art. 11, comma 9, del più volte citato D.M. n. 140 del 2012), prediligendo i valori medi ivi previsti, senza minimamente chiarire, però, se ciò era stato dovuto al fatto che, così facendo, aveva voluto considerare, seppure implicitamente, la notevole differenza tra il valore delle controversie di quello scaglione (in relazione al quale, magari, si potevano considerare come base di partenza pure i valori minimi) e quello, superiore a quest’ultimo, della lite patrocinata dall’Avv. A. ; ii) successivamente, su quei valori medi, ha applicato una maggiorazione del 60% degli importi previsti, rispettivamente, per le suddette fasi riconosciute (di studio, introduzione ed istruzione), ancora una volta però, omettendo di specificare se quel coefficiente di maggiorazione fosse stato considerato come limite massimo invalicabile dettato dal menzionato D.M. per qualsiasi procedimento, a prescindere dal suo valore, oppure se, fermo restando che non esisterebbe alcun limite invalicabile, quel coefficiente fosse stato ritenuto congruo in relazione al valore dello specifico procedimento, della sua complessità e di tutti gli altri elementi indicati dall’art. 4, commi 2 - 5, del D.M. medesimo (di cui, però, non ha dato minimamente conto).

5.3.2. Non può ritenersi rispettato, allora, il percorso procedimentale complessivamente descritto dal già riportato art. 11, comma 9, del D.M. predetto, che, invece, imponeva al tribunale di giustificare compiutamente le modalità di determinazione del concreto importo originario - ricompreso tra quelli minimo, medio e massimo, riferiti, di regola, allo scaglione precedente (fino ad Euro 1.500.000,00) - successivamente da incrementarsi, specificandosene il criterio concretamente adottato, in funzione dell’effettivo valore della controversia, della natura e complessità della stessa, del numero e dell’importanza e complessità delle questioni trattate, nonché del pregio dell’opera prestata, dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente.

5.3.3. Il tribunale, dunque, in parte qua, ha fornito una motivazione del proprio operato non coerente con quanto testè affermato, nè con il minimum costituzionale imposto da Cass., SU, n. 8053 del 2014, atteso che, come è ampiamente desumibile da quanto prima riferito, le affermazioni di quel giudice non permettono di individuare, con la necessaria chiarezza, la giustificazione del decisum: esse, infatti, sarebbero parimenti utilizzabili ove si fosse stato in presenza di una controversia rientrante tra quelle di valore fino ad Euro 1.500.000,00, così giungendo, affatto immotivatamente, a trattare allo stesso modo fattispecie evidentemente diverse.

6. In conclusione, quindi, l’odierno ricorso va accolto in relazione ai soli motivi terzo e quinto, respinti gli altri, ed il decreto impugnato deve essere cassato con rinvio della causa al Tribunale di Como, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame da effettuarsi alla luce del seguente principio di diritto:

"La liquidazione giudiziale del compenso spettante ad un avvocato, da effettuarsi alla stregua dei parametri sanciti dal D.M. n. 140 del 2012, ed in relazione all’attività professionale da lui svolta, nell’interesse del proprio cliente, in una controversia di valore superiore ad Euro 1.500.000,00, postula che l’operato del giudice, ai sensi dell’art. 11, comma 9, del D.M., predetto, consenta di individuare le modalità di determinazione del concreto importo originario - ricompreso tra quelli minimo, medio e massimo, riferiti, di regola, allo scaglione precedente (fino ad Euro 1.500.000,00) - successivamente da incrementarsi, specificandosene il criterio concretamente adottato, in funzione dell’effettivo valore della controversia, della natura e complessità della stessa, del numero e dell’importanza e complessità delle questioni trattate, nonché del pregio dell’opera prestata, dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente".

6.1. Al suddetto giudice di rinvio è rimessa pure la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo ed il quinto motivo di ricorso, respingendone gli altri. Cassa il decreto impugnato, in relazione ai soli motivi accolti, e rinvia la causa al Tribunale di Como, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

Depositato in cancelleria il 2 marzo 2021.